È IL MOMENTO DELLE SPAC ITALIANE

La particolare congiuntura positiva della Borsa e dell’economia italiane ha indubbiamente focalizzato l’attenzione delle imprese industriali verso un percorso di quotazione, tanto per riuscire a reperire nuovo “capitale paziente” (in contrapposizione a quello del Private Equity, ampiamente disponibile ma sicuramente molto invadente e desideroso, a quattro-cinque anni data, di riuscire a disinvestire), quanto per l’effetto reputazionale che la quotazione al listino di Borsa può comportare.

 

Molte imprese perciò si chiedono come approfittare del momento positivo dei mercati per “entrare”, ma il percorso per la quotazione è lungo, persino nel caso dell’A.I.M. (Alternative Investment Market). Bisogna passare per molte diligence e bisogna riuscire a collocare tra gli investitori istituzionali un aumento di capitale, che viene sicuramente più facile tanto più l’impresa che lo sollecita è nota al grande pubblico.

Esistono al riguardo dei particolari strumenti di investimento, noti come SPAC (Special Purpose Acquisition Vehicle) che possano consentire alle imprese in cerca di capitali di accelerare il proprio processo di quotazione, attraverso una fusione per incorporazione tra questi ultimi e le imprese prescelte.

LA NATURA DELLE SPAC

Lo strumento della SPAC è fondamentalmente una società-veicolo, priva di personale, operatività e debiti, che viene costituita da promotori provenienti dal mondo dei professionisti del private equity per rivolgersi ad investitori che la dotano di un capitale liquido (mediamente €100 milioni) in attesa di trovare la sua collocazione.

Dopo averla costituita e capitalizzata i promotori ne richiedono la quotazione in borsa, prima ancora e che essa si fonda con una società non quotata (la target) per far affluire a quest’ultima tanto la liquidità che ha in pancia (la stessa che la target potrebbe raccogliere in un normale processo di collocamento pubblico dei propri titoli) quanto la sua caratteristica di essere già stata ammessa alla quotazione sul listino borsistico.

Dal punto di vista delle imprese non quotate la Spac costituisce senza dubbio un acceleratore nonché un utile strumento per reperire capitali. In pratica con la fusione in una Spac una società industriale o commerciale non quotata si ritrova in Borsa nell’arco di un trimestre.

Considerata la novità dello strumento il successo delle Spac tra gli investitori è stato dilagante: sino ad oggi sono state costituite e capitalizzate 16 Spac mentre altre 6 sono in arrivo entro la fine del 2017. E sono già 13 le SPAC che hanno già trovato la loro “target” (detta anche: “business combination”):

La ragione economica per la quale gli investitori possono trovare interessante investire in una Spac è innanzitutto quella della valutazione implicita nel processo di fusione con la target: decisamente limitata rispetto alle medie del mercato, a motivo del fatto che i promotori della Spac vogliono poter sperare in una decisa rivalutazione del loro titolo dopo la fusione con la Target. Ma questo è anche un vantaggio per i sottoscrittori e gli acquirenti del titolo non appena quotato: se poi si rivaluta ci guadagnano anche quelli che lo hanno acquistato dopo la fusione.

I PROMOTORI GUADAGNANO DALL’INCREMENTO DI VALORE

I promotori delle Spac guadagnano da un meccanismo incentivante per cui più esse si rivalutano più essi guadagnano, ragione per cui cercano società “target ” con le quali fonderle che accettino moltiplicatori di valore decisamente ridotti. Ma questo rende le Spac particolarmente appetibili per i gestori dei risparmi che possono da un lato farle rientrare tra le società già quotate negli investimenti previsti dal regolamento dei P.I.R. (piano individuali di risparmio: normativa finalizzata all’incentivazione degli investimenti dei risparmiatori italiani nelle PMI), dall’altro colgono l’occasione di investire nel capitale di società che rispondano al doppio requisito di ottime aspettative di crescita e limitata valutazione iniziale.

Dato anche il particolare momento di liquidità che stiamo vivendo e la forte attenzione alla ricerca di buoni rendimenti, sani valori fondamentali e poca propensione al rischio, tutti gli investitori istituzionali sanno che la bonanza della Borsa Italiana non può durare per sempre. Per questo motivo la necessità di molta prudenza delle Spac nella valutazione delle imprese target ai fini del rapporto di concambio nella fusione lascia più tranquilli e più propensi gli investitori istituzionali.

Fosse la volta buona che finalmente anche l’Italia riesce ad incrementare significativamente il numero di imprese nazionali quotate in Borsa? Più capitali e più trasparenza (obbligatoria per le quotate) non potrebbero che far bene alla disastrata economia di un Paese che, per campare, ricorda troppo poco spesso che -oltre al turismo- occorrono l’Industria e i Capitali!

 

Stefano di Tommaso
Giorgio Zucchetti




IL MOMENTO FORTUNATO DELLA BORSA ITALIANA

L’economia globale è in ottima salute, non se ne capisce nemmeno troppo bene il perché (al riguardo vedi il mio articolo : “Red Shift” http://giornaledellafinanza.it/2017/06/05/red-shift/ ) ma del fatto che lo sia nessuno dubita più.

La parte inconsueta della faccenda è che ciò accade in un momento di estrema maturità del ciclo economico, e dunque in una fase della sua vita che poteva far presagire l’esatto opposto o, quantomeno, le prime avvisaglie di un raffreddamento dell’economia.

La crescita globale ha infatti ripreso vigore a partire dagli anni immediatamente successivi alla crisi del 2008 (con tempistiche molto differenziate per ciascuna delle grandi macroaree del mondo: non si è affatto spenta in Asia continentale, si è risvegliata molto presto in Giappone, USA e UK e ha fatto capolino solo alcuni anni dopo nel continente europeo).

Il progressivo prender coscienza della nuova vita del ciclo economico ha poi avuto ottimi riflessi nel ritorno alla crescita degli utili industriali e anche questo ha indubbiamente fornito nuova benzina alle borse di tutto il mondo, a partire dall’autunno del 2016.

LA NUOVA VITA DEL CICLO ECONOMICO HA SPIAZZATO TUTTI

Un colpo d’occhio sul momento economico globale è d’obbligo perché -mentre il continente asiatico continua a galoppare e casomai il suo problema resta quello della svalutazione del cambio valuta- nei Paesi OCSE questa nuova vita del ciclo economico continua a spiazzare tutti:

– le banche centrali (che avevano iniziato per tempo a programmare la fine dei loro stimoli monetari)
– gli investitori (che avevano digerito l’amara pillola del rialzo dei tassi e si preparavano a politiche difensive dei tassi limitando l’esposizione al mercato azionario)
– e persino ai consumatori, afflitti anche da altri problemi oltre a quelli del livello dei salari (progressivo abbandono del welfare, forte disoccupazione giovanile, riduzione del credito disponibile, eccetera…) e per questo poco propensi ad incrementare i consumi.

Sono molti mesi perciò che i guru da strapazzo continuano a suonare le campane a morto prevedendo che le borse globali -che continuano a segnare nuovi record- presto tracolleranno essendo state colpite da una insensata bolla speculativa che scoppierà altrettanto presto.

Sono però passati molti mesi e ciò non accade, non solo perché i fattori fondamentali come la crescita economica globale dicono l’opposto, ma anche perché la liquidità in circolazione resta alta e gli investitori professionali, sempre più timorosi del fatto che alla fine comunque i tassi dovrebbero salire e alla ricerca di rendimenti marginali superiori allo zero, hanno contribuito ad avverarne le aspettative spostando sui mercati borsistici anche parte di ciò che normalmente avrebbero investito nel reddito fisso.

LE BORSE GUADAGNANO

Le borse dunque non tracollano (e nemmeno scendono un po’ ), ma il timore di qualche scossone resta sicuramente strisciante e tutti i risparmiatori del mondo, da quelli straricchi che vivono (alla grande) dei guadagni derivanti dai propri investimenti, a quelli poco più che indigenti che vorrebbero ottenere un piccolo reddito dai risparmi di una vita, si interrogano su quali strade possano permettere loro minori timori e/o maggiori redditività.

La lunga premessa era necessaria a chiarire in quale particolarissima e incerta (ma ricca) congiuntura ci troviamo e per quale motivo i risparmiatori cercano nuove “asset class” cioè nuove tipologie di investimento. In Italia poi, con un listino azionario dominato dalle banche, fino a poco tempo fa non ci sono state grandi soddisfazioni per chi ci aveva scommesso ma i tempi sono cambiati e da inizio anno a questa parte, la borsa è cresciuta parecchio e adesso addirittura sembra anche arrivato un ottimo momento per il comparto bancario.

LA BORSA ITALIANA E LE PMI QUOTATE SOTTO I RIFLETTORI

Dunque sta avvenendo un miracolo: attirati dalle migliori prospettive del nostro mercato rispetto a quelli d’oltralpe (se si pensa che il rapporto prezzo/utili medio della Borsa di Milano anche a questo livello di quotazioni resta a circa 12,4 volte, una frazione di quello di Wall Street o di Londra) anche coloro che fino a ieri preferivano investire oltre confine buona parte del loro portafoglio adesso guardano all’Italia (magari dall’estero, visto che il 93% dei capitali investiti sulla borsa italiana sono di provenienza estera).

Anzi, complice la nuova normativa sui P.I.R. (Piani Individuali di Risparmio) che privilegia l’investimento nelle Piccole e Medie Imprese, sono proprio i titoli a più bassa capitalizzazione che hanno stupito e superato ogni aspettativa. Si stima una raccolta complessiva dovuta ai PIR di 10 miliardi entro l’anno e il rally che ha portato il Ftse Mid, lo Star e l’ AIM a superare, rispettivamente del 18%, del 22% e del 16%, la performance dell’indice Ftse Mib non sembra arrestarsi. Secondo Banca Akros, considerando che almeno il 21% delle sottoscrizioni PIR dovrà riversarsi sulle mid-small caps italiane, la domanda aggiuntiva di titoli solo nel 2017 è stimata superare il 4% del flottante.

Tuttavia più la Borsa Italiana vedrà accrescere i propri listini con nuovi massimi, più i timori dello scoppio di una bolla speculativa si faranno largo. Questo fatto crea una richiesta di allargamento del numero di titoli su cui investire e, di conseguenza, un momento magico per i nuovi ingressi tra le aziende quotate.

QUANTE MATRICOLE A PIAZZA AFFARI?

Dobbiamo perciò attenderci una frotta di nuove quotazioni in Borsa?  Ancora non è chiaro, ma più che altro dovremmo sperarlo, perché la ristrettezza del numero di società quotate sul listino italiano ne fa ancora oggi una delle minori al mondo pur in un Paese che resta ai primi posti per livello di industrializzazione. Non solo: l’incremento del numero di società quotate e la possibilità che ciò consenta una maggior diversificazione degli investimenti potrebbe consentire una stabilizzazione delle oscillazioni dei titoli= in essa quotati, maggiore liquidità e, in definitiva, il riflesso di un Paese Reale in cui la trasparenza dei bilanci delle imprese nazionali, la crescita delle loro dimensioni e l’internazionalizzazione che alle medesime può conseguire viene favorita dalla quotazione in Borsa delle medesime.

L’Italia ci guadagnerebbe insomma forse anche più della Borsa stessa. I maggiori capitali che le nuove società quotate attirerebbero potrebbero favorire una nuova stagione di investimenti industriali, nella ricerca e nella formazione professionale. Tutte cose che oggi fanno la differenza tra il nostro Paese e quelli migliori del nostro. Speriamo quindi che la stagione dei P.I.R. e delle ulteriori matricole a Piazza Affari non costituisca l’ennesima occasione perduta per riprendere un percorso positivo di crescita che possa controbilanciare la spada di Damocle dell’eccesso di debito pubblico che pende sulle nostre teste!

 

Stefano di Tommaso

 

 




GEOPOLITICA E INDUSTRIA DELL’AUTO

Le innovazioni nella filiera dell’industria automobilistica corrono sul filo delle politiche ambientali, degli interessi strategici dell’industria nazionale e delle infrastrutture cui i consumi si appoggiano. Il risultato è parallelo a quello delle sfere di influenza strategica delle maggiori economie del mondo, l’affermazione delle industrie USA e Cina innanzitutto.

 

Fino a un anno fa sembrava che i mega-investimenti annunciati da Google e Apple per la realizzazione di veicoli elettrici e automatici avrebbero ridefinito gli equilibri nell’industria automobilistica e orientato ogni altra mossa nel mercato. I giganti di internet pianificavano di spendere decine di miliardi di dollari per entrare da vincitori in un mercato stagnante e adagiato su parametri e abitudini oramai completamente desueti, dal momento che le emissioni dannose dei motori termici (i diesel in particolare) dovranno essere gradualmente abolite, non soltanto per gli effetti sulla salute, bensì anche e soprattutto per i noti problemi climatici.

Oggi invece il mercato dell’auto, tanto per decisioni governative, quanto per esigenze derivanti dalle preferenze dei mercati di sbocco, sta ugualmente virando decisamente verso soluzioni motoristiche ibride o completamente elettriche, ma nessuno dei giganti americani di internet che sembrava sarebbero entrati a pie’ pari sul mercato sbaragliando gli “incumbents” ha invece mosso passi decisivi.

Le ragioni per le quali Apple e Google non lo hanno ancora fatto sono probabilmente molteplici, ma in ogni caso la loro sfida sarebbe stata di quelle più rischiose perché, in attesa di possibili (ma improbabili) colpi di scena, chi ha mostrato di volersi muovere maggiormente sono stati i grandi produttori di auto tradizionali e quelli dei paesi asiatici. I primi per difendere un ricco oligopolio, i secondi perché i loro paesi sono assillati più di altri dalle problematiche ambientali

In avanscoperta si è mossa ad esempio la Cina, con la Volvo (divenuta di proprietà cinese) e con la BAIC (un colosso con oltre 16mila dipendenti): la prima ha annunciato che dal 2019 ogni nuovo veicolo sarà elettrico, mentre la seconda ha annunciato la creazione di uno stabilimento in joint venture con Mercedes-Benz dove investiranno insieme 750 milioni di dollari.

Mercedes ha anche annunciato, in occasione del G20, di aver appena investito in Cina oltre un miliardo di euro nella produzione di batterie al litio. L’investimento non è un caso che sia localizzato in Cina, dove più sono reperibili metalli, minerali e terre rare necessari per la produzione di batterie e motori elettrici.

I DUE POLI DI ATTRAZIONE: CINA E U.S.A.


A livello territoriale chi pare avere più chances di successo nella conversione dell’industria dell’auto verso la trazione elettrica non sono però i paesi europei, che pure vantano i più importanti gruppi industriali del settore, bensì due poli industriali agli estremi opposti del mercato:
•da un lato gli Stati Uniti, sede della Tesla e della sua “Gigafactory” per la produzione di batterie al litio. L’America è anche il paese dove più sono state sviluppate avanzate tecnologie di intelligenza artificiale per la guida autonoma dei veicoli, per i nuovi sistemi di controllo della trazione, di gestione dell’energia erogata (finalizzati alla riduzione estrema dei consumi) e dove si toccano nuove vette nella progettazione di nuove tipologie di veicoli e di sistemi di controllo. Gli Usa contano di avere un ruolo principale non tanto nella fabbricazione di veicoli bensì soprattutto nella produzione di loro componenti e sistemi, non solo perché quel ruolo in realtà lo hanno sempre avuto, ma anche per merito dei poli di ricerca e sviluppo delle tecnologie che li contraddistinguono;
•dall’altro lato la Cina, un paese che ha tutta una serie di vantaggi a promuovere tanto l’assemblaggio locale di autoveicoli prodotti da terzi quanto la crescita delle fabbriche nazionali di auto elettriche low-cost (con tutto l’indotto tecnologico che queste possono generare), nonché l’investimento in nuove infrastrutture per la ricarica dei veicoli, la produzione delle batterie a partire dal quasi-monopolio di terre e minerali rari che le appartiene e, soprattutto, la necessità di riuscire dotare buona parte dei suoi cittadini (che ancora non li posseggono affatto) di autoveicoli a basso impatto ambientale che appartengano direttamente alla nuova generazione! Già lo scorso anno, la Cina ha costruito il 43% degli 873mila veicoli elettrici assemblati nel mondo, in aumento rispetto al 40% del 2015.


LA SONNOLENZA DEL CONTINENTE EUROPEO E LA SOLITUDINE DEL GIAPPONE

Numerosi sono i motivi per i quali l’industria automobilistica del continente europeo, se escludiamo qualche incursione di WW e DAIMLER-BENZ, non ha davvero investito molto nello sviluppo di nuovi modelli di auto elettrica. Hanno sicuramente contribuito le divisioni nazionali che hanno limitato la completa integrazione dei mercati di sbocco continentali, una certa arretratezza nella domanda di veicoli di nuova generazione e i timori diffusi di successive difficoltà nell’assistenza e manutenzione dei medesimi, ma soprattutto le ulteriori difficoltà derivanti dalla limitatezza della rete delle stazioni di ricarica delle auto elettriche, hanno molto contribuito a polarizzare l’utilizzo delle auto elettriche nel segmento lusso (di chi dunque dispone anche di altri veicoli) e nel segmento cittadino, dove è più facile disseminare un reticolo di colonnine elettriche.

Ma per assurdo chi rischia di rimanere come il fanalino di coda della filiera è chi più di tutti sino ad oggi e prima di tutti gli altri operatori nel mondo aveva investito nella trazione ibrida degli autoveicoli: il Giappone, sede della Toyota-Lexus e caratterizzato da un elevatissimo livello qualitativo di tutte le proprie produzioni, nonché da un deciso grado di loro innovatività. Il Giappone però non può godere né delle economie di scala del rivale continentale né della filiera di produttori di componenti e sistemi che è basata negli U.S.A.


Non per niente Toyota ha deciso di scommettere pesantemente con la sua ultima nata: “Mirai” nell’unica vera alternativa alle auto elettriche: quella che utilizza le cellule a idrogeno: una fonte di energia potenzialmente ancora più efficiente e, contemporaneamente ancora più pulita, dal momento che la produzione e il futuro smaltimento delle batterie elettriche porta con se altri tipi di problemi ambientali. Si veda al riguardo un recente articolo del Financial Times denominato proprio: “La Scommessa del Giappone sull’Auto a Idrogeno” ( https://www.ft.com/content/328df346-10cb-11e7-a88c-50ba212dce4d ).

Il punto è che lo sviluppo di automobili basate sull’idrogeno comporta il dispiegamento di una fitta rete di colonnine di erogazione del medesimo sull’intero territorio, cosa che, a meno di un ribaltamento delle attuali politiche industriali, il Giappone rischia di non riuscire quasi a fare al di fuori dei propri confini nazionali ! Un peccato per il progresso ma un risultato scontato sotto il profilo geopolitico: la Cina ha bisogno di adottare tecnologie americane per far funzionare le sue fabbriche e l’America ha bisogno delle fabbriche e dei consumatori cinesi per fare profitti con le sue tecnologie.  Per tutti gli altri restano solo mercati di nicchia…

Stefano di Tommaso

 




SULLE BORSE GLOBALI DUE MONDI CONTRAPPOSTI: TITOLI DIFENSIVI O TECNOLOGICI?

Sui listini di tutto il mondo la galassia dei titoli tecnologici appare avere andamenti sempre più contrapposti a quelli di un’altra galassia, quella dei titoli azionari dei comparti tradizionali. Investire sugli uni risponde infatti a logiche molto differenziate dall’investire sugli altri.

 

Sono oramai molti molti mesi che le borse globali galleggiano su livelli record e che, per questo motivo, i gestori del risparmio si interrogano su come orientare gli investimenti per rispondere alle esigenze dei loro sottoscrittori. L’onda lunga delle nuove tecnologie ha favorito guadagni meravigliosi ma sicuramente i titoli “tecnologici” se da un lato promettono ancora performance eccezionali, dall’altro costituiscono una scommessa forte e rischiosa. I loro corsi sono soggetti a violente oscillazioni anche a causa del fatto che la calma piatta in superficie dei mercati ha incentivato una decisa rotazione dei portafogli.

Sino ad oggi poi anche il mercato dei titoli a “reddito fisso” ha fornito ottime soddisfazioni, ma il livello “quasi zero” dei tassi di interesse fornisce poca attrattiva per gli investitori e per questo motivo essi tendono a preferire investimenti azionari “difensivi” cioè orientati verso titoli a bassa oscillazione e con elevate politiche di dividendi.

Quel che accade perciò rassomiglia ad un processo di polarizzazione degli investimenti. È ormai come se ci fossero per ogni grande borsa del mondo due diversi mercati azionari:

•da un lato quello dei titoli azionari emessi da aziende tradizionali, dove gli investitori hanno da tempo rinunciato a fare scorribande e alla speranza di cospicui apprezzamenti in conto capitale, ma dove cercano invece una sponda di lungo termine, che assicuri loro la cedola e la solidità (per “bondificare” cioè “obbligazionarizzare” i loro investimenti).

•dall’altro lato quello dei titoli emessi da start-up tecnologiche, aziende del mondo internet e società con elevato potenziale di crescita: tutti titoli che esprimono invece forti attese di rivalutazione, assieme ad un’elevata volatilità. Questo mercato risponde al veloce cambiamento delle attese man mano che si chiariscono le tendenze di fondo delle curve esponenziali delle performances. Dunque con titoli come Snapchat che vanno giù e quelli come Amazon o Tencent che invece continuano a correre.

Ovviamente gli investitori non sanno bene se e quando saltellare dall’una all’altra galassia, ma appare loro tuttavia abbastanza chiaro che i titoli appartenenti alla prima sembrano divenuti quasi inscalfibili e immutabili alle oscillazioni degli umori persino quando i peggiori timori geopolitici prendono il sopravvento. Dipendono forse maggiormente dalla liquidità dei mercati che però ancora oggi resta molto elevata (vedi il grafico qui allegato che riporta una delle spiegazioni”tattiche” per cui le borse sino ad oggi non sono andate giù: anche nell’ultimo semestre la liquidità sui mercati si è accresciuta ).

Mentre i titoli appartenenti alla seconda galassia (i “tecnologici”) appaiono molto più sensibili alle oscillazioni degli indicatori economici, al trading online e, in definitiva, al “consensus” del mercato. La loro volatilità è infinitamente più alta anche perché settimana dopo settimana qualcuno di essi appare essere un cavallo stanco, altri corrono più delle aspettative e in media scontano maggiormente i timori di un improvviso ridimensionamento dei listini.

Un interessante comparto industriale rimasto forse a cavallo tra i due mondi appare essere quello dell’automobile, dove convivono FCA e GM da una parte, ancora ostinatamente orientati al design più che all’innovazione e dall’altra parte aziende innovative come Tesla, produttrice di auto elettriche supertecnologiche e capaci di guidare quasi da sole. Con tutte le vie di mezzo come Toyota, WW e Volvo, che hanno saltato il fosso della tecnologia di trazione con motori termici tradizionali ma non del tutto e non prevalentemente.  Ovviamente i titoli di Tesla volano, dominati dalle attese sulle consegne di autoveicoli la cui domanda supera di molte volte l’offerta, mentre sugli altri titoli aleggiano minacciosi i nuvoloni della prossima riduzione della spesa per consumi, cui essi possono risultare più sensibili della media.

Utile anche domandarsi chi ci rimette in una tale forte diaspora tra le due diverse tipologie di titoli azionari, mossa dai timori di fondo di possibili ridimensionamenti delle quotazioni. La risposta è che non rientrano in nessuna delle due categorie oggetto di questa polarizzazione i titoli meno liquidi e quelli a minor capitalizzazione. Ma anche quelli emessi da imprese non fortemente caratterizzate come “market leader” di qualche specifico settore, le start-up in generale e forse anche i progetti di IPO. La polarizzazione degli investimenti in fondo è uno dei tanti modi adottati dal mercato per mettersi sulla difensiva !

 

Stefano di Tommaso