C’È L’INFLAZIONE DOPO I RICCIOLI D’ORO?

ANDAMENTO DELL’INDICE “MORGAN STANLEY” RELATIVO ALLE QUOTAZIONI DELLE BORSE IN TUTTO IL MONDO

Le borse continuano a correre e i titoli a reddito fisso “tengono” (cioè i tassi d’interesse a lungo termine non sono saliti che marginalmente) nonostante i ripetuti allarmi relativi alla difficoltà che possa perdurare la straordinaria congiuntura favorevole delle ultime settimane. Stavolta però a lanciare l’allarme è addirittura il colosso globale dell’investment banking Goldman Sachs, che ha parlato di “tre orsi” esprimendo preoccupazioni per un potenziale shock di mercato che potrebbe sconvolgere l’attuale economia “Riccioli d‘Oro” (uno scenario economico equilibrato, non troppo caldo da causare inflazione né troppo freddo da rallentare la crescita, che favorisce le quotazioni sui mercati finanziari).

PRINCIPALE INDICE DELL’’ANDAMENTO DELL’OCCUPAZIONE NEGLI USA

WALL STREET “COMPIACENTE

La situazione attuale, soprattutto per gli Stati Uniti d’America, appare moderatamente positiva e, di conseguenza perfetta per i mercati finanziari, anche se incombono numerosi rischi che l’idillio dei mercati si interrompa presto. Le quotazioni di Wall Street, segnalate dall’indice SP 500, attualmente ai massimi storici, mostrano per di più una sorprendente stabilità (l’indice della volatilità dei titoli azionari giace infatti ai minimi di sempre).

L’INDICE DELLA VOLATILITÀ DI WALL STREET

I TRE ORSI

Dunque gli investitori sembrano sperare in una prosecuzione della congiuntura e ignorare i numerosi rischi provenienti dall’economia reale. Tuttavia il responsabile della strategia azionaria globale di Goldman Sachs, Christian Mueller-Glissmann, ha identificato tre potenziali rischi che potrebbero sconvolgere questo equilibrio:

  • uno shock di crescita, che potrebbe derivare dallaumento della disoccupazione o dalla riduzione dei salari reali;
  • uno shock di tassi, nel caso (relativamente probabile) in cui la disoccupazione smetta di salire e la Federal Reserve, prendendo atto della crescita sostenuta del PIL americano, decida di non dare seguito a quegli ulteriori tagli dei tassi che il mercato si aspetta entro pochi mesi;
  • una svalutazione del 10% del dollaro, che potrebbe convincere gli investitori stranieri a non investire ulteriormente sul mercato finanziario statunitense.

E GLI ALTRI CIGNI NERI

In realtà il numero di possibili “cigni neri” che potrebbero guastare la festa di Wall Street appare molto più elevato. Proviamo a elencarne qualcuno :

  • taluni si aspettano possibili delusioni dal traino all’economia fornito dalle vendite di semiconduttori o dagli investimenti nei ”data center” necessari all’intelligenza artificiale (AI);
  • i data center consumano una quantità crescente di energia e, nel caso questa finisse per recepire le istanze ambientaliste che Trump vorrebbe ignorare, potrebbe costare troppo per gli ancora scarsi ricavi dell’AI;
  • altri temono prosegua la risalita dell’inflazione, soprattutto in caso di rialzo dei prezzi del petrolio, o del gas o delle principali materie prime, magari in caso di peggioramento della già difficile congiuntura geo-politica globale;
  • non è da escludersi poi che i cosiddetti “bond vigilantes”(grandi investitori nel mercato obbligazionario che intervengono sui mercati vendendo il debito pubblico degli Stati considerati poco responsabili in materia di politiche fiscali) decidano che la misura è colma per la montagna di debiti che tutte le principali nazioni occidentali continuano tranquillamente ad incrementare.

L’INFLAZIONE PUNTA AL RIALZO

Anzi, la possibilità di un risveglio degli allarmi lanciati dai Bond Vigilantes appare anche più che una mera eventualità, come fa notare Robert Burrows, portfolio manager della M&G, a proposito della cosiddetta “inflazione nascosta”. Burrows ricorda che l’attuale tendenza al rialzo dei debiti ha soltanto tre possibili vie d’uscita: a) il default, b) la crescita, c) l’inflazione. E che l’inflazione, nella situazione attuale, sembra essere l’esito più probabile.

DIVERSE RILEVAZIONI DELL’INFLAZIONE USA MOSTRANO UNA TENDENZA A RISALIRE

L’inflazione, seppur marginalmente, è già in crescita da qualche mese a questa parte, soprattutto oltre oceano, dove i consumi corrono e gli investimenti si moltiplicano.

La possibilità che l’unico modo di ridurre i debiti pubblici in Occidente sia quello della progressiva svalutazione monetaria discende dalla difficoltà che si realizzi l’una o l’altra delle due vie d’uscita alternativa (il default o un’importante crescita economica). Il default sembra non rientrare in alcun possibile scenario preso in considerazione dalle banche centrali, a causa degli enormi danni che apporterebbe all’economia reale, dunque a tale possibilità vedremmo contrapporsi tutta la loro forza.

UNA SORPRENDENTE ACCELERAZIONE DEL PIL AMERICANO

In piu -come si può vedere dal grafico riportato qui sotto- gli USA stanno mostrando una sorprendente accelerazione del Prodotto Interno Lordo (che fermerebbe la FED dal procedere a nuovi tagli dei tassi):

MA IL DEBITO PUBBLICO CONTINUA A CRESCERE

Una prolungata crescita economica globale costituirebbe lo scenario migliore per ridurre, in proporzione, lo stock dei debiti pubblici. Ma la probabilità che questa si possa realizzare in misura sufficiente a sminare i timori di sostenibilità del debito appare relativamente bassa, dal momento che le forti barriere doganali elevate dagli USA limitano la possibilità di una cooperazione globale alla crescita economica e danneggiano le esportazioni dei loro principali alleati (gli stati europei) condannandoli ad una relativa stagnazione.

Per converso occorre tenere conto della grande liquidità immessa in circolazione dalle banche centrali di tutto il mondo per sostenere il rifinanziamento dei titoli di stato in scadenza. Liquidità che genera un relativo “annacquamento” del valore intrinseco della moneta convenzionale. In passato questo fenomeno è stato efficacemente contrastato, quantomeno in termini di inflazione netta, dai benèfici effetti della globalizzazione, la quale ha reso più economiche numerose produzioni affidate ai paesi emergenti, soprattutto asiatici. Ma oggi non è più così: la crescente contrapposizione tra i due blocchi di nazioni (i BRICS e i Paesi OCSE) nonché il protezionismo crescente, provocano il progressivo rimpatrio di numerose attività industriali, e i costi di produzione salgono.

IL PREZZO DELL’ORO CERTIFICA LA SVALUTAZIONE MONETARIA

A testimoniare la concretezza di tale problematica (il rischio latente di accelerazione dell’inflazione) c’è un indicatore che nel lungo termine l’ha sempre rilevata con inequivocabile precisione: il prezzo dell’oro, bene rifugio per eccellenza. Non soltanto questo negli ultimi mesi è letteralmente schizzato alle stelle, ma sembra anche voler proseguire indefinitamente.

ANDAMENTO DEL PREZZO DELL’ORO IN DOLLARI

IL RISCHIO “BOLLA SPECULATIVA” DELL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE

Se il rischio d’inflazione si materializzasse dunque si potrebbe affermare che i mercati azionari (con Wall Street in testa) siano entrati in una bolla speculativa che non potrebbe che scoppiare presto. Già allinizio di settembre, Michael Hartnett, capo della strategia d’investimento di Bank of America, aveva lanciato un allarme sulla potenziale bolla speculativa relativa ai colossi dell’intelligenza artificiale, citando la sproporzione dei parametri di valutazione aziendale rispetto ai dati storici e al resto del mercato.

LE VALUTAZIONI SI SONO SPINTE TROPPO IN ALTO

Inoltre il rapporto prezzo/valore contabile espresso in media dai titoli dell’indice SP 500 ha raggiunto livelli record, superiori a quelli registrati durante la bolla delle dot-com nel 2000. E nonostante ciò Wall Street ha iniziato il quarto trimestre ancora in crescita. Quando i prezzi d’ingresso sul mercato azionari arrivano a questi livelli, nessuna strategia d’investimento può garantire ai risparmiatori performance elevate nel tempo. Ecco perché molti gestori, pur restando investiti (almeno fino a fine anno) cercano di diversificare la liquidità eccedente acquistando immobili, criptovalute, titoli a reddito fisso, metalli preziosi e beni di lusso.

LE VALUTAZIONI D’AZIENDA HANNO RAGGIUNTO LIVELLI ECCESSIVI A WALL STREET

Di questo passo infatti è piuttosto probabile che l’orizzonte di programmazione dei principali investitori dei mercati finanziari non vada oltre la fine del corrente anno, quando potranno raccogliere i benefici della formidabile performance dei mercati e attribuirsi ottimi premi. Questo appare logico un po’ per la possibilità che si moltiplichino, a fine anno, le prese di beneficio delle attuali quotazioni, un po’ per il timore che la giostra dell’eterno rialzo dei corsi non possa andare avanti in eterno.

IL RISCHIO E’ CHE I TASSI RIPRENDANO A CRESCERE

In termini di quali possono essere le conseguenze di un tale scenario di termine dell’attuale ciclo positivo dell’oro e delle borse intorno a fine anno, potremmo mettere in primo piano il rischio che i tassi d’interesse a lungo termine ritornino a crescere, provocando una riduzione della liquidità in circolazione e la perdita di valore della componente più lunga dei titoli a reddito fisso.

Anche la disponibilità di credito per le piccole e medie imprese ne risentirebbe negativamente, tanto in termini di volumi quanto in termini di maggior costo, dal momento che il rischio che si riducano i margini industriali, contestualmente all’inflazione dei prezzi, appare pronunciato.

Stefano di Tommaso




LE RAGIONI DELL’ORO

La ripida ascesa delle quotazioni dell’oro segna un solco profondo nelle finanze di ciascuno di noi, ed è soltanto la punta dell’iceberg di un mondo in forte trasformazione. Dal momento che il metallo giallo viene considerato il miglior scrigno nel quale conservare valore nel tempo, evidentemente il suo maggior costo certifica il crollo delle aspettative di conservazione del valore nelle principali divise monetarie: in primis il Dollaro americano e in rapida sequenza anche lo Yen giapponese, la Sterlina inglese e l’Euro.


E’ un indicatore della forza del cambiamento che sta travolgendo non soltanto i mercati finanziari ma anche l’intera economia reale del mondo occidentale, che fino ad oggi è stata buona parte di quella globale.

Non a caso contemporaneamente al decollo del prezzo dell’oro sono venuti a galla alcuni fattori dei quali occorrerà tenere conto nei ragionamenti:

  • l’economia americana non soltanto appare lanciata verso una crescita che rischia di rasentare il 4% annuo, ma appare addirittura in miglioramento! Ovviamente misurando il tutto in dollari, non in oro. Un vero e proprio surriscaldamento che cancella ancora una volta la periodicità delle oscillazioni dello sviluppo economico dei decenni passati e ogni precedente indicazione di “soft landing” che si è trasformato in un “no landing”;
  • anche i profitti delle aziende americane sono alle stelle e i motivi della prosecuzione dell’ “eccezionalismo americano” sono numerosi ed interessanti: a partire dalle maggiori vendite di armamenti al resto del mondo, per proseguire con lo sviluppo di avanzatissime tecnologie innovative (che contribuiscono ad accelerare la digitalizzazione dell’economia), fino alla grande disponibilità di credito e alla bassa tassazione dei redditi personali che contribuiscono a non ridurre i consumi;
  • tutto questo (insieme alla grande performance delle borse) sta comportando un afflusso netto di liquidità agli USA che, evidentemente, corregge la narrativa recente che prevede una debolezza strutturale del dollaro (dal momento che la sua domanda supera l’offerta). Ovviamente stiamo parlando del cambio del Dollaro verso Yen, Sterlina ed Euro (e probabilmente anche verso lo Yuan cinese, ma per altri motivi), non della debolezza del Dollaro nei confronti dei metalli preziosi e dei principali beni rifugio, che invece appare destinata a perdurare;
  • i debiti pubblici di quasi tutto il mondo continuano a correre, incrementando negli investitori la sensazione di dover prima o poi prendere atto della diminuita sostenibilità dei conti pubblici e di conseguenza dell’ineluttabile incremento della remunerazione in termini di tasso d’interesse richiesta dai risparmiatori per acquistarli;
  • le banche centrali continuano al tempo stesso (e non potrebbero fare diversamente) a sostenere le emissioni dei debiti pubblici, da un lato acquistando parti delle emissioni (dunque monetizzando direttamente parte del debito pubblico), dall’altro assicurando liquidità al mercato e agli intermediari finanziari che li acquistano per favorire il successo delle emissioni. In questo modo però esse favoriscono inevitabilmente la perdita del contenuto di valore delle monete, cioè la loro svalutazione, che non potrà non riflettersi nell’inflazione dei prezzi;
  • un’inflazione che dunque (almeno in America) appare destinata a crescere ancora. Non per i dazi alle importazioni (oramai correttamente vissuti come un evento isolato e non ripetibile), bensì per l’inevitabile risalita dei prezzi espressi in Dollari;
  • le banche centrali al tempo stesso hanno continuato a preferire di acquistare oro per le loro riserve, e quindi hanno contribuito alla crescita delle quotazioni di quest’ultimo.

Da notare che nel corso di quest’anno il costo dell’energia è rimasto relativamente contenuto nonostante la crescita economica, soprattutto a causa delle manovre messe in atto dalla nuova amministrazione americana (ivi compreso l’abbandono di fatto delle politiche di riduzione delle emissioni nocive) e al tempo stesso a causa dell’eccesso di offerta di petrolio, che ha superato abbondantemente la domanda.

Anche la stagnazione della produzione industriale globale ha determinato la debolezza del prezzo dell’energia. Ma per quanto tempo potremo girarci dall’altra parte rispetto alle esigenze globali di politiche ambientali, le quali comportano costi aggiuntivi per l’energia, che siano di stato o che siano addebitate a privati ? Prima o poi ne potrà conseguire che il costo dell’energia tornerà a salire, e con esso i costi delle produzioni industriali.

Di fronte a tali considerazioni appare più chiaro per quali motivi le attuali tendenze sembrano poter continuare nella medesima direzione:

  • le borse a proseguire la loro corsa, dal momento che la liquidità continua ad abbondare e i profitti anche;
  • l’oro a continuare nella sua folle corsa, dal momento che le ragioni per acquistarlo ancora superano quelle per iniziare a venderlo;
  • i tassi d’interesse a lungo termine (cioè i rendimenti richiesti dal mercato per i titoli a lunga durata espressi nelle principali valute) a crescere per soddisfare le aspettative crescenti degli investitori, i quali altrimenti preferiscono i titoli azionari o altre tipologie di beni reali quali gli immobili e i beni rifugio;
  • l’inflazione a riprendere corpo, alimentata dalla svalutazione operata dalle banche centrali, dalla crescita dei redditi nominali (soprattutto USA) e dall’inevitabile aumento dei costi dei fattori di produzione;

I prezzi dei beni reali quali anche quelli degli immobili e delle grandi infrastrutture sembrano perciò anch’essi destinati a crescere, quale riparo indiretto dalla svalutazione monetaria e ovviamente in funzione della loro relativa scarsità. Già oggi possiamo constatare un’ “inflazione finanziaria” che preme soprattutto sugli asset di maggior pregio, probabilmente destinata a crescere.

Stefano di Tommaso




B R A D I S I S M I

I mercati finanziari proseguono la folle corsa, senza accennare ad alcuna esitazione. Il fenomeno peraltro si autoalimenta perché i grandi investitori rimasti su posizioni di maggior prudenza stanno cercando di adeguare i loro portafogli, in vista della fine dell’anno, quando non vogliono farsi trovare ad aver pesantemente sotto-performato rispetto ai principali indici azionari. I titoli a reddito fisso però calano di prezzo, soprattutto quelli a lunga scadenza che, in queste occasioni, potrebbero fare il contrario. Cosa sta succedendo in sottofondo? Il denaro che affluisce alle principali borse infatti proviene soprattutto dai fondi di mercato monetario, i quali non investono sulle lunghe scadenze. Sono di nuovo all’opera i “bond vigilantes”? Oppure è il segnale del fatto che è stato raggiunto un limite estremo?

WALL STREET INANELLA NUOVI MASSIMI

Dopo l’ennesima settimana euforica per i mercati finanziari tutti si stanno chiedendo quanto le borse potranno correre ancora. C’è chi ci scommette ed è molto autorevole quando emette delle previsioni, ma c’è anche chi si spaventa, tanto dell’eccessiva indulgenza degli investitori, quanto della sostenibilità delle aspettative relative ai profitti futuri, che comportano le (elevatissime) quotazioni attuali (si veda qui sotto il grafico del principale indice di Wall Street):

LA CRESCITA DELL’INDICE STANDAR&POOR 500 SEMBRA VOLER PROSEGUIRE IMPERTERRITA 

MA MENTRE LA FED “TAGLIA” I RENDIMENTI SALGONO…

E’ però passato quasi inosservato il movimento al rialzo dei rendimenti espressi dai titoli a reddito fisso a medio e lungo termine, proprio mentre la Federal Reserve Bank of America (detta anche FED, che è per molti analisti la banca centrale delle banche centrali) abbassava i tassi a breve termine, cioè il tasso di sconto, ammettendo anche esplicitamente peraltro (lo ha fatto il governatore Powell nel suo discorso) che l’economia a stelle e strisce non sta andando proprio nel migliore dei modi. Qui sotto l’andamento dei T_Bond americani a 20 anni

DOPO UNA BELLA DISCESA IL RENDIMENTO IMPLICITO DEI TITOLI DI STATO A LUNGO TERMINE È RISALITO

Di seguito possiamo vedere alcuni grafici, relativi non soltanto agli OAT francesi (per i quali è anche appena calato il Rating), ma anche ai titoli di stato giapponesi 10 anni e ai Bund tedeschi, i quali esprimono chiaramente una recente ripresa dei rendimenti.




Una ripresa dei rendimenti recentemente espressa sinanco dal BTP nostrano, nonostante l’upgrade del merito di credito nazionale è appena stato innalzato anche da Fitch:


Cosa succede dunque sotto il manto della calma apparente? Si sta sgretolando l’ottimismo? Oppure si sta riducendo la liquidità complessiva? Apparentemente nulla di ciò se non il fatto che il debito pubblico occidentale sta salendo, complessivamente ma anche singolarmente, ad un ritmo giudicato da molti osservatori non sostenibile senza adeguate politiche di “monetizzazione”, cioè di acquisto dei titoli di stato da parte delle banche centrali, allo scopo di ridurne lo stock in circolazione. Cosa che però non potrà non generare, prima o poi, altra inflazione.

La situazione complessiva dei mercati borsistici, dicevamo, appare di estremo ottimismo. Questo tuttavia vale molto più per America e Asia, e molto meno per il vecchio continente, dove l’industria viene più penalizzata da un eccesso di regolamentazione per la decarbonizzazione (che anche fa crescere il costo complessivo dell’energia) ma anche a causa dell’economia che non cresce, dei consumi che ristagnano e della spesa pubblica che incrementa sensibilmente per via del riarmo.

IL PROGRAMMA DI DECARBONIZZAZIONE EUROPEO

La crisi di credibilità relativa alla sostenibilità del debito pubblico da parte della Francia insomma, per quanto accentuata rispetto agli altri Paesi d’Europa, rischia comunque di estendersi a macchia d‘olio nei dintorni. Almeno per ciò che riguarda le scarse prospettive di crescita economica (comuni a buona parte d’Europa). Una crescita del PIL infatti al momento potrebbe essere l’unica possibilità per ridurre il peso del debito pubblico.

IL RISCHIO DI UNA NUOVA RECESSIONE

Quanto agli Stati Uniti d’America peraltro il rischio di imboccare una (mini)recessione appare, secondo l’autorevolissimo commentatore Edward Yardeni, configurarsi sempre più nettamente. Soprattutto se si guarda cosa era successo in passato poco prima di ciascuna recessione. Il grafico da quest’ultimo pubblicato l’altro giorno parla molto chiaro in proposito


Dunque la Federal Reserve avrebbe in programma una serie di “tagli” dei tassi a breve (il mercato ne sconta altri due entro pochi mesi) anche perché la situazione complessiva dell’economia reale starebbe peggiorando.

MA NEL FRATTEMPO I TITOLI “SOTTILI” SALGONO DI PIÙ

Tale possibilità (che i tassi a breve scendano ancora) peraltro giustifica l’ottimismo degli investitori per quanto riguarda l’indice di Wall Street che riguarda la performance di borsa delle piccole e medie imprese (il Russell 2000), il quale infatti non soltanto tocca nuovi massimi ma cresce anche più degli altri:


Da notare che la prospettiva di ulteriori “tagli” della FED alimenta questa crescita, dal momento che le imprese a minor capitalizzazione americane ricorrono al credito bancario ben più delle “major”! Di seguito una tabella relativa al maggior tasso (espresso in punti base percentuali) che viene mediamente pagato rispetto alla media delle imprese appartenenti all’indice SP500 per ciascun settore economico di appartenenza. E quanto più pagano le “small cap” in termini d’interessi, tanto più potranno risparmiare con la discesa dei tassi e di conseguenza potranno migliorare i loro margini industriali.


Ma la super-risalita delle quotazioni delle imprese a minor capitalizzazione potrebbe essere osservata anche da un altro punto di vista: se gli investitori diversificano i loro acquisti travasando denaro dai grandi titoli super-tecnologici a quelli di piccola e media levatura allora probabilmente la crescita dell’indice delle quotazioni di Wall Street appare più sana (e potrebbe durare più a lungo). Quantomeno sin tanto che i tassi scendono e la liquidità in circolazione resta sui massimi…

MA LA BASSA VOLATILITÀ NON INDICA UN ECCESSO DI “COMPIACENZA” ?

Oppure questo fatto potrebbe indicare il rischio che ci sia fin troppa liquidità in giro, la quale genera un eccesso di auto-compiacenza da parte degli investitori. A favore di questa tesi viene portato ad esempio il vistoso calo della volatilità delle quotazioni azionarie, sintetizzato dall’indice VIX (quasi mai stato così basso in assoluto):


Eppure la narrativa di un eccesso di ottimismo non quadra con la risalita dei rendimenti dei titoli di stato di tutto l’Occidente. Perché gli investitori, una volta giunti ai massimi storici di sempre, decidono di abbandonare il reddito fisso per abbracciare i titoli azionari? Una ragione potrebbe risiedere nella resilienza dell’investimento azionario all’erosione di valore derivante dall’inflazione.

INTANTO L’INFLAZIONE NON CALA, ANZI !

Forse appunto la spiegazione la troviamo nel grafico qui sotto riportato, che testimonia inequivocabilmente la tendenza a risalire (o quantomeno a non scendere) dell’inflazione americana (la quale traina quasi sempre quella di tutto il resto dell’Occidente):


Tant’è vero che da più parti si inizia a pensare a una revisione al rialzo dell’obiettivo di inflazione da parte delle banche centrali: dal precedente 2% all’attuale (di fatto) 3%. Un numero sotto al quale vanno soltanto le economie in conclamata recessione quali quelle europee.

LA PERDITA DI VALORE DELLE DIVISE MONETARIE (DE-BASING)

Non è un’ipotesi troppo peregrina, data la tendenza alla perdita di valore (“de-basing”) delle principali valute occidentali, tra le quali il Dollaro, implicitamente inevitabile a causa della monetizzazione di fatto dei debiti pubblici. E che ovviamente rimane la prima causa dell’inflazione.

LE BARRE VERTICALI CORRISPONDONO AI PERIODI DI RECESSIONE

È noto infatti che la proprietà delle attività reali (delle quali i titoli azionari sono una frazione) costituisce nel medio termine un baluardo contro l’inflazione molto migliore di quanto possano esserlo i titoli a reddito fisso. Il cui capitale viene sempre restituito al nominale. Insomma le borse restano orientate al rialzo, ma lo fanno perché il terreno dell’economia reale sotto i piedi della moneta in cui sono espressi i valori finanziari si sta sgretolando.

Quanto ci vorrà perché tali movimenti affiorino in superficie? Magari con un rialzo del costo dell’indebitamento? A volte sono più letali i movimenti lenti che non quelli repentini…21/09/25

Stefano di Tommaso




PERCHÉ LE BORSE CONTINUANO LA CORSA

I mercati finanziari appaiono euforici e il loro ottimismo spinge anche i più scettici tra gli investitori a cercare di non perdersi la possibilità di partecipare a questo rialzo delle borse che sembra non finire mai. Quanto però questo ottimismo sia davvero giustificato dai fatti è tutt’altro affare, dal momento che l’enorme liquidità in circolazione contribuisce non poco ad alimentare la volontà degli operatori di leggere ogni evento con le lenti rosa. E l’elenco dei motivi per i quali l’ottimismo potrebbe non durare in eterno inizia ad allungarsi, a partire dalla lettura dell’inflazione dei prezzi che potrebbe prima o poi avere un effetto rialzista sui rendimenti richiesti dal mercato obbligazionario e potrebbe, di conseguenza, andare ad intaccare proprio la radice stessa dell’attuale ondata di ottimismo: la liquidità dei mercati.

 

Altro ovvio motivo per il quale le borse potrebbero far partire una correzione degli attuali picchi massimi riguarda proprio la concreta possibilità che i grandi operatori inizino a ridurre la propria esposizione per prendere qualche beneficio delle plusvalenze realizzate, soprattutto in virtù del fatto che, statisticamente, quello di Settembre appare come un mese in cui le borse calano per effetti stagionali (ad esempio il pagamento delle imposte o la ripresa di ingenti spese spingono che hanno un effetto riduttivo sulla liquidità), come si può vedere dal grafico qui riportato con la media degli ultimi 65 anni a Wall Street:

Partiamo dunque dall’analisi dell’ultimo aggiornamento relativo all’inflazione dei prezzi nella nazione che ancora oggi più ha la capacità di influenzare il resto dei mercati finanziari internazionali: l’America. La crescita dell’inflazione in America è causata innanzitutto dal rialzo del Prodotto Interno Lordo (PIL) americano, che continua a viaggiare ad un ritmo superiore al 3% annuo. Questo è dovuto principalmente a due fattori: gli investimenti e i consumi.


I primi (gli investimenti), oltre che dalla spinta dell’Intelligenza Artificiale (AI) ora sembrano anche trainati non poco dalla ripresa della spesa militare dopo che, a seguito della guerra d’Ucraina, il Pentagono ha dovuto prendere atto della necessità di aggiornare in maniera radicale i propri sistemi d’arma, prima che il resto del mondo possa prendere atto del fatto che sono risultati in buona parte tecnologicamente arretrati rispetto a quelli russi e cinesi. Gli investimenti in quella direzione sono inoltre alimentati dai profitti generati dai grandi ordinativi di armamenti che iniziano ad arrivare dai paesi europei, i cui fornitori sono principalmente gli americani.

Una seconda e forse più importante ragione per cui gli investimenti (soprattutto privati) corrono negli USA più forte che nel resto dei paesi occidentali è la grande priorità strategica che si sono dati i principali colossi industriali e e tecnologici americani di vincere la corsa allo sviluppo dell’intelligenza artificiale. Non tanto sul fronte della ricerca, per la quale gli investimenti contano soltanto fino a un certo punto, quanto piuttosto nell’applicazione dei sistemi d’intelligenza artificiale all’automazione (cioè anche alla robotica) dell’industria e di molti servizi avanzati.

Per le grandi imprese che possono permettersi tali investimenti avere successo su questo fronte significa riuscire ad incrementare la produttività del lavoro e, di conseguenza, a generare migliori margini di guadagno, soprattutto negli USA dove il lavoro costa più caro che in quasi tutto il resto del mondo. E in effetti la produttività dell’industria americana sta aumentando.

Non sappiamo in realtà quanto l‘aumento della produttività dipenda strettamente dall’adozione delle prime forme di utilizzo dell’intelligenza artificiale e quanto, invece, possa più biecamente dipendere dall’incremento di digitalizzazione dei processi che costituisce l’indispensabile premessa per utilizzare poi le tecnologie più evolute. Sicuramente l’America è molto avanti nella digitalizzazione di praticamente qualsiasi cosa e buona parte dello sviluppo di questa digitalizzazione viene registrata come “investimenti”.

Quanto all’AI tutti oramai si rendono conto del fatto che per il momento è quasi un mito e che porterà nell’immediato benefici assai limitati a coloro che ci investono sopra. Ma quel che conta è che esistano comunque piccoli margini tangibili di progresso di tali benefici, i quali possono così giustificare che la giostra continui a girare. Perché -appunto- già solo la digitalizzazione di tutti i processi (che costituisce la premessa dell’adozione dell‘AI) ha ricadute positive sulle grandi imprese e sta imponendo una tendenza nei confronti di tutto le imprese anche del resto del mondo che a sua volta genera per l’industria americana montagne di ordinativi di microchip, di software e di servizi avanzati.

Ma il PIL americano non cresce soltanto grazie agli investimenti appena citati, bensì anche per il fatto che i redditi personali continuano a crescere e, con essi, i consumi, buona parte dei quali ricadono anch’essi nella categoria digitale e nella spesa per la salute, intesa anche come cure per la persona e per limitare gli effetti del progressivo invecchiamento delle classi più agiate della società civile. E la tendenza americana all’aumento di tali consumi comporta un’effetto imitativo in buona parte del resto del mondo, soprattutto occidentale, che dunque sospinge l’inflazione anche fuori dei confini americani.


L’inflazione dei prezzi peraltro non dipende soltanto da investimenti e consumi, bensì anche e soprattutto dalla progressiva perdita di potere d’acquisto (“debasing”) da parte delle principali divise di conto valutario (Dollaro, Euro, Sterlina, Yen, eccetera) che a sua volta dipende dalle politiche monetarie delle banche centrali, spesso indirettamente espansive anche quando vorrebbero far credere il contrario, ad esempio attraverso il rifinanziamento di ultima istanza del sistema bancario (cronicamente a corto di depositi) e attraverso il sostegno alle emissioni di titoli del debito pubblico che vanno ad alimentare politiche fiscali espansive da parte dei governi.

Una misura dell’espansività di fatto delle politiche monetarie è data dalla misura della crescente liquidità complessiva in circolazione, che gli economisti classificano come “M2” e “M3”. Nel grafico qui riportato la tendenza appare lampante!

Una delle manifestazioni più evidenti del “debasing” è l’inarrestabile corsa del prezzo dell’oro, degli altri metalli preziosi e, in generale, di più o meno tutti gli altri “beni-rifugio”. Il “debasing” genera infatti innanzitutto un’inflazione finanziaria, molto più veloce nella sua corsa rispetto ai rialzi del prezzo dei beni di prima necessità. L’incremento di questi ultimi appare costantemente in ritardo rispetto i beni “cospicui” (a partire dai gioielli fino agli yacht e alle case di lusso), soprattutto a causa del fatto che il prezzo dell’energia viene mantenuto artificialmente basso dai governi occidentali attraverso la manipolazione dei prezzi del petrolio e, in misura più limitata, del gas.

Ma, se il prezzo dell’energia si misura in termini di Dollaro e Euro e non in termini di once d’oro, con la svalutazione del potere d’acquisto di questi ultimi appare tuttavia inevitabile che alla fine anch’esso dovrà salire. E quando accadrà allora l’eventuale maggior costo dell’energia avrà un inevitabile quanto immediato effetto al rialzo sui costi di produzione di beni e servizi, anche essenziali.

Questa lunghissima premessa è per spiegare per quali ragioni si può ritenere -nel tempo- inevitabile che l’inflazione dei prezzi arrivi ad adeguarsi all’inflazione finanziaria e che perciò i tassi nominali di rendimento dei titoli a reddito fisso (cioè quelli a lungo termine) siano prima o poi costretti ad incorporare la tendenza al rialzo che ne deriverà (con la loro conseguente riduzione di valore), anche in presenza di ulteriori allentamenti della politica monetaria delle banche centrali, le quali agiscono prioritariamente sui tassi di sconto, cioè di breve termine.

Nel breve termine la grande liquidità in circolazione genera un indubbio effetto benefico sulla domanda (e dunque sui prezzi) dei titoli azionari, che a sua volta fa un inevitabile “effetto vetrina” di incremento del valore nominale dei medesimi e dunque dei listini delle borse valori.

Oltre il breve termine tuttavia occorre ricordare che l’eventuale risalita dei tassi d’interesse non può che comportare due importanti ricadute negative sui listini borsistici: il primo derivante dal fatto che il tasso d’interesse a lungo termine è quello al quale le valutazioni delle aziende scontano i flussi di cassa futuri (più sale e meno vale l’azienda). La seconda ricaduta negativa dipende dal fatto che un eventuale rialzo dei rendimenti dei titoli obbligazionari tende a ridurre la liquidità in circolazione, dal momento che buona parte di questi ultimi viene utilizzata sui mercati come collaterale di finanziamenti speculativi e che dunque, con la conseguente perdita di valore dei tali collaterali, si riduce il moltiplicatore del credito. E dal momento che sembra che il principale “motore” dei rialzi borsistici sembra essere proprio la grande liquidità disponibile, quando questa dovesse arrivare a ridursi verrebbe meno il principale sostegno alle attuali valutazioni delle borse.

Il ragionamento appena fatto tende a spiegare per quali motivi oggi non si è ancora arrestata la corsa al rialzo dei listini delle borse (in buona parte, tuttavia, solo apparente cioè in termini monetari nominali e non in termini di once d’oro) e per quali motivi tale corsa sia -prima o poi- inevitabilmente destinata a invertirsi, seppure il suo effetto sarà maggiore in termini di ricchezza reale e minore in termini strettamente monetari, data la svalutazione.

E soprattutto quanto esposto fornisce un’indicazione decisamente rialzista (almeno nel breve termine) relativamente ai cosiddetti “beni-rifugio”, quali oro e, parzialmente, criptovalute. L’oro poi sembra oggi acquistato soprattutto dalle “altre” banche centrali, cioè principalmente da quelle dei paesi non OCSE, cosa che fa pensare che ciò favorirà un incremento anche della domanda da parte dei privati di once d’oro e di chilogrammi di altri metalli “nobili” cioè rari, che vengono utilizzati nell’industria più tecnologica.

Occorre infine far presente che l’attuale fase di grande liquidità dei mercati, unitamente all’euforia dei mercati, può favorire lo sviluppo delle quotazioni dei titoli a più bassa capitalizzazione, il lancio di nuovi processi di IPO per le imprese che intendono quotarsi e la raccolta di finanziamenti a lungo termine ad un tasso relativamente basso (rispetto a quelli che potrebbero essere richiesti in futuro) per le imprese che vogliono emettere prestiti obbligazionari. Anzi è proprio il caso di cogliere l’occasione del momento positivo che potrebbe non ripresentarsi in seguito!

Stefano di Tommaso