Giappone: disoccupazione ai minimi storici

Il tasso di disoccupazione in Giappone per il mese di Gennaio è sceso al 3% della forza lavoro, ben al di sotto di quel 4% che da decenni gli economisti definiscono “tasso di piena occupazione ” a causa di tutti i fattori distorsivi che impediscono di azzerare completamente il numero di quelli che cercano lavoro (quantomeno per il fatto che lo stanno cambiando o che non sono idonei).

Gli analisti anzi prevedono che esso possa scendere ancora al 2,5% entro il prossimo anno.

Per fare un paragone, gli U.S.A. stanno avvicinandosi al 4% e la Federal Reserve teme che il “surriscaldamento” della dinamica salariale possa determinare un forte incremento dell’inflazione. La cosa è avvalorata da un altro dato statistico che da noi sarebbe inconcepibile : il numero di posti di lavoro disponibili per ogni 100 giapponesi occupati è pari a 143 in Gennaio! Cioè c’è per essi il 43% di posti in più di quanti ne cerchino.

Ma il vero dato da analizzare come sempre non è quello della disoccupazione (strombazzato dai media) che dipende troppo dall’iscrizione o meno dei disoccupati nelle liste di ricerca del lavoro (gestite dalla mano pubblica), bensì quello dell’occupazione: più mezzo milione di occupati negli ultimi 12 mesi, per giungere al mirabolante numero di quasi 65 milioni di persone che lavorano! Su un totale di meno di 130 milioni fa più o meno esattamente la metà.

Qui si impone un paragone con il nostro sonnolente Paese, nel quale vivono poco meno della metà del numero dei cittadini giapponesi (poco più di 60 milioni)ma lavora solo un terzo di quel numero: circa 22 milioni di persone.

Dunque non soltanto la disoccupazione in Giappone è quasi “negativa” ma è soprattutto l’occupazione che va a gonfie vele. In un paese che non ha quasi immigrazione questo significa addirittura necessità di stimolare la crescita della natalità. Cosa che peraltro il governo sta facendo in ogni modo.
Anche il numero di lavoratori stranieri sta crescendo fortemente in Giappone, ma conta per poco più dell’1,6% : circa un milione.

Ma nonostante tali numeri mirabolanti le paghe sono cresciute meno del 2% e addirittura la spesa media per nucleo familiare si è leggermente ristretta nell’ultimo anno, rimanendo poco sopra i duemila euro, al netto però di una consiste svalutazione dello Yen.
Conseguentemente l’inflazione in Giappone è più bassa che in tutti gli altri paesi industrializzati, cioè quasi inesistente, ancora lontana dunque da quel 2% che resta l’obiettivo del governo per fine 2017.

Un’ulteriore buona notizia per l’andamento dell’economia mondiale e niente paura per il Giappone, che mostra anzi segnali di una certa vitalità nell’economia, ma anche di molta più armonia che non nei paesi occidentali, pressati da migrazione, tensioni sociali e maggior difficoltà nella ricerca di un posto di lavoro.

Non stupisce che il governo di Abe goda ancora di ottimo consenso: la politica locale si concentra sui fatti e sarebbe fortemente disapprovata se alzasse il tono delle polemiche con l’opposizione.

Un modello sociale da prendere ad esempio per noi occidentali, che invece nel nostro intimo continuiamo a considerarci superiori!
Stefano di Tommaso




Italia: beata inflazione, san dollaro e san petrolio la proteggono

La congiuntura economica che si può osservare nel primo scorcio di Marzo di quest’anno può far pensare che una serie di circostanze giochino in termini positivi per aiutare l’economia italiana ben al di là delle scarse attese che si leggono sulla stampa. Parafrasando una vecchia allocuzione (in voga negli anni ottanta), mi sono permesso di imputarne il merito a tre santi in paradiso che potrebbero involontariamente regalarci “o’miracolo”: il risveglio dell’attività economica non soltanto nel nostro Paese ma anche nell’intero continente.

SAN DOLLARO

Il primo risultato del pronosticato aumento dei tassi di interesse, annunciato per le idi di Marzo dalla governatrice della Federal Reserve Bank of America, è stato infatti e potrebbe essere ancora un rialzo del biglietto verde.

Il Dollaro potrebbe essere ulteriormente premiato tanto perché è oramai l’unica e incontrastata valuta di riserva, dopo le scarse performances e l’accresciuta volatilità delle sue più dirette concorrenti, quanto perché l’America vanta mercati finanziari ancora una volta orientati a nuovi record e un’economia che nel 2017 è attesa migliorare decisamente rispetto al magro risultato di crescita dell’1,6% nel 2016.

La svalutazione dell’Euro nei confronti del Dollaro può avere per noi dunque un effetto mediamente positivo, perché aiuta a rilanciare la parte dell’economia continentale che “tira” di più: le esportazioni, dal momento che i consumi invece ristagnano più del previsto in Europa.

BEATA INFLAZIONE

Ma dal punto di vista dell’andamento economico europeo non è escluso che il generalizzato riaccendersi delle aspettative di crescita dei prezzi non possa donare nuovo slancio al mercato immobiliare, ai beni di consumo durevole, e sinanco alla spesa per consumi, controbilanciando gli effetti negativi che possono avere i maggiori prezzi delle importazioni sul paniere di spesa.

Il fenomeno dell’inflazione -quantomai controverso quanto ai suoi effetti in letteratura economica- è stato additato in passato come fattore di sconvolgimento della pianificazione di investimenti e politiche salariali, è invece salutato oggi (e solo per il momento) come una bellissima notizia, perché scaccia definitivamente l’ipotesi di una deflazione endemica che era vista come la causa principale del crollo della spesa per investimenti.
Sono in tal modo rimossi i fantasmi delle varie ipotesi di stagnazione secolare, legate al calo demografico e al raggiungimento di una fase di maturità per le economie occidentali (sino a ieri agitati da vari economisti).

Se vogliamo essere più precisi il processo di santificazione dell’Inflazione è ancora in corso, dal momento che essa può contribuire ad accelerare l’abbandono del Quantitative Easing Europeo e conseguentemente dell’ombrello della Banca Centrale Europea, che sino ad oggi ha garantito il buon esito delle nostre emissioni di titoli di stato alla scadenza di quelli precedenti. Tale evento rinforzerebbe i dubbi circa la capacità del Bel Paese di sostenere il proprio debito pubblico e potrebbe invece provocare una nuova tornata fiscale, con evidenti effetti depressivi sull’economia.

SAN PETROLIO

Al momento però le attese di risveglio dell’inflazione non hanno turbato più di tanto la bolletta petrolifera (e quella del gas, ad essa strettamente collegata) che il nostro Paese paga per non esserne produttore, a causa di almeno due fattori :
– Innanzitutto esiste una grande riserva di pozzi di petrolio con elevato potenziale che oggi non sono sfruttati per evitare di farne affluire troppo sul mercato. Ma qualora il suo prezzo si risvegliasse, quell’ulteriore capacità produttiva avrebbe immediatamente l’effetto di calmierarlo di nuovo.
– In secondo luogo oramai i costi di produzione delle energie derivanti da fonti rinnovabili sono scesi a tal punto da poter competere con quelli del greggio anche senza gli incentivi fiscali. Il settore può inoltre vantare un numero di nuovi impianti di produzione in costante espansione.
– In terzo luogo l’incremento dei tassi di interesse e quello del dollaro, la valuta in cui è negoziato il petrolio, hanno un effetto calmieratore sui suoi prezzi.

Per quanto sopra si può ragionevolmente prevedere che il Petrolio potrà restare a lungo nel “tunnel” di 45-55 dollari al barile (WTI) nel quale è entrato da più di un anno a questa parte e, sinanco nel caso in cui la crescita delle aspettative economiche potesse arrivare a rilanciarne la speculazione, difficilmente sfonderebbe a lungo la soglia dei 60 dollari.

Non c’è dunque da attendersi troppo una nuova fiammata speculativa come accadeva in passato quando c’erano segni di un risveglio della domanda di petrolio. È più probabile che il mercato sia sufficientemente maturo per assicurare uno sviluppo molto più rilassato dell’incontro prospettico tra domanda e offerta.

MORALE (NECESSARIA, DISCORRENDO DI SANTI)

L’andamento economico dell’Italia come sempre corre tanti rischi, vuoi per la debolezza strutturale del nostro sistema industriale, vuoi per l’eccessiva dipendenza dalle perturbazioni del mercato finanziario, cui è appeso l’ingente debito pubblico.

Ma questa volta la congiuntura può riservare più di una sorpresa positiva per il nostro Paese, sebbene si possa seriamente dubitare che -se dovesse arrivare- sarebbe colta al volo dai nostri arguti politici per avvantaggiarsene nella prospettiva di un riassetto complessivo.

Godiamoci perciò il presente. Dal momento che, con la schiarita in corso delle nubi che si addensavano sull’Italia, le imprese esportatrici possono sperare di rafforzarsi e le spese per investimenti potrebbero vedere un bel rimbalzo, senza un forte rischio di aggravio della bolletta energetica, che potrebbe guastarci la festa.
«Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia! Chi vuol esser lieto, sia: di doman non v’è certezza»
cantava Lorenzo de’ Medici, nella canzona di Bacco, all’alba del sedicesimo secolo.

Dio volesse che per qualche altro secolo ancora l’Italia possa allegramente continuare a farlo!

 

Stefano di Tommaso




La magia della quotazione in Borsa di Snapchat

Dopo cinque mesi di corsa furibonda di Wall Street e di tutte le altre borse del mondo verso livelli mai raggiunti prima dell’elezione di Donald Trump con le valutazioni giunte a vertici mai toccati nemmeno prima della crisi del 1929, non poteva mancare all’appello degli eventi conseguenti a tanta follia anche la magia di un IPO (Initial Public Offering – offerta di titoli in occasione della quotazione in Borsa) con i fiocchi.

Si tratta della classica “internet company” iperspeculativa, una società valutata per il suo debutto in Borsa qualcosa come quasi sessanta volte i suoi ricavi del 2016 e, come se ciò non bastasse, con l’assoluta novità di voler collocare ai sottoscrittori dell’offerta praticamente soltanto “azioni di risparmio”, dal momento che le medesime non avranno diritto di voto in assemblea dei soci.

Una bella scommessa, senza dubbio, nonostante ciò arrivi in un momento di mercato estremamente favorevole, non solo per l’entusiasmo e la liquidità che abbondano, ma anche per il fatto che di recente di Initial Public Offerings in giro non ce ne sono quasi state, e dunque che ci sia -tra gli operatori del mercato- più domanda che offerta di titoli in Borsa.


COS’È SNAPCHAT

Snapchat è una “app” che consente ai suoi utenti di postare dei videomessaggi che hanno la caratteristica di scomparire dopo un certo periodo di tempo.
Ideata per telefonini cari e molto smart (sui non-iPhone recenti e su quelli con poca potenza di calcolo non funziona bene), si rivolge a utenti benestanti e molto giovani (la fascia di età tipica è 18-35 anni) e residenti quasi solo in America del Nord e in Centro Europa (già in Italia è meno diffusa).

Snapchat è classificabile perciò come una sorta di “social network” d’élite, una “app” tanto sofisticata quanto, al momento, strettamente ludica, che al suo debutto attirava i teenagers perché permetteva loro di diffondere solo per qualche istante dei video dei quali avrebbero dovuto vergognarsi o che per qualche altro motivo era meglio non restassero in rete a lungo.
I paragoni più prossimi che sono stati fatti per “classificare” la tipologia di applicazione riguardano Instagram (che diffonde tipicamente foto e video personali), Twitter (la prima vera applicazione della storia recente di instant-messaging per telefonini, tanto diffusa tra il grande pubblico quanto poco redditizia per i suoi azionisti) e MySpace (un vero e proprio disastro finanziario).


LE VOCI DI MERCATO

Ed è proprio da questi paragoni che gli analisti finanziari hanno tratto i maggiori dubbi circa la mirabolante valutazione finale di ciascuna azione (senza voto) di Snapchat in offerta: 17 dollari l’una per un totale di 3,2 miliardi di dollari raccolti nel collocamento, che portano ad una capitalizzazione di borsa della società prima dell’ammissione al listino di Wall Street di ben 24 miliardi di dollari. Una cosa che poteva succedere quasi solo a New York!

Eppure la domanda di titoli in sottoscrizione è stata pari a circa dieci volte l’offerta. E la forchetta iniziale di 14-16 dollari è stata superata di slancio alzando l’asticella del primo prezzo di quotazione un dollaro al di sopra della massimo.

Il bello è che, se di un’esagerazione del mercato si tratta, è pur sempre una più che “lucida follia” di chi ha accettato la sfida, dal momento che un indubbio successo ha arriso nel collocamento al mercato agli abilissimi manovratori (e principali sottoscrittori a fermo) di Morgan Stanley e Goldman Sachs, con quest’ultima nel contesissimo ruolo di “agente per la stabilità del titolo” (da noi si chiamerebbe “specialist”).
Le voci tra gli addetti ai lavori riferiscono di una stragrande maggioranza di investitori istituzionali orientati al lungo periodo e di fondi comuni di investimento, tra i principali sottoscrittori, per giustificare tale successo, nonché della deriva iper-ottimista del mercato, ma qualche calcolo prima di convincersi i medesimi lo hanno pur fatto e non sono nemmeno in pochi.


LA VALUTAZIONE DI SNAPCHAT

E i calcoli dicono che il budget mondiale di spesa per la pubblicità sulla telefonia mobile è destinato a quadruplicare in quattro anni, dai poco più di 60 miliardi di dollari attuali a circa 200 nel 2020, ed è quella la più grande opportunità -per i gestori delle applicazioni più diffuse per i cellulari- di riuscire a monetizzare la popolarità e il gradimento raggiunti.
Da questo punto di vista Snapchat è interessante perché quel vi viene pubblicato sono quasi solo brevi video e con la sua tecnologia può dunque vantare un vantaggio su Instagram, più usata per le fotografie, sebbene quest’ultima appartenga alla galassia di Facebook, che con il suo miliardo e oltre di utenti farà sicuramente la parte del leone nell’aggiudicarsi la fetta più importante di quel denaro.

Sul fronte dei dubbiosi sulla valutazione finale viceversa circolano i dati più recenti di diffusione di Snapchat tra gli utenti, sempre in crescita dopo tre anni di vita ma con un ritmo che tende a ridursi, data anche la sua limitata popolarità nei paesi a maggiore crescita demografica. Riuscirà dunque a non deludere chi ci scommette sopra?
Qui i calcoli tra gli investitori divengono molto più sofisticati, perché parlano di una valutazione attesa di almeno 40-50 miliardi di dollari nel 2020, quando il mercato della pubblicità sul mobile avrà raggiunto la sua maturità (affinché valga la pena di averci scommesso oggi, con tutti i rischi ancora presenti). Obiettivo non facile da raggiungere ma possibile, ipotizzando una valutazione per quella data basata sugli attuali moltiplicatori di Instagram.


COSA CONCLUDERNE?

Un’offerta iniziale di titoli per la quotazione in Borsa come quella di Snapchat c’è già stata ed è andata anche molto meglio del previsto. Come si comporterà tuttavia il titolo dal primo giorno di quotazione in poi è difficile prevederlo.
Se la borsa mantiene il suo slancio attuale non potrebbe andare meglio. Ma la vera domanda è cosa succede dopo. E la risposta da questo punto di vista è ardua: da un lato il titolo apparterrà alla categoria di quelli più volatili in assoluto, ma dall’altro buona parte degli attuali sottoscrittori si è impegnato a tenerlo in portafoglio almeno per un anno e sono quasi tutti Investitori pazienti.
Che succeda quel che è avvenuto con Facebook è oggi relativamente improbabile…

 

Stefano di Tommaso




Nuovi modelli di business nell’abbigliamento americano

Negli USA la maggior parte dei grandi operatori della distribuzione al dettaglio dell’abbigliamento sta incontrando serie difficoltà. Diverse grandi catene -di un certo standing e ben affermate nel mercato- stanno orientandosi a ridurre il numero dei loro punti vendita, se non addirittura a chiudere completamente i battenti e a sottoporsi alla “bankruptcy reorganization”, una specie di concordato preventivo.

Numerosi i casi di crisi, dal più noto e recente: quello della catena di abbigliamento di fascia medio-alta BCBG di Max Azria, che secondo un recente articolo di Reuters

(http://www.reuters.com/article/us-bcbgmaxazria-bankruptcy-idUSKBN16401N))

è in procinto di fallimento a: The Limited, Aeropostale, American Apparel e Wet Seal che hanno incontrato destini comuni a causa del cambiamento in atto.

I NUOVI CONSUMATORI

Ciò che sta alla base della crisi è la revisione delle abitudini del consumatore moderno, che ha rimodulato la sua “scala delle priorità” e le sue preferenze.
Innanzitutto al giorno d’oggi i nuovi consumatori (i cosiddetti “millennials”) prediligono la tecnologia, la cui spesa ha un ruolo predominante rispetto ad ogni altro settore di consumo. Inoltre essi preferiscono gadgets ed “esperienze” come, ad esempio, i viaggi, ai primi posti della classifica.

Secondo gli ultimi dati disponibili al Bureau of Labor Statistics la spesa annua media dei cittadini statunitensi per l’abbigliamento è di $1.846, mentre quella per l’intrattenimento, nella sua nozione più ampia, è circa mille dollari più alta.

L’E-COMMERCE E IL CAMBIAMENTO CLIMATICO

Altra minaccia per i tradizionali negozi d’abbigliamento “brick-and-mortar” (cioè caratterizzati dall’esistenza di strutture fisiche, in cui i clienti posso recarsi di persona per vedere ed acquistare i prodotti) è l’e-commerce. I suoi numerosi vantaggi, dalla convenienza economica alla comodità, fanno sì che la quota di acquisti online effettuata dai consumatori stia incrementando velocemente.

Fare shopping online è più comodo per diversi motivi fra cui: risparmio di tempo e stress, ma soprattutto si tratta di un negozio virtuale aperto 24 /7, cioè sempre disponibile per il consumatore.
Infatti il settore dell’ “online apparel” (vendite di abbigliamento su internet) risulta decisamente in crescita come dimostra un report di eMarketer del 2015 a spese della distribuzione tradizionale.

Di seguito il collegamento alla ricerca citata:
https://www.emarketer.com/Article/Apparel-Retailers-Ecommerce-Direct-Marketers-Dominate/1012671

In aggiunta bisogna considerare la generale situazione di crisi economica derivante da quella finanziaria del 2008 che ancora oggi lascia i suoi segni sul consumatore medio.

Alcuni articoli citano anche l’influenza delle condizioni climatiche: il riscaldamento globale farebbe ridurre gli acquisti dei capi più pesanti quali cappotti, maglioni, ecc. Ma questo non può avere un’incidenza così elevata.

I RECENTI CASI DI CRISI

1) BCBG di Max Azria

Fondata nel 1989 dal disegnatore Tunisino Max Azria a Los Angeles, BCBG produce linee di abbigliamento alla moda, di qualità e a prezzi medi. Ha goduto di un’ottima crescita durante i suoi primi anni, vantando una certa visibilità grazie ad attrici statunitensi che indossavano gli abiti del Gruppo. Ha fatto anche alcune acquisizioni, fra cui quella del famoso stilista francese Hervé Léger nel 1998. Negli ultimi anni però una serie di circostanze le sono risultate fatali: innanzitutto l’impatto negativo della crisi finanziaria del -2008 sui consumi ha causato una riduzione del fatturato, poi la crescita smodata del numero dei magazzini (circa 570 in tutto il mondo, di cui 175 negli USA) e dei costi di gestione ad essi connessi, combinati con una cattiva gestione finanziaria (elevati livelli di debito) l’hanno condotta al fallimento. Nel 2013 vi erano voci di una possibile vendita del Gruppo per un valore di $1 miliardo, due anni dopo BCBG Group ha ristrutturato il suo debito e ottenuto un’iniezione di cassa di $135 milioni da investitori fra cui Guggenheim Partners, la compagnia di servizi finanziari che oggi detiene una rilevante quota del Gruppo.

2) The Limited

La società è stata fondata nel 1963 a Columbus in Ohio, produceva abbigliamento formale per donne ad una fascia di prezzo modesta. Ultimamente aveva incontrato seri problemi di decrescita delle vendite ed elevati livelli di debito. Nel 2007 a seguito di uno spin off dalla holding L Brands, era stata comprata per il 75% attraverso un’operazione di LBO dalla società di private equity Sun Capital Partners, che ne ha anche acquisito il controllo totale tre anni dopo.

Tuttavia il cambio della guardia non è bastato, nel corso del 2016 The Limited ha chiuso tutti i 250 negozi negli Stati Uniti e nel Gennaio 2017 e ha richiesto la protezione dai creditori appellandosi al cosiddetto Chapter 11 della legge fallimentare americana (simile all’ articolo 182bis della nostra).

3) Aeropostal

Il brand è nato negli anni ’80, lanciato da R.H. Macy & Co. (oggi Macy’s, catena della grande distribuzione statunitense) e produce abbigliamento casual per teenagers. Per quest’azienda la concomitanza dell’avvento dell’ Internet shopping, delle preferenze per il fast fashion e di una cattiva gestione finanziaria sono state la causa dei suoi ultimi tre anni di perdite e della conseguente richiesta di protezione secondo il Chapter 11 nel Maggio 2016.

Sembra vi siano stati anche conflitti di interesse a livello di vertici aziendali che hanno influito negativamente sulla performance aziendale. La società era stata quotata nel 2002 al NYSE e ad Aprile 2016, è stata delistata a causa del valore molto basso raggiunto dalle sue azioni.

La compagnia ha chiuso nel corso del 2016 ben 154 negozi, degli 811 da lei operati e ha comunicato che entro sei mesi sarebbe ritornata ad operare attraverso una ristrutturazione e un ridimensionamento del proprio modello di business, quale obiettivo della bankruptcy law.

LA NUOVA SFIDA DELLA DISTRIBUZIONE NELL’ ABBIGLIAMENTO: REINVENTARE IL MODELLO DI BUSINESS

Anche altre catene della grande distribuzione stanno soffrendo, annunciando tagli e chiusure di negozi. Per esempio Macy’s ha annunciato che chiuderà 100 negozi nell’anno, Sears Holding chiuderà 150 negozi mentre Amazon sta aumentando il numero degli impiegati più del 50% per velocizzare le spedizioni.

Oggi il consumatore attuale ricerca flessibilità e valore. La prima viene normalmente meglio soddisfatta con lo shopping online mentre la seconda con l’ “off-price concept” (in Italiano potremmo tradurlo con “formato convenienza”). Quest’ultimo non è un concetto nuovo. Già agli inizi della seconda metà del 1900 TJX lo aveva introdotto, si tratta di vendere prodotti di marca a prezzi scontati nella misura del 20-60% acquistati a seguito di residui di magazzino, errori di ordini di fabbricazione oppure del mancato riscontro di una linea di prodotti nei confronti dei gusti dei consumatori.

È proprio nel settore dell’abbigliamento che l’off-price riscontra grande diffusione. Come risulta in un articolo della società di ricerche di mercato “The NPD Group”, il 75% dei consumatori del settore abbigliamento è costituito da coloro che acquistano in negozi come TJMax e Ross, oramai leader incontrastati di questo mercato.
Secondo Marshal Cohen, chief industry analyst a NPD, l’off-price è secondo solo all’e-commerce in termini di tassi di crescita.

Di seguito il link all’ar citato:
https://www.npd.com/wps/portal/npd/us/news/press-releases/2016/two-thirds-of-all-retail-shoppers-shop-off-price-reports-npd-group/

DUE CASI DI SUCCESSO NELL’OFF-PRICE RETAIL

A) TJMaxx

La catena di negozi è parte del Gruppo TJX Companies, il quale fonda le sue radici nel 1919 quando i fratelli Max e Morris Feldberg fondarono la New England Trading Company a Boston, che diventò trent’anni dopo Zayre, una catena di discount. A seguito di una serie di acquisizioni e la realizzazione di piani di internalizzazione,

TJX Companies oggi è leader nel settore dell’off-price retailing apparel e home. Il Gruppo vanta 1.156 negozi a insegna TJMaxx e 1.007 Marshalls negli USA e una presenza internazionale con negozi in Canada, Australia, Regno Unito, Irlanda, Paesi Bassi, Germania, Austria e Polonia grazie alle società TJX Canada e TJX International, pioniere nell’off-price retailing all’estero.

TJMaxx insieme a Marshalls rappresentano il business segment “Marmaxx” del Gruppo, il quale nel 2016 ha registrato un fatturato di venti miliardi di dollari, con una crescita del 7% rispetto al 2015.
La mission aziendale parla chiaro: “delivering value” in cambio del denaro speso bene.

B) Ross “dress for less”

Fondata nel 1950 a Dublin in California da Morris Ross, oggi è leader nel settore off-price retail per l’abbigliamento e vanta ben 1.342 negozi negli USA. Ross Inc. ha inoltre lanciato nel 2004 dd’s DISCOUNTS che ha fasce di prezzo ancor più modiche rispetto a Ross.

Nel 2015, ha raggiunto i dodici miliardi di dollari di fatturato, con una crescita del 4%. Nei primi nove mesi del 2016, le vendite sono cresciute dell’8% a quasi dieci miliardi di dollari nell’infraperiodo. In termini prospettici, la società pianifica di espandersi ulteriormente nel territorio statunitense raggiungendo i 2.500 punti di vendita e circa venti miliardi di dollari.

LE CHIAVI DEL SUCCESSO

Per entrambe, la chiave del successo è un nuovo e diverso modello di business, imperniato sulla diffusione capillare, sulla presenza anche online, sulla flessibilità e sulla convenienza. Esso si esplica in: cogliere le opportunità d’acquisto (gli “affari”), gestire efficientemente le scorte, offrire formule di prezzo convenienti e razionalizzare i propri costi operativi.

Tutte cose che vengono ovviamente molto meglio quando le dimensioni aziendali non sono piccole.

E probabilmente è ciò che molti operatori dovranno fare presto anche in Europa!

 

Vittoria Roà