PER UN PUGNO DI DOLLARI

L’America si è risvegliata all’inizio di Agosto con l’indice Dow Jones che ha superato quota 22000, in un contesto estremamente favorevole per gli investitori nel quale l’economia cresce ma non si surriscalda.

 

Tutti citano infatti in questi giorni lo “scenario Goldilocks” vale a dire quello della bambola dai riccioli d’oro che persegue su qualsiasi fronte un ideale di moderazione: non troppo né troppo poco. Ciò vale per il prodotto interno lordo, per l’inflazione, la pressione salariale la disponibilità di credito, i profitti delle imprese e la crescita dei tassi di interesse (che però rimangono ai minimi termini in assoluto).

È chiaro che in un tale scenario i risparmi e i capitali guadagnati dagli Americani si riversano sull’investimento azionario, sebbene le migliori soddisfazioni essi le abbiano ottenute dalle borse europee, cresciute ancora di più se misurate in Dollari.

Il biglietto verde si è infatti svalutato fortemente in tutto il 2017 nei confronti di quasi tutte le valute ma principalmente dell’Euro, per una serie combinata di ragioni solo apparentemente politiche che, almeno in teoria, fanno a pugni con quelle che spingono gli investitori a portare la borsa valori di Wall Street alle stelle.

L’Europa sembra trovarsi in una fase meno matura del ciclo rialzista delle borse valori e di ripresa economica, in un percorso di forte stabilizzazione politica e con un avanzo commerciale e valutario tale che non lascia escludere ulteriori rivalutazioni della sua divisa unificata.

Quello che non quadra in tutta la faccenda è che nel medio termine lo scenario Dollaro debole/Euro forte non sembra affatto sostenibile, visto che buona parte della crescita economica continentale è trainata dalle esportazioni verso i paesi emergenti e quelli asiatici e che buona parte dell’afflusso di denaro verso la borsa americana è in realtà proveniente da questi ultimi.

Il danno strutturale dell’eccesso di forza dell’Euro è inoltre per buona parte generato nei confronti di paesi periferici come l’Italia, la Grecia o il Portogallo, la cui economia è più gravata da debiti pubblici ed è meno forte sulle produzioni a maggior valore aggiunto. Tali paesi hanno un minor numero di imprese di grandi dimensioni (quel genere di imprese che possono permettersi di amministrare i loro profitti ripartendoli tra molti luoghi del mondo e che possono continuare ad investire sullo sviluppo perché hanno abbastanza capitali per farlo) e dunque sono paesi che risentono più di altri della minor competitività delle loro produzioni se il cambio si rivaluta.

L’industria dei paesi del nord Europa si trova tendenzialmente in una situazione di minor rischio derivante dalla forza della divisa unica e, quando questa di apprezza, riduce i suoi profitti ma non la quota di mercato. Per quei paesi dunque l’effetto netto della rivalutazione dell’Euro appare positivo, soprattutto nei mesi estivi, quando il maggior salario (in termini valutari) del cittadino medio può essere monetizzato andando in vacanza all’estero con un maggior potere di acquisto.

Per l’America è diverso: il suo presidente ha a cuore la ripresa dell’industria di base americana, quella degli stati centrali dell’unione che tendono a monetizzare in più elevati consumi effettuati principalmente dentro ai confini nazionali i profitti derivanti dalle  maggiori vendite in esportazione di derrate agricole, petrolio e gas, industria pesante e soluzioni internet.

Per costoro il Dollaro basso è una manna scesa dal cielo, almeno sintantochè l’inflazione non si risvegli poderosa (come ha già fatto negli ultimi mesi in Gran Bretagna e Giappone), costringendo la Federal Reserve ad una rapida accelerazione dei rialzo programmati dei tassi di interesse e a maggiori restrizioni della base monetaria, cose che interromperebbero brutalmente lo scenario dorato che vediamo oggi facendo scendere gli indici di borsa e ricrescere il Dollaro.

Ma anche per l’Euro-zona i rischi non appaiono nulli: l’incremento del differenziale di ricchezza, solidità e crescita economica tra nord e sud dell’Unione, in presenza di un Euro forte, danneggia le basi stesse della sua stabilità politica e può costringerla alternativamente al sussidio degli stati in minor salute ovvero al loro distacco.
Sino ad oggi la leva monetaria utilizzata dalla Banca Centrale ha dato l’illusione che il sussidio implicito si debiti pubblici di staterelli come l’Italia non costasse nulla a quelli in miglior salute. Ma prima o poi potrebbe arrivare il conto da pagare, che farebbe esplodere il problema dei debiti pubblici e costringere a fare scelte dolorose.

Dietro lo scenario della bambola dai riccioli d’oro si trova infatti una gigantesca bolla speculativa dei mercati finanziari, notoriamente rigonfiati dai ripetuti stimoli monetari delle banche centrali e si nascondono dunque molte minacce e non pochi rischi di repentino riassestamento dei mercati finanziari su valori decisamente minori rispetto a quelli attuali.

Quanto durerà l’idillio delle borse è difficile dirlo, ma sembra oggi più dipendente che mai dalla situazione innaturale di un Dollaro debole e un Euro forte e per questo motivo non appare destinata a proseguire in eterno.

 

Stefano di Tommaso

 




CAMPAGNA DI FRANCIA

LE MOSSE FRANCESI SU TELECOM-MEDIASET DIMOSTRANO CHE QUELLA DEL GOVERNO GENTILONI SULLA VICENDA FINCANTIERI È SOLO UNA BATTAGLIA DI RETROGUARDIA PER NON PERDERE LA FACCIA

Che la risposta francese alla possibile acquisizione da parte dell’italiana Fincantieri dei cantieri navali STX France di Saint Nazaire possa risultare nella nazionalizzazione di quest’ultima la dice lunga sulla percezione strettamente utilitarista del governo d’oltralpe al riguardo della sua partecipazione all’Unione Europea e ai principi che ne sarebbero ispiratori.

Noi italiani dobbiamo ammettere che non siamo culturalmente preparati al genere di battaglie che si profilano al riguardo, perché la nostra percezione della necessità che le imprese sul territorio siano controllate da imprenditori ivi residenti è infinitamente inferiore a quella dei battaglieri cugini d’oltralpe.

Ma la vera portata della questione “comunitaria” non risiede tanto nell’infrazione del principio della libera circolazione, bensì nella questione speculare e contemporanea, ma assai meno sbandierata dai giornali e dalle televisioni italiane, dell’invece incontrastata presa di controllo francese (e per di più con un minimo investimento di capitale) sulla Telecom Italia, del conseguente controllo dell’infrastruttura da questa detenuta che costituisce la principale dorsale nazionale delle telecomunicazioni e ora, dulcis in fundo, sulla possibile abbinata di tale operazione a quella di controllo di Mediaset, l’altro grande operatore di informazione nazionale dopo la Rai.

L’imbarazzante sensazione di chi scrive è che non solo siano stati ben pochi gli Italiani che si sono indignati relativamente al blitz da maestro del finanziere francese Bollorè quando è riuscito a mettere le mani sul controllo di Telecom Italia detenendone soltanto il 24%, ma che nessuno stia parlando delle possibili conseguenze del secondo blitz di quest’ultimo quando è riuscito ad accaparrarsi il 29% di Mediaset e, con sapiente pazienza, stia cercando di utilizzare la propria influenza di controllo sulla Telecom Italia per aggregarla.

Per non parlare dell’attuale manovra in corso del medesimo Bollorè: quella di scorporare da Telecom la sua rete infrastrutturale di telecomunicazioni (apparentemente rispondente alla logica di non lasciare sotto il controllo di un privato straniero un tale asset strategico) per poi andare a “ridefinire” la TIM che rimarrebbe come una “media company”. La manovra permetterebbe di trovare il cavillo giuridico per svincolare quest’ultima dalle restrizioni imposte dalla Legge Gasparri alle società di informazione nazionale, spianando la strada ad una successiva unificazione con Mediaset.

Lo scorporo della rete infrastrutturale consentirebbe a Bollorè di liberarsi inoltre del grave peso degli investimenti che essa richiede, la cui assenza getta un’ombra di arretratezza misurabile in termini di decenni del nostro Paese rispetto a buona parte del resto del mondo sviluppato. Se la manovra riuscisse a Bollorè, il peso di quegli investimenti oramai necessari e caratterizzati da un lento ritorno finanziario, ricadrebbe prevalentemente tra le braccia di quei soggetti che ne risulterebbero quali azionisti “di riferimento “, prima fra tutte la Cassa Depositi e Prestiti, cioè lo Stato. Niente male!

Non ci vuole uno stratega per comprendere che invece lo Stato dovrebbe costringere chi ottiene dal controllo di Telecom i benefici che ne conseguono anche a sostenere gli investimenti che essa richiede. Cosa che chiaramente non succederà (e i più maliziosi sono dunque quantomai autorizzati a chiedersene il ricco perché…).

È solo in questa luce che si può riuscire a comprendere per quale diavolo di motivo Gentiloni e Poletti mostrano (praticamente per la prima volta nella storia economica nazionale) la loro profonda indignazione per la “grave lesione degli interessi nazionali” a proposito della difficoltà che sta incontrando un’operatore non certo strategico o tecnologico quale Fincantieri nell’andarsi a prendere il suo diretto (e quantomai innocuo) concorrente francese.

La sceneggiata che sta svolgendosi al riguardo paventa un’insperata -e improbabile- richiesta di reciprocità tra due firmatari di un altrettanto improbabile trattato europeo per la libera circolazione delle imprese i cui boiardi di Stato non possono ostentare troppa indifferenza quando viene richiesto di farla rispettare per uno spillo da una parte e per un elefante dall’altra.

Non solo non è così che si esercita la “bilateralità” ma non si capisce nemmeno perché quest’ultima dovrebbe esistere dato che essa risulta nella più totale contrapposizione con i principi ispiratori dell’Unione Europea. Quella parola è esecrata soltanto se a pronunciarla è Donald Trump, visto dai nostri “maître á penser” come politicamente scorretto. A casa nostra la si vuole far passare come legittima senza che nessuno se ne abbia a male.

Ma, si sa, noi Italiani siamo bravissimi a indignarci sulla carta, e totalmente incapaci a trarne le dovute conseguenze. Almeno non prima che il “sacco di Milano” sia completato, come uso chiamare scherzosamente -e amaramente- l’invasione dei lanzichenecchi d’oggidì (che sono molto più francesi che tedeschi) nella loro corsa a prendersi il controllo delle principali imprese italiane, con un penoso e silenzioso consenso della classe politica italiana, che probabilmente è stata lautamente remunerata per non porre ostacoli di fatto.

In altri tempi si sarebbe parlato di reato di “alto tradimento” nei confronti degli interessi strategici di un Paese che si ritrova a sperare soltanto che un domani anche qualcuno dei suoi giovani possa emigrare e -improbabilmente- riuscire anche ad approdare ai posti di comando (perlopiù oltre confine) di quasi tutto il business che si svolge sul suo territorio nazionale.

Oggi la materia del contendere non si riuscirebbe nemmeno a portarla all’attenzione dei media. Che per l’appunto sono controllati da chi non lo gradirebbe!

Stefano di Tommaso




LE BORSE CROLLERANNO?

I ripetuti e crescenti timori relativi alla tenuta degli attuali -stratosferici- livelli raggiunti dalle borse di tutto il mondo mi hanno spinto a compiere un’ indagine sulla loro situazione attuale, sulle ragioni sottostanti gli scossoni percepiti negli ultimi giorni e sugli auspìci che se ne possono trarre per il prossimo futuro.

Tutti gli osservatori economici si chiedono fino a quando durerà l’incantesimo del mercato finanziario, che da più di otto anni continua imperterrito la sua corsa. A dire il vero già intorno alla metà dello scorso anno se lo chiedevano tutti, ma poi è arrivato il cosiddetto “Trump trade”, cioè l’effetto positivo sulle borse derivato dal fascino che il nuovo corso politico americano esercitava sugli investitori, promettendo meno tasse e maggiori investimenti infrastrutturali.
Con il Trump trade è in effetti cambiato qualcosa nel mondo: l’economia globale ha imboccato di nuovo un percorso di crescita e la stessa cosa è accaduta per tutti i paesi OCSE, a partire dall’America, facendo dimenticare i timori di nuovo scoppio della bolla finanziaria. Oggi, a un anno esatto di distanza da quel momento storico, le politiche economiche promesse dal presidente americano non sono ancora state varate e le borse sono salite ancora di un bel po’, ragione per cui i medesimi dubbi si ripropongono.

Un recentissimo articolo della CNBC.COM riportava un questionario al quale hanno risposto circa 12.000 dei suoi suoi lettori. CNBC ha chiesto loro <<se si aspettano a breve uno “storico” tonfo delle borse>>  e ben il 44% di essi ha risposto si mentre un altro 26% nutre dei dubbi al riguardo e soltanto il 30% non lo ritiene probabile.

IL PESO DELLE ASPETTATIVE

La cosa ha dell’incredibile: il 70% degli intervistati tra la “creme” dei professionisti americani della finanza che legge quel magazine online vede dunque la possibilità a breve termine di un crollo di Wall Street! Come si può vedere nello “screenshot” qui sopra riportato, quasi non bastasse, a dare loro manforte ci si è messo anche un premio Nobel per l’economia come Robert Shiller che, intervistato in proposito, ha solo potuto fornire una sensazione, non certo una previsione razionale.

In effetti il mercato azionario americano è cresciuto più degli altri e, dal minimo toccato nel lontano Marzo 2009 (più di otto anni fa), ha più che quadruplicato il suo livello. Chiaramente un tale risultato lascia molto spazio per lo scetticismo circa la possibilità che Wall Street raggiunga ulteriori, mirabolanti vette.

L’ECCESSO DI LIQUIDITÀ HA DROGATO LE BORSE

Ma bisogna ricordare che l’intervento delle banche centrali di tutto il mondo per pompare liquidità (in queste settimane oltre che della BCE è la volta di quella giapponese) e la ripresa della crescita economica globale hanno senza dubbio contribuito a buona parte di tale performance.

La prima cosa che viene da pensare è che, quando tutta quella gente se lo aspetta, è probabile che lo scenario non si verifichi. Se infatti la stessa percentuale di intervistati si comporta di conseguenza, allora dovrebbe limitare decisamente i propri investimenti in titoli azionari, privilegiando la liquidità o degli investimenti alternativi, quelli che possano avere andamenti non correlati alla borsa (immobili, oro, eccetera). Ma se così fosse, allora bisognerebbe ammettere che c’è ancora molta liquidità in circolazione parcheggiata al di fuori del circuito borsistico e che, di conseguenza, i mercati finanziari potrebbero avere ancora molta strada da fare.
Sul versante opposto, occorre tenere presente che le aspettative sui mercati finanziari tendono ad “auto-realizzarsi”, alimentando esse stesse le possibili oscillazioni dei listini.

IL RUOLO DEI BUY-BACK E QUELLO DEI “TRADING SYSTEMS”

Per comprendere le ragioni di chi grida al possibile scoppio della “bolla speculativa ” bisogna tuttavia considerare due fattori “anomali” che hanno contribuito non poco al risultato della citata quadruplicazione dei dollari investiti sulla borsa di New York. Fattori che in precedenza avevano avuto un limitatissimo effetto sulle quotazioni azionarie:

1) un perverso meccanismo di “buy-back” (cioè di riacquisto da parte delle stesse società emittenti) tramite il quale le grandi corporations quotate utilizzano la liquidità che si ritrovano in pancia per comprare azioni proprie (invece di investire nello sviluppo dei propri mercati), principalmente per favorire gli interessi dei manager che hanno in mano delle cospicue “stock-option” (cioè incentivi ai propri manager basati sulla possibilità di ottenere azioni da rivendere poi sul mercato). Sono operazioni compiute tipicamente in frode degli azionisti di minoranza, ma il cui effetto “edulcorante” sulle quotazioni del titolo alla fine non lo disdegna nessuno, salvo il fatto che tende a far crescere artificialmente la misura degli “utili per azione”.

I buy-back dunque aiutano i corsi azionari a rimanere sostenuti nonostante il potenziale effetto depressivo delle vendite realizzate dai dirigenti, ma non solo: essi innanzitutto sortiscono l’effetto di trasferire liquidità dalle aziende ai privati che, spesso, la reinvestono sui mercati finanziari e, in secondo luogo, riducono il numero delle azioni in circolazione che andranno a spartirsi gli utili per azione (Earnings per Share: EPS) realizzati, facendo crescere artificialmente la redditività teorica delle società quotate che li mettono in pratica. Ecco un grafico relativo allo stesso periodo di otto anni testé citato, che evidenzia una crescita “fittizia” dei profitti per azione pari al 265% (più di metà della crescita totale realizzata dal mercato azionario!):

2) La diffusione di algoritmi e sistemi computerizzati per la compravendita ad alta frequenza di titoli azionari (HTFA: high frequency trading algorithms). Essi hanno oggettivamente cambiato i connotati all’andamento fino a ieri caratteristico del mercato dei capitali: fino all’avvento dei sistemi di trading infatti (basati principalmente sui principi dell’analisi tecnica), contavano molto di più le sensazioni umane e i fattori economici “fondamentali ” sul mercato azionario, circa i quali gli analisti finanziari si esprimevano anche in termini strategici.

Oggi, dieci e più anni dopo l’avvento delle contrattazioni computerizzate, l’unica variabile che conta davvero è la liquidità disponibile sul mercato (che, invariabilmente da molti anni a questa parte, cresce per effetto dell’intervento delle banche centrali di tutto il mondo).

Come sarebbe il mercato azionario senza se i regolatori avessero impedito o limitato tanto i buy-back quanto l’avvento degli HTFA? La risposta è quantomai scontata: probabilmente molto ma molto più in basso di dove si trova oggi. Anche questo è un elemento di preoccupazione: quanto è “artificiale” la situazione che osserviamo e quanto invece è motivata da fattori che presumibilmente resteranno in piedi nel prossimo futuro e che troveranno sempre maggiore ragion d’essere sulla base della crescita delle variabili macroeconomiche fondamentali?

IL RUOLO DEI TITOLI “TECNOLOGICI” NELLA CRESCITA DELLE BORSE

Ulteriori elementi di preoccupazione per le borse giungono infine dal “parterre” della medesima Wall Street, dove negli ultimi giorni una serie di titoli “tecnologici” di grande diffusione, come Alphabet (Google) e Amazon la cui capitalizzazione riflette in astratto le attese di enormi aspettative di crescita degli utili sebbene  -alla luce delle recenti preoccupazioni- abbia lasciato nelle ultime settimane sul terreno molti miliardi di dollari.

Senza l’apporto fondamentale della supervalutazione di quei titoli, entro certi limiti da ritenersi assolutamente sensata poiché basata sull’aspettativa di crescite esponenziali dei margini operativi (date le caratteristiche del modello di business delle cosiddette “internet companies”), Wall Street non avrebbe raggiunto le vette che oggi osserviamo. Eppure ogni qualvolta la valutazione di un titolo è basata sul ruolo fondamentale delle aspettative, non si può parlare di certezze circa la stima corretta della medesima e la psicologia può incidere non poco. Sono in molti a pensare che quelle aspettative sono forse cresciute un po’ troppo negli ultimi mesi e che qualche ragionevole dubbio è opportuno porselo.

Tornando a quanto sta succedendo oggi dunque, i due fattori che hanno contribuito a un generale ridimensionamento dei titoli cosiddetti “FANG” (Facebook, Amazon, Netflix, Google, e dintorni tra i quali Microsoft, Snapchat, eccetera) sono stati:

– la naturale rotazione dei portafogli degli investitori, i quali oggi ritengono perlopiù di trovarsi in una fase molto matura del ciclo economico e preferiscono puntare su settori industriali più tradizionali;

– i dubbi relativi alla misura effettiva della profittabilità del business digitale in genere, orientato necessariamente a forti crescite nel suo complesso ma al tempo stesso martoriato da un eccesso di concorrenza, come tutti i settori economici che si trovano ad uno stadio più primitivo del ciclo di vita del prodotto,  oltre che sottoposto a continui colpi di scena man mano che le innovazioni continuano a ridisegnarne gli assetti.

Ora è noto che è grande il peso complessivo sul listino di Wall Street della capitalizzazione di borsa dei principali titoli “tecnologici”, così come in Italia risulta esserlo quella delle banche. Ragione per cui una normale manovra di “rotazione” dei portafogli degli investitori istituzionali rischia di incidere non poco sull’andamento dell’indice generale.

NEL COMPLESSO I MOTIVI DI SCETTICISMO SONO FONDATI

Bisogna francamente ammettere che il quadro sin qui riportato è tutto sommato abbastanza preoccupante: un circuito mondiale delle borse valori fortemente condizionato dall’eccesso di liquidità pompata dagli stimoli delle banche centrali, le cui valutazioni sono giunte ai massimi di sempre tanto come valori assoluti quanto in relazione ai multipli di redditività, per di più condizionata da fattori distorsivi come i programmi di riacquisto delle azioni proprie e i sistemi di trading automatici.

Quali sarebbero i valori attuali dei listini di borsa se non fossero intervenuti quei fattori distorsivi, se gli investitori istituzionali non avessero adottato sistemi di trading che fanno propendere per la crescita dei valori basata sulla liquidità disponibile, se non ci fosse stata l’esplosione delle quotazioni dei principali titoli tecnologici (che però sono principalmente basate sulle aspettative di incremento esponenziale degli utili)?

LE VARIABILI MACROECONOMICHE

La vera risposta probabilmente risiede nelle variabili fondamentali dell’economia, le stesse che sino ad oggi sono state un po’ trascurate nella foga delle ipervalutazioni di borsa e che oggi, forse giunti a un punto di svolta, possono illuminare il cammino dinanzi a noi.
Ebbene però: l’indicazione che proviene da quelle variabili non potrebbe essere più positiva! A partire dalla crescita del prodotto mondiale lordo, stimata per il 2017 ad almeno il 3,6% (la più alta dal 2011) e al di sopra della media storica di lungo termine, pari al 3,5% (media altissima che comprende tanto la seconda rivoluzione industriale quanto l’avvento della grande distribuzione, quello dell’elettronica di massa e quello dell’avvento di internet).

A scriverlo è la Morgan Stanley in un suo recentissimo report dove tra l’altro smentisce le previsioni catastrofiche sulle borse formulate dal già citato premio Nobel Robert Schiller.

Una serie di fattori concorrono a questo giudizio così deciso:

– La crescita attuale si sviluppa congiuntamente tanto nei Paesi Emergenti quanto in quelli più sviluppati, con la relativa sorpresa dell’Unione Europea;
– Il commercio internazionale ha ripreso a correre a ritmi elevati sia in volume che in valore, come non succedeva da un quinquennio;
– Anche gli investimenti sono in decisa crescita nel mondo, persino a prescindere dalla solita Cina (che investe mendiamente il 40% del proprio P.I.L.) e questa è una misura piuttosto importante del fatto che la crescita attuale non sia effimera;
– La ripresa economica attuale peraltro è diversa da quella del 2010-2011, nella quale il movimento di rimbalzo dalla crisi profonda degli anni precedenti e la forte spinta degli stimoli monetari ai mercati finanziari avevano di per sé drogato l’effetto statistico finale.

Una volta tenuto conto di tutti questi elementi risulta più chiaro l’ottimismo di fondo espresso da Morgan Stanley per l’economia globale: la ripresa attualmente in corso rassomiglia di più a quella del periodo 2003-2006 che non a quella del 2010-2011 ed è piuttosto equamente ripartita in quasi tutte le zone del mondo.

LA TURBOLENZA POLITICA AMERICANA CONDIZIONA GLI ANIMI

Se teniamo conto del fatto che alla crescita del prodotto interno lordo globale si accompagnano anche la discesa della disoccupazione (o meglio: il maggior numero di occupati) e la ripresa dei consumi, il quadro complessivo dunque spiega piuttosto bene le attese per un forte aumento dei profitti netti delle società quotate, che si accompagna al tempo stesso ad un miglioramento dell’efficienza produttiva, dunque ad un miglioramento dei margini più che proporzionale all’aumento dei fatturati.

Eppure più andiamo avanti e più tra gli operatori serpeggiano dubbi sulla tenuta degli attuali livelli raggiunti dalle borse, a partire dalla più importante di tutti: quella americana.
E qui il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto a seconda dell’ottimo adoperata per osservarlo: gli ottimisti ritengono che prima o poi le nubi della lotta politica si diraderanno per necessità, lasciando spazio a quelle riforme volute da Trump e agli ulteriori effetti afrodisiaci sull’economia e a una maggior distensione internazionale relativamente ai focolai di guerra in essere, mentre i pessimisti temono che quanto visto sun qui sia solo l’antipasto di una lotta furibonda tra poteri più o meno occulti, che si svilupperà attraverso nuove guerre e nuovi stop alle riforme economiche.

È evidente che in questo secondo caso “il minimo battito d’ali di una farfalla sia in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo” come argomentava già Alan Turing, in un suo saggio del 1950: “Macchine calcolatrici e intelligenza”, dove anticipava il futuro luogo comune dell’ “effetto farfalla”.
Per quanto improbabile possa apparire, in un mondo magicamente e per la prima volta nella storia davvero interconnesso, non è un’idea che si può relegare alle sole ipotesi scientifiche!

Stefano di Tommaso




I RETROSCENA DEL MILIARDO DI EURO SBORSATO DA MICHAEL KORS PER COMPRARE JIMMY CHOO: UN BIGLIETTO DI INGRESSO NEL PARADISO DEI BENI DI LUSSO

Le sorti del titolo Michael Kors a Wall Street non andavano troppo bene da un anno a questa parte, complice una certa disaffezione degli investitori istituzionali nei confronti dei produttori generalisti di accessori e abbigliamento come pure delle grandi catene fisiche distributrici nel medesimo settore (vedi grafico):

 

NONOSTANTE LA CRESCITA DEL FATTURATO, IL MERCATO AZIONARIO NON APPREZZAVA LA MICHAEL KORS

La stessa Michael Kors aveva annunciato lo scorso Maggio la possibile chiusura di un centinaio di propri punti vendit. La disaffezione del mercato nei confronti delle catene di distribuzione di accessori e abbigliamento ha anche provocato di recente la riduzione del numero di operazioni di fusioni e acquisizioni nel settore, come si può vedere nel grafico qui riportato:

La morsa del commercio elettronico infatti si sente un po’ per tutti gli operatori, ma l’accordo di compravendita relativo a Jimmy Choo (la marca preferita di scarpe dell’attrice Sarah Jessica Parker, notissima come Carrie Bradshaw, protagonista indiscussa della fortunata serie televisiva “Sex&the City”) rivela un aspetto inusitato del mercato: la disaffezione degli investitori evidentemente non riguarda i grandi marchi del lusso!

IL PREZZO È ESORBITANTE MA È UN BUON MATCH

Il prezzo pagato (+36% sul valore di base d’asta dei venditori) appare anche significativamente superiore all’obiettivo di raddoppio delle vendite che Michael Kors si attende dal rilancio di Jimmy Choo: un miliardo di dollari entro pochi anni dopo che la stessa ha concluso il 2016 con un fatturato di $460 mln. Anche prendendo per buono tale obiettivo, il prezzo pagato è ancora del 20% superiore alle vendite attese (in dollari è stato pari a circa 1,2 miliardi!

Invece di preoccuparsene però il mercato azionario americano ha premiato l’annuncio dato da Michael Kors quando questi ha rivelato il fortissimo esborso per la Jimmy Choo. Ecco il grafico:

LA SCARSITÀ DI MARCHI DI GRANDE RINOMANZA

Il più diffuso commento sull’operazione riguarda infatti la relativa scarsità di target di grande qualità per possibili acquisizioni da parte degli altri operatori.
Il mercato scommette dunque sul fatto che i (pochi) marchi di assoluto prestigio restino indenni dalla mattanza dei margini operativi nel settore monda derivante dall’effetto congiunto della globalizzazione e delle vendite online.
In altre parole, l’acquirente attraverso questa operazione, è riuscito a riaffermare la sua  natura complessiva di grande operatore nel mercato dei beni di lusso. Un mercato che non teme rivali in quanto a moltiplicatori e stabilità dei profitti.

IL MONDO DORATO DEI BENI DI LUSSO

Ecco ad esempio il grafico dell’ultimo anno relativo al titolo Kering (conosciuta in precedenza come Pinault-Printemps-Redoute o PPR): una multinazionale fondata dall’imprenditore francese Pinault. Kering capitalizza in borsa 47 volte gli utili attesi di circa un miliardo di dollari e viene valutata perciò 47 miliardi. Come si può vedere l’andamento è rimasto sempre positivo e l’indice della variabilità del suo prezzo in relazione al resto del mercato (il beta) è estremamente ridotto (cioè è un titolo stabile ed in crescita).

UN LEADER CREDIBILE

Le considerazioni degli analisti non si sono evidentemente fermate qui: John Idol, il leader della Michael Kors che l’ha rilevata nel 2003 quando fatturava 20 milioni di dollari, ha chiuso in crescita il fatturato 2016 a 2,4 miliardi di dollari e può vantare una significativa esperienza nel settore in qualità di ex direttore generale di Donna Karan (DKNY), una storica icona della moda americana.

Il suo programma per far crescere il valore dell’acquisizione (dalle sinergie nelle borse da donna a quelle nelle scarpe da uomo) è piaciuto agli analisti ed è stato percepito all’altezza della sfida: quella della sua definitiva accettazione nel mondo dorato del lusso, “l’unica sovrastruttura capitalista non soggetta a cedimenti anche quando il mondo crolla”, come scriveva il beato Antonio Rosmini, per giustificare le spese dei ricchi della cerchia di Alessandro Manzoni che gli permettevano di studiare in collegio a Stresa.

 

Stefano di Tommaso