VENTI DI GUERRA

Sembrava che i mercati finanziari avessero adottato per sempre lo scenario standard della famosa bambola “Goldilocks” (riccioli d’oro) , quella che si muove in un mondo incantato in cui nulla è eccessivo e il sole splende sempre, e invece eccoci piombati in un battibaleno a toccare con mano una nuova diversa realtà, fatta di timori geopolitici e qualche tensione superficiale che fa pensare all’ennesimo ritorno della guerra fredda.

Sebbene i mercati finanziari vedano il loro barometro ancora costantemente rivolto verso l’alto, siamo indubbiamente passati dal “Bel Tempo” al “Sereno Variabile” ma, forse è quel che più conta, l’ago dello strumento ha iniziato a muoversi.

L’ECONOMIA MIGLIORA

Intendiamoci: l’economia mondiale è decisamente in miglior salute che non un anno fa e quella americana poi ancor di più, con la disoccupazione ai minimi storici, un Dollaro stabile e una meravigliosa stagione dei dividendi alle porte. Persino in Europa lo scenario economico migliora decisamente (con in più un pezzo di strada che le borse continentali devono ancora percorrere, mentre in America lo hanno già fatto), mentre i fondamentali dei Paesi Emergenti sono buoni, ivi compresi quelli dei colossi asiatici. Nemmeno tanto male il Giappone di Shinzo Abe, la cui economia è tornata a vedere una luce verde, anche se quasi solo per il medesimo motivo di quella europea: maggiori esportazioni verso il resto del mondo!

In questo contesto così positivo, con la Federal Reserve Bank of America impostata ad una estrema prudenza nel rialzare i tassi e ridurre i propri impieghi in titoli nel modo più “annunciato” possibile, il fulmine a ciel sereno delle manovre militari americane ha improvvisamente risvegliato l’attenzione degli operatori su quei tre o quattro focolai di guerra in medio Oriente come in estremo Oriente verso i quali si stanno rivolgendo le portaerei americane, ma anche quelle russe.

LA SCELTA DI TRUMP

Donald Trump su quelle partite (Siria, Iran e Corea del Nord, soprattutto) ha fatto una scelta, tutto sommato coerente con lo spirito che egli ha sempre dimostrato: quella di voler giocare d’anticipo, ottenendo in un colpo solo la solidarietà dell’intera sua nazione, il silenzio (economicamente ben ricompensato con gli accordi appena sottoscritti) degli eredi del Celeste Impero e, ovviamente, una secca risentita della Federazione Russa. Mentre di ciò che hanno detto tutti gli altri non poteva interessargliene di meno.

Giusta o sbagliata che sia con il senno di poi, una cosa sembra divenuta assai probabile: quella scelta avrà evidenti conseguenze sull’oceano pacifico dei mercati finanziari, dove evidentemente qualche increspatura dovrà pur riflettersi dopo i sassi lanciati su di esso.

I FONDAMENTALI SONO BUONI

Ed ecco che venerdì scorso i beni rifugio hanno subito ritrovato smalto, l’oro è di nuovo tornato in auge (come peraltro ampiamente prevedibile), gli investimenti in immobili riprendono vigore e persino le materie prime e l’energia rivedono nuove punte, come sempre accade quando tornano a galla le tensioni geo-politiche.

Sul fronte opposto le borse non temono poi granché e anzi, i titoli a reddito fisso sembrano veleggiare bene anch’essi -sintomo di una certa tranquillità generale dei mercati finanziari- ma di due importanti cose non possono che prendere atto:
– La loro volatilità non può che tornare in auge
– La liquidità che sino ad oggi ha contribuito a sostenerli si riduce, a beneficio di altre “asset class” e per effetto della riduzione degli interventi delle banche centrali.

Se al posto della liquidità interverranno a sostenere i mercati i (buoni) dati fondamentali dell’economia mondiale (come del resto era previsto: i profitti aziendali attesi per l’hanno in corso non sono mai stati così alti), allora le borse non avranno quasi alcun sussulto, altrimenti qualche piccolo tonfo sarà nell’aria.

IL RUOLO DELLE ASPETTATIVE

Ma una cosa è sicuramente cambiata e, sui mercati finanziari, essa non è mai stata di poco conto: la faccenda delle aspettative!

Se i profitti delle imprese risulteranno altissimi ma, per qualche motivo, comunque inferiori alle aspettative, se la crescita economica risulterà cospicua ma, quantomeno per i timori di guerra, un po’ meno forte di quanto si spera, se i prezzi di petrolio e commodities risulteranno elevati ma, a causa di un eccesso di offerta, magari non troppo rispetto a quanto si sperava, ecco che le elevate aspettative dei mercati, legate alla “reflazione”, alla crescita economica e al crescente valore delle imprese, risulterebbero deluse ed ecco che, quantomeno, una certa volatilità dei mercati potrebbe rimpiazzare lo scenario “Riccioli d’Oro” visto fino ad oggi per poco meno di un anno.

Io resto ancora dell’idea che la riforma fiscale impostata da Trump sarà probabilmente un successo, che la tormentata Unione Europea (anche a causa delle minacce dei partiti nazionalisti) riuscirà a trovare la volontà di migliorare il proprio governo, che molti Paesi asiatici continueranno a investire per un futuro migliore, che il resto del mondo potrebbe avere davanti a sé anni di crescita pacifica.
Qualche missile e qualche manovra militare non hanno il potere di sradicare tutto ciò.

Ma, dal punto di vista dei mercati finanziari, le aspettative potrebbero essere deluse e spesso la tempistica conta più del risultato. È soprattutto per questo motivo che gli indici di borsa potrebbero accusare qualche sussulto!

 

Stefano di Tommaso




IL SUCCESSO DI PRIVATE EQUITY & VENTURE CAPITAL FA LIEVITARE LE VALUTAZIONI AZIENDALI E IL BENESSERE ECONOMICO

IL CLAMOROSO SUCCESSO DELL’INVESTIMENTO NEL CAPITALE DI RISCHIO  (PRIVATE EQUITY & VENTURE CAPITAL)

Il combinato disposto di ottime performances, cautela negli investimenti e un successo crescente nella raccolta (830 operazioni di fundraising nel 2016 hanno raccolto quasi 350 miliardi di Dollari) ha determinato un aumento considerevole della massa di denaro a disposizione dei fondi di private equity di tutto il mondo (per un totale di 820 miliardi di Dollari a fine 2016) e, ancor più importante, una crescente valutazione media delle imprese oggetto di investimento da parte loro!

È quel che riporta l’analisi pubblicata dal Prequin Global Private Equity & Venture Capital Report https://www.preqin.com/docs/samples/2017-Preqin-Global-Private_Equity-and-Venture-Capital-Report-Sample-Pages.pdf
con un’analisi molto dettagliata per settori e comparti nel mondo.

GLI INVESTIMENTI AVVENGONO A VALUTAZIONI SEMPRE PIÙ ELEVATE

Le grandi disponibilità dei fondi e la rinnovata possibilità di ottenere leva a tassi di interesse molto bassi, hanno però spinto verso l’alto in maniera importante le valutazioni delle società target: il 38% dei fondi intervistati da Preqin ha detto di aver visto crescere molto le valutazioni delle imprese e ciò nonostante ha dichiarato che gli investimenti nelle imprese continueranno in maniera decisa.

L’alternativa all’ingresso del Private Equity nel capitale, per tutte le aziende che se lo possono permettere è, si sa, la quotazione in Borsa. Ora i livelli stratosferici raggiunti oramai da tempo delle loro quotazioni , parallelamente ai bassi livelli dei tassi di interesse, aiutano ad elevare i parametri di riferimento (benchmark) per le valutazioni che i fondi devono riconoscere se vogliono ottenere un assenso dai migliori imprenditori.

La logica che ne consegue è senza dubbio che gli investitori del private equity dovranno necessariamente partire da livelli più alti di prezzo iniziale nella loro strategia di costruzione del valore per poi riuscire a disinvestire con un guadagno e tenere testa alle aspettative di chi ha dato loro fiducia, ma non solo.

CRESCE IL NUMERO DI AZIENDE INVESTITE E L’M&A CROSS-BORDER

Due interessanti corollari seguono infatti quella logica al rialzo:

– Il primo riguarda il fatto che, con importi di denaro contante più interessanti sul tavolo, molto probabilmente un sempre maggior numero di imprenditori prenderà nel prossimo futuro la decisione di accogliere un fondo chiuso nel proprio capitale azionario;

– Il secondo riguarda il fatto che ciò non potrà che favorire a sua volta le operazioni di fusioni e acquisizioni ( M&A ) nonché le combinazioni industriali “cross-border” (oltre confine)dal momento che i fondi di private equity cercheranno di giocare la partita della crescita di valore soprattutto su di esse, non potendo limitarsi a comprare bene per vendere meglio.

Le operazioni di “taglia e cuci” dei perimetri aziendali giocano indubbiamente un ruolo fondamentale nella possibilità di prendere in mano un business (soprattutto quando esso è in un settore industriale tradizionale) e cercare di efficientarlo, di esasperarne i punti di forza o di limitarne quelli di debolezza.
Ma più che nella ricerca delle sinergie e delle efficienze la vera partita i grandi investitori di Private Equity la giocano sui mercati di sbocco, dal momento che spesso è in quella direzione che le aziende non già completamente globalizzate possono lavorare per guadagnare la propria presenza su mercati nuovi, emergenti, o in maggior crescita. Primi fra tutti ovviamente quelli asiatici…

LA BORSA DA UNA MANO AL VENTURE CAPITAL

Anche per il venture capital il periodo più recente è stato innegabilmente il più roseo: l’avvento della digitalizzazione e della globalizzazione ha certamente favorito lo sviluppo di queste ultime e, con esse, del valore creato dalle imprese che hanno cavalcato le innovazioni.
Anche per il venture capital l’evoluzione delle quotazioni borsistiche ha favorito i favolosi rendimenti di chi vi ha investito: senza l’avvento delle molteplici quotazioni in Borsa degli “unicorni” (le start-up tecnologiche valutate più di un miliardo di Dollari) il disinvestimento dei fondi di capitale di ventura sarebbe stato più difficile e, con esso, il loro guadagno.

In definitiva dunque il successo del mercato dei capitali che condanna i suoi operatori a lavorare sempre meglio e sempre più su scala globale, favorisce lo “shake-out” del panorama industriale, che con essi si rinnova più velocemente, si consolida nelle dimensioni aziendali e nella capacità distributiva e, soprattutto, si rende più efficiente nei margini e nella produttività anche grazie all’adozione di innumerevoli nuove tecnologie.

QUALI CONSEGUENZE SOCIALI

Nel lungo termine questo fenomeno non può che generare ricchezza e, per tale motivo, ha aspetti positivi da qualunque parte lo si guardi, dal momento che senza la generazione di nuova ricchezza non può incrementarsi il benessere economico collettivo.
Nel breve termine viceversa alcune conseguenze negative dello shake-out industriale indotto dal rinnovamento radicale che consegue alle accelerazioni provocate dal mercato dei capitali sono innegabili, perché efficientare le aziende significa spesso liberarsi delle vecchie abitudini e dei vecchi dirigenti, i quali rischiano di ritrovarsi in gran numero a spasso e senza più il ruolo -anche sociale- che avevano in precedenza, magari importante.

L’accelerazione delle ricombinazioni industriali necessita perciò del supporto di sistemi di previdenza sociale capaci di assicurare adeguati ammortizzatori alle vicende personali di chi si trovava a lavorare nell’ambito sbagliato o nel mercato che si rinnova maggiormente, per permettergli di ricollocarsi altrove. E questa è la nota più dolente, dal momento che i governi del mondo occidentale hanno sempre minori risorse per il “welfare” da spendere per i meno giovani.

Ma, come si sa, l’unica vera assicurazione per il benessere collettivo è la crescita economica e, mai come in questo momento prima, il mercato dei capitali è stato alacremente al lavoro per realizzarla!

 

Stefano di Tommaso




UN COLPO AL CERCHIO E UNO ALLA BOTTE

L’attacco americano alla base militare siriana da cui erano partiti gli aerei che hanno colpito malati e bambini è sembrata ai fan e agli alleati del Presidente una sortita paradossale. Certo difficile da comprendere.
Una manovra per ricordare a Assad (e a chiunque altro) che non si può esagerare, per mostrare al mondo che l’America è il suo “poliziotto” e al tempo stesso per riportare al centro l’ago della bilancia degli equilibri politici interni americani.
Una manovra che non ha però tenuto conto dei rischi che essa comportava sulla geopolitica globale.

UN COLPO A SORPRESA

È molto probabile che i missili americani siano stati voluti lanciare soltanto a scopo dimostrativo. Non dovevano avere incidenza sul piano militare, bensì scrivere un messaggio rivolto soprattutto alla politica interna USA. In realtà se Trump non mostrerà che ha una strategia veramente geniale, egli appare essere caduto in una trappola.
L’attacco unilaterale, deciso a caldo e senza nessun passaggio preventivo (né all’ONU, né con gli alleati) intendeva mostrare un Presidente capace di mantenere autonomia da Mosca e con un proprio potere decisionale. Alle strette per il “Russiagate”, Trump ha ascoltato chi gli suggeriva che l’unico modo per non mostrarsi debole fosse colpire lui a sua volta chi aveva (probabilmente per errore o senza saperlo) colpito su un deposito di veleni tenuto apposta vicino a dove si trovavano bambini.
Forse Trump voleva mostrare a suo modo un senso umanitario, il distacco degli USA dalla spavalderia di chi attacca anche gli ospedali ma, principalmente, voleva ammutolire chi lo vuole sottomesso a Putin e fugare i fantasmi di chi lo paventa auspice di una nuova dottrina Monroe (ritiro USA dai principali scacchieri internazionali).

L’OBIETTIVO SBAGLIATO

La base colpita dai missili di Trump (quella da cui erano partiti gli aerei che hanno fatto saltare il deposito di veleni) era tuttavia essere un avamposto importante contro l’ISIS. Una delle principali da cui partivano le missioni contro lo Stato Islamico sul fronte sud, il territorio tra Palmira e Deir Ezzor. Forse a Trump non hanno spiegato bene che colpire questa base avrebbe solo dato respiro al Califfato, in precedenza in ritirata ovunque.
Fino al 7 aprile l’equilibrio che si stava configurando a luci spente in Siria era:
– Assad e i russi avrebbero vinto la guerra contro i ribelli e l’ISIS;
– Gli USA di Trump avrebbero partecipato al trionfo conquistando Raqqa e beneficiato della pacificazione generale del Medio Oriente;
– Alla Turchia sarebbe stato lasciato il controllo sul territorio a ridosso del suo confine, per smaltire i profughi e controllare i curdi.
– La questione curda e gli equilibri in Siria sarebbero stati discussi in seguito.
La strategia di Trump fino a ieri sembrava molto più chiara, ma a qualcuno quello scenario non era piaciuto e ha trovato la buccia di banana su cui farlo scivolare.

CHI ERA RIMASTO SCONTENTO

L’Arabia Saudita avrebbe voluto infatti veder instaurare un governo sunnita in una Paese storicamente ostile.
Israele, nonostante le garanzie di Mosca, recentemente ha visto potenziare il peso politico e militare degli Hezbollah e del loro dante causa: l’Iran. Per Israele il vero pericolo non è la dinastia Assad, tollerata da 40 anni, bensì Teheran. Il quadro che vedeva la Siria troppo vicina all’Iran non gli dava sufficienti garanzie.
Israele aveva bisogno di un segnale forte contro l’Iran, che da Obama non era mai arrivato, nonostante l’aiuto fornito ai miliziani sunniti.
La Turchia infine in Siria aveva dovuto rinunciare all’operazione Scudo dell’Eufrate accettando la crescita delle milizie curde, perché decisive sul fronte anti ISIS. Erdogan, vedendo il rischio di rimanere col cerino in mano, ha ricominciato ad alzare i toni contro Assad, dopo averli attenuati per un anno per compiacere Putin.
Le conseguenze dell’attacco alla Siria di Assad possono essere ben maggiori di ciò che si poteva immaginare inizialmente e si vedranno nei prossimi giorni nelle relazioni USA con la Russia. La pazienza di Mosca con gli atteggiamenti ondivaghi di Trump non sarà infinita: Putin ha già annunciato la fine della collaborazione con gli USA per la sicurezza nei cieli siriani.

CHI CI GUADAGNA

In tutto questo esultano dunque l’Isis e il movimento sunnita supportato dall’Arabia e dagli Emirati, la Turchia, Israele, il clan dei Clinton alleato a quello dei repubblicani “dissidenti” di MacCain e, soprattutto, chi ci sta dietro. Chi ci perde è l’ala moderata dell’Islam con la fazione sciita dell’Iran e i suoi alleati di sempre: Russia e Cina.
Dopo aver perso le elezioni presidenziali l’ex Segretario di Stato USA era alla ricerca di alleati sul fronte anti Assad. Per l’ex First Lady il ritorno alla guerra fredda è, per vari inconfessabili motivi, un obiettivo primario.
I primi sentori che il vero potere di veto in politica estera ce l’avessero il Pentagono e le lobbies interessate alla vendita degli armamenti che lo controllano, si avevano già dai primi giorni dell’insediamento del Presidente alla Casa Bianca. Il Russiagate era preparato da un pezzo e poco dopo ad uno ad uno, tutti i collaboratori di Trump “alternativi” alla politica atlantista sono caduti. Come Michael Flynn e Stephen Bannon, rimossi dagli incarichi sulla sicurezza nazionale.
Trump per il momento sembra perciò solo caduto nella trappola di chi non lo vuole allineato a Putin.
Nei fatti adesso l’equilibrio politico tra i due partiti negli USA è ritornato simile a quello da tempo visto nell’Unione Europea : fronti politici tradizionalmente ostili tra loro si alleano contro i movimenti “populisti” che intendono resistere alla globalizzazione forzosa e rispolverare le specificità e identità nazionali.

QUALE LINEA POLITICA PER TRUMP?

Trump sembrava aver indicato alle classi medie e ai paesi non allineati una propria terza via, ma la speranza di affrancarsi dal fronte a lui contrario con colpi di coda come i 59 missili lanciati alla Siria per scopi dimostrativi non gli gioverà a lungo.
Con il suo cerchiobottismo Trump rischia di mostrarsi solo incapace di imporre quella terza via per la quale è stato eletto.
Dopo l’attacco USA alla Siria, c’è anzi una sola certezza: colpire chi aveva bombardato probabilmente per errore un deposito di armi chimiche non è stata un’operazione umanitaria bensì forse una trappola.
L’ISIS adesso esulta: lo scacchiere mediorientale è stato rovesciato, mentre Cina e Russia si interrogano o sono silenziosamente consenzienti per finalità “esterne
Il partito della guerra segna un bel punto a proprio favore, mentre l’instabilità politica darà forse una mano alla volatilità delle borse e al rialzo dei tassi e del petrolio.
Quale che sarà la prossima mossa, il Presidente ha messo la sua credibilità a forte rischio!

 
Stefano L. di Tommaso




Italia, l’economia risale senza credito ma durerà?

REPORT DEL CENTRO STUDI CONFINDUSTRIA -Alleviare i bilanci bancari dalle sofferenze è vitale per far ripartire il credito e il vertice dei ministri finanziari Ue del 7 e 8 aprile a Malta è l’occasione per individuare soluzioni.

È cruciale favorire rapidamente la ripartenza del credito alle imprese italiane. Per far ciò, bisogna anzitutto trovare soluzioni, nazionali o europee, per alleviare il peso delle sofferenze nei bilanci bancari, che tiene alta l’avversione degli istituti al rischio di credito. La riunione dei ministri finanziari UE del 7-8 aprile a Malta è il luogo ideale per delineare una strategia efficace.

Infatti il lento recupero dell’economia italiana sta avvenendo nonostante continui la riduzione dei prestiti alle imprese (-15,3% dal 2011, -2,2% nel 2016). Ma è proprio questa diminuzione uno dei freni dell’economia, che aiuta a spiegare il divario di crescita con Francia e Germania. Il credito in Italia si riduce anche nel manifatturiero (-19,6% dal 2011, -3,4% nel 2016), con ampi divari di andamenti nei vari settori.

Quanto può durare ancora la creditless recovery in Italia, che ha già due anni di vita? In Spagna, paese paragonabile per grado di indebitamento delle imprese e sviluppo dei mercati finanziari, la risalita senza credito dura da oltre tre anni. Come mai? Perché c’è un solido trend di aumento della redditività delle imprese e, quindi, della possibilità di autofinanziamento.

Anche in Italia il mark-up delle imprese è risalito (+2,9% rispetto al minimo del 2012). Tuttavia, ciò è legato al calo dei prezzi degli input, non a quello del CLUP come in Spagna. Nello scenario CSC, i margini italiani vengono erosi nel 2017, dopo essersi fermati già nella seconda parte del 2016.

Risalita lenta dell’economia in Italia

In Italia la seconda recessione dall’inizio della crisi è alle spalle. Ma gli effetti devastanti sul tessuto industriale e sociale sono ancora evidenti e contribuiscono a frenare la velocità di uscita, più che in altri paesi europei.

Il PIL italiano, in volume, è tornato a crescere, lentamente e senza stasi, da inizio 2015 e ha accumulato un incremento del 2,0% fino al quarto trimestre 2016 (dopo una stagnazione di 7 trimestri tra 2013 e 2014). In particolare, gli investimenti in macchinari e mezzi di trasporto hanno recuperato rapidamente nell’ultimo anno (+7,6%), segno che gli incentivi funzionano e che le imprese rispondono. Nella seconda recessione, che è durata 7 trimestri a partire dal terzo 2011, il PIL era diminuito del 5,2% (nella prima recessione -7,6% in un anno, dal 2° trimestre 2008). Oggi è ancora ben lontano dai livelli pre-crisi (-7,4% rispetto a inizio 2008).

Negli altri principali paesi europei l’economia ha avuto un andamento diverso. In Francia e Germania non si è avuta una seconda recessione. In Spagna è iniziata prima che in Italia ed è durata di più (10 trimestri), avendo registrato una contrazione analoga (-4,9%). Ma là il recupero, iniziato nell’autunno 2013, sta procedendo a una velocità quasi tripla rispetto a quella dell’Italia (+0,7% medio trimestrale contro +0,25%).

Credito sempre più scarso per le imprese italiane

Uno degli elementi che contribuisce a spiegare la lentezza della risalita dell’economia italiana è la carenza di credito. In Italia i prestiti alle imprese si sono ridotti per cinque anni consecutivi, a un ritmo medio del 3,2% all’anno nel periodo 2012-2016 (-15,3% cumulato; Grafico A). E la caduta, a inizio 2017, è proseguita. Nel 2016 sono diminuiti anche i prestiti alle imprese erogati dai primi 4 gruppi bancari italiani: -0,8% (elaborazioni CSC sui bilanci dei singoli istituti), rispetto al -2,2% dell’intero sistema bancario.

Nel manifatturiero i prestiti hanno registrato un -3,4% nel 2016, dopo il -4,9% all’anno nel 2012-2014 e la piccola risalita nel 2015 (+0,6%). Lo stock di prestiti è inferiore del 19,6% rispetto ai valori del 2011. La forchetta di andamenti tra i vari settori manifatturieri è molto ampia. Nel 2016, si va da -8,0% nella carta-stampa, a +3,9% per l’alimentare; su 11 settori, solo 2 registrano una variazione positiva. Per tutti i settori lo stock di prestiti è inferiore ai livelli del 2011: il minimo si registra nel petrolifero-chimico-farmaceutico (-43,7%), un comparto eterogeneo per il quale non sono disponibili dati più disaggregati. Riduzioni marcate si sono avute nel legno-arredamento (-25,3%) e nella carta-stampa (-25,2%). Anche in settori in cui gli andamenti recenti sono positivi lo stock resta basso (alimentari -1,9%)1.

La brusca riduzione del credito negli ultimi anni ha messo in difficoltà molte imprese, che devono fare i conti con tale restrizione nelle scelte operative. Nella gran parte dei casi, la flessione dello stock di credito, infatti, non è stata dovuta a una minor domanda da parte delle aziende, visto che l’attività economica è cresciuta; piuttosto, le imprese hanno subito la restrizione del credito, dal lato dell’offerta.

Il principale freno all’offerta di credito in Italia sono le elevate sofferenze bancarie (141 miliardi di euro, pari al 18,6% dei prestiti), eredità della doppia profonda recessione. Dall’autunno 2015 lo stock oscilla su questi valori elevati. Ciò tiene alta l’avversione al rischio di credito delle banche. Un problema sottolineato da molto tempo dal CSC2. Gli interventi varati finora in Italia (tra cui: deducibilità fiscale in un anno delle perdite su crediti, velocizzazione delle procedure fallimentari, garanzie pubbliche sulle sofferenze cartolarizzate, creazione del Fondo Atlante) sono stati utili, ma non risolutivi.

Le sofferenze sono, finalmente, all’attenzione anche della UE, come dichiarato a marzo dal Vice Presidente Valdis Dombrovskis. Nella prossima riunione a Malta del 7-8 aprile i ministri finanziari discuteranno del coordinamento europeo di iniziative nazionali lungo tre direzioni: stimolare le banche a mettere mano alle proprie sofferenze (la BCE ha di recente pubblicato dettagliate linee guida); migliorare il funzionamento dei mercati secondari nazionali delle sofferenze; modificare le regole nazionali per i fallimenti societari in modo da velocizzare le ristrutturazioni dei crediti deteriorati (tema già affrontato di recente in Italia). Si parlerà anche della proposta EBA di fine gennaio, per la creazione di un veicolo europeo in cui trasferire le sofferenze, sulla quale però non sembra esserci il necessario consenso. In generale, non pare delinearsi un’unica azione congiunta nell’Area. È cruciale, però, che vengano definite soluzioni in grado di agire in tempi rapidi per far ripartire il canale del credito, ostruito in vari paesi UE.

Ad esempio, in Spagna i prestiti alle imprese si riducono e perfino a un ritmo più intenso rispetto a quanto avviene in Italia (-10,0% all’anno nel 2012-2016), dopo però essere cresciuti molto di più prima della crisi. Viceversa, i prestiti stanno crescendo già da tre anni in Francia (+3,7% annuo nel 2014-2016) e da due in Germania (+1,9% annuo nel 2015-2016) e accompagnano l’espansione dell’attività economica.

Il tradizionale nesso tra credito e attività economica

Il nesso causale da credito a PIL, storicamente, è molto solido. In passato, sia in Italia sia in altri paesi, la crescita è stata alimentata dai prestiti bancari. Per esempio, nel 2004-2007 in Spagna i prestiti alle imprese sono cresciuti in media del 24% all’anno, in Italia del 9%, in Francia dell’8%. Tutti questi paesi hanno registrato in quel periodo un’espansione dell’economia (in Italia +1,5% medio annuo nel 2004-2007). Varie analisi hanno evidenziato il contributo importante fornito dal credito alla crescita del PIL nella fase pre-crisi.

Nell’attuale fase, invece, la mancanza di credito per le imprese sta frenando la crescita italiana. Ciò perché essa fa mancare a molte aziende le risorse per nuovi investimenti produttivi, per il magazzino e, in alcuni casi, addirittura per l’attività corrente. Altre imprese, però, disponendo di maggiore autofinanziamento o di possibilità di accesso diretto ai mercati dei capitali, riescono a crescere, aggirando la mancanza di credito bancario.

Un aumento fragile di margini e auto-finanziamento

In Italia si è registrato un recupero del mark-up negli ultimi anni, una misura della redditività delle imprese, sebbene sia ancora su livelli compressi (Grafico B). Nel manifatturiero esso è aumentato dello 0,6% nel 2016 e del 2,3% cumulato nel 2013-2015 (dopo il -5,2% cumulato nel 1996-2012). Nel totale dell’economia, il markup è rimasto stabile nel 2016, dopo il +1,0% nel 2013-2015 (-4,4% nel 1996-2012). I dati sul MOL, espresso in percentuale del valore aggiunto, confermano questo recupero: +1,6 punti percentuali nel manifatturiero nel 2016, dopo  i +3,4  punti  cumulati  nel  2013-2015 (era sceso di 10 punti nel 1995-2012).

Tutto ciò, però, è avvenuto perché i prezzi degli input si sono ridotti (nella manifattura – 6,5% cumulato nel 2013-2015 e -0,1% nel 2016),  in  particolare  le  quotazioni  delle  materie  prime.  A  questo  è  conseguito  il taglio, meno marcato e già arrestatosi, dei  prezzi di vendita delle imprese (-3,2%  nel  2013-2015, +0,6% nel 2016). Il recupero dei margini  non  ha  beneficiato  dell’andamento del costo del lavoro. Il CLUP, ossia il costo del lavoro per unità prodotta, dopo essere salito prima e durante la crisi, è rimasto sostanzialmente invariato negli ultimi due anni (+0,2% nella manifattura nel 2016, dopo lo zero nel 2015).

Perciò, il recupero dei margini e della capacità di autofinanziamento in Italia è fragile, esposto al rischio di un rincaro delle materie prime. Il quale, come atteso, ha iniziato a verificarsi nel corso del 2016 e ha già arrestato la risalita del mark-up.

Quanto può durare la creditless recovery italiana?

In Italia, dunque, da due anni (2015-2016) c’è una lenta risalita dell’economia che avviene insieme a una forte contrazione del credito alle imprese. La questione è: quanto può durare?

La Spagna offre un utile termine di confronto. Anzitutto perché simile all’Italia quanto a grado di indebitamento delle imprese e a loro possibilità di accesso diretto ai mercati finanziari e, quindi, in termini di importanza delle diverse fonti di finanziamento dell’attività. Il grado di indebitamento bancario, misurato dai prestiti alle imprese in percentuale del PIL nominale, è in caduta in Italia ed è sceso molto sotto i picchi del 2011 (45,3% nel 2016, da 54,6%), pur restando sopra i valori di inizio anni Duemila (Grafico C). In Spagna era più alto ed è sceso rapidamente su livelli inferiori a quelli italiani (44,3%, da 85,3% nel 2008). In Francia cresce e non è lontano da quello italiano, in Germania è più basso e si riduce.

Inoltre, anche in Spagna il PIL sta crescendo (e più velocemente che in Italia) nonostante il calo dei prestiti. La creditless recovery spagnola dura da oltre tre anni. È cruciale capire come questo sia possibile. Per far crescere investimenti e attività corrente occorre avere finanziamenti, che siano bancari, non bancari o interni all’azienda. Il punto è che anche in Spagna i margini crescono e lo fanno molto più che in Italia e da più tempo: +0,1 punti percentuali nel 2016 il MOL nel manifatturiero, dopo +7,3 punti cumulati nel 2013-2015 e +2,9 punti già nel 2010-2012.
Ciò ha portato il MOL in Spagna a livelli molto più elevati che in Italia: 46,5% nel 2016, rispetto a  2,3%. Quindi, è aumentata molto   negli ultimi anni la possibilità di autofinanziamento delle imprese  spagnole.  Inoltre,  si  tratta  di  un recupero di  redditività robusto, perché avviene grazie al lungo trend di moderazione del costo del lavoro: -0,4% il CLUP  manifatturiero spagnolo nel 2016, dopo il -11,8% cumulato nel 2013-2015 e il -3,0% già nel 2010-2012.

In Italia, dunque, la risalita economica senza credito bancario ha poche possibilità di durare quanto in Spagna. Un appiattimento dei margini delle aziende italiane si è già verificato nella seconda parte del 2016. Nello scenario CSC, si registra una nuova erosione nel 2017. Quindi, l’autofinanziamento cessa di salire e poi si assottiglia. Ciò avviene a causa del tendenziale rincaro sia del petrolio sia delle commodity non-energetiche.

È per questo che le imprese italiane, per finanziare i nuovi investimenti e l’aumento dell’attività corrente, a fronte di risorse interne che smettono di aumentare e del limitato accesso a fonti non bancarie, hanno urgente necessità di una ripartenza dei prestiti. In modo da non dover frenare il già lento recupero dell’attività, faticosamente avviato.

Gian Paolo Caselli
Gabriele Pastrello
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