UN COLPO AL CERCHIO E UNO ALLA BOTTE

L’attacco americano alla base militare siriana da cui erano partiti gli aerei che hanno colpito malati e bambini è sembrata ai fan e agli alleati del Presidente una sortita paradossale. Certo difficile da comprendere.
Una manovra per ricordare a Assad (e a chiunque altro) che non si può esagerare, per mostrare al mondo che l’America è il suo “poliziotto” e al tempo stesso per riportare al centro l’ago della bilancia degli equilibri politici interni americani.
Una manovra che non ha però tenuto conto dei rischi che essa comportava sulla geopolitica globale.

UN COLPO A SORPRESA

È molto probabile che i missili americani siano stati voluti lanciare soltanto a scopo dimostrativo. Non dovevano avere incidenza sul piano militare, bensì scrivere un messaggio rivolto soprattutto alla politica interna USA. In realtà se Trump non mostrerà che ha una strategia veramente geniale, egli appare essere caduto in una trappola.
L’attacco unilaterale, deciso a caldo e senza nessun passaggio preventivo (né all’ONU, né con gli alleati) intendeva mostrare un Presidente capace di mantenere autonomia da Mosca e con un proprio potere decisionale. Alle strette per il “Russiagate”, Trump ha ascoltato chi gli suggeriva che l’unico modo per non mostrarsi debole fosse colpire lui a sua volta chi aveva (probabilmente per errore o senza saperlo) colpito su un deposito di veleni tenuto apposta vicino a dove si trovavano bambini.
Forse Trump voleva mostrare a suo modo un senso umanitario, il distacco degli USA dalla spavalderia di chi attacca anche gli ospedali ma, principalmente, voleva ammutolire chi lo vuole sottomesso a Putin e fugare i fantasmi di chi lo paventa auspice di una nuova dottrina Monroe (ritiro USA dai principali scacchieri internazionali).

L’OBIETTIVO SBAGLIATO

La base colpita dai missili di Trump (quella da cui erano partiti gli aerei che hanno fatto saltare il deposito di veleni) era tuttavia essere un avamposto importante contro l’ISIS. Una delle principali da cui partivano le missioni contro lo Stato Islamico sul fronte sud, il territorio tra Palmira e Deir Ezzor. Forse a Trump non hanno spiegato bene che colpire questa base avrebbe solo dato respiro al Califfato, in precedenza in ritirata ovunque.
Fino al 7 aprile l’equilibrio che si stava configurando a luci spente in Siria era:
– Assad e i russi avrebbero vinto la guerra contro i ribelli e l’ISIS;
– Gli USA di Trump avrebbero partecipato al trionfo conquistando Raqqa e beneficiato della pacificazione generale del Medio Oriente;
– Alla Turchia sarebbe stato lasciato il controllo sul territorio a ridosso del suo confine, per smaltire i profughi e controllare i curdi.
– La questione curda e gli equilibri in Siria sarebbero stati discussi in seguito.
La strategia di Trump fino a ieri sembrava molto più chiara, ma a qualcuno quello scenario non era piaciuto e ha trovato la buccia di banana su cui farlo scivolare.

CHI ERA RIMASTO SCONTENTO

L’Arabia Saudita avrebbe voluto infatti veder instaurare un governo sunnita in una Paese storicamente ostile.
Israele, nonostante le garanzie di Mosca, recentemente ha visto potenziare il peso politico e militare degli Hezbollah e del loro dante causa: l’Iran. Per Israele il vero pericolo non è la dinastia Assad, tollerata da 40 anni, bensì Teheran. Il quadro che vedeva la Siria troppo vicina all’Iran non gli dava sufficienti garanzie.
Israele aveva bisogno di un segnale forte contro l’Iran, che da Obama non era mai arrivato, nonostante l’aiuto fornito ai miliziani sunniti.
La Turchia infine in Siria aveva dovuto rinunciare all’operazione Scudo dell’Eufrate accettando la crescita delle milizie curde, perché decisive sul fronte anti ISIS. Erdogan, vedendo il rischio di rimanere col cerino in mano, ha ricominciato ad alzare i toni contro Assad, dopo averli attenuati per un anno per compiacere Putin.
Le conseguenze dell’attacco alla Siria di Assad possono essere ben maggiori di ciò che si poteva immaginare inizialmente e si vedranno nei prossimi giorni nelle relazioni USA con la Russia. La pazienza di Mosca con gli atteggiamenti ondivaghi di Trump non sarà infinita: Putin ha già annunciato la fine della collaborazione con gli USA per la sicurezza nei cieli siriani.

CHI CI GUADAGNA

In tutto questo esultano dunque l’Isis e il movimento sunnita supportato dall’Arabia e dagli Emirati, la Turchia, Israele, il clan dei Clinton alleato a quello dei repubblicani “dissidenti” di MacCain e, soprattutto, chi ci sta dietro. Chi ci perde è l’ala moderata dell’Islam con la fazione sciita dell’Iran e i suoi alleati di sempre: Russia e Cina.
Dopo aver perso le elezioni presidenziali l’ex Segretario di Stato USA era alla ricerca di alleati sul fronte anti Assad. Per l’ex First Lady il ritorno alla guerra fredda è, per vari inconfessabili motivi, un obiettivo primario.
I primi sentori che il vero potere di veto in politica estera ce l’avessero il Pentagono e le lobbies interessate alla vendita degli armamenti che lo controllano, si avevano già dai primi giorni dell’insediamento del Presidente alla Casa Bianca. Il Russiagate era preparato da un pezzo e poco dopo ad uno ad uno, tutti i collaboratori di Trump “alternativi” alla politica atlantista sono caduti. Come Michael Flynn e Stephen Bannon, rimossi dagli incarichi sulla sicurezza nazionale.
Trump per il momento sembra perciò solo caduto nella trappola di chi non lo vuole allineato a Putin.
Nei fatti adesso l’equilibrio politico tra i due partiti negli USA è ritornato simile a quello da tempo visto nell’Unione Europea : fronti politici tradizionalmente ostili tra loro si alleano contro i movimenti “populisti” che intendono resistere alla globalizzazione forzosa e rispolverare le specificità e identità nazionali.

QUALE LINEA POLITICA PER TRUMP?

Trump sembrava aver indicato alle classi medie e ai paesi non allineati una propria terza via, ma la speranza di affrancarsi dal fronte a lui contrario con colpi di coda come i 59 missili lanciati alla Siria per scopi dimostrativi non gli gioverà a lungo.
Con il suo cerchiobottismo Trump rischia di mostrarsi solo incapace di imporre quella terza via per la quale è stato eletto.
Dopo l’attacco USA alla Siria, c’è anzi una sola certezza: colpire chi aveva bombardato probabilmente per errore un deposito di armi chimiche non è stata un’operazione umanitaria bensì forse una trappola.
L’ISIS adesso esulta: lo scacchiere mediorientale è stato rovesciato, mentre Cina e Russia si interrogano o sono silenziosamente consenzienti per finalità “esterne
Il partito della guerra segna un bel punto a proprio favore, mentre l’instabilità politica darà forse una mano alla volatilità delle borse e al rialzo dei tassi e del petrolio.
Quale che sarà la prossima mossa, il Presidente ha messo la sua credibilità a forte rischio!

 
Stefano L. di Tommaso




Italia, l’economia risale senza credito ma durerà?

REPORT DEL CENTRO STUDI CONFINDUSTRIA -Alleviare i bilanci bancari dalle sofferenze è vitale per far ripartire il credito e il vertice dei ministri finanziari Ue del 7 e 8 aprile a Malta è l’occasione per individuare soluzioni.

È cruciale favorire rapidamente la ripartenza del credito alle imprese italiane. Per far ciò, bisogna anzitutto trovare soluzioni, nazionali o europee, per alleviare il peso delle sofferenze nei bilanci bancari, che tiene alta l’avversione degli istituti al rischio di credito. La riunione dei ministri finanziari UE del 7-8 aprile a Malta è il luogo ideale per delineare una strategia efficace.

Infatti il lento recupero dell’economia italiana sta avvenendo nonostante continui la riduzione dei prestiti alle imprese (-15,3% dal 2011, -2,2% nel 2016). Ma è proprio questa diminuzione uno dei freni dell’economia, che aiuta a spiegare il divario di crescita con Francia e Germania. Il credito in Italia si riduce anche nel manifatturiero (-19,6% dal 2011, -3,4% nel 2016), con ampi divari di andamenti nei vari settori.

Quanto può durare ancora la creditless recovery in Italia, che ha già due anni di vita? In Spagna, paese paragonabile per grado di indebitamento delle imprese e sviluppo dei mercati finanziari, la risalita senza credito dura da oltre tre anni. Come mai? Perché c’è un solido trend di aumento della redditività delle imprese e, quindi, della possibilità di autofinanziamento.

Anche in Italia il mark-up delle imprese è risalito (+2,9% rispetto al minimo del 2012). Tuttavia, ciò è legato al calo dei prezzi degli input, non a quello del CLUP come in Spagna. Nello scenario CSC, i margini italiani vengono erosi nel 2017, dopo essersi fermati già nella seconda parte del 2016.

Risalita lenta dell’economia in Italia

In Italia la seconda recessione dall’inizio della crisi è alle spalle. Ma gli effetti devastanti sul tessuto industriale e sociale sono ancora evidenti e contribuiscono a frenare la velocità di uscita, più che in altri paesi europei.

Il PIL italiano, in volume, è tornato a crescere, lentamente e senza stasi, da inizio 2015 e ha accumulato un incremento del 2,0% fino al quarto trimestre 2016 (dopo una stagnazione di 7 trimestri tra 2013 e 2014). In particolare, gli investimenti in macchinari e mezzi di trasporto hanno recuperato rapidamente nell’ultimo anno (+7,6%), segno che gli incentivi funzionano e che le imprese rispondono. Nella seconda recessione, che è durata 7 trimestri a partire dal terzo 2011, il PIL era diminuito del 5,2% (nella prima recessione -7,6% in un anno, dal 2° trimestre 2008). Oggi è ancora ben lontano dai livelli pre-crisi (-7,4% rispetto a inizio 2008).

Negli altri principali paesi europei l’economia ha avuto un andamento diverso. In Francia e Germania non si è avuta una seconda recessione. In Spagna è iniziata prima che in Italia ed è durata di più (10 trimestri), avendo registrato una contrazione analoga (-4,9%). Ma là il recupero, iniziato nell’autunno 2013, sta procedendo a una velocità quasi tripla rispetto a quella dell’Italia (+0,7% medio trimestrale contro +0,25%).

Credito sempre più scarso per le imprese italiane

Uno degli elementi che contribuisce a spiegare la lentezza della risalita dell’economia italiana è la carenza di credito. In Italia i prestiti alle imprese si sono ridotti per cinque anni consecutivi, a un ritmo medio del 3,2% all’anno nel periodo 2012-2016 (-15,3% cumulato; Grafico A). E la caduta, a inizio 2017, è proseguita. Nel 2016 sono diminuiti anche i prestiti alle imprese erogati dai primi 4 gruppi bancari italiani: -0,8% (elaborazioni CSC sui bilanci dei singoli istituti), rispetto al -2,2% dell’intero sistema bancario.

Nel manifatturiero i prestiti hanno registrato un -3,4% nel 2016, dopo il -4,9% all’anno nel 2012-2014 e la piccola risalita nel 2015 (+0,6%). Lo stock di prestiti è inferiore del 19,6% rispetto ai valori del 2011. La forchetta di andamenti tra i vari settori manifatturieri è molto ampia. Nel 2016, si va da -8,0% nella carta-stampa, a +3,9% per l’alimentare; su 11 settori, solo 2 registrano una variazione positiva. Per tutti i settori lo stock di prestiti è inferiore ai livelli del 2011: il minimo si registra nel petrolifero-chimico-farmaceutico (-43,7%), un comparto eterogeneo per il quale non sono disponibili dati più disaggregati. Riduzioni marcate si sono avute nel legno-arredamento (-25,3%) e nella carta-stampa (-25,2%). Anche in settori in cui gli andamenti recenti sono positivi lo stock resta basso (alimentari -1,9%)1.

La brusca riduzione del credito negli ultimi anni ha messo in difficoltà molte imprese, che devono fare i conti con tale restrizione nelle scelte operative. Nella gran parte dei casi, la flessione dello stock di credito, infatti, non è stata dovuta a una minor domanda da parte delle aziende, visto che l’attività economica è cresciuta; piuttosto, le imprese hanno subito la restrizione del credito, dal lato dell’offerta.

Il principale freno all’offerta di credito in Italia sono le elevate sofferenze bancarie (141 miliardi di euro, pari al 18,6% dei prestiti), eredità della doppia profonda recessione. Dall’autunno 2015 lo stock oscilla su questi valori elevati. Ciò tiene alta l’avversione al rischio di credito delle banche. Un problema sottolineato da molto tempo dal CSC2. Gli interventi varati finora in Italia (tra cui: deducibilità fiscale in un anno delle perdite su crediti, velocizzazione delle procedure fallimentari, garanzie pubbliche sulle sofferenze cartolarizzate, creazione del Fondo Atlante) sono stati utili, ma non risolutivi.

Le sofferenze sono, finalmente, all’attenzione anche della UE, come dichiarato a marzo dal Vice Presidente Valdis Dombrovskis. Nella prossima riunione a Malta del 7-8 aprile i ministri finanziari discuteranno del coordinamento europeo di iniziative nazionali lungo tre direzioni: stimolare le banche a mettere mano alle proprie sofferenze (la BCE ha di recente pubblicato dettagliate linee guida); migliorare il funzionamento dei mercati secondari nazionali delle sofferenze; modificare le regole nazionali per i fallimenti societari in modo da velocizzare le ristrutturazioni dei crediti deteriorati (tema già affrontato di recente in Italia). Si parlerà anche della proposta EBA di fine gennaio, per la creazione di un veicolo europeo in cui trasferire le sofferenze, sulla quale però non sembra esserci il necessario consenso. In generale, non pare delinearsi un’unica azione congiunta nell’Area. È cruciale, però, che vengano definite soluzioni in grado di agire in tempi rapidi per far ripartire il canale del credito, ostruito in vari paesi UE.

Ad esempio, in Spagna i prestiti alle imprese si riducono e perfino a un ritmo più intenso rispetto a quanto avviene in Italia (-10,0% all’anno nel 2012-2016), dopo però essere cresciuti molto di più prima della crisi. Viceversa, i prestiti stanno crescendo già da tre anni in Francia (+3,7% annuo nel 2014-2016) e da due in Germania (+1,9% annuo nel 2015-2016) e accompagnano l’espansione dell’attività economica.

Il tradizionale nesso tra credito e attività economica

Il nesso causale da credito a PIL, storicamente, è molto solido. In passato, sia in Italia sia in altri paesi, la crescita è stata alimentata dai prestiti bancari. Per esempio, nel 2004-2007 in Spagna i prestiti alle imprese sono cresciuti in media del 24% all’anno, in Italia del 9%, in Francia dell’8%. Tutti questi paesi hanno registrato in quel periodo un’espansione dell’economia (in Italia +1,5% medio annuo nel 2004-2007). Varie analisi hanno evidenziato il contributo importante fornito dal credito alla crescita del PIL nella fase pre-crisi.

Nell’attuale fase, invece, la mancanza di credito per le imprese sta frenando la crescita italiana. Ciò perché essa fa mancare a molte aziende le risorse per nuovi investimenti produttivi, per il magazzino e, in alcuni casi, addirittura per l’attività corrente. Altre imprese, però, disponendo di maggiore autofinanziamento o di possibilità di accesso diretto ai mercati dei capitali, riescono a crescere, aggirando la mancanza di credito bancario.

Un aumento fragile di margini e auto-finanziamento

In Italia si è registrato un recupero del mark-up negli ultimi anni, una misura della redditività delle imprese, sebbene sia ancora su livelli compressi (Grafico B). Nel manifatturiero esso è aumentato dello 0,6% nel 2016 e del 2,3% cumulato nel 2013-2015 (dopo il -5,2% cumulato nel 1996-2012). Nel totale dell’economia, il markup è rimasto stabile nel 2016, dopo il +1,0% nel 2013-2015 (-4,4% nel 1996-2012). I dati sul MOL, espresso in percentuale del valore aggiunto, confermano questo recupero: +1,6 punti percentuali nel manifatturiero nel 2016, dopo  i +3,4  punti  cumulati  nel  2013-2015 (era sceso di 10 punti nel 1995-2012).

Tutto ciò, però, è avvenuto perché i prezzi degli input si sono ridotti (nella manifattura – 6,5% cumulato nel 2013-2015 e -0,1% nel 2016),  in  particolare  le  quotazioni  delle  materie  prime.  A  questo  è  conseguito  il taglio, meno marcato e già arrestatosi, dei  prezzi di vendita delle imprese (-3,2%  nel  2013-2015, +0,6% nel 2016). Il recupero dei margini  non  ha  beneficiato  dell’andamento del costo del lavoro. Il CLUP, ossia il costo del lavoro per unità prodotta, dopo essere salito prima e durante la crisi, è rimasto sostanzialmente invariato negli ultimi due anni (+0,2% nella manifattura nel 2016, dopo lo zero nel 2015).

Perciò, il recupero dei margini e della capacità di autofinanziamento in Italia è fragile, esposto al rischio di un rincaro delle materie prime. Il quale, come atteso, ha iniziato a verificarsi nel corso del 2016 e ha già arrestato la risalita del mark-up.

Quanto può durare la creditless recovery italiana?

In Italia, dunque, da due anni (2015-2016) c’è una lenta risalita dell’economia che avviene insieme a una forte contrazione del credito alle imprese. La questione è: quanto può durare?

La Spagna offre un utile termine di confronto. Anzitutto perché simile all’Italia quanto a grado di indebitamento delle imprese e a loro possibilità di accesso diretto ai mercati finanziari e, quindi, in termini di importanza delle diverse fonti di finanziamento dell’attività. Il grado di indebitamento bancario, misurato dai prestiti alle imprese in percentuale del PIL nominale, è in caduta in Italia ed è sceso molto sotto i picchi del 2011 (45,3% nel 2016, da 54,6%), pur restando sopra i valori di inizio anni Duemila (Grafico C). In Spagna era più alto ed è sceso rapidamente su livelli inferiori a quelli italiani (44,3%, da 85,3% nel 2008). In Francia cresce e non è lontano da quello italiano, in Germania è più basso e si riduce.

Inoltre, anche in Spagna il PIL sta crescendo (e più velocemente che in Italia) nonostante il calo dei prestiti. La creditless recovery spagnola dura da oltre tre anni. È cruciale capire come questo sia possibile. Per far crescere investimenti e attività corrente occorre avere finanziamenti, che siano bancari, non bancari o interni all’azienda. Il punto è che anche in Spagna i margini crescono e lo fanno molto più che in Italia e da più tempo: +0,1 punti percentuali nel 2016 il MOL nel manifatturiero, dopo +7,3 punti cumulati nel 2013-2015 e +2,9 punti già nel 2010-2012.
Ciò ha portato il MOL in Spagna a livelli molto più elevati che in Italia: 46,5% nel 2016, rispetto a  2,3%. Quindi, è aumentata molto   negli ultimi anni la possibilità di autofinanziamento delle imprese  spagnole.  Inoltre,  si  tratta  di  un recupero di  redditività robusto, perché avviene grazie al lungo trend di moderazione del costo del lavoro: -0,4% il CLUP  manifatturiero spagnolo nel 2016, dopo il -11,8% cumulato nel 2013-2015 e il -3,0% già nel 2010-2012.

In Italia, dunque, la risalita economica senza credito bancario ha poche possibilità di durare quanto in Spagna. Un appiattimento dei margini delle aziende italiane si è già verificato nella seconda parte del 2016. Nello scenario CSC, si registra una nuova erosione nel 2017. Quindi, l’autofinanziamento cessa di salire e poi si assottiglia. Ciò avviene a causa del tendenziale rincaro sia del petrolio sia delle commodity non-energetiche.

È per questo che le imprese italiane, per finanziare i nuovi investimenti e l’aumento dell’attività corrente, a fronte di risorse interne che smettono di aumentare e del limitato accesso a fonti non bancarie, hanno urgente necessità di una ripartenza dei prestiti. In modo da non dover frenare il già lento recupero dell’attività, faticosamente avviato.

Gian Paolo Caselli
Gabriele Pastrello
www.ilgiornaledellafinanza.it
www.firstonline.info




PROTEZIONISMO E MEDIOCRAZIA

L’economia di guerra ha alcune caratteristiche peculiari. Tipici delle guerre sono infatti i fenomeni deflattivi, l’incremento della disoccupazione, la crescita del numero di sfiduciati che non cercano nemmeno più un lavoro, l’aumento delle tasse, eccetera.

L’insieme di questi fenomeni arriva a generare il c.d. “crowding out” dell’economia privata da parte di quella pubblica (spiazzamento), per cui ad esempio all’aumento delle aliquote fiscali diminuisce il gettito perché, dato uno stock di reddito, se si devono pagare più tasse si comprimono altri flussi. I consumi per esempio, se cresce l’aliquota IVA.

Tipico delle economie di guerra è anche il ritorno al protezionismo. Diversamente da quanto molto stampa ci racconta, chi ha determinato questo ritorno ad altri tempi, non è il Trump, miliardario generato dal capitalismo maturo della fine del secolo scorso, bensì i burocrati dell’Unione Europea, che trincerandosi dietro regole per la tutela della salute, hanno cercato di imporre misure protezionistiche agli Stati Uniti, impedendo l’importazione della carne nel vecchio continente. E non si tratta solo delle carni trattate con estrogeni, ma anche di numerose sostanze medicinali, il cui uso in Europa è vietato, salvo quando il veterinario deve curare un animale malato. Sulla base del fatto che  gli americani utilizzano anabolizzanti e ormoni con regolarità, è quasi  tutta la carne proveniente dagli Usa ad essere vietata in Europa.


IL CONCETTO DI “MEDIOCRAZIA”

La stampa nostrana, più che essere di “regime” è forse più semplicemente stata sapientemente orientata alla “mediocrazia” e, quindi, alla necessità di persuaderci di talune versioni della realtà appiattendo e ripetendo all’infinito degli slogan “discreti”, non dicendoci cioè mai cose troppo al di fuori del comune.

La verità è che il ceto “mediocratico” europeo occidentale (gli organi di informazione cioè nonché i loro manovratori, burattinai anche della politica) esce vittorioso da un decennio difficile (ha monopolizzato quasi tutte le leve del potere, mediatico e politico) ma anche cinicamente disilluso e, per cercare di contrastare il malcontento popolare che monta a causa dei fenomeni di impoverimento sopra descritti, si concentra sui rimedi tipici dell’economia di guerra.

La guerra però, accanto alle misure economiche sopra descritte prevedrebbe anche una riqualificazione industriale, legata alla produzione di armamenti e alla necessità di ricostruzione. Cose che, a differenza di un economia aperta al sistema globalizzato, possono essere talvolta favorite dall’isolazionismo per limitare la spesa per consumi e massimizzare la produzione industriale.


L’ECONOMIA DI GUERRA AL DI FUORI DELLA GUERRA

L’economia di guerra al di fuori della guerra invece, in assenza di una polarizzazione della spesa pubblica verso investimenti infrastrutturali, determina solo la fuga dei capitali, che in effetti migrano verso oriente, dove ci sono aree non a caso in continua evoluzione e in crescita esponenziale. Non stupisca quindi che sia  oggi il leader politico cinese Xi Jinping, ad elogiare pubblicamente la globalizzazione.

Il modello Europeo, per cui alcuni paesi hanno speculato sugli altri utilizzando la differenza tra i tassi di rischio e rendimento dei sistemi paese (i cosiddetti spread), hanno determinato  il trasferimento dei capitali dall’economia industriale (sottoposta a tasse e vessazioni) a quella speculativa, e quindi dall’industria europea alle attività finanziarie.

I burocrati dell’Unione Europea speravano che questo disegno strategico volto ad attirare ricchezze verso il centro dell’Unione e, di conseguenza, ad alimentare il suo potere, passasse sotto silenzio, coperti da una stampa accondiscendente, ma si sono trovati di fronte a crescenti dissensi popolari (o populisti, come spesso etichettati con disprezzo) e, per mostrare di voler recuperare un modello di sviluppo comune, oggi firmano nuovi trattati lasciando che un italiano, Mario Draghi, resti alla guida della Banca Centrale Europea. Ma gli hanno limitato i poteri, molto diversi da quelli dei governatori delle altre banche centrali.

E, al di là di qualche operazione di facciata, restano nell’Unione tutti i difetti genetici di un sistema creato per essere più favorevole ad alcuni paesi cha ad altri. La banca Centrale non ha come scopo il finanziamento dello sviluppo dell’economia (salvaguardandola da eccessi di inflazione), bensì semplicemente compiti di sostegno alla moneta unica e ai suoi più sviscerati fautori: le banche del sistema europeo. Come se il corso della  moneta, potesse essere un valore assoluto, proprio nel senso latino del termine: ab solutum, cioè sciolto dal sistema economico.

Così la funzione monetaria, privata del suo obiettivo di regolazione della velocità degli scambi, è relegata, ad obiettivi invece funzionali a quel disegno strategico di silenzioso accentramento di ricchezza e potere sopra descritto.


LA GRAN BRETAGNA E L’AMERICA GUASTANO I GIOCHI

Ma non solo la manovra a tenaglia degli euroburocrati non è riuscita a passare sotto silenzio, bensì è successo che i foschi scenari di crollo economico derivante dalla Brexit sono stati ripetutamente smentiti da una Gran Bretagna che ha persino visto la propria divisa rivalutarsi e , con l’avvento dell’era di Trump, il ciclo economico mondiale che sembrava volgere verso una nuova recessione, si è improvvisamente invertito, riportando il barometro economico verso il bello.

Non solo il Regno Unito e l’America, ma anche buona parte dei paese emergenti ne ha beneficiato e, ciliegina sulla torta, i maggiori segnali di recupero sono giunti miracolosamente proprio dall’Unione Europea, che si è ritrovata ad esportare molte più merci e ad attrarre molti più capitali, anche nella sua periferia mediterranea.

Intendiamoci, non si sa quanto la bonanza in corso potrà durare. Sicuramente però si è percepita la necessità, per i paesi come il nostro, di lavorare di più sulle esportazioni e sugli investimenti produttivi per poter cogliere il momento positivo.
Fino a ieri che l’impostazione dei principi di Basilea aveva danneggiato fortemente la redditività delle banche europee. La cosa era funzionale a impedire alle imprese periferiche e minori di finanziarsi per investire e moltiplicare i propri rendimenti ma il sistema europeo è dovuto anche correre in riparo del proprio sistema bancario -finanziandolo- per non mettere a rischio anche la moneta unica. Il nuovo respiro del sistema finanziario dà fiato oggi anche all’industria, tanto attraverso la grande liquidità che ha investito il mercato dei capitali, quanto con una rinnovata disponibilità di credito.

Oggi l’Europarlamento prova a correre ai “ripari” proprio con inutili misure protezionistiche, provando a convincere il sistema di essere vittima degli americani protezionisti. La manovra è volta a generare consenso politico e convinzione di essere vittima degli americani ma non riesce ad aumentare sufficientemente la velocità di circolazione monetaria. Gli attuali governanti perdono consenso interno a vantaggio di gruppi più o meno orientati a spinte secessionistiche che vorrebbero ispirarsi a Trump, ma che hanno in comune con lui solo la volontà di scardinare un sistema consolidato di controllo delle informazioni e dello sviluppo economico.


ALLA RICERCA DI NUOVI PARADIGMI

Ma non c’è ancora una  proposta politica davvero alternativa, non si intravedono la lucidità e la volontà di nuovi leaders determinati a ristrutturare il sistema europeo, e in questo modo è difficile fare ogni previsione economica a medio termine per il vecchio continente perché senza un cambio di programma generalizzato l’unica risposta dei “divergenti” dal pensiero unico può essere il desiderio di uscita dall’Unione.

Però sono pochi i Paesi che possono permettersi di stare a galla singolarmente sul mercato globale. Solo attraverso una presenza simultanea su vari mercati delle proprie imprese e una integrazione internazionale attuata sulla diversificazione globale della propria presenza economica sarà possibile per un singolo paese sopravvivere al cambiamento nel medio lungo periodo.

Si tratta dunque di impostare una nuova visione, non solo del proprio Paese, ma anche delle imprese, scoprendo nuove chiavi interpretative del sistema economico globalizzato e talvolta egemonizzato. Se è vero che non esiste epistemologia al di fuori dell’azione non può esistere azione profittevole  senza una minima comprensione epistemologica del contesto in cui si svolge il proprio agire.

Alessandro Arrighi
http://www.alessandroarrighi.com/

 




LA STAGIONE ITALIANA DELL’M&A

Molte altre volte in passato si era pensato che la peculiarità della piccola dimensione delle imprese italiane, talune delle quali estremamente competitive e miracolosamente capaci di compiere realizzazioni straordinarie, le avrebbe spinte prima o poi verso un processo di rapida aggregazione delle une con le altre, quantomeno allo scopo di liberare risorse e attirare capitali.
E poi nulla o quasi.

Molti fattori hanno frenato o impedito quella corsa. Dalla scarsità di credito alla sotto-capitalizzazione fino alla natura estremamente circoscritta alla famiglia del fondatore di buona parte delle imprese italiane di successo.


NON PIÙ “PICCOLO È BELLO”

È tempo ormai che è finita l’epoca del “piccolo è bello” . Uno slogan che faceva riferimento alla capacità di adattamento e di innovazione delle PMI, che avrebbero fatto premio sulle efficienze derivanti dalla grande dimensione.

Oggi, alla luce dei cospicui investimenti necessari per balzare sul carro delle nuove tecnologie e a causa della globalizzazione della concorrenza sui mercati di sbocco (a sua volta in buona parte dovuta alle vendite online che continuano a crescere sbaragliando i canali distributivi convenzionali), il paradigma dell’azienda di successo sta tornando rapidamente verso fatturati più rotondi e, soprattutto, verso la capacità di attirare finanziamenti e capitali per la crescita (che, notoriamente, mal si sposano con la piccola dimensione).

E qual’è la strada più veloce e più sicura per crescere dimensionalmente nel business dal momento che essa sembra la prima delle chiavi del successo d’impresa? Ovviamente quella di acquisirne un’altra o -ancor meglio- quella di fondersi con un’altra, attivando ugualmente le sinergie possibili e migliorando le dimensioni senza nemmeno dover tirare fuori quattrini per farlo! Semplice, vero?


POCHE ACQUISIZIONI E QUASI NESSUNA FUSIONE TRA LE IMPRESE ITALIANE

 


E invece no: questo semplice ragionamento non sembra tenere alla prova dei fatti, quantomeno in Italia. Poiché almeno dieci volte negli ultimi anni si è auspicata una vera e propria esplosione delle fusioni e acquisizioni che per qualche motivo non c’è poi invece mai stata, dobbiamo dedurne che ci sono molte altre determinanti in gioco nel nostro Paese che impediscono di perseguire la crescita aziendale.

Inutile ripeterci che da noi le imprese sono quasi tutte famigliari e sottocapitalizzate, spesso immerse in distretti super specializzati per know-how e che la risposta alla questione fatidica “chi comanda?” evidentemente conta ben più del reddito e della dinamica della creazione di valore.


QUALCOSA STA CAMBIANDO

Qualcosa però si sta muovendo: sono state censite 551 acquisizioni nei primi 9 mesi del 2016 per un controvalore di € 33 miliardi, in aumento del 56% rispetto ai 25 miliardi del 2015. Di quelle 551 sono poi 110 le acquisizioni oltreconfine per €11,8 miliardi e questa sì che è una notizia! Erano forse vent’anni che le imprese italiane non sceglievano così pesantemente la strada delle acquisizioni all’estero.

Per quel che si può vedere dal nostro osservatorio peraltro la corsa prosegue, anche perché nel 2017 finalmente le risorse finanziarie per scalare la montagna del successo questa volta sono disponibili in quantità più cospicue, dal credito bancario ai fondi che sottoscrivono i Minibond fino alle emissioni azionarie da collocare all’A.I.M. della Borsa Italiana.

Anche la trasparenza nei bilanci e nelle modalità di gestione aziendale (più managers e meno “rampolli”), almeno al Nord-Italia, è migliorata negli ultimi anni, così come il numero delle società che hanno scelto di far revisionare ufficialmente i propri bilanci.
Ciò fluidifica il processo e provoca più attenzione da parte degli investitori, mentre il ritmo delle operazioni aumenta soprattutto a causa dell’enorme arretrato in cui giaceva il tessuto economico del Paese.


RECUPERARE IL TERRENO PERDUTO

 


Con la più elevata frammentazione industriale tra i Paesi avanzati, il più arretrato dei sistemi distributivi e la più problematica tra le reti infrastrutturali per trasporti e logistica, all’azienda-Italia non resta che valutare molto seriamente la possibilità di recuperare il terreno perduto attraverso una corsa alle aggregazioni e concentrazioni di settore!
Anche perché può valere pure il ragionamento opposto: se per crescere ho bisogno di risorse finanziarie e con la mia piccola dimensione nessuno me le fornisce, allora per la mia azienda è meglio superare determinate soglie dimensionali e rendere i suoi conti più trasparenti per evitare di morire di inedia finanziaria!

Per lo stesso motivo crescono vorticosamente le imprese che stanno iniziando a considerare l’entrata in borsa (per la massima parte al segmento A.I.M., cioè il circuito riservato alle piccole e medie imprese), sebbene tra il considerarlo e il farlo permangano numerosi impedimenti di ogni genere che per ora hanno partorito ben poche conclusioni positive rispetto alle migliaia di imprese che potrebbero farlo e alle centinaia di aziende iscritte al circuito “Elite” della Borsa italiana, con il quale quest’ultima ha inteso iniziare a preparare gli imprenditori al grande passo.


LA COLLABORAZIONE INTERNAZIONALE

 


Ma al di là delle risorse finanziarie la vera scommessa per le aziende nostrane è la collaborazione e/o aggregazione a livello internazionale con coloro che possono fornire loro le esperienze già maturate in mercati più consolidati ovvero le tecnologie mancanti: è quello l’agòne dove si gioca il futuro dell’imprenditoria italiana! Ed è anche la strada più complessa, quella più insidiosa ma anche la più interessante per coloro che non si limitano ad essere reattivi agli stimoli del mercato, ma desiderano coglierne i mutamenti e cavalcarne le onde in modo “pro-attivo”.

Terrorismo, crisi finanziarie e shock energetici permettendo, la crescita economica del Bel Paese sembra finalmente aver imboccato l’autostrada delle operazioni straordinarie, della raccolta di capitale di rischio e dell’interazione internazionale!

Fosse questa la volta buona ?

 

Stefano di Tommaso