SARÀ IL MERCATO DEI CAPITALI A FINANZIARE LE IMPRESE?

Per anni il mondo occidentale si è posto il problema di come conciliare la necessità di ricapitalizzazione e una migliore regolamentazione del settore bancario con quella di evitare la diminuzione di credito disponibile per le imprese (senza peraltro riuscire a trovare la soluzione). Il risultato è stato un deciso arretramento dell’attività caratteristica delle banche, le quali si sono adoperate nella ricerca di un maggior reddito da commissioni di servizio.

La principale vittima del meccanismo anzidetto però sono state le piccole e medie imprese, dal momento che molte banche hanno deciso di concentrare i propri impieghi verso le imprese di maggiori dimensioni per via di una migliore qualità del credito che queste potevano assicurargli.

In particolare l’Italia ha sofferto più di molte altre economie avanzate la carenza di credito a causa della piccola dimensione e bassa capitalizzazione delle proprie imprese e dell’impossibilità dunque di finanziarne gli investimenti con fonti diverse dal credito bancario.

Parallelamente tuttavia il mercato dei capitali, sulla scorta di recenti esperienze positive nel settore del “private debt” (finanziamenti erogati da fondi di investimento a capitale privato), ha trovato terreno fertile nel vuoto di mercato lasciato dal sistema bancario, estendendo le proprie attività anche alle imprese di minori dimensioni, alla ricerca di buoni rendimenti e, soprattutto, di nuovi spazi di impiego delle proprie crescenti disponibilità finanziarie, dopo che i ritorni  derivanti dagli investimenti nei soliti titoli a reddito fisso (quotati o con elevato rating) erano arrivati a zero o addirittura sotto zero.

In tale direzione (il “private debt”) è evidente il vantaggio per chi si ritrova a dover investire anche nel reddito fisso importi crescenti di capitali (fondi pensione, compagnie di assicurazione, family offices…) :
negli scorsi anni il tasso di interesse relativo alla sottoscrizione di bond aziendali non quotati ha spesso toccato e superato la soglia del 10%, mentre sul fronte tradizionale il rendimento standard del reddito fisso planava verso lo zero.

Niente male come ritorni se chi proponeva queste forme di finanziamento “alternativo” poteva anche selezionare con cura i piani industriali delle imprese più promettenti cui elargire il proprio credito (e magari ottenere anche buone garanzie reali). Inutile dire che sono stati fatti buoni affari dai primi arrivati ad occupare il vuoto lasciato dalle banche con poche risorse a disposizione per nuovi prestiti, lente e burocratiche anche perché vessate dagli innumerevoli obblighi derivanti dalla vigilanza.

Nel nostro Paese inoltre la normativa recente sui “Minibond” ha contribuito in maniera decisiva allo sviluppo del credito proveniente dal mercato dei capitali.

Gli ottimi risultati ottenuti hanno ovviamente richiamato attenzione da parte degli altri investitori: si stima che a fine 2016 le risorse gestite in tutto il mondo dai fondi destinati al “private debt” abbiano raggiunto la strabiliante cifra di 600 miliardi di Dollari, con un incremento di poco meno di 100 miliardi nel solo ultimo anno!

Oggi però un numero crescente di operatori del mercato dei capitali sta iniziando a rivolgere la propria attenzione anche al mercato del “private debt”, con due importanti (quanto ovvie) conseguenze pratiche:

– La discesa dei rendimenti
– La progressiva estensione del bacino di imprese cui proporsi a quelle più piccole e con minore qualità del merito di credito.

I tassi di rendimento medio dei “corporate bonds” senza rating ufficiale sottoscritti dagli investitori privati è sceso dal 10% circa degli anni 2010-2011 al 7-8% del 2014 fino al 5-6% del 2016, anno in cui (soprattutto nel nostro Paese) si è registrata un’importante espansione del numero di emissioni. Allo stesso modo si sono visti ridurre l’importo medio per singola operazione e il fatturato medio delle imprese beneficiarie.

Ora è chiaro che un tale “boom” porta con sé il rischio di una parallela discesa dell’attenzione verso il rischio e la qualità delle operazioni. Così come una maggior concorrenza tra gli operatori. Inoltre più si abbassa la dimensione dei prestiti erogati meno saranno liquidi sul mercato secondario i relativi bond emessi.

Questo non significa necessariamente che assisteremo presto ad un incremento significativo dei tassi di mancato rimborso di quei finanziamenti, tanto per il fatto che l’economia mondiale sembra aver imboccato di nuovo un percorso di crescita, quanto per la natura di tali operazioni: un esame attento del piano industriale e una “diligence” sui conti (in Italia condotta solitamente da società di audit iscritte all’albo CONSOB) permettono a chi sottoscrive tali finanziamenti un deciso approfondimento sulle caratteristiche dell’attività dei beneficiari.

Certo però non possiamo non prendere atto del successo di uno strumento (quello dei Minibond) che fino a ieri sembrava destinato a pochissimi interlocutori e dell’ampiezza a livello planetario di un fenomeno (quello del “private debt”) che sta passando da una “nicchia” di mercato a dimensioni decisamente più ampie, coinvolgendo un maggior numero di operatori (che potrebbero non essere tutti di lunga esperienza) e tornando a proporre una concorrenza sul mercato del credito che, fino a ieri, sembrava sopita per sempre!

 
Stefano di Tommaso




L’ECONOMIA MIGLIORA MA I CONSUMI CROLLANO

(lo scenario indica che le aziende industriali dovranno fare i conti con un calo strutturale e delle vendite dovuta alla crescente disuguaglianza sociale mentre la digitalizzazione industriale e la sharing economy continueranno la loro avanzata).

 

Spesso scrivo analisi e previsioni economiche e spesso, nel parlare con conoscenti e clienti mi è successo di aver mostrato un certo orgoglio per aver previsto correttamente l’attuale fase di crescita economica globale, per molti invece inaspettata dopo le vittorie politiche della Brexit e del Presidente Trump.

Più di una volta però, alla domanda “com’è possibile che l’economia migliori se il reddito disponibile di tutti quelli che conosco invece peggiora?”  mi è capitato di dover correggere il mio ottimismo laddove, invece di fare riferimento alle statistiche, si osserva il benessere effettivo della gente comune.

È un dato di fatto per esempio che i giovani di oggi possano condividere uno stock di ricchezza e un potere d’acquisto-fatte le debite proporzioni- molto inferiore a quello dei loro genitori.

IL P.I.L. CRESCE MA IL REDDITO DISPONIBILE SCENDE A CAUSA DELLA FINANZIARIZZAZIONE DELL’ECONOMIA

Il motivo della divergenza tra incrementi del prodotto interno lordo e diminuzione della ricchezza disponibile per la gente comune è apparentemente semplice da spiegare (sebbene sia molto complicato opporvi ogni possibile rimedio): a causa della “finanziarizzazione” dell’economia degli ultimi vent’anni , la distribuzione della ricchezza sta cambiando e la disuguaglianza sociale aumenta a dismisura!

In America, dove le stesse cose che poi accadono da noi succedono sempre con largo anticipo, siamo arrivati all’assurdo che lo 0,1% della popolazione (di  quasi 320 mln di abitanti) possiede lo stesso ammontare di ricchezza del 90% inferiore della medesima popolazione: come dire che 1 abitante su mille possiede novecento volte ciò che hanno in media a testa i novecento abitanti meno ricchi sui mille totali !

PERCHÉ SCENDONO LE VENDITE DEI BENI DI CONSUMO

I (moderati) successi economici degli ultimi anni in Occidente che ci riferiscono le statistiche dopo la crisi del 2008 dunque, sono in realtà soltanto il risultato di una media tra gli avanzamenti di reddito ottenuti dai possessori di attività finanziarie e immobiliari e gli arretramenti dei percettori di salari, un po’ come la media di un pollo a testa di Trilussa, tra chi ne ha due e chi non lo ha. Una media composta da un avanzamento della ricchezza concentrata nelle mani di pochi e da un arretramento netto di quella della maggior parte della gente.

Ora bisogna tenere presente che se Berlusconi vende il Milan e incassa un fantastico assegno, ben difficilmente egli lo spenderà in un maggior numero di vestiti, automobili, gioielli ed arredi perché ne ha già tanti.
La spesa per consumi è infatti soprattutto mossa dagli acquisti quotidiani e “aspirazionali” delle classi più basse della popolazione, le stesse che però hanno vissuto negli ultimi anni un deciso arretramento della loro ricchezza.
I risultati “populisti” delle elezioni politiche di molti paesi occidentali hanno rispecchiato (e rispecchieranno ancor più in futuro) questo quadro di deterioramento del tenore di vita delle classi medie e basse, dal momento che il voto nei paesi democratici è imprescindibilmente capitario.

Ma soprattutto è il welfare (previdenza e assistenza sociale) la vera bomba ad orologeria: l’impossibilità dei governi di assicurare adeguati ammortizzatori sociali alla maggioranza della popolazione che rimane senza lavoro o non può pagare per la sanità privata, le difficoltà dei sistemi pensionistici (pubblici o privati) di tenere il passo con il costo della vita è ciò che più di ogni altra cosa determina una minor propensione all’acquisto dei beni di consumo (e anche di quelli durevoli).
E l’incombente difficoltà dei fondi pensione a mantenere le promesse fatte ai propri sottoscrittori tempo addietro sarà solo la ciliegina sulla torta!

LA CONGESTIONE DEI RISPARMI E LA RIVALUTAZIONE DEI BENI DI INVESTIMENTO

Paradossalmente il fenomeno dell’impoverimento e delle minori garanzie sociali comporta perciò un aumento dei risparmi e dunque una tendenza dei mercati finanziari a continuare a galleggiare su una massa di liquidità crescente.
Ma al tempo stesso il reddito fisso mantiene rendimenti limitatissimi e dunque il risparmio aggiuntivo che vi si riversa non fa che alimentare quel fenomeno di bassi tassi dovuti alla grande liquidità che si riversa sui mercati finanziari.
La stessa che ha determinato un arricchimento delle classi più ricche della popolazione e ci ha portati all’aumento della disuguaglianza sociale attraverso la corposa rivalutazione del valore di immobili, strumenti finanziari e mezzi di produzione.

Quella rivalutazione giova a chi già possiede capitali e ne ottiene un reddito aggiuntivo, mentre essa necessariamente riduce il benessere di coloro che non ne hanno e che con la rivalutazione faranno  ancora più fatica a comperarli.
Questo circolo vizioso sembra difficilmente correggibile senza provocare instabilità e danni irreparabili all’economia.

Sul fronte delle strategie industriali il fenomeno della riduzione dei consumi è stato fino a ieri imputato alla recessione e non si è ancora manifestato nella sua interezza per diversi motivi, ma non tarderà a farsi evidente.
Oggi la ripresa economica europea è trainata principalmente dalle esportazioni, in buona parte di tecnologia, impianti e macchinari verso i Paesi Emergenti, che godono di una crescita economica derivante dalla demografia positiva e poi risentono in ritardo del rallentamento dei consumi.

GLI ACQUISTI VANNO VERSO L’ECONOMICITÀ E LA QUALITÀ

Ma la tendenza cui faccio riferimento è di quelle che si dispiegano nel lungo termine: solo in America la media delle famiglie del 90% inferiore della popolazione (cioè la quasi totalità) ha visto nel 2016 diminuire le sue disponibilità (reali) del 40% rispetto al 2007.
Le imprese manifatturiere dovranno perciò prima o poi fare i conti con un cospicuo calo delle vendite dei beni di consumo,  “nonostante” le buone notizie sul fronte del prodotto interno lordo dei Paesi Occidentali potrebbero proseguire ancora a lungo!

Il fenomeno, sebbene di lungo termine, dal punto di vista della strategia industriale è da comprendere molto bene, svicescerare e poi cavalcare, attraverso il riorientamento delle produzioni verso beni di minor costo intrinseco, ma anche attraverso il controllo dei costi, la produttività del lavoro e la capacità di assicurare qualità e durevolezza nel tempo.

La stagione dei dividendi 2017 (che si apre più o meno da questo mese) sembra portare risultati clamorosamente al rialzo, a partire ovviamente dalle economie più avanzate e dotate delle valute più forti, ma la spesa per consumi è segnalata in discesa proprio in queste ultime, e la cosa si spiega quasi solo con l’incremento delle disuguaglianze sociali!
Non a caso in Cina, dove sta avvenendo l’esatto opposto e le classi medie sono in espansione, l’incremento dei consumi nel 1.trimestre 2017 (+10,9%) ha superato di slancio l’espansione della produzione industriale (+7,6%) e la crescita del Prodotto Interno Lordo (+6,9%, peraltro in crescita rispetto al 2016).

L’AVANZATA DEL DIGITALE E DELLA “SHARING ECONOMY”

La generazione di nuova ricchezza dovrebbe invece -in un mondo ideale- accompagnarsi ad una riduzione in termini reali dei valori dei cespiti immobiliari, delle attività finanziarie e degli strumenti di produzione. Cosa che in teoria può generarsi con la crescita della “sharing economy” e della digitalizzazione della produzione delle imprese manifatturiere.
Il loro avanzamento dunque non potrà che far bene alla stabilità e alla crescita economica e gli investimenti ad essi collegati contribuiranno alla produttività del lavoro (fattore essenziale per remunerare meglio i percettori di salari).

Sino ad oggi invece il Quantitative Easing ha lavorato in direzione opposta, servendo soprattutto a mantenere in vita il mercato secondario dei titoli dei debiti pubblici (cosa peraltro necessaria alla buona salute dell’economia).

Nessuno al momento è forse in grado di sfornare una teoria economica che indichi come conciliare la salute del mercato dei capitali (che alimenta le imprese e le loro innovazioni ma gonfia il valore delle attività finanziarie e provoca l’aumento dell’ineguaglianza sociale) con quella dei bilanci pubblici e con la crescita del benessere della popolazione.
Ma non illudiamoci troppo: ci sono molti e importanti interessi in gioco affinché nei paesi occidentali la giostra vada avanti esattamente così com’è impostata oggi…

 
Stefano di Tommaso




VENTI DI GUERRA

Sembrava che i mercati finanziari avessero adottato per sempre lo scenario standard della famosa bambola “Goldilocks” (riccioli d’oro) , quella che si muove in un mondo incantato in cui nulla è eccessivo e il sole splende sempre, e invece eccoci piombati in un battibaleno a toccare con mano una nuova diversa realtà, fatta di timori geopolitici e qualche tensione superficiale che fa pensare all’ennesimo ritorno della guerra fredda.

Sebbene i mercati finanziari vedano il loro barometro ancora costantemente rivolto verso l’alto, siamo indubbiamente passati dal “Bel Tempo” al “Sereno Variabile” ma, forse è quel che più conta, l’ago dello strumento ha iniziato a muoversi.

L’ECONOMIA MIGLIORA

Intendiamoci: l’economia mondiale è decisamente in miglior salute che non un anno fa e quella americana poi ancor di più, con la disoccupazione ai minimi storici, un Dollaro stabile e una meravigliosa stagione dei dividendi alle porte. Persino in Europa lo scenario economico migliora decisamente (con in più un pezzo di strada che le borse continentali devono ancora percorrere, mentre in America lo hanno già fatto), mentre i fondamentali dei Paesi Emergenti sono buoni, ivi compresi quelli dei colossi asiatici. Nemmeno tanto male il Giappone di Shinzo Abe, la cui economia è tornata a vedere una luce verde, anche se quasi solo per il medesimo motivo di quella europea: maggiori esportazioni verso il resto del mondo!

In questo contesto così positivo, con la Federal Reserve Bank of America impostata ad una estrema prudenza nel rialzare i tassi e ridurre i propri impieghi in titoli nel modo più “annunciato” possibile, il fulmine a ciel sereno delle manovre militari americane ha improvvisamente risvegliato l’attenzione degli operatori su quei tre o quattro focolai di guerra in medio Oriente come in estremo Oriente verso i quali si stanno rivolgendo le portaerei americane, ma anche quelle russe.

LA SCELTA DI TRUMP

Donald Trump su quelle partite (Siria, Iran e Corea del Nord, soprattutto) ha fatto una scelta, tutto sommato coerente con lo spirito che egli ha sempre dimostrato: quella di voler giocare d’anticipo, ottenendo in un colpo solo la solidarietà dell’intera sua nazione, il silenzio (economicamente ben ricompensato con gli accordi appena sottoscritti) degli eredi del Celeste Impero e, ovviamente, una secca risentita della Federazione Russa. Mentre di ciò che hanno detto tutti gli altri non poteva interessargliene di meno.

Giusta o sbagliata che sia con il senno di poi, una cosa sembra divenuta assai probabile: quella scelta avrà evidenti conseguenze sull’oceano pacifico dei mercati finanziari, dove evidentemente qualche increspatura dovrà pur riflettersi dopo i sassi lanciati su di esso.

I FONDAMENTALI SONO BUONI

Ed ecco che venerdì scorso i beni rifugio hanno subito ritrovato smalto, l’oro è di nuovo tornato in auge (come peraltro ampiamente prevedibile), gli investimenti in immobili riprendono vigore e persino le materie prime e l’energia rivedono nuove punte, come sempre accade quando tornano a galla le tensioni geo-politiche.

Sul fronte opposto le borse non temono poi granché e anzi, i titoli a reddito fisso sembrano veleggiare bene anch’essi -sintomo di una certa tranquillità generale dei mercati finanziari- ma di due importanti cose non possono che prendere atto:
– La loro volatilità non può che tornare in auge
– La liquidità che sino ad oggi ha contribuito a sostenerli si riduce, a beneficio di altre “asset class” e per effetto della riduzione degli interventi delle banche centrali.

Se al posto della liquidità interverranno a sostenere i mercati i (buoni) dati fondamentali dell’economia mondiale (come del resto era previsto: i profitti aziendali attesi per l’hanno in corso non sono mai stati così alti), allora le borse non avranno quasi alcun sussulto, altrimenti qualche piccolo tonfo sarà nell’aria.

IL RUOLO DELLE ASPETTATIVE

Ma una cosa è sicuramente cambiata e, sui mercati finanziari, essa non è mai stata di poco conto: la faccenda delle aspettative!

Se i profitti delle imprese risulteranno altissimi ma, per qualche motivo, comunque inferiori alle aspettative, se la crescita economica risulterà cospicua ma, quantomeno per i timori di guerra, un po’ meno forte di quanto si spera, se i prezzi di petrolio e commodities risulteranno elevati ma, a causa di un eccesso di offerta, magari non troppo rispetto a quanto si sperava, ecco che le elevate aspettative dei mercati, legate alla “reflazione”, alla crescita economica e al crescente valore delle imprese, risulterebbero deluse ed ecco che, quantomeno, una certa volatilità dei mercati potrebbe rimpiazzare lo scenario “Riccioli d’Oro” visto fino ad oggi per poco meno di un anno.

Io resto ancora dell’idea che la riforma fiscale impostata da Trump sarà probabilmente un successo, che la tormentata Unione Europea (anche a causa delle minacce dei partiti nazionalisti) riuscirà a trovare la volontà di migliorare il proprio governo, che molti Paesi asiatici continueranno a investire per un futuro migliore, che il resto del mondo potrebbe avere davanti a sé anni di crescita pacifica.
Qualche missile e qualche manovra militare non hanno il potere di sradicare tutto ciò.

Ma, dal punto di vista dei mercati finanziari, le aspettative potrebbero essere deluse e spesso la tempistica conta più del risultato. È soprattutto per questo motivo che gli indici di borsa potrebbero accusare qualche sussulto!

 

Stefano di Tommaso




IL SUCCESSO DI PRIVATE EQUITY & VENTURE CAPITAL FA LIEVITARE LE VALUTAZIONI AZIENDALI E IL BENESSERE ECONOMICO

IL CLAMOROSO SUCCESSO DELL’INVESTIMENTO NEL CAPITALE DI RISCHIO  (PRIVATE EQUITY & VENTURE CAPITAL)

Il combinato disposto di ottime performances, cautela negli investimenti e un successo crescente nella raccolta (830 operazioni di fundraising nel 2016 hanno raccolto quasi 350 miliardi di Dollari) ha determinato un aumento considerevole della massa di denaro a disposizione dei fondi di private equity di tutto il mondo (per un totale di 820 miliardi di Dollari a fine 2016) e, ancor più importante, una crescente valutazione media delle imprese oggetto di investimento da parte loro!

È quel che riporta l’analisi pubblicata dal Prequin Global Private Equity & Venture Capital Report https://www.preqin.com/docs/samples/2017-Preqin-Global-Private_Equity-and-Venture-Capital-Report-Sample-Pages.pdf
con un’analisi molto dettagliata per settori e comparti nel mondo.

GLI INVESTIMENTI AVVENGONO A VALUTAZIONI SEMPRE PIÙ ELEVATE

Le grandi disponibilità dei fondi e la rinnovata possibilità di ottenere leva a tassi di interesse molto bassi, hanno però spinto verso l’alto in maniera importante le valutazioni delle società target: il 38% dei fondi intervistati da Preqin ha detto di aver visto crescere molto le valutazioni delle imprese e ciò nonostante ha dichiarato che gli investimenti nelle imprese continueranno in maniera decisa.

L’alternativa all’ingresso del Private Equity nel capitale, per tutte le aziende che se lo possono permettere è, si sa, la quotazione in Borsa. Ora i livelli stratosferici raggiunti oramai da tempo delle loro quotazioni , parallelamente ai bassi livelli dei tassi di interesse, aiutano ad elevare i parametri di riferimento (benchmark) per le valutazioni che i fondi devono riconoscere se vogliono ottenere un assenso dai migliori imprenditori.

La logica che ne consegue è senza dubbio che gli investitori del private equity dovranno necessariamente partire da livelli più alti di prezzo iniziale nella loro strategia di costruzione del valore per poi riuscire a disinvestire con un guadagno e tenere testa alle aspettative di chi ha dato loro fiducia, ma non solo.

CRESCE IL NUMERO DI AZIENDE INVESTITE E L’M&A CROSS-BORDER

Due interessanti corollari seguono infatti quella logica al rialzo:

– Il primo riguarda il fatto che, con importi di denaro contante più interessanti sul tavolo, molto probabilmente un sempre maggior numero di imprenditori prenderà nel prossimo futuro la decisione di accogliere un fondo chiuso nel proprio capitale azionario;

– Il secondo riguarda il fatto che ciò non potrà che favorire a sua volta le operazioni di fusioni e acquisizioni ( M&A ) nonché le combinazioni industriali “cross-border” (oltre confine)dal momento che i fondi di private equity cercheranno di giocare la partita della crescita di valore soprattutto su di esse, non potendo limitarsi a comprare bene per vendere meglio.

Le operazioni di “taglia e cuci” dei perimetri aziendali giocano indubbiamente un ruolo fondamentale nella possibilità di prendere in mano un business (soprattutto quando esso è in un settore industriale tradizionale) e cercare di efficientarlo, di esasperarne i punti di forza o di limitarne quelli di debolezza.
Ma più che nella ricerca delle sinergie e delle efficienze la vera partita i grandi investitori di Private Equity la giocano sui mercati di sbocco, dal momento che spesso è in quella direzione che le aziende non già completamente globalizzate possono lavorare per guadagnare la propria presenza su mercati nuovi, emergenti, o in maggior crescita. Primi fra tutti ovviamente quelli asiatici…

LA BORSA DA UNA MANO AL VENTURE CAPITAL

Anche per il venture capital il periodo più recente è stato innegabilmente il più roseo: l’avvento della digitalizzazione e della globalizzazione ha certamente favorito lo sviluppo di queste ultime e, con esse, del valore creato dalle imprese che hanno cavalcato le innovazioni.
Anche per il venture capital l’evoluzione delle quotazioni borsistiche ha favorito i favolosi rendimenti di chi vi ha investito: senza l’avvento delle molteplici quotazioni in Borsa degli “unicorni” (le start-up tecnologiche valutate più di un miliardo di Dollari) il disinvestimento dei fondi di capitale di ventura sarebbe stato più difficile e, con esso, il loro guadagno.

In definitiva dunque il successo del mercato dei capitali che condanna i suoi operatori a lavorare sempre meglio e sempre più su scala globale, favorisce lo “shake-out” del panorama industriale, che con essi si rinnova più velocemente, si consolida nelle dimensioni aziendali e nella capacità distributiva e, soprattutto, si rende più efficiente nei margini e nella produttività anche grazie all’adozione di innumerevoli nuove tecnologie.

QUALI CONSEGUENZE SOCIALI

Nel lungo termine questo fenomeno non può che generare ricchezza e, per tale motivo, ha aspetti positivi da qualunque parte lo si guardi, dal momento che senza la generazione di nuova ricchezza non può incrementarsi il benessere economico collettivo.
Nel breve termine viceversa alcune conseguenze negative dello shake-out industriale indotto dal rinnovamento radicale che consegue alle accelerazioni provocate dal mercato dei capitali sono innegabili, perché efficientare le aziende significa spesso liberarsi delle vecchie abitudini e dei vecchi dirigenti, i quali rischiano di ritrovarsi in gran numero a spasso e senza più il ruolo -anche sociale- che avevano in precedenza, magari importante.

L’accelerazione delle ricombinazioni industriali necessita perciò del supporto di sistemi di previdenza sociale capaci di assicurare adeguati ammortizzatori alle vicende personali di chi si trovava a lavorare nell’ambito sbagliato o nel mercato che si rinnova maggiormente, per permettergli di ricollocarsi altrove. E questa è la nota più dolente, dal momento che i governi del mondo occidentale hanno sempre minori risorse per il “welfare” da spendere per i meno giovani.

Ma, come si sa, l’unica vera assicurazione per il benessere collettivo è la crescita economica e, mai come in questo momento prima, il mercato dei capitali è stato alacremente al lavoro per realizzarla!

 

Stefano di Tommaso