C’È L’INFLAZIONE DOPO I RICCIOLI D’ORO?


Le borse continuano a correre e i titoli a reddito fisso “tengono” (cioè i tassi d’interesse a lungo termine non sono saliti che marginalmente) nonostante i ripetuti allarmi relativi alla difficoltà che possa perdurare la straordinaria congiuntura favorevole delle ultime settimane. Stavolta però a lanciare l’allarme è addirittura il colosso globale dell’investment banking Goldman Sachs, che ha parlato di “tre orsi” esprimendo preoccupazioni per un potenziale shock di mercato che potrebbe sconvolgere l’attuale economia “Riccioli d‘Oro” (uno scenario economico equilibrato, non troppo caldo da causare inflazione né troppo freddo da rallentare la crescita, che favorisce le quotazioni sui mercati finanziari).

WALL STREET “COMPIACENTE
La situazione attuale, soprattutto per gli Stati Uniti d’America, appare moderatamente positiva e, di conseguenza perfetta per i mercati finanziari, anche se incombono numerosi rischi che l’idillio dei mercati si interrompa presto. Le quotazioni di Wall Street, segnalate dall’indice SP 500, attualmente ai massimi storici, mostrano per di più una sorprendente stabilità (l’indice della volatilità dei titoli azionari giace infatti ai minimi di sempre).

I TRE ORSI
Dunque gli investitori sembrano sperare in una prosecuzione della congiuntura e ignorare i numerosi rischi provenienti dall’economia reale. Tuttavia il responsabile della strategia azionaria globale di Goldman Sachs, Christian Mueller-Glissmann, ha identificato tre potenziali rischi che potrebbero sconvolgere questo equilibrio:
- uno shock di crescita, che potrebbe derivare dallaumento della disoccupazione o dalla riduzione dei salari reali;
- uno shock di tassi, nel caso (relativamente probabile) in cui la disoccupazione smetta di salire e la Federal Reserve, prendendo atto della crescita sostenuta del PIL americano, decida di non dare seguito a quegli ulteriori tagli dei tassi che il mercato si aspetta entro pochi mesi;
- una svalutazione del 10% del dollaro, che potrebbe convincere gli investitori stranieri a non investire ulteriormente sul mercato finanziario statunitense.
E GLI ALTRI CIGNI NERI
In realtà il numero di possibili “cigni neri” che potrebbero guastare la festa di Wall Street appare molto più elevato. Proviamo a elencarne qualcuno :
- taluni si aspettano possibili delusioni dal traino all’economia fornito dalle vendite di semiconduttori o dagli investimenti nei ”data center” necessari all’intelligenza artificiale (AI);
- i data center consumano una quantità crescente di energia e, nel caso questa finisse per recepire le istanze ambientaliste che Trump vorrebbe ignorare, potrebbe costare troppo per gli ancora scarsi ricavi dell’AI;
- altri temono prosegua la risalita dell’inflazione, soprattutto in caso di rialzo dei prezzi del petrolio, o del gas o delle principali materie prime, magari in caso di peggioramento della già difficile congiuntura geo-politica globale;
- non è da escludersi poi che i cosiddetti “bond vigilantes”(grandi investitori nel mercato obbligazionario che intervengono sui mercati vendendo il debito pubblico degli Stati considerati poco responsabili in materia di politiche fiscali) decidano che la misura è colma per la montagna di debiti che tutte le principali nazioni occidentali continuano tranquillamente ad incrementare.

L’INFLAZIONE PUNTA AL RIALZO
Anzi, la possibilità di un risveglio degli allarmi lanciati dai Bond Vigilantes appare anche più che una mera eventualità, come fa notare Robert Burrows, portfolio manager della M&G, a proposito della cosiddetta “inflazione nascosta”. Burrows ricorda che l’attuale tendenza al rialzo dei debiti ha soltanto tre possibili vie d’uscita: a) il default, b) la crescita, c) l’inflazione. E che l’inflazione, nella situazione attuale, sembra essere l’esito più probabile.

L’inflazione, seppur marginalmente, è già in crescita da qualche mese a questa parte, soprattutto oltre oceano, dove i consumi corrono e gli investimenti si moltiplicano.

La possibilità che l’unico modo di ridurre i debiti pubblici in Occidente sia quello della progressiva svalutazione monetaria discende dalla difficoltà che si realizzi l’una o l’altra delle due vie d’uscita alternativa (il default o un’importante crescita economica). Il default sembra non rientrare in alcun possibile scenario preso in considerazione dalle banche centrali, a causa degli enormi danni che apporterebbe all’economia reale, dunque a tale possibilità vedremmo contrapporsi tutta la loro forza.
UNA SORPRENDENTE ACCELERAZIONE DEL PIL AMERICANO
In piu -come si può vedere dal grafico riportato qui sotto- gli USA stanno mostrando una sorprendente accelerazione del Prodotto Interno Lordo (che fermerebbe la FED dal procedere a nuovi tagli dei tassi):

MA IL DEBITO PUBBLICO CONTINUA A CRESCERE
Una prolungata crescita economica globale costituirebbe lo scenario migliore per ridurre, in proporzione, lo stock dei debiti pubblici. Ma la probabilità che questa si possa realizzare in misura sufficiente a sminare i timori di sostenibilità del debito appare relativamente bassa, dal momento che le forti barriere doganali elevate dagli USA limitano la possibilità di una cooperazione globale alla crescita economica e danneggiano le esportazioni dei loro principali alleati (gli stati europei) condannandoli ad una relativa stagnazione.

Per converso occorre tenere conto della grande liquidità immessa in circolazione dalle banche centrali di tutto il mondo per sostenere il rifinanziamento dei titoli di stato in scadenza. Liquidità che genera un relativo “annacquamento” del valore intrinseco della moneta convenzionale. In passato questo fenomeno è stato efficacemente contrastato, quantomeno in termini di inflazione netta, dai benèfici effetti della globalizzazione, la quale ha reso più economiche numerose produzioni affidate ai paesi emergenti, soprattutto asiatici. Ma oggi non è più così: la crescente contrapposizione tra i due blocchi di nazioni (i BRICS e i Paesi OCSE) nonché il protezionismo crescente, provocano il progressivo rimpatrio di numerose attività industriali, e i costi di produzione salgono.
IL PREZZO DELL’ORO CERTIFICA LA SVALUTAZIONE MONETARIA
A testimoniare la concretezza di tale problematica (il rischio latente di accelerazione dell’inflazione) c’è un indicatore che nel lungo termine l’ha sempre rilevata con inequivocabile precisione: il prezzo dell’oro, bene rifugio per eccellenza. Non soltanto questo negli ultimi mesi è letteralmente schizzato alle stelle, ma sembra anche voler proseguire indefinitamente.

IL RISCHIO “BOLLA SPECULATIVA” DELL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE
Se il rischio d’inflazione si materializzasse dunque si potrebbe affermare che i mercati azionari (con Wall Street in testa) siano entrati in una bolla speculativa che non potrebbe che scoppiare presto. Già allinizio di settembre, Michael Hartnett, capo della strategia d’investimento di Bank of America, aveva lanciato un allarme sulla potenziale bolla speculativa relativa ai colossi dell’intelligenza artificiale, citando la sproporzione dei parametri di valutazione aziendale rispetto ai dati storici e al resto del mercato.

LE VALUTAZIONI SI SONO SPINTE TROPPO IN ALTO
Inoltre il rapporto prezzo/valore contabile espresso in media dai titoli dell’indice SP 500 ha raggiunto livelli record, superiori a quelli registrati durante la bolla delle dot-com nel 2000. E nonostante ciò Wall Street ha iniziato il quarto trimestre ancora in crescita. Quando i prezzi d’ingresso sul mercato azionari arrivano a questi livelli, nessuna strategia d’investimento può garantire ai risparmiatori performance elevate nel tempo. Ecco perché molti gestori, pur restando investiti (almeno fino a fine anno) cercano di diversificare la liquidità eccedente acquistando immobili, criptovalute, titoli a reddito fisso, metalli preziosi e beni di lusso.

Di questo passo infatti è piuttosto probabile che l’orizzonte di programmazione dei principali investitori dei mercati finanziari non vada oltre la fine del corrente anno, quando potranno raccogliere i benefici della formidabile performance dei mercati e attribuirsi ottimi premi. Questo appare logico un po’ per la possibilità che si moltiplichino, a fine anno, le prese di beneficio delle attuali quotazioni, un po’ per il timore che la giostra dell’eterno rialzo dei corsi non possa andare avanti in eterno.

IL RISCHIO E’ CHE I TASSI RIPRENDANO A CRESCERE
In termini di quali possono essere le conseguenze di un tale scenario di termine dell’attuale ciclo positivo dell’oro e delle borse intorno a fine anno, potremmo mettere in primo piano il rischio che i tassi d’interesse a lungo termine ritornino a crescere, provocando una riduzione della liquidità in circolazione e la perdita di valore della componente più lunga dei titoli a reddito fisso.
Anche la disponibilità di credito per le piccole e medie imprese ne risentirebbe negativamente, tanto in termini di volumi quanto in termini di maggior costo, dal momento che il rischio che si riducano i margini industriali, contestualmente all’inflazione dei prezzi, appare pronunciato.
Stefano di Tommaso

















Altro ovvio motivo per il quale le borse potrebbero far partire una correzione degli attuali picchi massimi riguarda proprio la concreta possibilità che i grandi operatori inizino a ridurre la propria esposizione per prendere qualche beneficio delle plusvalenze realizzate, soprattutto in virtù del fatto che, statisticamente, quello di Settembre appare come un mese in cui le borse calano per effetti stagionali (ad esempio il pagamento delle imposte o la ripresa di ingenti spese spingono che hanno un effetto riduttivo sulla liquidità), come si può vedere dal grafico qui riportato con la media degli ultimi 65 anni a Wall Street:
Partiamo dunque dall’analisi dell’ultimo aggiornamento relativo all’inflazione dei prezzi nella nazione che ancora oggi più ha la capacità di influenzare il resto dei mercati finanziari internazionali: l’America. La crescita dell’inflazione in America è causata innanzitutto dal rialzo del Prodotto Interno Lordo (PIL) americano, che continua a viaggiare ad un ritmo superiore al 3% annuo. Questo è dovuto principalmente a due fattori: gli investimenti e i consumi.
Una seconda e forse più importante ragione per cui gli investimenti (soprattutto privati) corrono negli USA più forte che nel resto dei paesi occidentali è la grande priorità strategica che si sono dati i principali colossi industriali e e tecnologici americani di vincere la corsa allo sviluppo dell’intelligenza artificiale. Non tanto sul fronte della ricerca, per la quale gli investimenti contano soltanto fino a un certo punto, quanto piuttosto nell’applicazione dei sistemi d’intelligenza artificiale all’automazione (cioè anche alla robotica) dell’industria e di molti servizi avanzati.
Per le grandi imprese che possono permettersi tali investimenti avere successo su questo fronte significa riuscire ad incrementare la produttività del lavoro e, di conseguenza, a generare migliori margini di guadagno, soprattutto negli USA dove il lavoro costa più caro che in quasi tutto il resto del mondo. E in effetti la produttività dell’industria americana sta aumentando.
Non sappiamo in realtà quanto l‘aumento della produttività dipenda strettamente dall’adozione delle prime forme di utilizzo dell’intelligenza artificiale e quanto, invece, possa più biecamente dipendere dall’incremento di digitalizzazione dei processi che costituisce l’indispensabile premessa per utilizzare poi le tecnologie più evolute. Sicuramente l’America è molto avanti nella digitalizzazione di praticamente qualsiasi cosa e buona parte dello sviluppo di questa digitalizzazione viene registrata come “investimenti”.
Quanto all’AI tutti oramai si rendono conto del fatto che per il momento è quasi un mito e che porterà nell’immediato benefici assai limitati a coloro che ci investono sopra. Ma quel che conta è che esistano comunque piccoli margini tangibili di progresso di tali benefici, i quali possono così giustificare che la giostra continui a girare. Perché -appunto- già solo la digitalizzazione di tutti i processi (che costituisce la premessa dell’adozione dell‘AI) ha ricadute positive sulle grandi imprese e sta imponendo una tendenza nei confronti di tutto le imprese anche del resto del mondo che a sua volta genera per l’industria americana montagne di ordinativi di microchip, di software e di servizi avanzati.
Ma il PIL americano non cresce soltanto grazie agli investimenti appena citati, bensì anche per il fatto che i redditi personali continuano a crescere e, con essi, i consumi, buona parte dei quali ricadono anch’essi nella categoria digitale e nella spesa per la salute, intesa anche come cure per la persona e per limitare gli effetti del progressivo invecchiamento delle classi più agiate della società civile. E la tendenza americana all’aumento di tali consumi comporta un’effetto imitativo in buona parte del resto del mondo, soprattutto occidentale, che dunque sospinge l’inflazione anche fuori dei confini americani.
Una misura dell’espansività di fatto delle politiche monetarie è data dalla misura della crescente liquidità complessiva in circolazione, che gli economisti classificano come “M2” e “M3”. Nel grafico qui riportato la tendenza appare lampante!
Una delle manifestazioni più evidenti del “debasing” è l’inarrestabile corsa del prezzo dell’oro, degli altri metalli preziosi e, in generale, di più o meno tutti gli altri “beni-rifugio”. Il “debasing” genera infatti innanzitutto un’inflazione finanziaria, molto più veloce nella sua corsa rispetto ai rialzi del prezzo dei beni di prima necessità. L’incremento di questi ultimi appare costantemente in ritardo rispetto i beni “cospicui” (a partire dai gioielli fino agli yacht e alle case di lusso), soprattutto a causa del fatto che il prezzo dell’energia viene mantenuto artificialmente basso dai governi occidentali attraverso la manipolazione dei prezzi del petrolio e, in misura più limitata, del gas.
Ma, se il prezzo dell’energia si misura in termini di Dollaro e Euro e non in termini di once d’oro, con la svalutazione del potere d’acquisto di questi ultimi appare tuttavia inevitabile che alla fine anch’esso dovrà salire. E quando accadrà allora l’eventuale maggior costo dell’energia avrà un inevitabile quanto immediato effetto al rialzo sui costi di produzione di beni e servizi, anche essenziali.
Questa lunghissima premessa è per spiegare per quali ragioni si può ritenere -nel tempo- inevitabile che l’inflazione dei prezzi arrivi ad adeguarsi all’inflazione finanziaria e che perciò i tassi nominali di rendimento dei titoli a reddito fisso (cioè quelli a lungo termine) siano prima o poi costretti ad incorporare la tendenza al rialzo che ne deriverà (con la loro conseguente riduzione di valore), anche in presenza di ulteriori allentamenti della politica monetaria delle banche centrali, le quali agiscono prioritariamente sui tassi di sconto, cioè di breve termine.
Nel breve termine la grande liquidità in circolazione genera un indubbio effetto benefico sulla domanda (e dunque sui prezzi) dei titoli azionari, che a sua volta fa un inevitabile “effetto vetrina” di incremento del valore nominale dei medesimi e dunque dei listini delle borse valori.
Oltre il breve termine tuttavia occorre ricordare che l’eventuale risalita dei tassi d’interesse non può che comportare due importanti ricadute negative sui listini borsistici: il primo derivante dal fatto che il tasso d’interesse a lungo termine è quello al quale le valutazioni delle aziende scontano i flussi di cassa futuri (più sale e meno vale l’azienda). La seconda ricaduta negativa dipende dal fatto che un eventuale rialzo dei rendimenti dei titoli obbligazionari tende a ridurre la liquidità in circolazione, dal momento che buona parte di questi ultimi viene utilizzata sui mercati come collaterale di finanziamenti speculativi e che dunque, con la conseguente perdita di valore dei tali collaterali, si riduce il moltiplicatore del credito. E dal momento che sembra che il principale “motore” dei rialzi borsistici sembra essere proprio la grande liquidità disponibile, quando questa dovesse arrivare a ridursi verrebbe meno il principale sostegno alle attuali valutazioni delle borse.
Il ragionamento appena fatto tende a spiegare per quali motivi oggi non si è ancora arrestata la corsa al rialzo dei listini delle borse (in buona parte, tuttavia, solo apparente cioè in termini monetari nominali e non in termini di once d’oro) e per quali motivi tale corsa sia -prima o poi- inevitabilmente destinata a invertirsi, seppure il suo effetto sarà maggiore in termini di ricchezza reale e minore in termini strettamente monetari, data la svalutazione.
E soprattutto quanto esposto fornisce un’indicazione decisamente rialzista (almeno nel breve termine) relativamente ai cosiddetti “beni-rifugio”, quali oro e, parzialmente, criptovalute. L’oro poi sembra oggi acquistato soprattutto dalle “altre” banche centrali, cioè principalmente da quelle dei paesi non OCSE, cosa che fa pensare che ciò favorirà un incremento anche della domanda da parte dei privati di once d’oro e di chilogrammi di altri metalli “nobili” cioè rari, che vengono utilizzati nell’industria più tecnologica.
Occorre infine far presente che l’attuale fase di grande liquidità dei mercati, unitamente all’euforia dei mercati, può favorire lo sviluppo delle quotazioni dei titoli a più bassa capitalizzazione, il lancio di nuovi processi di IPO per le imprese che intendono quotarsi e la raccolta di finanziamenti a lungo termine ad un tasso relativamente basso (rispetto a quelli che potrebbero essere richiesti in futuro) per le imprese che vogliono emettere prestiti obbligazionari. Anzi è proprio il caso di cogliere l’occasione del momento positivo che potrebbe non ripresentarsi in seguito!