La lezione dell’oracolo della finanza

È divenuta oramai per me un’abitudine propiziatoria commentare il famoso “oracolo di Omaha”, l’ottantaseienne e sempre arzillo Warren Buffett , alla data di pubblicazione della sua lettera agli azionisti della sua Holding: la Berkshire Hathaway.

I suoi risultati eccezionali in qualità di investitore non solo sono sotto gli occhi di tutti, ma non hanno praticamente mai smesso di migliorare nonostante l’età avanzi e la sua formula magica per fare soldi sia rimasta sempre la stessa: selezionare prudentemente e con cura poche aziende con business tradizionali e uomini di grande qualità, rimanendone a lungo soci nel tempo.

Ecco una panoramica dei suoi maggiori investimenti:

 

Difficile aggiungere qualcosa alla realtà dei suoi numeri: i denari mediamente investiti (tutto compreso) per acquisire le imprese elencate qui sopra erano quotati all’incirca il doppio a fine 2016 (oggi la borsa americana è in media cresciuta ancora un po’). Da notare che gli “altri” investimenti non espressamente citati e, presumibilmente, di minore entità singola, sono invece cresciuti un po’ meno in valore: “solamente” del 70%!

Warren Buffett ha (tra pochissimi al mondo) battuto la performance dell’indice Stand&Poor 500 in quasi tutti i suoi anni di attività dal 1964 ad oggi, superandolo in media del 13% e totalizzando un risultato medio annuo (in oltre cinquant’anni) del 21% annuo.
Per raggiungere tale record i suoi investimenti hanno prodotto un risultato positivo anno su anno in tutti gli anni di attività (salvo che nel 2001 e nel 2008) riuscendo a moltiplicare per 1.972.595 (quasi due milioni di volte) ogni dollaro investito nel 1964, sino ad arrivare ad un valore complessivo degli investimenti detenuti di circa 122 miliardi di dollari!

L’oramai arcinoto ottimismo di Warren Buffett sulla formula americana del successo negli affari (ingenuo entusiasmo, sistema di mercato capitalistico, costante immigrazione e vero stato di diritto) ha raggiunto nuove vette, ricordando che i cittadini degli Stati Uniti d’America in quasi 250 anni di democrazia (dal 1776) hanno ammassato la straordinaria ricchezza di 90mila miliardi di dollari, possiedono 260 milioni di autovetture e ricevono in media istruzione pubblica per un controvalore di 150.000 dollari a testa.

Quanto sopra lo autorizza a ritenere che mediamente le imprese americane continueranno anche nei prossimi anni a consegnare ai loro azionisti risultati meravigliosi, e quindi il valore delle loro azioni quotate in Borsa non scenderà. Parole forti, se pronunciate da uno degli uomini più prudenti del mondo!

Ma la sua vera lezione di maestro dell’investimento nelle aziende è contenuta in una frasetta inserita poco oltre quelle affermazioni. “Non dimenticate mai due cose: la prima, di essere generalmente timorosi nel valutare e negoziare i vostri investimenti, e la seconda, di non temere invece di mantenerli a lungo nel tempo, evitando spese elevate o non strettamente necessarie e limitando il ricorso al debito”.

Tutto qui? Si davvero. La semplicità delle proprie idee è stata probabilmente la vera chiave di volta del successo di quest’uomo straordinario!

 

Stefano di Tommaso




La difficoltà del dialogo post-guerra fredda

Sono in molti a chiedersi quali conseguenze avrà nel mondo l’evoluzione del dialogo tra i due Paesi dopo l’elezione di uno dei Presidenti più desiderati dagli storici avversari dell’America di Obama e più avversati nella lotta politica interna.

Donald Trump potrebbe rappresentare una discontinuità nei rapporti tra le due superpotenze militari ma costituisce anche un’incognita nel suo modo di guardare al resto del mondo se si ripensa a slogan come “Prima l’America” e alle fortissime resistenze da parte dell’establishment che sta incontrando nel lasciargli prendere in mano le leve di comando della nazione.

Certo i recenti e reiterati attacchi che numerosi “media” di tutto il mondo occidentale hanno portato contro il Presidente Trump a proposito della sua reciproca simpatia con la Russia di Putin costituiscono indubbiamente un macigno che va a ostacolare non poco la positiva evoluzione dei rapporti tra gli Stati Uniti America e la Federazione Russa.

Ed è basandosi su questo presupposto che dobbiamo analizzare la possibilità che un giorno il dialogo arrivi a venire recuperato tra le due superpotenze militari del mondo, nell’interesse superiore dell’umanità intera, della pace globale e della possibilità che un’effettiva collaborazione possa giocare un ruolo di dissuasione nei confronti di tutti gli altri paesi che volessero contribuire ad accendere nuove guerre o a rinfocolare conflitti locali.

CHI SI OPPONE AL DIALOGO

Molte iniziative sono in cantiere per provare a dimostrare il coinvolgimento dell’intelligence russa nella campagna elettorale a favore di Trump, così come molti sospetti sono stati levati in direzione di possibili interessi privati di Trump riguardo al flusso di commercio internazionale che potrebbe riaprirsi con la Federazione Russa al cadere delle attuali sanzioni.

Chi poteva nutrire un interesse pratico a ostacolare tale dialogo, nell’alimentare quei sospetti di tradimento nazionale da parte di Donald Trump ha fatto una mossa degna di un grande maestro di scacchi. Il Presidente aveva giocato le sue carte elettorali proprio in direzione di un nuovo orgoglio nazionale ed è perciò per lui insostenibile la prospettiva di essere accusato di tradire la bandiera perché metterebbe a rischio la sua credibilità. Egli farà dunque tutto quanto nelle sue facoltà per non essere smentito proprio sulle note del patriottismo.
Per lo stesso motivo non può nemmeno immaginare di prendere l’air force one e recarsi in visita diplomatica a Mosca da un giorno all’altro senza scatenare nuovi dubbi sul supporto ricevuto alle elezioni piuttosto che sui suoi presunti interessi personali.
Sino ad oggi non lo ha fatto e nemmeno ne ha annunciato la volontà.

Letta in filigrana l’operazione di discredito mediatico di Trump rivela molto dei suoi ignoti registi: a chi può convenire promuovere il partito della guerra e la mancanza di coordinamento delle grandi superpotenze nei confronti dell’intero terzo mondo?
Sebbene non sia difficile rispondere, resta arduo immaginare l’immensità di risorse in gioco per riuscire a lanciare una campagna mediatica così in grande stile !

Anche questo aspetto può aiutare a identificarne le menti. Non certo una mera setta politica o soltanto un circolo di illuminati degno delle pagine di Dan Brown, bensì un importante gruppo di pressione con forti interessi nell’industria militare, dell’energia e delle materie prime, che ha interesse a veder aumentare il budget di spesa militare ma al tempo stesso vorrebbe veder crescere le tensioni e i conflitti locali lasciando Washington al centro del mondo mentre la figura del presidente americano viene piano piano sminuzzata e appannata dalle bordate di stampa, opinionisti e avversari politici.

LA MINACCIA DEI CONFLITTI LOCALI

Viceversa una riapertura del dialogo est-ovest potrebbe aiutare molto il contenimento dei conflitti locali, sopratquelli legati al petrolio e al medio oriente, ristabilendo un ordine globale e il predominio della politica e della diplomazia sul mercantilismo.

Esistono però oggettivi vincoli riguardo all’allineamento degli interessi russo-americani, a partire dalla necessità di non ferire l’orgoglio e la retorica politica delle schiere di stati satelliti che ciascuna delle due superpotenze ha tenuto a supportare per decenni al proprio fianco. Ogni mossa verso il disgelo dovrebbe risultare in una attenta miscela di distinguo affinché non venga a mutare la reciproca sfera di influenza.

Sul fronte opposto però a entrambe le superpotenze potrebbe far comodo vedere risalire il prezzo del petrolio (e del gas) di cui sono grandi produttori, veder limitare il terrorismo internazionale di cui sono entrambi possibili vittime, di veder arginare la marea crescente di espansionismo commerciale e militare cinese che può strappare loro una fetta sempre maggiore di influenza politica in Asia e Africa.

La Cina emerge infatti dal primo scorcio di secolo come la più grande potenza economica asiatica, da sempre in contrapposizione al Giappone che ha sviluppato invidiabili ricchezze e raffinate tecnologie ma che appare come un microbo al confronto geopolitico ed è sempre stato su posizioni opposte praticamente in qualsiasi direzione.
Quello di Cina e Giappone è solo un esempio delle miriadi di micro conflittualità che potrebbero risvegliarsi dall’affievolimento dell’ordine attuale e che viceversa rimarrebbero asfittici qualora le due grandi superpotenze giungessero a collaborare.

Negli anni della guerra fredda quasi nessun conflitto locale si era sviluppato evolvendo a vera e propria guerra. a causa della forte tensione bipolare USA-Russia che aveva costretto tutti gli altri paesi ad allinearsi all’una o all’altro polo. Con il disgelo abbiamo assistito a numerosi focolai di guerra che hanno travalicato i limiti locali.
Una nuova stagione di cooperazione potrebbe rendere più credibile il ruolo di poliziotto globale che oggi solo gli Stati Uniti d’America si sono arrogati.

I veri oppositori a tale dialogo sono però al loro stesso interno, dal momento che al loro governo non vi sono monolitiche dittature bensì un coacervo di interessi e di orientamenti che, almeno nel caso degli USA, non forniscono a chi è al vertice un potere assoluto, anzi.
Diversa è la situazione di Mosca, dove Putin non ha quasi oppositori, ma dove in cambio non esiste nemmeno lo stesso fermento economico, tecnologico e commerciale che esiste in America o anche in Cina.

IL PANORAMA GEO-POLITICO
Nella Federazione Russa molte delle funzioni primarie della società civile sono assolte da organismi e aziende di stato e il controllo di quasi tutto è di natura schiettamente politica, cosa che impedisce una sana concorrenza.
Nell’Unione Europea le divisioni prevalgono sulla coesione politica ma l’economia corre ed è il bacino nel quale si è sviluppato il mondo che oggi prevale. Essa è pertanto oggetto di possibile contrapposizione di interessi tra le superpotenze che potrebbero aggiudicarsene i brandelli.
Nella Repubblica Popolare Cinese la situazione è soltanto relativamente simile, perché essa ha sviluppato un germe di capitalismo e si è aperta di più agli investimenti stranieri e l’economia cresce di conseguenza ad un ritmo ben superiore.
Negli Stati Uniti d’America esistono invece moltissimi gruppi economici e moltissime scuole di pensiero (solo in parte localizzate nelle università e nei centri di ricerca) e, nonostante l’economia americana non cresca in termini nominali quanto quella cinese, essa è il crogiolo di nuove idee, iniziative e cultura. Questo porta a talune forti contrapposizioni politiche e a far temere che la democrazia al suo interno potrebbe non superare di molti gli attuali due secoli di permanenza. Ciò nonostante l’America ha sempre supportato i suoi interessi economici con un notevole predominio militare e tecnologico.

NON CI SONO ALTERNATIVE

Eppure, nonostante una loro leadership in quasi tutti i campi dello scibile che negli ultimi anni si è soltanto rafforzata, gli USA non possono pensare di guardare solo a sé stessi bensì devono poter contare su un equilibrio globale la cui mancanza eroderebbe alle fondamenta i suoi successi. Né possono immaginare di restare a lungo gli unici poliziotti dell’ordine mondiale, senza tenere conto della demografia (a loro sfavore) e del fatto che le nascenti superpotenze potrebbero coalizzarsi a discapito della supremazia americana.

Ecco dunque che il più simile a lei degli avversari (la Russia) può giocare un ruolo molto importante nel definire il futuro dell’America, così come può cercare negli altri un partner importante, contribuendo a ridefinire l’equilibrio globale.
Stefano di Tommaso




Quando lo Stato offre un’opportunità da cogliere

“L’attenzione ai nuovi dispositivi fiscali in Italia è sempre stata elevata, soprattutto nel campo delle politiche di incentivazione e stimolo”. È una frase che io stesso scrissi un anno fa, per introdurre un libro in pubblicazione sulla Patent Box e devo tuttavia constatare che non é sempre vera, o almeno non completamente.

Dalle fasi di preparazione del testo, fino alla sua uscita, ho frequentemente avuto modo di illustrare a vari interlocutori come la normativa in questione, emanata con la Legge di Stabilità 2015, fosse una eccellente opportunità per le aziende ed una delle buone cose del governo di allora. Forse imperfetta in alcuni aspetti, come specificato nel libro, ma complessivamente una buona idea per evidenziare il valore “già creato” ma non visibile, in quanto intangibile.

Ad oggi credo sia ancora un’opportunità largamente sottovalutata e sottoutilizzata. E se non fosse per il “caso Ferragamo”, che l’ha portata di recente all’attenzione dei media ma soprattutto degli analisti finanziari (i quali finalmente attraverso quel caso specifico hanno compreso la positività dell’impatto della norma), la sua notorietà sarebbe ancora blanda.

IL FISCO MA ANCHE L’EVIDENZA DEI VALORI IMMATERIALI D’IMPRESA

Avendo avuto per le mani alcuni dossier, ho potuto riscontrare che la maggior parte degli ambiti di applicazione sino ad oggi si sono focalizzati prevalentemente su quanto già noto: cioè nella razionalizzazione dei marchi e dei brevetti già in qualche modo previsti a bilancio, e assai raramente nel portare alla luce anche la parte effettivamente “invisibile” dei processi innovativi, a volte assai più consistente.

Questo porta a una duplice conseguenza:

· la prima é che si sottoutilizza la norma “accontentandosi” del beneficio fiscale, parziale ma facilmente e rapidamente misurabile, con costi che dovrebbero essere contenuti (non sempre invero);

· la seconda è che si lascia esposta alla vulnerabilità della imitazione, contaminazione, riproduzione, una propria capacità innovativa, con conseguenze forse non immediate, ma che se emergessero, comporterebbero oneri ben maggiori di recupero: la capacità e il modello di generazione dell’innovazione, il consolidamento del know-how dell’azienda.

In questi termini ho presentato il tema anche recentemente ad un convegno AIPPI, ovvero l’associazione degli esperti nella protezione dei diritti di proprietà intellettuale, cercando di sensibilizzare l’attenzione sulla componente invisibile.
Credo che a questo punto sia doveroso un inciso che chiarisca i termini di quello che uso definire “parte invisibile” anche perché connesso alla comprensione della portata reale della normativa.

La legge ha infatti una portata ben più ampia dei meri benefici fiscali su marchi e brevetti: essa comprende l’intero processo innovativo, come recita la norma stessa, dal “tratteggio” dell’idea su un foglio, all’intero percorso che quel tratteggio genera fino al risultato finale, il prodotto /servizio innovativo che arriva all’utente finale.

LE OPZIONI POSSIBILI: IL RUOLO DELL’ “IP COMPANY”

Fa parte di tale percorso l’intera gestione della generazione del know-how, nonché, per la prima volta, gli investimenti in comunicazione e commerciali necessari (le spese di marketing) per raggiungere l’utenza finale, che diventano parte integrante del risultato.

Si comprende immediatamente il contenuto innovativo, la dimensione che può raggiungere l’insieme valorizzato, ma anche la complessità dell’analisi e della strutturazione del processo necessaria, che poi costituirà componente essenziale del ruling da presentare all’Agenzia delle Entrate.

Anche qui compare un ulteriore risvolto innovativo: l’opzione espressamente prevista e legittimata dell’ ”IP company” come soluzione alternativa al ruling. Fino alla legge in questione, le IP company sono spesso state affrontate come veicoli di dubbio profilo, e altrettanto spesso come strumenti elusivi.
Con questa legge, diventano invece, opportunamente configurate, strumenti legittimi e anzi, quasi preferenziali. L’IP company riduce i tempi, supera il problema del ruling, rappresenta un “valore” facilmente isolabile e valorizzabile.

Dai vari professionisti con cui mi sono confrontato, la fase di condivisione con l’Agenzia delle Entrate di un processo strutturato di emersione di attivi immateriali mi é apparsa come uno dei fattori di maggiore resistenza. Nella realtà dei fatti, almeno dialogando con le aziende che sono “andate oltre” e hanno percorso le opzioni più ampie concesse dalla legge, il problema maggiore é consistito nei tempi lunghi più che nella accettabilità del processo nell’ambito del “ruling”.

La legge comunque consente di avvalersi del progetto di Patent Box dal momento della presentazione e non dal momento della accettazione: se é vero che molte volte può valere la pena attendere, é anche vero che in molti casi il trade-off tra anticipazione e rischio di eventuale rettifica di quanto impostato é a vantaggio della prima.

LA VALUTAZIONE DEGLI “ASSET” IMMATERIALI E I SOGGETTI COINVOLTI

Due elementi di estremo interesse da tratteggiare brevemente riguardano da un lato il tema dei metodi di valutazione, dall’altro i protagonisti necessari per trarre il massimo beneficio dalla norma.

In termini di “metodi” la legge, pur esponendoli con una logica che può dare luogo a fraintendimenti, permette un ampio utilizzo dei più diffusi metodi di valutazione, specifici (per gli asset immateriali) e generali di business valuation.
Di fatto tutti i metodi previsti dall’OCSE nell’ambito del regime del “transfer price” sono applicabili. Si tratta quindi di scegliere i più idonei allo specifico processo di innovazione. Molti si ancorano al “profit split” per via di una certa semplicità di applicazione e per una più diffusa comprensione: in realtà si può attingere ad un menù di almeno sei-sette metodologie valide e accettate, da filtrare caso per caso.

Nella realtà è rara la situazione in cui si potrà applicare un solo metodo: un processo complesso non può trovare sufficiente sintesi in una sola metodologia senza rinunciare a qualcosa, o senza ritrovarsi con troppe forzature, adattamenti, arrotondamenti. Una attenta combinazione dei metodi più consoni alla specifica situazione e correttamente illustrata non credo possa trovare ostacoli in sede di “ruling”.

Venendo ai protagonisti, l’uso del plurale non é casuale: impostare quanto descritto non può fare riferimento ad una singola sfera di competenze ma deve trovare realizzazione attraverso la collaborazione tra esperti di fiscalità, di normativa, di processo-prodotto e di valutazione degli asset, attraverso una iterazione fase per fase al fine di definire l’esatto perimetro degli elementi da valorizzare.
Il lungo confronto con fiscalisti e giuristi nel corso della stesura del mio libro mi ha convinto che per raggiungere un risultato affidabile, stabile, e valorizzabile, la copertura di tutti tali aspetti sia un requisito fondamentale. Se poi ci si affida a team affiatati, seppur appartenenti a tre distinte categorie professionali, il risultato ne risulterà enfatizzato.
Può apparire eccessivamente complesso e articolato, nonché costoso, il doversi appoggiare ad un contributo congiunto, ma ovviamente lo sforzo va calibrato in funzione dei valori ragionevolmente conseguibili.

I BENEFICI DEL PATENT BOX

Lo Stato per una volta ha messo a disposizione delle aziende una normativa che costituisce una concreta opportunità, la cui applicazione può apparire complessa ma che vale la pena di esplorare per i benefici che può produrre in termini patrimoniali (maggiori asset, maggiore valore), finanziari (maggiori asset, maggiore forza finanziaria, migliori rating, e benefici fiscali diretti) e operativi (maggiore ordine e gestibilità del processo innovativo e di difesa del know-how) che può produrre.

Chi si sente dire che “non conviene”, ne chieda sempre il perche’. Sara’ sorpreso nell’ascoltare per tutta risposta spesso motivazioni frettolose e generiche, che  certamente non si riferiscono alla sua specifica situazione.

Luca Pieroni
Founding Partner DGPA Group




L’economicità delle Onlus

Introduzione

Un problema su cui oggi stanno riflettendo politici ed operatori del settore è quello dell’economicità delle organizzazioni senza scopo di lucro, e di conseguenza la loro autonomia da fonti esterne.
Le imprese di produzione trovano, generalmente, la loro condizione di esistenza nel soddisfacimento del principio di economicità; questo significa che l’azienda deve, innanzitutto, essere gestita in modo da potere autonomamente permanere sul mercato.

Il principio dell’autonomia, per cui l’azienda deve creare al suo interno le risorse che le permettono di perdurare, implica, non una sorta di impensabile “autarchia finanziaria” tale per cui l’impresa debba coprire con il proprio capitale tutto il suo fabbisogno finanziario, ma quantomeno un’attitudine della stessa a coprire, nel tempo, i propri costi con i propri ricavi. Il fine dell’impresa è, infatti, certo legato alla funzione d’uso dei suoi prodotti, ma tanto in quanto essa è in grado di creare ricchezza che possa remunerare i fattori produttivi apportati dagli stakeholders. Per l’effetto della creazione di questa ricchezza, l’impresa assume una funzione sociale che va ben al di là dell’interesse dei singoli e soddisfa invece l’interesse dell’intera collettività.

É invece interessante, capire se possano esistere delle aziende che possono perseguire i propri obiettivi senza soddisfare la condizione di autonomia per cui i costi sono coperti attraverso i ricavi che derivano dallo svolgimento dell’attività aziendale. Lo scopo di questo articolo è di riflettere, anche attraverso delle interviste a coloro che operano nel mondo del “no profit”, sulla funzione sociale che queste organizzazioni hanno per la collettività, a prescindere dalla creazione di ricchezza e, anzi, a costo di consumare risorse della comunità nello svolgimento della propria attività.


L’inquadramento giuridico e dottrinale

Le più importanti leggi nazionali, in materia di regolamento delle organizzazioni “no profit”, sono: la legge 381/1991 e il DLG. 460/97. Esse regolano rispettivamente le “cooperative sociali” e le “organizzazioni non lucrative aventi utilità sociale” in genere[1]. La legge 381/1991 aveva introdotto nel nostro ordinamento, e regolato, la figura della cooperativa sociale e conseguentemente la cosiddetta “mutualità esterna” per cui l’attività, mutualistica non è rivolta solo alla propria base sociale, ma anche a soggetti terzi.

L’art.45 della costituzione, che prevede la tutela e i controlli delle società cooperative, limitava il suo ambito di applicazione e di intervento alla mutualità definita dalla relazione accompagnatoria del codice civile del guardasigilli Grandi, ossia: “la creazione di occasioni di lavoro e di servizi a condizioni migliori rispetto a quelle di mercato”. Si tratta di una forma di mutualità esclusivamente “interna” riferita cioè all’aiuto che i soci si danno, reciprocamente, in modo solidale, e quindi appunto mutualistico. Il D.Lgs. 460/1997 introduce nel nostro ordinamento la figura delle Onlus[2], estendendo, per lo meno nella lettera della legge, il concetto di utilità sociale a tutti quegli istituti che, anche senza adottare la forma della cooperativa, operano a favore delle persone svantaggiate.

In questo modo, si va nella direzione di una forma di privatizzazione del settore dell’assistenza: si cerca cioè di fare entrare il privato in un settore che tradizionalmente era gestito dal “pubblico” a fronte di alti costi per la collettività. La condivisibile convinzione che è alla base di un passaggio normativo di questo tipo è quella che il privato sia in grado di operare in modo più efficace ed efficiente anche nel settore dell’assistenza.

Nasce in questo modo una figura nuova di azienda. Tradizionalmente[3], l’economia aziendale ha studiato le tipologie di azienda e le loro condizioni di economicità con riferimento a:

1. “aziende di produzione per il mercato: è l’impresa; essa soddisfa indirettamente i bisogni e i desideri del proprio soggetto di istituto attraverso la remunerazione di quanto questi ha apportato nell’azienda; ”

2. “aziende di produzione non per il mercato: sono le aziende che soddisfano direttamente i bisogni del soggetto di istituto attraverso la propria produzione”: in questa categoria rientrano prima di tutto, per quanto attiene il fine istituzionale, le cooperative caratterizzate dalla mutualità interna;

3. “aziende di consumo del tipo famiglia (o assimilabile) con attività di produzione di servizi interni familiari e impiego dei redditi sia di lavoro sia derivanti dall’amministrazione di risparmi.”

4. “aziende di consumo del tipo famiglia con attività di produzione di nuova ricchezza mediante l’impiego di capitale e lavoro, senza scambio sul mercato e caratterizzate dal consumo diretto dei risultati della produzione;” in realtà è difficile pensare, nell’economia moderna, a delle forme di produzione e consumo autarchiche di questo tipo, ciononostante seguendo l’impostazione della dottrina economico – aziendale ho deciso di riportare anche questo caso possibile;

5. “aziende di consumo del tipo famiglia con attività di produzione di nuova ricchezza mediante l’impiego di capitale e lavoro, caratterizzate dallo scambio totale o parziale sul mercato per i risultati della produzione”;

6. “aziende di consumo pertinenti a enti pubblici territoriali o non con l’attività di produzione di servizi pubblici sociali indivisibili (difesa, giustizia ecc.) ”;

7. “aziende di consumo pertinenti a enti pubblici territoriali o non, con attività di produzione di beni e servizi svolta in via diretta in economia”;

8. “aziende pubbliche di produzione di beni e servizi svolte mediante enti giuridici autonomi di diritto pubblico o privato attraverso l’incasso di prezzi e l’eventuale ripianamento del risultato economico di gestione mediante quote di entrate pubbliche.”


Organizzazioni Non Lucrative d’Utilità Sociale

Si pongono in una posizioneparticolare; non sono inquadrabili in nessuna delle tradizionali classi sopra individuate: sono sicuramente delle aziende a capitale privato, di diritto privato, la cui produzione di beni non è però diretta al naturale soggetto economico, bensì a terzi. Se la Onlus è gestita secondo i principi ispiratori della legge 460/1997, il soggetto d’istituto è una parte della collettività che si trova in condizioni di svantaggio e che, almeno in via di prima approssimazione, poco o nulla ha a che fare con i portatori di lavoro e di capitale; si tratta di:

a. persone svantaggiate in ragione di condizioni fisiche, psichiche, economiche, sociali o familiari;
b. componenti collettività estere, limitatamente agli aiuti umanitari.

Non ci occuperemo di questo secondo tipo di Onlus, la cui attività è rivolta alle comunità estere perché il discorso ci porterebbe inutilmente lontano.

Se, come detto, le aziende di produzione trovano la loro condizione di esistenza nel soddisfacimento del principio di economicità; l’azienda deve essere gestita in modo da potere autonomamente permanere sul mercato. Occorre chiedersi se si possa pretendere la stessa cosa da un’organizzazione non lucrativa avente utilità sociale oppure se, proprio in ragione di tale utilità sociale e delle peculiarità di questo tipo di azienda, si possa ritenere che il principio dell’autonomia perda la sua essenzialità.


I rapporti con la pubblica amministrazione

Una Onlus che, in senso stretto, non è in grado di soddisfare il principio dell’autonomia, ma che si accolla una parte dei costi generalmente sostenuti dalla pubblica amministrazione, può essere aiutata dalla pubblica amministrazione con tre diverse tipologie di intervento nel rispetto del principio di sussidiarietà:
· ricerche, che vengono messe a disposizioni delle organizzazioni non lucrative aventi utilità sociali, o partecipazione finanziaria dello stato alle ricerche di queste organizzazioni;
· sgravi fiscali, che permettano alla cooperativa di raggiungere nel tempo condizioni di economicità;
· contributi in conto capitale e in conto esercizio.

Occorre studiare forme di sussidio che favoriscano il formarsi di queste organizzazioni; lo stato deve porsi come riferimento, nel rispetto del principio di sussidiarietà, per le organizzazioni che abbiano bisogno del suo aiuto perché gestire in proprio i servizi che queste organizzazioni forniscono ai cittadini sarebbe comunque molto più oneroso; il “pubblico” deve aiutare e naturalmente controllare lo sviluppo delle Onlus; deve stimolare lo studio sulle problematiche inerenti il volontariato deve farsi intermediario tra le università, i centri di ricerca e quelle fondazioni che investono in ricerca in proprio.In definitiva: sicuramente lo stato deve finanziare la ricerca nel campo dell’assistenza: tale ricerca, per sua caratteristica, diventa fruibile da tutti i soggetti e costituisce, pertanto, un aiuto per tutte le organizzazioni private che rendono servizi alle persone svantaggiate.

Probabilmente è giusto che lo stato favorisca il raggiungimento delle condizioni di economicità di questo tipo di organizzazioni attraverso forti sconti sulle imposte vigilando, poi attentamente che alcune Onlus non assumano carattere elusivo.
Qualche problema in più pone, invece, il fatto di finanziare direttamente le Onlus; la prima domanda che ci dobbiamo porre in tal senso è se, e in quali termini, un’organizzazione possa agire a vantaggio dell’intera collettività. Questo dovrebbe essere il fine di istituto di una azienda pubblica.

Si pensi alla statalizzazione delle ferrovie: attraverso l’acquisizione delle linee ferroviarie lo stato aveva fornito un servizio, giudicato di alto valore per la collettività, ad un prezzo inferiore rispetto a quello che poteva essere applicato da un privato. I costi aggiuntivi rispetto agli introiti venivano poi pagati con dei trasferimenti di denaro che lo stato aveva ricevuto dall’imposizione fiscale.

L’azienda pubblica ha quale peculiarità quella di essere fruibile da tutti i cittadini che abbiano un certo bisogno (nel caso delle ferrovie quello di viaggiare, nel caso degli ospedali quello di essere ricoverati), in cambio tutti i cittadini pagano una parte del loro reddito. Il prezzo pagato a tal fine come parte delle imposte è, in una certa qual misura, simile a quello pagato per un’assicurazione o per un diritto di opzione: pago il sistema sanitario, nazionale perché in questo modo potrò avere un trattamento sanitario a prezzo irrisorio, se dovessi avere una malattia (come avviene per un assicurazione); pago una certa quantità di tasse, perché questi soldi siano versati alle ferrovie affinché io possa acquistare un biglietto ad un prezzo inferiore al suo “naturale” costo di mercato, nel momento in cui ne avrò bisogno (come se fosse un diritto di opzione che io posso esercitare nel momento in cui decido di viaggiare in treno).

Meccanismi questo tipo non sono però certamente pensabili per molte Onlus. è sicuramente pensabile che un’organizzazione non lucrativa avente utilità sociale, che opera nel settore della promozione dell’arte, possa organizzare una mostra che sia fruibile da tutte le persone che abbiano interesse a visitarla. Difficilmente si potrà, però, pensare, che la singola organizzazione possa mettere in essere una rete sufficientemente vasta di servizi assistenziali da poter essere usufruita da tutti i cittadini che si trovino in una certa condizione di necessità. Questo significa che il soggetto di istituto della Onlus difficilmente sarà l’intera collettività o, comunque, quella parte della collettività che ha bisogno del servizio: esso sarà, in genere solo una parte della comunità che, per varie ragioni, ha modo di usufruire della azione di detta organizzazione.

Dal punto di vista del singolo cittadino, questo significa che egli potrà trovarsi nella situazione di avere bisogno dell’opera di una certa Onlus, per esempio l’assistenza domiciliare alla nonna anziana, di pagare, attraverso il versamento delle imposte, una parte dei trasferimenti alle Onlus e di non poter utilizzare l’opera dell’organizzazione per almeno due ordini di motivi:

· impossibilità di accesso: per esempio perché nessuna Onlus nelle vicinanze, ha capienza per accettare nuovi assistiti;
· eccessiva onerosità dell’accesso: questo è sicuramente il caso più grave. Nessuna norma agisce nel senso di costringere le organizzazioni non lucrative aventi utilità sociali a prestare i propri servizi a prezzi in qualche modo calmierati.

Per evitare, almeno nei limiti di quanto questo non sia strettamente fisiologico, questo tipo di problemi, è necessario agire sui meccanismi della regolamentazione e del controllo[4]. Quando la Onlus opera in regime di agevolazione, dovrà accettare un intervento del “pubblico” sulle proprie politiche aziendali e sulla propria organizzazione.

Consideriamo il caso delle comunità per tossicodipendenti in Lombardia: ho intervistato[5] l’assessore alle politiche sociali Maurizio Bernardo, secondo il quale la regione “ha provveduto all’approvazione dei requisiti per ottenere l’autorizzazione, a1 funzionamento e accreditamento di comunità di recupero, o di reinserimento di tossicodipendenti, già esistenti sul territorio regionale o di nuova costituzione.

Due sono i fronti sui quali la Regione Lombardia ha espresso precise richieste: da un lato la professionalità del personale e dall’altro la funzionalità delle strutture. Nel primo caso, nella determinazione dei requisiti funzionali, viene operata una distinzione tra comunità pedagogico – riabilitative e terapeutico – riabilitative. Laddove la riabilitazione va di pari passo con la rieducazione, l’organico, per quanto riguarda le strutture residenziali, deve essere costituito da almeno due operatori a tempo pieno per trentasei ore settimanali per ogni gruppo di 20 ospiti; per ogni gruppo di 25 ospiti se si tratta di strutture semi – residenziali. Uno degli operatori deve essere in possesso di diploma di educatore professionale o di assistente sociale o laurea in pedagogia, sociologia, medicina o altra laurea in materia umanistiche. Il secondo operatore deve invece essere in possesso di diploma di scuola media inferiore associato ad esperienza lavorativa nel settore. Nel caso in cui sia prevista anche l’assistenza a minori, figli di tossicodipendenti, viene richiesta la presenza di un educatore professionale o assistente sociale.

Diverso è poi il rapporto numerico tra operatori ed ospiti richiesto nelle comunità terapeutico – riabilitativo: due operatori sono impegnati nell’assistenza di un gruppo di 15 ospiti nelle comunità residenziali; 20 ospiti se si tratta di comunità semi – residenziali”. Ho voluto riportare pressoché per intero la dichiarazione dell’assessore perché pone in evidenza la tendenza della pubblica amministrazione a favorire lo sviluppo delle organizzazioni non lucrative aventi utilità sociale, ponendo però precisi paletti ed indicando chiaramente come esse debbano essere organizzate. La gestione passa all’imprenditore privato, che deve amministrare il servizio in modo efficiente ed efficace seguendo però delle linee guida generali stabilite dagli amministratori pubblici eletti dai cittadini.

Il concetto di economicità, in questo tipo di istituti, a mio avviso, cambia sensibilmente rispetto al concetto di economicità in un’impresa di produzione. Spesso questo tipo di istituto può essere gestito nel rispetto dell’economicità, solo considerando i contributi che esso riceve dall’amministrazione pubblica come proventi tipici.

Analogamente, gli sgravi fiscali, associati al divieto per questo tipo di imprese di distribuire gli avanzi di gestione, hanno lo scopo di diminuire i costi visto che il fine non è quello di “fare utili” e creare ricchezza, ma quello di creare “ricchezza sociale” attraverso la produzione di esternalità positive di cui la comunità gode ipso facto.

Alessandro Arrighi

 

Bibliografia

AIROLDI G. BRUNETTI G. CODA V., Economia Aziendale, Edizioni il Mulino, Bologna, 1994.
ARRIGHI A. Le cooperative sociali: agevolazioni, pubblicato su Tribuna finanziaria, organo ufficiale Confederazione Unitaria Giudici Italiani Tributari, N.3 Aprile Maggio 1999.
CAPOGROSSI GUARNA F., Onlus Organizzazioni non lucrative aventi utilità sociale, Buffetti Editore, Roma, 1998
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[1] La legge 460/97 considera le cooperative sociali Onlus di diritto.
[2] La figura delle ONLUS, a dire il vero, non è del tutto nuova nello scenario legislativo italiano; già un disegno di legge approvato dal consiglio dei ministri nella seduta del 14 dicembre 1995 recante la “Disciplina fiscale delle organizzazioni non lucrative aventi utilità sociale” ne aveva previsto le caratteristiche.
[3] Si veda la classificazione delle aziende proposta da Mario Cattaneo, Etas Libri, Milano, 1969 “Economia delle aziende di produzione pagg. 70-71.
[4] Si pensi per esempio ai controlli previsti dalla legge 460/97 per le Onlus e alle revisioni previste dal D. Lgs. Cps 1577/1947 ogni due anni per le società cooperative in genere, che diventano annuali per le cooperative sociali come previsto dalla legge 381/1991.
[5] A mezzo fax.