SELL IN MAY & SAIL AWAY

(la borsa consente più facili guadagni a coloro che ne rispettano la stagionalità dimostrata dalla statistica qui riportata)

Torna, come tutti gli anni precedenti, il tormentone di primavera riportato nel titolo di questa breve nota: se in Borsa non vuoi rischiare, “vendi in maggio e vai in vacanza !”

Con le eccezioni del 2000 (scoppio della bolla della new economy) e del 2007/2008, non solo il metodo ha sempre fornito un ritorno positivo e decisamente superiore all’andamento cumulativo del macro-indice della borsa americana (nel grafico riferito all’acquisto ipotetico di un paniere di azioni che rispecchiano l’indice Standard &Poor 500 al 30 Settembre dell’anno precedente con successiva rivendita del medesimo al 30 Aprile) ma soprattutto risulta in oltre 20 anni essere un modo di investire in borsa senza curarsi delle altalene del mercato, mantenendo un rendimento medio elevato assimilabile -per bassa volatilità- a quello nel reddito fisso.

PERCHÉ ACCADE

Il motivo è di una semplicità sconcertante: si è notato (ed è comprovato dal grafico per quella americana) che le borse durante l’anno rispettano incredibilmente una forte stagionalità, fatta di una crescita nel periodo invernale e di una decrescita in quello estivo!

Limitandosi a “comprare l’indice” e tenerne conto senza fare alcunché di altro ci si può attendere (negli anni) un ottimo risultato. Ovviamente questa è la teoria, dal momento che l’indice preso in considerazione cambia nel tempo la sua composizione (e ovviamente le statistiche valgono se se ne rispecchia l’andamento e la larga base: 500 titoli azionari diversi) e che ciò che è successo in passato non rispecchia necessariamente quel che avverrà in futuro.

NESSUNA CERTEZZA

Non è nemmeno facile affermare se questa è poi una previsione su come si comporteranno le borse valori nei prossimi mesi, dal momento che gli analisti possono osservarne i valori fondamentali e le determinanti strategiche (che possono indurre ottimismo , in generale oggi) oppure possono interpretarne il “sentimento” attraverso le statistiche o i grafici, ma non possono comunque non tenere conto della incredibile stagionalità qui segnalata (che invece indurrebbe alla prudenza).

IO SONO PIÙ BRAVO…

Va infine segnalata la componente “ludica” dell’investimento azionario (che con il metodo in questione sparirebbe) e quella “professionale ” (o meglio: di autocelebrazione delle proprie capacità) di chi pretende che “quest’anno è diverso”… Perciò è difficile fornire consigli per gli acquisti (o per le vendite) sono in troppi quelli che ne rimarrebbero delusi o offesi nell’onore, soprattutto se non si pone questa metodologia nella giusta luce di un investimento rigorosamente passivo e pluriennale.

Certo non si può nemmeno ignorarne la portata pratica: è più difficile, statisticamente parlando, fare guadagni da Maggio a Settembre!

 

Stefano di Tommaso

 




NUOVI STRUMENTI DI FINANZIAMENTO DELLE IMPRESE, ALTERNATIVI AL SISTEMA BANCARIO

Negli ultimi sette-otto anni il processo di deleveraging (riduzione della leva finanziaria) che ha interessato l’intero sistema creditizio da un lato ha permesso alle Banche di contenere il livello di stress finanziario, dall’altro ha ridotto notevolmente la disponibilità delle stesse alla concessione del credito, contribuendo a generare il cosiddetto “credit crunch” che ha fatto tanti danni all’economia italiana.

Il management delle banche però ne è solo parzialmente responsabile: l’intero settore del credito infatti, dovendo avviarsi a rispettare i requisiti sempre più stringenti di capitale e liquidità dettati da Basilea III, non poteva che ridurre la leva finanziaria.

Inoltre, osservando la domanda di finanziamenti, le politiche economiche di austerity volte a ridurre il deficit pubblico hanno a loro volta agito negativamente su di essa. L’effetto combinato della morosità sui crediti precedentemente concessi (dovuto alla recessione economica che ha seguito la crisi finanziaria internazionale del 2008-2009) e delle citate nuove normative di politica fiscale e monetaria, ha avuto come diretta conseguenza una brusca contrazione dei prestiti offerti e domandati.

L’impatto sull’economia reale, consumatosi negli anni in cui il nostro Paese avrebbe dovuto riprendersi dalla recessione del 2008-2009, si è rivelato per l’Italia a dir poco catastrofico, portando a una diminuzione dei consumi come degli investimenti e allo strangolamento finanziario di molte imprese tra quelle meno capitalizzate.

La riduzione del credito si è peraltro accompagnata ad una generale riduzione della disponibilità e di velocità della circolazione di moneta liquida in Italia che a sua volta si deve principalmente alla fuga generalizzata di capitali, in buona parte comprensibile se si pensa all’inasprimento fiscale degli anni successivi alla recessione.

In un contesto generale così deteriorato dal punto di vista delle risorse finanziarie è divenuto necessario per gli imprenditori valutare ogni forma alternativa di finanziamento o capitalizzazione delle aziende, anche per ridurre la forte dipendenza dal canale bancario che ha da sempre caratterizzato le imprese italiane. Eccone alcune tra le più utilizzate:

I FONDI DI PRIVATE DEBT E I MINIBOND

Il “private debt” è uno strumento innovativo per lo sviluppo delle PMI in rapida crescita e rappresenta un canale diretto di collegamento tra il mercato dei capitali e l’impresa. Fino a qualche anno fa era tuttavia praticato soltanto dai grandi gestori di internazionali di risparmio e fondi pensione, così come da grandi gruppi assicurativi, principalmente esteri dunque e, per tale motivo, interessati quasi solo alle imprese italiane medio-grandi.

Un punto di svolta si è verificato con l’introduzione di una normativa specifica riguardante l’introduzione dei “Minibond” in Italia, il cui trattamento fiscale è stato equiparato per molti versi ai finanziamenti a medio termine.

Con tale innovazione un ruolo importante è stato poi ricoperto dai gestori di fondi di Private Equity, i quali avevano già sviluppato competenze e know-how fondamentali nella valutazione dell’opportunità di ingresso nelle realtà imprenditoriali e di affiancamento nella definizione di strategie di sviluppo, nonché nella conduzione della delicata fase di fundraising e si sono rivelati quindi come i soggetti ideali per sviluppare, a fianco al loro core business, anche fondi specializzati nella sottoscrizione di strumenti di debito (tra cui i Minibond) nonché strumenti ibridi (capitale/finanziamento) che, tenendo conto di prospettive e piani di sviluppo, possono prescindere talvolta dalle garanzie reali e dal limitato livello di capitalizzazione delle imprese.

Secondo i dati raccolti da Aifi, nel 2016, in Italia il settore del private debt ha registrato una crescita del 65% rispetto all’anno precedente e la raccolta si è aggirata attorno ai 632 milioni di euro. Il settore non ha ancora raggiunto numeri significativi ed è ancora piuttosto ristretto ma questo trend di crescita lascia ben sperare.
Nel corso del 2016 sono stati collocati 221 mini bond per un controvalore di 8,6 miliardi di euro.

I mini bond costituiscono uno strumento di accesso al credito alternativo al sistema bancario per le PMI che necessitano di liquidità per perseguire i loro obiettivi strategici. Sono titoli di debito con un orizzonte di medio-lungo termine attraverso i quali le imprese reperiscono fondi dagli investitori (sia istituzionali che altri soggetti qualificati), dietro il pagamento di un tasso di interesse sotto forma di cedola.
I requisiti tipici di emissione sono un fatturato superiore ai 2 milioni di euro ovvero la presenza di almeno 10 collaboratori dipendenti. Inoltre normalmente il bilancio delle imprese emittenti deve essere certificato da una società di revisione.

Nell’emissione di Minibond, tra le figure chiave spicca il ruolo dell’Advisor, il quale si occupa di supportare l’impresa sin dalla prima fase in cui viene presa la decisione di farvi ricorso, aiutandola ad analizzare e completare il business plan, predisponendo l’information memorandum e definendo con i possibili sottoscrittori le condizioni di emissione dei titoli.

IL CROWDFUNDING

La raccolta di capitali online è ai primordi in Italia ma inizia a rappresentare un’opportunità concreta per le imprese più innovative e capaci di mostrare formidabili opportunità di sviluppo. In particolare per le start-up tecnologiche che per finanziare i loro progetti difficilmente riescono ad accedere a forme di finanziamento più tradizionali o più strutturate.

Si tratta di una forma di micro-finanziamento basato sulla rete internet e che parte dal concetto “bottom-up”, che consiste nel ricorso a piattaforme online che fungono da intermediari tra imprenditori e potenziali finanziatori.

É quindi una forma di accesso a risorse finanziarie perfettamente in linea con l’evoluzione digitale che sta interessando l’attività delle imprese e l’approccio al business e ovviamente si adatta alle imprese che per qualche motivo sono maggiormente in grado di catalizzare l’attenzione dei cibernauti più evoluti che sono normalmente quelli più pronti ad investirvi.

I fundraiser (gli imprenditori interessati a raccogliere fondi) per raggiungere i loro obiettivi tipicamente si rivolgono a una piattaforma specializzata  che fornisce un’ampia varietà di soluzioni a disposizione.
Trattandosi di una soluzione recente, per lo più diffusa nei paesi più evoluti, è probabilmente necessario attendere una maggior diffusione di questo strumento, che contribuisce più di ogni altro al processo di disintermediazione bancaria, perché diventi uno strumento davvero utilizzabile dalle imprese che ritengono di averne i requisiti.

SPAC

Le SPAC o special purpose acquisition company sono nuove forme di società per azioni nate una decina di anni fa negli Stati Uniti e il loro successo è stato tale da farle approdare anche in Italia negli ultimi anni.

La SPAC è un veicolo societario di investimento, una scatola vuota insomma nel cui attivo è presente solamente cassa. È costituita con lo scopo di reperire risorse finanziarie sul mercato dei capitali e poi richiedere la propria quotazione in Borsa prima ancora di raggiungere lo scoop per il quale viene generata, che è quello di fondersi con una società target non quotata.

I fondatori detengono tipicamente una partecipazione del 10-20% nella SPAC e ricoprono il ruolo di manager. La loro buona reputazione è fondamentale ai fini del successo dell’operazione.

La SPAC subito dopo essere stata costituita dai suoi fondatori viene quotata sul mercato azionario con lo scopo di reperire liquidità per il restante 80-90% dagli altri sottoscrittori. Il collocamento delle azioni di nuova emissione avviene tramite IPO (initial public offering: l’offerta di pubblica sottoscrizione) e riguarda in genere solo titoli azionari e correlati warrant gratuiti.

Una volta raccolte le risorse finanziarie la SPAC ha a disposizione 18 – 24 mesi (in funzione delle regole che le hanno dato i suoi fondatori) per l’individuazione dell’impresa “target” con la quale celebrare le proprie nozze. Individuata quest’ultima la SPAC avvia il processo di fusione che permette all’impresa selezionata di ottenere le risorse liquide presenti nella SPAC nonché di ritrovarsi quotata alla Borsa Valori.
Si tratta di un veicolo di investimento di tipo “one-shot” in quanto normalmente effettua un unico investimento con il denaro raccolto.

Dopo aver individuato l’azienda target la candidatura di quest’ultima viene sottoposta all’assemblea dei soci della SPAC e, in caso di accettazione da parte dei suoi sottoscrittori, si procede alla fusione tra SPAC e target. In caso contrario, i sottoscrittori hanno facoltà di recedere dall’investimento e il capitale precedentemente investito verrà loro restituito.
I vantaggi della SPAC sono il basso profilo di rischio dal momento che si rivolge ad imprese qualificate per fondersi con un veicolo societario quotato, mentre le potenzialità di profitto per gli investitori dipendono dall’apprezzamento in Borsa dei titoli da essi sottoscritti , dopo la fusione con la società target.

PIR

A partire dal 2017 in Italia sono stati introdotti i PIR o piani individuali di risparmio. Si tratta di una forma di investimento a medio-lungo termine che ha come obiettivo quello di canalizzare parte dei risparmi verso le PMI italiane, nelle quali i PIR devono investire una quota significativa del capitale raccolto (70% di cui il 30% in imprese non appartenenti al Ftse MIB).
I PIR sono gestiti da intermediari finanziari e assicurazioni che hanno il compito di investire le somme ricevute garantendo così la diversificazione del portafoglio.
I PIR prevedono un trattamento fiscale agevolato, infatti se gli investimenti sono mantenuti in portafoglio per almeno cinque anni non verrà applicato alcun prelievo fiscale sul capital gain per il sottoscrittore.
È il primo segnale di un impegno concreto del Governo a favore del mercato dei capitali.

CONCLUSIONI

Come si può notare, le novità introdotte nell’ambito delle fonti alternative di finanziamento sono molteplici e variegate ma per selezionarle e potervi accedere è auspicabile in parallelo anche un cambiamento nella cultura finanziaria d’impresa.

Con l’ausilio di un qualificato advisor finanziario ogni impresa può oggi immaginare di sopperire ampiamente alla minor disponibilità di credito del sistema bancario individuando, tra quelle disponibili, le soluzioni più adatte alle proprie esigenze.

 

Marta Sironi

 




SARÀ IL MERCATO DEI CAPITALI A FINANZIARE LE IMPRESE?

Per anni il mondo occidentale si è posto il problema di come conciliare la necessità di ricapitalizzazione e una migliore regolamentazione del settore bancario con quella di evitare la diminuzione di credito disponibile per le imprese (senza peraltro riuscire a trovare la soluzione). Il risultato è stato un deciso arretramento dell’attività caratteristica delle banche, le quali si sono adoperate nella ricerca di un maggior reddito da commissioni di servizio.

La principale vittima del meccanismo anzidetto però sono state le piccole e medie imprese, dal momento che molte banche hanno deciso di concentrare i propri impieghi verso le imprese di maggiori dimensioni per via di una migliore qualità del credito che queste potevano assicurargli.

In particolare l’Italia ha sofferto più di molte altre economie avanzate la carenza di credito a causa della piccola dimensione e bassa capitalizzazione delle proprie imprese e dell’impossibilità dunque di finanziarne gli investimenti con fonti diverse dal credito bancario.

Parallelamente tuttavia il mercato dei capitali, sulla scorta di recenti esperienze positive nel settore del “private debt” (finanziamenti erogati da fondi di investimento a capitale privato), ha trovato terreno fertile nel vuoto di mercato lasciato dal sistema bancario, estendendo le proprie attività anche alle imprese di minori dimensioni, alla ricerca di buoni rendimenti e, soprattutto, di nuovi spazi di impiego delle proprie crescenti disponibilità finanziarie, dopo che i ritorni  derivanti dagli investimenti nei soliti titoli a reddito fisso (quotati o con elevato rating) erano arrivati a zero o addirittura sotto zero.

In tale direzione (il “private debt”) è evidente il vantaggio per chi si ritrova a dover investire anche nel reddito fisso importi crescenti di capitali (fondi pensione, compagnie di assicurazione, family offices…) :
negli scorsi anni il tasso di interesse relativo alla sottoscrizione di bond aziendali non quotati ha spesso toccato e superato la soglia del 10%, mentre sul fronte tradizionale il rendimento standard del reddito fisso planava verso lo zero.

Niente male come ritorni se chi proponeva queste forme di finanziamento “alternativo” poteva anche selezionare con cura i piani industriali delle imprese più promettenti cui elargire il proprio credito (e magari ottenere anche buone garanzie reali). Inutile dire che sono stati fatti buoni affari dai primi arrivati ad occupare il vuoto lasciato dalle banche con poche risorse a disposizione per nuovi prestiti, lente e burocratiche anche perché vessate dagli innumerevoli obblighi derivanti dalla vigilanza.

Nel nostro Paese inoltre la normativa recente sui “Minibond” ha contribuito in maniera decisiva allo sviluppo del credito proveniente dal mercato dei capitali.

Gli ottimi risultati ottenuti hanno ovviamente richiamato attenzione da parte degli altri investitori: si stima che a fine 2016 le risorse gestite in tutto il mondo dai fondi destinati al “private debt” abbiano raggiunto la strabiliante cifra di 600 miliardi di Dollari, con un incremento di poco meno di 100 miliardi nel solo ultimo anno!

Oggi però un numero crescente di operatori del mercato dei capitali sta iniziando a rivolgere la propria attenzione anche al mercato del “private debt”, con due importanti (quanto ovvie) conseguenze pratiche:

– La discesa dei rendimenti
– La progressiva estensione del bacino di imprese cui proporsi a quelle più piccole e con minore qualità del merito di credito.

I tassi di rendimento medio dei “corporate bonds” senza rating ufficiale sottoscritti dagli investitori privati è sceso dal 10% circa degli anni 2010-2011 al 7-8% del 2014 fino al 5-6% del 2016, anno in cui (soprattutto nel nostro Paese) si è registrata un’importante espansione del numero di emissioni. Allo stesso modo si sono visti ridurre l’importo medio per singola operazione e il fatturato medio delle imprese beneficiarie.

Ora è chiaro che un tale “boom” porta con sé il rischio di una parallela discesa dell’attenzione verso il rischio e la qualità delle operazioni. Così come una maggior concorrenza tra gli operatori. Inoltre più si abbassa la dimensione dei prestiti erogati meno saranno liquidi sul mercato secondario i relativi bond emessi.

Questo non significa necessariamente che assisteremo presto ad un incremento significativo dei tassi di mancato rimborso di quei finanziamenti, tanto per il fatto che l’economia mondiale sembra aver imboccato di nuovo un percorso di crescita, quanto per la natura di tali operazioni: un esame attento del piano industriale e una “diligence” sui conti (in Italia condotta solitamente da società di audit iscritte all’albo CONSOB) permettono a chi sottoscrive tali finanziamenti un deciso approfondimento sulle caratteristiche dell’attività dei beneficiari.

Certo però non possiamo non prendere atto del successo di uno strumento (quello dei Minibond) che fino a ieri sembrava destinato a pochissimi interlocutori e dell’ampiezza a livello planetario di un fenomeno (quello del “private debt”) che sta passando da una “nicchia” di mercato a dimensioni decisamente più ampie, coinvolgendo un maggior numero di operatori (che potrebbero non essere tutti di lunga esperienza) e tornando a proporre una concorrenza sul mercato del credito che, fino a ieri, sembrava sopita per sempre!

 
Stefano di Tommaso




L’ECONOMIA MIGLIORA MA I CONSUMI CROLLANO

(lo scenario indica che le aziende industriali dovranno fare i conti con un calo strutturale e delle vendite dovuta alla crescente disuguaglianza sociale mentre la digitalizzazione industriale e la sharing economy continueranno la loro avanzata).

 

Spesso scrivo analisi e previsioni economiche e spesso, nel parlare con conoscenti e clienti mi è successo di aver mostrato un certo orgoglio per aver previsto correttamente l’attuale fase di crescita economica globale, per molti invece inaspettata dopo le vittorie politiche della Brexit e del Presidente Trump.

Più di una volta però, alla domanda “com’è possibile che l’economia migliori se il reddito disponibile di tutti quelli che conosco invece peggiora?”  mi è capitato di dover correggere il mio ottimismo laddove, invece di fare riferimento alle statistiche, si osserva il benessere effettivo della gente comune.

È un dato di fatto per esempio che i giovani di oggi possano condividere uno stock di ricchezza e un potere d’acquisto-fatte le debite proporzioni- molto inferiore a quello dei loro genitori.

IL P.I.L. CRESCE MA IL REDDITO DISPONIBILE SCENDE A CAUSA DELLA FINANZIARIZZAZIONE DELL’ECONOMIA

Il motivo della divergenza tra incrementi del prodotto interno lordo e diminuzione della ricchezza disponibile per la gente comune è apparentemente semplice da spiegare (sebbene sia molto complicato opporvi ogni possibile rimedio): a causa della “finanziarizzazione” dell’economia degli ultimi vent’anni , la distribuzione della ricchezza sta cambiando e la disuguaglianza sociale aumenta a dismisura!

In America, dove le stesse cose che poi accadono da noi succedono sempre con largo anticipo, siamo arrivati all’assurdo che lo 0,1% della popolazione (di  quasi 320 mln di abitanti) possiede lo stesso ammontare di ricchezza del 90% inferiore della medesima popolazione: come dire che 1 abitante su mille possiede novecento volte ciò che hanno in media a testa i novecento abitanti meno ricchi sui mille totali !

PERCHÉ SCENDONO LE VENDITE DEI BENI DI CONSUMO

I (moderati) successi economici degli ultimi anni in Occidente che ci riferiscono le statistiche dopo la crisi del 2008 dunque, sono in realtà soltanto il risultato di una media tra gli avanzamenti di reddito ottenuti dai possessori di attività finanziarie e immobiliari e gli arretramenti dei percettori di salari, un po’ come la media di un pollo a testa di Trilussa, tra chi ne ha due e chi non lo ha. Una media composta da un avanzamento della ricchezza concentrata nelle mani di pochi e da un arretramento netto di quella della maggior parte della gente.

Ora bisogna tenere presente che se Berlusconi vende il Milan e incassa un fantastico assegno, ben difficilmente egli lo spenderà in un maggior numero di vestiti, automobili, gioielli ed arredi perché ne ha già tanti.
La spesa per consumi è infatti soprattutto mossa dagli acquisti quotidiani e “aspirazionali” delle classi più basse della popolazione, le stesse che però hanno vissuto negli ultimi anni un deciso arretramento della loro ricchezza.
I risultati “populisti” delle elezioni politiche di molti paesi occidentali hanno rispecchiato (e rispecchieranno ancor più in futuro) questo quadro di deterioramento del tenore di vita delle classi medie e basse, dal momento che il voto nei paesi democratici è imprescindibilmente capitario.

Ma soprattutto è il welfare (previdenza e assistenza sociale) la vera bomba ad orologeria: l’impossibilità dei governi di assicurare adeguati ammortizzatori sociali alla maggioranza della popolazione che rimane senza lavoro o non può pagare per la sanità privata, le difficoltà dei sistemi pensionistici (pubblici o privati) di tenere il passo con il costo della vita è ciò che più di ogni altra cosa determina una minor propensione all’acquisto dei beni di consumo (e anche di quelli durevoli).
E l’incombente difficoltà dei fondi pensione a mantenere le promesse fatte ai propri sottoscrittori tempo addietro sarà solo la ciliegina sulla torta!

LA CONGESTIONE DEI RISPARMI E LA RIVALUTAZIONE DEI BENI DI INVESTIMENTO

Paradossalmente il fenomeno dell’impoverimento e delle minori garanzie sociali comporta perciò un aumento dei risparmi e dunque una tendenza dei mercati finanziari a continuare a galleggiare su una massa di liquidità crescente.
Ma al tempo stesso il reddito fisso mantiene rendimenti limitatissimi e dunque il risparmio aggiuntivo che vi si riversa non fa che alimentare quel fenomeno di bassi tassi dovuti alla grande liquidità che si riversa sui mercati finanziari.
La stessa che ha determinato un arricchimento delle classi più ricche della popolazione e ci ha portati all’aumento della disuguaglianza sociale attraverso la corposa rivalutazione del valore di immobili, strumenti finanziari e mezzi di produzione.

Quella rivalutazione giova a chi già possiede capitali e ne ottiene un reddito aggiuntivo, mentre essa necessariamente riduce il benessere di coloro che non ne hanno e che con la rivalutazione faranno  ancora più fatica a comperarli.
Questo circolo vizioso sembra difficilmente correggibile senza provocare instabilità e danni irreparabili all’economia.

Sul fronte delle strategie industriali il fenomeno della riduzione dei consumi è stato fino a ieri imputato alla recessione e non si è ancora manifestato nella sua interezza per diversi motivi, ma non tarderà a farsi evidente.
Oggi la ripresa economica europea è trainata principalmente dalle esportazioni, in buona parte di tecnologia, impianti e macchinari verso i Paesi Emergenti, che godono di una crescita economica derivante dalla demografia positiva e poi risentono in ritardo del rallentamento dei consumi.

GLI ACQUISTI VANNO VERSO L’ECONOMICITÀ E LA QUALITÀ

Ma la tendenza cui faccio riferimento è di quelle che si dispiegano nel lungo termine: solo in America la media delle famiglie del 90% inferiore della popolazione (cioè la quasi totalità) ha visto nel 2016 diminuire le sue disponibilità (reali) del 40% rispetto al 2007.
Le imprese manifatturiere dovranno perciò prima o poi fare i conti con un cospicuo calo delle vendite dei beni di consumo,  “nonostante” le buone notizie sul fronte del prodotto interno lordo dei Paesi Occidentali potrebbero proseguire ancora a lungo!

Il fenomeno, sebbene di lungo termine, dal punto di vista della strategia industriale è da comprendere molto bene, svicescerare e poi cavalcare, attraverso il riorientamento delle produzioni verso beni di minor costo intrinseco, ma anche attraverso il controllo dei costi, la produttività del lavoro e la capacità di assicurare qualità e durevolezza nel tempo.

La stagione dei dividendi 2017 (che si apre più o meno da questo mese) sembra portare risultati clamorosamente al rialzo, a partire ovviamente dalle economie più avanzate e dotate delle valute più forti, ma la spesa per consumi è segnalata in discesa proprio in queste ultime, e la cosa si spiega quasi solo con l’incremento delle disuguaglianze sociali!
Non a caso in Cina, dove sta avvenendo l’esatto opposto e le classi medie sono in espansione, l’incremento dei consumi nel 1.trimestre 2017 (+10,9%) ha superato di slancio l’espansione della produzione industriale (+7,6%) e la crescita del Prodotto Interno Lordo (+6,9%, peraltro in crescita rispetto al 2016).

L’AVANZATA DEL DIGITALE E DELLA “SHARING ECONOMY”

La generazione di nuova ricchezza dovrebbe invece -in un mondo ideale- accompagnarsi ad una riduzione in termini reali dei valori dei cespiti immobiliari, delle attività finanziarie e degli strumenti di produzione. Cosa che in teoria può generarsi con la crescita della “sharing economy” e della digitalizzazione della produzione delle imprese manifatturiere.
Il loro avanzamento dunque non potrà che far bene alla stabilità e alla crescita economica e gli investimenti ad essi collegati contribuiranno alla produttività del lavoro (fattore essenziale per remunerare meglio i percettori di salari).

Sino ad oggi invece il Quantitative Easing ha lavorato in direzione opposta, servendo soprattutto a mantenere in vita il mercato secondario dei titoli dei debiti pubblici (cosa peraltro necessaria alla buona salute dell’economia).

Nessuno al momento è forse in grado di sfornare una teoria economica che indichi come conciliare la salute del mercato dei capitali (che alimenta le imprese e le loro innovazioni ma gonfia il valore delle attività finanziarie e provoca l’aumento dell’ineguaglianza sociale) con quella dei bilanci pubblici e con la crescita del benessere della popolazione.
Ma non illudiamoci troppo: ci sono molti e importanti interessi in gioco affinché nei paesi occidentali la giostra vada avanti esattamente così com’è impostata oggi…

 
Stefano di Tommaso