Quando lo Stato offre un’opportunità da cogliere

“L’attenzione ai nuovi dispositivi fiscali in Italia è sempre stata elevata, soprattutto nel campo delle politiche di incentivazione e stimolo”. È una frase che io stesso scrissi un anno fa, per introdurre un libro in pubblicazione sulla Patent Box e devo tuttavia constatare che non é sempre vera, o almeno non completamente.

Dalle fasi di preparazione del testo, fino alla sua uscita, ho frequentemente avuto modo di illustrare a vari interlocutori come la normativa in questione, emanata con la Legge di Stabilità 2015, fosse una eccellente opportunità per le aziende ed una delle buone cose del governo di allora. Forse imperfetta in alcuni aspetti, come specificato nel libro, ma complessivamente una buona idea per evidenziare il valore “già creato” ma non visibile, in quanto intangibile.

Ad oggi credo sia ancora un’opportunità largamente sottovalutata e sottoutilizzata. E se non fosse per il “caso Ferragamo”, che l’ha portata di recente all’attenzione dei media ma soprattutto degli analisti finanziari (i quali finalmente attraverso quel caso specifico hanno compreso la positività dell’impatto della norma), la sua notorietà sarebbe ancora blanda.

IL FISCO MA ANCHE L’EVIDENZA DEI VALORI IMMATERIALI D’IMPRESA

Avendo avuto per le mani alcuni dossier, ho potuto riscontrare che la maggior parte degli ambiti di applicazione sino ad oggi si sono focalizzati prevalentemente su quanto già noto: cioè nella razionalizzazione dei marchi e dei brevetti già in qualche modo previsti a bilancio, e assai raramente nel portare alla luce anche la parte effettivamente “invisibile” dei processi innovativi, a volte assai più consistente.

Questo porta a una duplice conseguenza:

· la prima é che si sottoutilizza la norma “accontentandosi” del beneficio fiscale, parziale ma facilmente e rapidamente misurabile, con costi che dovrebbero essere contenuti (non sempre invero);

· la seconda è che si lascia esposta alla vulnerabilità della imitazione, contaminazione, riproduzione, una propria capacità innovativa, con conseguenze forse non immediate, ma che se emergessero, comporterebbero oneri ben maggiori di recupero: la capacità e il modello di generazione dell’innovazione, il consolidamento del know-how dell’azienda.

In questi termini ho presentato il tema anche recentemente ad un convegno AIPPI, ovvero l’associazione degli esperti nella protezione dei diritti di proprietà intellettuale, cercando di sensibilizzare l’attenzione sulla componente invisibile.
Credo che a questo punto sia doveroso un inciso che chiarisca i termini di quello che uso definire “parte invisibile” anche perché connesso alla comprensione della portata reale della normativa.

La legge ha infatti una portata ben più ampia dei meri benefici fiscali su marchi e brevetti: essa comprende l’intero processo innovativo, come recita la norma stessa, dal “tratteggio” dell’idea su un foglio, all’intero percorso che quel tratteggio genera fino al risultato finale, il prodotto /servizio innovativo che arriva all’utente finale.

LE OPZIONI POSSIBILI: IL RUOLO DELL’ “IP COMPANY”

Fa parte di tale percorso l’intera gestione della generazione del know-how, nonché, per la prima volta, gli investimenti in comunicazione e commerciali necessari (le spese di marketing) per raggiungere l’utenza finale, che diventano parte integrante del risultato.

Si comprende immediatamente il contenuto innovativo, la dimensione che può raggiungere l’insieme valorizzato, ma anche la complessità dell’analisi e della strutturazione del processo necessaria, che poi costituirà componente essenziale del ruling da presentare all’Agenzia delle Entrate.

Anche qui compare un ulteriore risvolto innovativo: l’opzione espressamente prevista e legittimata dell’ ”IP company” come soluzione alternativa al ruling. Fino alla legge in questione, le IP company sono spesso state affrontate come veicoli di dubbio profilo, e altrettanto spesso come strumenti elusivi.
Con questa legge, diventano invece, opportunamente configurate, strumenti legittimi e anzi, quasi preferenziali. L’IP company riduce i tempi, supera il problema del ruling, rappresenta un “valore” facilmente isolabile e valorizzabile.

Dai vari professionisti con cui mi sono confrontato, la fase di condivisione con l’Agenzia delle Entrate di un processo strutturato di emersione di attivi immateriali mi é apparsa come uno dei fattori di maggiore resistenza. Nella realtà dei fatti, almeno dialogando con le aziende che sono “andate oltre” e hanno percorso le opzioni più ampie concesse dalla legge, il problema maggiore é consistito nei tempi lunghi più che nella accettabilità del processo nell’ambito del “ruling”.

La legge comunque consente di avvalersi del progetto di Patent Box dal momento della presentazione e non dal momento della accettazione: se é vero che molte volte può valere la pena attendere, é anche vero che in molti casi il trade-off tra anticipazione e rischio di eventuale rettifica di quanto impostato é a vantaggio della prima.

LA VALUTAZIONE DEGLI “ASSET” IMMATERIALI E I SOGGETTI COINVOLTI

Due elementi di estremo interesse da tratteggiare brevemente riguardano da un lato il tema dei metodi di valutazione, dall’altro i protagonisti necessari per trarre il massimo beneficio dalla norma.

In termini di “metodi” la legge, pur esponendoli con una logica che può dare luogo a fraintendimenti, permette un ampio utilizzo dei più diffusi metodi di valutazione, specifici (per gli asset immateriali) e generali di business valuation.
Di fatto tutti i metodi previsti dall’OCSE nell’ambito del regime del “transfer price” sono applicabili. Si tratta quindi di scegliere i più idonei allo specifico processo di innovazione. Molti si ancorano al “profit split” per via di una certa semplicità di applicazione e per una più diffusa comprensione: in realtà si può attingere ad un menù di almeno sei-sette metodologie valide e accettate, da filtrare caso per caso.

Nella realtà è rara la situazione in cui si potrà applicare un solo metodo: un processo complesso non può trovare sufficiente sintesi in una sola metodologia senza rinunciare a qualcosa, o senza ritrovarsi con troppe forzature, adattamenti, arrotondamenti. Una attenta combinazione dei metodi più consoni alla specifica situazione e correttamente illustrata non credo possa trovare ostacoli in sede di “ruling”.

Venendo ai protagonisti, l’uso del plurale non é casuale: impostare quanto descritto non può fare riferimento ad una singola sfera di competenze ma deve trovare realizzazione attraverso la collaborazione tra esperti di fiscalità, di normativa, di processo-prodotto e di valutazione degli asset, attraverso una iterazione fase per fase al fine di definire l’esatto perimetro degli elementi da valorizzare.
Il lungo confronto con fiscalisti e giuristi nel corso della stesura del mio libro mi ha convinto che per raggiungere un risultato affidabile, stabile, e valorizzabile, la copertura di tutti tali aspetti sia un requisito fondamentale. Se poi ci si affida a team affiatati, seppur appartenenti a tre distinte categorie professionali, il risultato ne risulterà enfatizzato.
Può apparire eccessivamente complesso e articolato, nonché costoso, il doversi appoggiare ad un contributo congiunto, ma ovviamente lo sforzo va calibrato in funzione dei valori ragionevolmente conseguibili.

I BENEFICI DEL PATENT BOX

Lo Stato per una volta ha messo a disposizione delle aziende una normativa che costituisce una concreta opportunità, la cui applicazione può apparire complessa ma che vale la pena di esplorare per i benefici che può produrre in termini patrimoniali (maggiori asset, maggiore valore), finanziari (maggiori asset, maggiore forza finanziaria, migliori rating, e benefici fiscali diretti) e operativi (maggiore ordine e gestibilità del processo innovativo e di difesa del know-how) che può produrre.

Chi si sente dire che “non conviene”, ne chieda sempre il perche’. Sara’ sorpreso nell’ascoltare per tutta risposta spesso motivazioni frettolose e generiche, che  certamente non si riferiscono alla sua specifica situazione.

Luca Pieroni
Founding Partner DGPA Group




L’economicità delle Onlus

Introduzione

Un problema su cui oggi stanno riflettendo politici ed operatori del settore è quello dell’economicità delle organizzazioni senza scopo di lucro, e di conseguenza la loro autonomia da fonti esterne.
Le imprese di produzione trovano, generalmente, la loro condizione di esistenza nel soddisfacimento del principio di economicità; questo significa che l’azienda deve, innanzitutto, essere gestita in modo da potere autonomamente permanere sul mercato.

Il principio dell’autonomia, per cui l’azienda deve creare al suo interno le risorse che le permettono di perdurare, implica, non una sorta di impensabile “autarchia finanziaria” tale per cui l’impresa debba coprire con il proprio capitale tutto il suo fabbisogno finanziario, ma quantomeno un’attitudine della stessa a coprire, nel tempo, i propri costi con i propri ricavi. Il fine dell’impresa è, infatti, certo legato alla funzione d’uso dei suoi prodotti, ma tanto in quanto essa è in grado di creare ricchezza che possa remunerare i fattori produttivi apportati dagli stakeholders. Per l’effetto della creazione di questa ricchezza, l’impresa assume una funzione sociale che va ben al di là dell’interesse dei singoli e soddisfa invece l’interesse dell’intera collettività.

É invece interessante, capire se possano esistere delle aziende che possono perseguire i propri obiettivi senza soddisfare la condizione di autonomia per cui i costi sono coperti attraverso i ricavi che derivano dallo svolgimento dell’attività aziendale. Lo scopo di questo articolo è di riflettere, anche attraverso delle interviste a coloro che operano nel mondo del “no profit”, sulla funzione sociale che queste organizzazioni hanno per la collettività, a prescindere dalla creazione di ricchezza e, anzi, a costo di consumare risorse della comunità nello svolgimento della propria attività.


L’inquadramento giuridico e dottrinale

Le più importanti leggi nazionali, in materia di regolamento delle organizzazioni “no profit”, sono: la legge 381/1991 e il DLG. 460/97. Esse regolano rispettivamente le “cooperative sociali” e le “organizzazioni non lucrative aventi utilità sociale” in genere[1]. La legge 381/1991 aveva introdotto nel nostro ordinamento, e regolato, la figura della cooperativa sociale e conseguentemente la cosiddetta “mutualità esterna” per cui l’attività, mutualistica non è rivolta solo alla propria base sociale, ma anche a soggetti terzi.

L’art.45 della costituzione, che prevede la tutela e i controlli delle società cooperative, limitava il suo ambito di applicazione e di intervento alla mutualità definita dalla relazione accompagnatoria del codice civile del guardasigilli Grandi, ossia: “la creazione di occasioni di lavoro e di servizi a condizioni migliori rispetto a quelle di mercato”. Si tratta di una forma di mutualità esclusivamente “interna” riferita cioè all’aiuto che i soci si danno, reciprocamente, in modo solidale, e quindi appunto mutualistico. Il D.Lgs. 460/1997 introduce nel nostro ordinamento la figura delle Onlus[2], estendendo, per lo meno nella lettera della legge, il concetto di utilità sociale a tutti quegli istituti che, anche senza adottare la forma della cooperativa, operano a favore delle persone svantaggiate.

In questo modo, si va nella direzione di una forma di privatizzazione del settore dell’assistenza: si cerca cioè di fare entrare il privato in un settore che tradizionalmente era gestito dal “pubblico” a fronte di alti costi per la collettività. La condivisibile convinzione che è alla base di un passaggio normativo di questo tipo è quella che il privato sia in grado di operare in modo più efficace ed efficiente anche nel settore dell’assistenza.

Nasce in questo modo una figura nuova di azienda. Tradizionalmente[3], l’economia aziendale ha studiato le tipologie di azienda e le loro condizioni di economicità con riferimento a:

1. “aziende di produzione per il mercato: è l’impresa; essa soddisfa indirettamente i bisogni e i desideri del proprio soggetto di istituto attraverso la remunerazione di quanto questi ha apportato nell’azienda; ”

2. “aziende di produzione non per il mercato: sono le aziende che soddisfano direttamente i bisogni del soggetto di istituto attraverso la propria produzione”: in questa categoria rientrano prima di tutto, per quanto attiene il fine istituzionale, le cooperative caratterizzate dalla mutualità interna;

3. “aziende di consumo del tipo famiglia (o assimilabile) con attività di produzione di servizi interni familiari e impiego dei redditi sia di lavoro sia derivanti dall’amministrazione di risparmi.”

4. “aziende di consumo del tipo famiglia con attività di produzione di nuova ricchezza mediante l’impiego di capitale e lavoro, senza scambio sul mercato e caratterizzate dal consumo diretto dei risultati della produzione;” in realtà è difficile pensare, nell’economia moderna, a delle forme di produzione e consumo autarchiche di questo tipo, ciononostante seguendo l’impostazione della dottrina economico – aziendale ho deciso di riportare anche questo caso possibile;

5. “aziende di consumo del tipo famiglia con attività di produzione di nuova ricchezza mediante l’impiego di capitale e lavoro, caratterizzate dallo scambio totale o parziale sul mercato per i risultati della produzione”;

6. “aziende di consumo pertinenti a enti pubblici territoriali o non con l’attività di produzione di servizi pubblici sociali indivisibili (difesa, giustizia ecc.) ”;

7. “aziende di consumo pertinenti a enti pubblici territoriali o non, con attività di produzione di beni e servizi svolta in via diretta in economia”;

8. “aziende pubbliche di produzione di beni e servizi svolte mediante enti giuridici autonomi di diritto pubblico o privato attraverso l’incasso di prezzi e l’eventuale ripianamento del risultato economico di gestione mediante quote di entrate pubbliche.”


Organizzazioni Non Lucrative d’Utilità Sociale

Si pongono in una posizioneparticolare; non sono inquadrabili in nessuna delle tradizionali classi sopra individuate: sono sicuramente delle aziende a capitale privato, di diritto privato, la cui produzione di beni non è però diretta al naturale soggetto economico, bensì a terzi. Se la Onlus è gestita secondo i principi ispiratori della legge 460/1997, il soggetto d’istituto è una parte della collettività che si trova in condizioni di svantaggio e che, almeno in via di prima approssimazione, poco o nulla ha a che fare con i portatori di lavoro e di capitale; si tratta di:

a. persone svantaggiate in ragione di condizioni fisiche, psichiche, economiche, sociali o familiari;
b. componenti collettività estere, limitatamente agli aiuti umanitari.

Non ci occuperemo di questo secondo tipo di Onlus, la cui attività è rivolta alle comunità estere perché il discorso ci porterebbe inutilmente lontano.

Se, come detto, le aziende di produzione trovano la loro condizione di esistenza nel soddisfacimento del principio di economicità; l’azienda deve essere gestita in modo da potere autonomamente permanere sul mercato. Occorre chiedersi se si possa pretendere la stessa cosa da un’organizzazione non lucrativa avente utilità sociale oppure se, proprio in ragione di tale utilità sociale e delle peculiarità di questo tipo di azienda, si possa ritenere che il principio dell’autonomia perda la sua essenzialità.


I rapporti con la pubblica amministrazione

Una Onlus che, in senso stretto, non è in grado di soddisfare il principio dell’autonomia, ma che si accolla una parte dei costi generalmente sostenuti dalla pubblica amministrazione, può essere aiutata dalla pubblica amministrazione con tre diverse tipologie di intervento nel rispetto del principio di sussidiarietà:
· ricerche, che vengono messe a disposizioni delle organizzazioni non lucrative aventi utilità sociali, o partecipazione finanziaria dello stato alle ricerche di queste organizzazioni;
· sgravi fiscali, che permettano alla cooperativa di raggiungere nel tempo condizioni di economicità;
· contributi in conto capitale e in conto esercizio.

Occorre studiare forme di sussidio che favoriscano il formarsi di queste organizzazioni; lo stato deve porsi come riferimento, nel rispetto del principio di sussidiarietà, per le organizzazioni che abbiano bisogno del suo aiuto perché gestire in proprio i servizi che queste organizzazioni forniscono ai cittadini sarebbe comunque molto più oneroso; il “pubblico” deve aiutare e naturalmente controllare lo sviluppo delle Onlus; deve stimolare lo studio sulle problematiche inerenti il volontariato deve farsi intermediario tra le università, i centri di ricerca e quelle fondazioni che investono in ricerca in proprio.In definitiva: sicuramente lo stato deve finanziare la ricerca nel campo dell’assistenza: tale ricerca, per sua caratteristica, diventa fruibile da tutti i soggetti e costituisce, pertanto, un aiuto per tutte le organizzazioni private che rendono servizi alle persone svantaggiate.

Probabilmente è giusto che lo stato favorisca il raggiungimento delle condizioni di economicità di questo tipo di organizzazioni attraverso forti sconti sulle imposte vigilando, poi attentamente che alcune Onlus non assumano carattere elusivo.
Qualche problema in più pone, invece, il fatto di finanziare direttamente le Onlus; la prima domanda che ci dobbiamo porre in tal senso è se, e in quali termini, un’organizzazione possa agire a vantaggio dell’intera collettività. Questo dovrebbe essere il fine di istituto di una azienda pubblica.

Si pensi alla statalizzazione delle ferrovie: attraverso l’acquisizione delle linee ferroviarie lo stato aveva fornito un servizio, giudicato di alto valore per la collettività, ad un prezzo inferiore rispetto a quello che poteva essere applicato da un privato. I costi aggiuntivi rispetto agli introiti venivano poi pagati con dei trasferimenti di denaro che lo stato aveva ricevuto dall’imposizione fiscale.

L’azienda pubblica ha quale peculiarità quella di essere fruibile da tutti i cittadini che abbiano un certo bisogno (nel caso delle ferrovie quello di viaggiare, nel caso degli ospedali quello di essere ricoverati), in cambio tutti i cittadini pagano una parte del loro reddito. Il prezzo pagato a tal fine come parte delle imposte è, in una certa qual misura, simile a quello pagato per un’assicurazione o per un diritto di opzione: pago il sistema sanitario, nazionale perché in questo modo potrò avere un trattamento sanitario a prezzo irrisorio, se dovessi avere una malattia (come avviene per un assicurazione); pago una certa quantità di tasse, perché questi soldi siano versati alle ferrovie affinché io possa acquistare un biglietto ad un prezzo inferiore al suo “naturale” costo di mercato, nel momento in cui ne avrò bisogno (come se fosse un diritto di opzione che io posso esercitare nel momento in cui decido di viaggiare in treno).

Meccanismi questo tipo non sono però certamente pensabili per molte Onlus. è sicuramente pensabile che un’organizzazione non lucrativa avente utilità sociale, che opera nel settore della promozione dell’arte, possa organizzare una mostra che sia fruibile da tutte le persone che abbiano interesse a visitarla. Difficilmente si potrà, però, pensare, che la singola organizzazione possa mettere in essere una rete sufficientemente vasta di servizi assistenziali da poter essere usufruita da tutti i cittadini che si trovino in una certa condizione di necessità. Questo significa che il soggetto di istituto della Onlus difficilmente sarà l’intera collettività o, comunque, quella parte della collettività che ha bisogno del servizio: esso sarà, in genere solo una parte della comunità che, per varie ragioni, ha modo di usufruire della azione di detta organizzazione.

Dal punto di vista del singolo cittadino, questo significa che egli potrà trovarsi nella situazione di avere bisogno dell’opera di una certa Onlus, per esempio l’assistenza domiciliare alla nonna anziana, di pagare, attraverso il versamento delle imposte, una parte dei trasferimenti alle Onlus e di non poter utilizzare l’opera dell’organizzazione per almeno due ordini di motivi:

· impossibilità di accesso: per esempio perché nessuna Onlus nelle vicinanze, ha capienza per accettare nuovi assistiti;
· eccessiva onerosità dell’accesso: questo è sicuramente il caso più grave. Nessuna norma agisce nel senso di costringere le organizzazioni non lucrative aventi utilità sociali a prestare i propri servizi a prezzi in qualche modo calmierati.

Per evitare, almeno nei limiti di quanto questo non sia strettamente fisiologico, questo tipo di problemi, è necessario agire sui meccanismi della regolamentazione e del controllo[4]. Quando la Onlus opera in regime di agevolazione, dovrà accettare un intervento del “pubblico” sulle proprie politiche aziendali e sulla propria organizzazione.

Consideriamo il caso delle comunità per tossicodipendenti in Lombardia: ho intervistato[5] l’assessore alle politiche sociali Maurizio Bernardo, secondo il quale la regione “ha provveduto all’approvazione dei requisiti per ottenere l’autorizzazione, a1 funzionamento e accreditamento di comunità di recupero, o di reinserimento di tossicodipendenti, già esistenti sul territorio regionale o di nuova costituzione.

Due sono i fronti sui quali la Regione Lombardia ha espresso precise richieste: da un lato la professionalità del personale e dall’altro la funzionalità delle strutture. Nel primo caso, nella determinazione dei requisiti funzionali, viene operata una distinzione tra comunità pedagogico – riabilitative e terapeutico – riabilitative. Laddove la riabilitazione va di pari passo con la rieducazione, l’organico, per quanto riguarda le strutture residenziali, deve essere costituito da almeno due operatori a tempo pieno per trentasei ore settimanali per ogni gruppo di 20 ospiti; per ogni gruppo di 25 ospiti se si tratta di strutture semi – residenziali. Uno degli operatori deve essere in possesso di diploma di educatore professionale o di assistente sociale o laurea in pedagogia, sociologia, medicina o altra laurea in materia umanistiche. Il secondo operatore deve invece essere in possesso di diploma di scuola media inferiore associato ad esperienza lavorativa nel settore. Nel caso in cui sia prevista anche l’assistenza a minori, figli di tossicodipendenti, viene richiesta la presenza di un educatore professionale o assistente sociale.

Diverso è poi il rapporto numerico tra operatori ed ospiti richiesto nelle comunità terapeutico – riabilitativo: due operatori sono impegnati nell’assistenza di un gruppo di 15 ospiti nelle comunità residenziali; 20 ospiti se si tratta di comunità semi – residenziali”. Ho voluto riportare pressoché per intero la dichiarazione dell’assessore perché pone in evidenza la tendenza della pubblica amministrazione a favorire lo sviluppo delle organizzazioni non lucrative aventi utilità sociale, ponendo però precisi paletti ed indicando chiaramente come esse debbano essere organizzate. La gestione passa all’imprenditore privato, che deve amministrare il servizio in modo efficiente ed efficace seguendo però delle linee guida generali stabilite dagli amministratori pubblici eletti dai cittadini.

Il concetto di economicità, in questo tipo di istituti, a mio avviso, cambia sensibilmente rispetto al concetto di economicità in un’impresa di produzione. Spesso questo tipo di istituto può essere gestito nel rispetto dell’economicità, solo considerando i contributi che esso riceve dall’amministrazione pubblica come proventi tipici.

Analogamente, gli sgravi fiscali, associati al divieto per questo tipo di imprese di distribuire gli avanzi di gestione, hanno lo scopo di diminuire i costi visto che il fine non è quello di “fare utili” e creare ricchezza, ma quello di creare “ricchezza sociale” attraverso la produzione di esternalità positive di cui la comunità gode ipso facto.

Alessandro Arrighi

 

Bibliografia

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CATTANEO M., Economia delle aziende di produzione, Edizioni Etas Libri, Milano, 1969.
COLOMBO – F. SCIUMÈ P., Onlus . IPSOA, Milano, 1999.
CONFALONIERI A., Il finanziamento delle imprese pubbliche, Edizioni Comunità di Milano, 1963
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CURSI G. – GRAZIANI C. Il volontariato sociale italiano. Rapporto di ricerca, Edizioni Fondazione Italiana per il Volontariato, Roma, 1995.
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PROPERSI A. – ROSSI G., Associazioni e Fondazioni, DeLillo Editore 1994.
ROMANO R. NICOSIA F. Le Società Cooperative, Maggioli Editore, Milano, 1998.
[1] La legge 460/97 considera le cooperative sociali Onlus di diritto.
[2] La figura delle ONLUS, a dire il vero, non è del tutto nuova nello scenario legislativo italiano; già un disegno di legge approvato dal consiglio dei ministri nella seduta del 14 dicembre 1995 recante la “Disciplina fiscale delle organizzazioni non lucrative aventi utilità sociale” ne aveva previsto le caratteristiche.
[3] Si veda la classificazione delle aziende proposta da Mario Cattaneo, Etas Libri, Milano, 1969 “Economia delle aziende di produzione pagg. 70-71.
[4] Si pensi per esempio ai controlli previsti dalla legge 460/97 per le Onlus e alle revisioni previste dal D. Lgs. Cps 1577/1947 ogni due anni per le società cooperative in genere, che diventano annuali per le cooperative sociali come previsto dalla legge 381/1991.
[5] A mezzo fax.




Il C.A.P.E. dice che la bolla di Wall Street non scoppierà domani

Una pericolosa bolla speculativa

Da qualunque angolatura li si guardi, i mercati borsistici hanno superato, a tre mesi dal voto americano e dopo un mese di presidenza Trump ogni precedente record, con Wall Street che ovviamente guida tanto i rialzi quanto le valutazioni aziendali implicite ai livelli raggiunti e le altre borse di tutto il mondo che la seguono più o meno a ruota.

Sebbene gli investitori abbiano solidi motivi per rimanere ottimisti circa l’andamento dell’economia mondiale, sebbene le azioni abbiano tratto beneficio dalle attese di rialzo dei tassi di interesse che hanno spinto in molti a disinvestire dal reddito fisso per adire alle scommesse borsistiche, ad ogni movimento e ad ogni ciclo di borsa si oppone sempre un limite, di ragionevolezza come pure di riscontro con le variabili dell’economia reale.

Per questo motivo non c’è osservatore al mondo che non si chiede quando scoppierà la bolla speculativa degli indici azionari che continuano a gonfiarsi.

Sia chiaro che non crediamo che ciò succeda da un giorno all’altro.


Le ragioni dell’ottimismo

Ci sono, come dicevamo, molte buone ragioni per comprare azioni: dalle buone (e in parte inaspettate) notizie sugli utili aziendali, alle ventilate riduzioni e rimodulazioni delle tasse in America (che non potranno che dettare il passo anche al resto del mondo), a quelle sull’andamento delle vendite al dettaglio, degli investimenti e delle materie prime, tutto lascia supporre che stiamo vivendo un momento magico di ulteriore ripresa economica proprio quando una serie di indicatori potevano invece far pensare all’esaurimento di un ciclo economico rialzista, alle nefaste conseguenze della Brexit e all’acuirsi delle instabilità geo-politiche che potevano derivare dagli intenti neo-populisti dei nuovi eletti in Occidente.

Persino gli annunci di tre-quattro-cinque rialzi dei tassi da parte della Federal Reserve sono stati incredibilmente digeriti senza colpo ferire dagli operatori che da un lato hanno dato poco credito (a causa dei modesti movimenti precedenti) alle parole dei banchieri centrali, dall’altro hanno considerato quegli annunci come un’ottima conferma del buono stato di salute dell’economia.

Le buone notizie peraltro non si fermano qui.
Il “capital adjusted price/earnings ratio” e i dubbi sul prosieguo della corsa delle borse

Se guardiamo infatti all’effettiva sopravvalutazione dei titoli azionari che compongono i listini troviamo che i moltiplicatori del reddito, essi non sono poi così elevati.

L’indice, elaborato nel 1988 da Robert Schiller e John Campbell a scopo predittivo, mostra oggi un livello elevato del rapporto Prezzo/Utile dei titoli azionari quotati in borsa, aggiustato per l’inflazione, ma ancora lontano dai picchi raggiunti con la crisi del 1929 e in quella della New Economy della fine degli anni ’90 (https://en.m.wikipedia.org/wiki/Cyclically_adjusted_price-to-earnings_ratio )
Se teniamo poi conto del ricalcolo che sarà opportuno fare in funzione della riduzione della tassazione promessa da Donald Trump, ecco che rischia di suonare ancora del tutto ragionevole, tenuto conto dei bassi tassi d’interesse attuali e prospettici.

Tuttavia il famoso giornalista ed economista britannico Larry Elliot dalle colonne della rubrica che tiene per il Guardian, ha molti dubbi.

Dal suo punto di vista la psicologia dei mercati è divenuta quella tipica dei momenti di cieca euforia: le cattive notizie non interessano più a nessuno!
I rischi di una guerra protezionistica globale non spaventano, i timori di una vittoria in Francia ed Olanda dei partiti più radicalmente contrari all’Unione Europea non intimoriscono, la prospettiva di ulteriori rivalutazioni del Dollaro non interessano.

Elliot ci fa notare che secondo John Mainard Keynes le bolle speculative dei mercati borsistici non scoppiano e possono continuare le loro corse irrazionali ben più tardi di quando gli operatori divengono insolventi.


Le cassandre sino ad oggi hanno fallito

È troppo difficile peraltro per qualsiasi investitore professionale pensare di uscire dal mercato proprio mentre esso continua ad inanellare nuovi record e d’altronde, se qualcuno avesse dato retta alle cassandre che dicevano le stesse cose già tre o quattro mesi fa, avrebbe mancato uno dei più spettacolari rialzi in borsa della storia economica moderna!

Oggi i mercati non arrestano la propria corsa perché i tassi di interesse reali sono oramai in territorio negativo (l’inflazione è più alta dei tassi) e perché gli investitori sono drogati dalla prospettiva di ricalcolare al ribasso l’imposizione fiscale sugli utili aziendali.

Domani tuttavia, quando i tassi torneranno a salire in maniera più consistente, quando il problema dell’insostenibilità dei debiti pubblici tornerà a assillare i mercati, quando si inizieranno a fare i conti dell’impatto delle nuove barriere doganali sui profitti delle grande imprese, lo sconforto o più semplicemente una piccola delusione potrebbe prendere prendere il sopravvento sull’attuale euforia, determinando un assestamento se non addirittura un crollo (difficile stimarne l’entità, dato il livello molto elevato cui sono giunti i mercati).

Altra variabile che può determinare un calo futuro delle borse è la progressiva riduzione della liquidità disponibile sui mercati, della quale non hanno sino ad oggi risentito solo perché i titoli azionari hanno attirato i capitali in fuga dal reddito fisso, con un effetto netto addirittura positivo.

Ma più di ogni altra variabile ciò che può davvero cambiare l’umore dei mercati borsistici è l’eventualità che parte delle riduzioni fiscali promesse dall’amministrazione Trump risultino per qualche verso impraticabili. Cosa peraltro oggi improbabile e, sicuramente, non all’ordine del giorno nel breve periodo.
Più le borse salgono però andando verso l’irrazionale e più evidentemente c’è il rischio che la discesa sarà brusca.

Godiamoci perciò questo momento di grazia, sapendo tuttavia che non può durare troppo a lungo e che pertanto, da questo momento in poi, ogni occasione può essere buona per monetizzare le plusvalenze, acquistando casomai negli intervalli di debolezza, aumentando il margine di manovra man mano che passano le settimane.

 

Stefano di Tommaso




Le tecnologie che rivoluzioneranno il nostro futuro

 1) LEGGE DI MOORE, INTERNET DELLE COSE E BIG DATA

Già oggi miliardi di sensori autonomamente collegati alla rete tramite le tecnologie conosciute collettivamente sotto il nominativo di “internet delle cose” ci permettono di creare sistemi automatici di gestione delle abitazioni (domotica), delle automobili (self-driving cars), degli ambienti produttivi (industry 4.0), della salute (cardio-fitness bracelets) eccetera.

È una rivoluzione silenziosa e capillare che però va ben oltre quel che si può immaginare comunemente perché non è costituita da una nuova tecnologia, innovativa e dirompente. Si tratta bensì del risultato sconvolgente che può scaturire dal combinato disposto di :

• più potenti sistemi di computers (la famosa legge di Moore predice per difetto un’impennata esponenziale nella capacità di calcolo disponibile);

• nuove e inaspettate configurazioni dei personal computers (si pensi all’impatto che hanno già creato sino ad oggi i tablets e gli smartphones nella nostra vita quotidiana per comprendere quanto diversi potranno essere in futuro i computers che utilizzeremo al posto degli attuali desktop e laptop) che incrementeranno l’utilizzo di sistemi basati sulla realtà virtuale;

• nuovi supercomputers e grandi sistemi di elaborazione collettiva dei dati saranno accessibili dalle “server farms” in via remota anche dal più piccolo dei sistemi mobili;

• rivoluzionari nuovi software e più in generale nuovi sistemi di gestione delle miriadi di informazioni che provengono da quei sensori tutti collegati ad internet che troviamo oramai in qualsiasi oggetto (big data analytics) consentiranno di ottenere ed elaborare informazioni di qualsiasi tipo (dalle previsioni del tempo per ogni ora di ogni luogo agli andamenti della borsa e degli eventi sociali e sportivi, per incrociare dati statistici e predire eventi di qualunque genere, ivi comprese malattie e crimini).

 2) L’IMPATTO CUMULATIVO (E IL CONTROLLO) SULLA SOCIETÀ CIVILE

Il nuovo paradigma con il quale dovremo perciò confrontarci non è dunque soltanto il semplice impatto di tali innovazioni sulle abitudini umane e sul funzionamento della società civile.

Non parliamo solo delle numerose piccole innovazioni che permetteranno il miglior controllo dei siti produttivi, dell’inquinamento degli ambienti in cui viviamo e della nostra stessa salute, bensì di una rivoluzione “digitale” ben più profonda che può discendere dall’avvento della cosiddetta “intelligenza artificiale”, capace di apportare un cambiamento generale nelle abitudini ben più difficile da digerire di quanto lo possano essere la robotica, la domotica o l’auto intelligente.

• Il primo concetto da assimilare per calarsi negli sviluppi tecnologici prossimi venturi sarà quello di vivere in una società altamente interconnessa.  Miliardi di interazioni tra persone, idee, cose e sistemi, costituiranno un fortissimo stimolo per l’evoluzione della nostra mente ma potrebbero opporre anche potentissimi limiti nei riguardi degli altri aspetti della vita umana che appartengono alla sfera spirituale, dei sentimenti, della psicologia e della sociologia.

In altre parole l’eccesso di attenzione all’onnipotenza materiale che possono conferirci le nuove automazioni avanzate potrebbe configurare scenari apocalittici nei quali i fortissimi stimoli di questo nuovo ambiente in direzione della logica a noi necessaria e della costante interazione umana potrebbero costituire per la vita quotidiana una schiavitù più che una liberazione.

• Il secondo concetto forte da meditare al riguardo dell’irruzione delle nuove tecnologie nella vita riguarderà di conseguenza l’ulteriore forte riduzione della “privacy” di cui fino a ieri godevamo più o meno tutti noi.

Sino ad oggi la nostra partecipazione ai “social networks” è stato un fenomeno che ha solo parzialmente impattato sulla nostra vita quotidiana e che ha costituito sostanzialmente una nostra scelta: potevamo rinunciare volontariamente ad una parte della nostra privacy in cambio del calore dell’interazione umana e delle informazioni che essi ci offrivano.

Il problema si acuirebbe quando invece l’intera società civile se ne avvalesse, dal momento in cui essi dunque non costituirebbero più una scelta volontaria bensì un aspetto irrinunciabile della vita sociale perché a quel punto della privacy rimarrebbe solo un vago ricordo.

La questione dell’impatto sulla privacy dell’intelligenza artificiale prossima ventura non riguarda dunque soltanto il desiderio innato di poter isolare agli occhi e alle informazioni altrui la parte più intima della nostra vita, bensì anche e soprattutto l’aspetto sociale della medesima: i nostri orientamenti ideologico-politici, culturali, sessuali e sinanco religiosi saranno con ogni probabilità dei libri aperti per chi volesse utilizzare le numerosissime informazioni che riguardano la nostra vita per controllarli e indirizzarli.
Per non parlare dell’economia, della finanza e dell’influenza che i nuovi media potranno raggiungere sulle nostre abitudini di ogni sorta.

Il grande fratello è dunque in agguato più che mai. Non troppo diverso da come lo dipingeva George Orwell in “1984” (data che evidentemente risultava troppo ottimistica di poco meno di mezzo secolo) ma anche molto più insidioso, sottile, evanescente e al tempo stesso ancora più pervasivo e onnipresente di come era stato romanzescamente immaginato.

 3) I VANTAGGI E GLI SCENARI PIÙ ARDITI CHE DERIVANO DALLA DIFFUSIONE DELLE NUOVE TECNOLOGIE

Per essere onesti sino in fondo non possiamo tuttavia solo osservare gli aspetti potenzialmente più funesti della rivoluzione tecnologica oggi più o meno silenziosamente in corso, senza rimarcarne anche i prodigi ed i vantaggi pratici che essa potrà procurarci, a partire dal controllo della salute e dalla prevenzione delle malattie sino all’esplorazione scientifica e all’economia:

• innanzitutto al riguardo della medicina si possono immaginare molti scenari meravigliosi che discenderanno dall’avvento diffuso dell’intelligenza artificiale.
Dai braccialetti (o sensori sottocutanei) che potranno aiutarci a tenere sotto controllo tutti i maggiori parametri vitali fino alla cura delle malattie o all’utilizzo della robotica per la maggior parte degli interventi chirurgici nonché per la generazione, l’applicazione e la personalizzazione di protesi di ogni sorta, è facile predire che molte di queste innovazioni potranno rendersi immediatamente disponibili a costi progressivamente decrescenti, migliorando la qualità della vita;

• c’e poi da tenere presente che i sistemi di produzione di oggetti, servizi, macchine e impianti potranno -grazie all’automazione- risultare sempre più economici e maggiormente diffusi sul territorio, inaugurando una nuova stagione del “low cost” che oggi facciamo ancora fatica ad immaginare;

• per non parlare del possibile impatto delle tecnologie a basso costo sulla qualità della vita nel terzo mondo: sebbene non esistano certezze al riguardo, è possibile ipotizzare che un mondo fortemente interconnesso possa nel tempo ridurre le differenze socio-economiche oggi esistenti, diffondere più efficacemente e a bassissimo costo il sapere e dunque migliorare le condizioni di vita più che proporzionalmente nei paesi che sono oggi a più basso reddito;

• c’è infine da tenere presente l’enorme generazione di valore che può discendere dalla diffusione di massa dell’intelligenza artificiale: dalla produzione di nuovi sistemi di calcolo, all’elaborazione di nuovi sistemi di software fino ai risparmi di costo o alla massimizzazione della produttività in ogni campo (dall’alimentare all’energia) che possono derivare dall’applicazione di massa di sistemi di controllo di ogni genere, c’è da attendersi una progressione geometrica non soltanto della scienza ma anche della finanza, delle valutazioni aziendali e dei ritorni del capitale investito.

Che tutto ciò possa generare una miglior distribuzione del reddito o una ancora più pervicace concentrazione della ricchezza in poche mani in futuro non è invece facile da comprendere, o forse è proprio impossibile da prevedere oggi.

E tuttavia piuttosto probabile che, se si moltiplicano le occasioni di profitto, calano costi di produzione e prezzi di vendita e migliorano si sistemi che curano la salute, anche le condizioni sociali collettive avranno spazio per migliorare.
Lo scenario che ne deriva non è poi così oscuro, anzi!
Stefano di Tommaso