PROTEZIONISMO E MEDIOCRAZIA

L’economia di guerra ha alcune caratteristiche peculiari. Tipici delle guerre sono infatti i fenomeni deflattivi, l’incremento della disoccupazione, la crescita del numero di sfiduciati che non cercano nemmeno più un lavoro, l’aumento delle tasse, eccetera.

L’insieme di questi fenomeni arriva a generare il c.d. “crowding out” dell’economia privata da parte di quella pubblica (spiazzamento), per cui ad esempio all’aumento delle aliquote fiscali diminuisce il gettito perché, dato uno stock di reddito, se si devono pagare più tasse si comprimono altri flussi. I consumi per esempio, se cresce l’aliquota IVA.

Tipico delle economie di guerra è anche il ritorno al protezionismo. Diversamente da quanto molto stampa ci racconta, chi ha determinato questo ritorno ad altri tempi, non è il Trump, miliardario generato dal capitalismo maturo della fine del secolo scorso, bensì i burocrati dell’Unione Europea, che trincerandosi dietro regole per la tutela della salute, hanno cercato di imporre misure protezionistiche agli Stati Uniti, impedendo l’importazione della carne nel vecchio continente. E non si tratta solo delle carni trattate con estrogeni, ma anche di numerose sostanze medicinali, il cui uso in Europa è vietato, salvo quando il veterinario deve curare un animale malato. Sulla base del fatto che  gli americani utilizzano anabolizzanti e ormoni con regolarità, è quasi  tutta la carne proveniente dagli Usa ad essere vietata in Europa.


IL CONCETTO DI “MEDIOCRAZIA”

La stampa nostrana, più che essere di “regime” è forse più semplicemente stata sapientemente orientata alla “mediocrazia” e, quindi, alla necessità di persuaderci di talune versioni della realtà appiattendo e ripetendo all’infinito degli slogan “discreti”, non dicendoci cioè mai cose troppo al di fuori del comune.

La verità è che il ceto “mediocratico” europeo occidentale (gli organi di informazione cioè nonché i loro manovratori, burattinai anche della politica) esce vittorioso da un decennio difficile (ha monopolizzato quasi tutte le leve del potere, mediatico e politico) ma anche cinicamente disilluso e, per cercare di contrastare il malcontento popolare che monta a causa dei fenomeni di impoverimento sopra descritti, si concentra sui rimedi tipici dell’economia di guerra.

La guerra però, accanto alle misure economiche sopra descritte prevedrebbe anche una riqualificazione industriale, legata alla produzione di armamenti e alla necessità di ricostruzione. Cose che, a differenza di un economia aperta al sistema globalizzato, possono essere talvolta favorite dall’isolazionismo per limitare la spesa per consumi e massimizzare la produzione industriale.


L’ECONOMIA DI GUERRA AL DI FUORI DELLA GUERRA

L’economia di guerra al di fuori della guerra invece, in assenza di una polarizzazione della spesa pubblica verso investimenti infrastrutturali, determina solo la fuga dei capitali, che in effetti migrano verso oriente, dove ci sono aree non a caso in continua evoluzione e in crescita esponenziale. Non stupisca quindi che sia  oggi il leader politico cinese Xi Jinping, ad elogiare pubblicamente la globalizzazione.

Il modello Europeo, per cui alcuni paesi hanno speculato sugli altri utilizzando la differenza tra i tassi di rischio e rendimento dei sistemi paese (i cosiddetti spread), hanno determinato  il trasferimento dei capitali dall’economia industriale (sottoposta a tasse e vessazioni) a quella speculativa, e quindi dall’industria europea alle attività finanziarie.

I burocrati dell’Unione Europea speravano che questo disegno strategico volto ad attirare ricchezze verso il centro dell’Unione e, di conseguenza, ad alimentare il suo potere, passasse sotto silenzio, coperti da una stampa accondiscendente, ma si sono trovati di fronte a crescenti dissensi popolari (o populisti, come spesso etichettati con disprezzo) e, per mostrare di voler recuperare un modello di sviluppo comune, oggi firmano nuovi trattati lasciando che un italiano, Mario Draghi, resti alla guida della Banca Centrale Europea. Ma gli hanno limitato i poteri, molto diversi da quelli dei governatori delle altre banche centrali.

E, al di là di qualche operazione di facciata, restano nell’Unione tutti i difetti genetici di un sistema creato per essere più favorevole ad alcuni paesi cha ad altri. La banca Centrale non ha come scopo il finanziamento dello sviluppo dell’economia (salvaguardandola da eccessi di inflazione), bensì semplicemente compiti di sostegno alla moneta unica e ai suoi più sviscerati fautori: le banche del sistema europeo. Come se il corso della  moneta, potesse essere un valore assoluto, proprio nel senso latino del termine: ab solutum, cioè sciolto dal sistema economico.

Così la funzione monetaria, privata del suo obiettivo di regolazione della velocità degli scambi, è relegata, ad obiettivi invece funzionali a quel disegno strategico di silenzioso accentramento di ricchezza e potere sopra descritto.


LA GRAN BRETAGNA E L’AMERICA GUASTANO I GIOCHI

Ma non solo la manovra a tenaglia degli euroburocrati non è riuscita a passare sotto silenzio, bensì è successo che i foschi scenari di crollo economico derivante dalla Brexit sono stati ripetutamente smentiti da una Gran Bretagna che ha persino visto la propria divisa rivalutarsi e , con l’avvento dell’era di Trump, il ciclo economico mondiale che sembrava volgere verso una nuova recessione, si è improvvisamente invertito, riportando il barometro economico verso il bello.

Non solo il Regno Unito e l’America, ma anche buona parte dei paese emergenti ne ha beneficiato e, ciliegina sulla torta, i maggiori segnali di recupero sono giunti miracolosamente proprio dall’Unione Europea, che si è ritrovata ad esportare molte più merci e ad attrarre molti più capitali, anche nella sua periferia mediterranea.

Intendiamoci, non si sa quanto la bonanza in corso potrà durare. Sicuramente però si è percepita la necessità, per i paesi come il nostro, di lavorare di più sulle esportazioni e sugli investimenti produttivi per poter cogliere il momento positivo.
Fino a ieri che l’impostazione dei principi di Basilea aveva danneggiato fortemente la redditività delle banche europee. La cosa era funzionale a impedire alle imprese periferiche e minori di finanziarsi per investire e moltiplicare i propri rendimenti ma il sistema europeo è dovuto anche correre in riparo del proprio sistema bancario -finanziandolo- per non mettere a rischio anche la moneta unica. Il nuovo respiro del sistema finanziario dà fiato oggi anche all’industria, tanto attraverso la grande liquidità che ha investito il mercato dei capitali, quanto con una rinnovata disponibilità di credito.

Oggi l’Europarlamento prova a correre ai “ripari” proprio con inutili misure protezionistiche, provando a convincere il sistema di essere vittima degli americani protezionisti. La manovra è volta a generare consenso politico e convinzione di essere vittima degli americani ma non riesce ad aumentare sufficientemente la velocità di circolazione monetaria. Gli attuali governanti perdono consenso interno a vantaggio di gruppi più o meno orientati a spinte secessionistiche che vorrebbero ispirarsi a Trump, ma che hanno in comune con lui solo la volontà di scardinare un sistema consolidato di controllo delle informazioni e dello sviluppo economico.


ALLA RICERCA DI NUOVI PARADIGMI

Ma non c’è ancora una  proposta politica davvero alternativa, non si intravedono la lucidità e la volontà di nuovi leaders determinati a ristrutturare il sistema europeo, e in questo modo è difficile fare ogni previsione economica a medio termine per il vecchio continente perché senza un cambio di programma generalizzato l’unica risposta dei “divergenti” dal pensiero unico può essere il desiderio di uscita dall’Unione.

Però sono pochi i Paesi che possono permettersi di stare a galla singolarmente sul mercato globale. Solo attraverso una presenza simultanea su vari mercati delle proprie imprese e una integrazione internazionale attuata sulla diversificazione globale della propria presenza economica sarà possibile per un singolo paese sopravvivere al cambiamento nel medio lungo periodo.

Si tratta dunque di impostare una nuova visione, non solo del proprio Paese, ma anche delle imprese, scoprendo nuove chiavi interpretative del sistema economico globalizzato e talvolta egemonizzato. Se è vero che non esiste epistemologia al di fuori dell’azione non può esistere azione profittevole  senza una minima comprensione epistemologica del contesto in cui si svolge il proprio agire.

Alessandro Arrighi
http://www.alessandroarrighi.com/

 




LA STAGIONE ITALIANA DELL’M&A

Molte altre volte in passato si era pensato che la peculiarità della piccola dimensione delle imprese italiane, talune delle quali estremamente competitive e miracolosamente capaci di compiere realizzazioni straordinarie, le avrebbe spinte prima o poi verso un processo di rapida aggregazione delle une con le altre, quantomeno allo scopo di liberare risorse e attirare capitali.
E poi nulla o quasi.

Molti fattori hanno frenato o impedito quella corsa. Dalla scarsità di credito alla sotto-capitalizzazione fino alla natura estremamente circoscritta alla famiglia del fondatore di buona parte delle imprese italiane di successo.


NON PIÙ “PICCOLO È BELLO”

È tempo ormai che è finita l’epoca del “piccolo è bello” . Uno slogan che faceva riferimento alla capacità di adattamento e di innovazione delle PMI, che avrebbero fatto premio sulle efficienze derivanti dalla grande dimensione.

Oggi, alla luce dei cospicui investimenti necessari per balzare sul carro delle nuove tecnologie e a causa della globalizzazione della concorrenza sui mercati di sbocco (a sua volta in buona parte dovuta alle vendite online che continuano a crescere sbaragliando i canali distributivi convenzionali), il paradigma dell’azienda di successo sta tornando rapidamente verso fatturati più rotondi e, soprattutto, verso la capacità di attirare finanziamenti e capitali per la crescita (che, notoriamente, mal si sposano con la piccola dimensione).

E qual’è la strada più veloce e più sicura per crescere dimensionalmente nel business dal momento che essa sembra la prima delle chiavi del successo d’impresa? Ovviamente quella di acquisirne un’altra o -ancor meglio- quella di fondersi con un’altra, attivando ugualmente le sinergie possibili e migliorando le dimensioni senza nemmeno dover tirare fuori quattrini per farlo! Semplice, vero?


POCHE ACQUISIZIONI E QUASI NESSUNA FUSIONE TRA LE IMPRESE ITALIANE

 


E invece no: questo semplice ragionamento non sembra tenere alla prova dei fatti, quantomeno in Italia. Poiché almeno dieci volte negli ultimi anni si è auspicata una vera e propria esplosione delle fusioni e acquisizioni che per qualche motivo non c’è poi invece mai stata, dobbiamo dedurne che ci sono molte altre determinanti in gioco nel nostro Paese che impediscono di perseguire la crescita aziendale.

Inutile ripeterci che da noi le imprese sono quasi tutte famigliari e sottocapitalizzate, spesso immerse in distretti super specializzati per know-how e che la risposta alla questione fatidica “chi comanda?” evidentemente conta ben più del reddito e della dinamica della creazione di valore.


QUALCOSA STA CAMBIANDO

Qualcosa però si sta muovendo: sono state censite 551 acquisizioni nei primi 9 mesi del 2016 per un controvalore di € 33 miliardi, in aumento del 56% rispetto ai 25 miliardi del 2015. Di quelle 551 sono poi 110 le acquisizioni oltreconfine per €11,8 miliardi e questa sì che è una notizia! Erano forse vent’anni che le imprese italiane non sceglievano così pesantemente la strada delle acquisizioni all’estero.

Per quel che si può vedere dal nostro osservatorio peraltro la corsa prosegue, anche perché nel 2017 finalmente le risorse finanziarie per scalare la montagna del successo questa volta sono disponibili in quantità più cospicue, dal credito bancario ai fondi che sottoscrivono i Minibond fino alle emissioni azionarie da collocare all’A.I.M. della Borsa Italiana.

Anche la trasparenza nei bilanci e nelle modalità di gestione aziendale (più managers e meno “rampolli”), almeno al Nord-Italia, è migliorata negli ultimi anni, così come il numero delle società che hanno scelto di far revisionare ufficialmente i propri bilanci.
Ciò fluidifica il processo e provoca più attenzione da parte degli investitori, mentre il ritmo delle operazioni aumenta soprattutto a causa dell’enorme arretrato in cui giaceva il tessuto economico del Paese.


RECUPERARE IL TERRENO PERDUTO

 


Con la più elevata frammentazione industriale tra i Paesi avanzati, il più arretrato dei sistemi distributivi e la più problematica tra le reti infrastrutturali per trasporti e logistica, all’azienda-Italia non resta che valutare molto seriamente la possibilità di recuperare il terreno perduto attraverso una corsa alle aggregazioni e concentrazioni di settore!
Anche perché può valere pure il ragionamento opposto: se per crescere ho bisogno di risorse finanziarie e con la mia piccola dimensione nessuno me le fornisce, allora per la mia azienda è meglio superare determinate soglie dimensionali e rendere i suoi conti più trasparenti per evitare di morire di inedia finanziaria!

Per lo stesso motivo crescono vorticosamente le imprese che stanno iniziando a considerare l’entrata in borsa (per la massima parte al segmento A.I.M., cioè il circuito riservato alle piccole e medie imprese), sebbene tra il considerarlo e il farlo permangano numerosi impedimenti di ogni genere che per ora hanno partorito ben poche conclusioni positive rispetto alle migliaia di imprese che potrebbero farlo e alle centinaia di aziende iscritte al circuito “Elite” della Borsa italiana, con il quale quest’ultima ha inteso iniziare a preparare gli imprenditori al grande passo.


LA COLLABORAZIONE INTERNAZIONALE

 


Ma al di là delle risorse finanziarie la vera scommessa per le aziende nostrane è la collaborazione e/o aggregazione a livello internazionale con coloro che possono fornire loro le esperienze già maturate in mercati più consolidati ovvero le tecnologie mancanti: è quello l’agòne dove si gioca il futuro dell’imprenditoria italiana! Ed è anche la strada più complessa, quella più insidiosa ma anche la più interessante per coloro che non si limitano ad essere reattivi agli stimoli del mercato, ma desiderano coglierne i mutamenti e cavalcarne le onde in modo “pro-attivo”.

Terrorismo, crisi finanziarie e shock energetici permettendo, la crescita economica del Bel Paese sembra finalmente aver imboccato l’autostrada delle operazioni straordinarie, della raccolta di capitale di rischio e dell’interazione internazionale!

Fosse questa la volta buona ?

 

Stefano di Tommaso




UNA LIRA RISPARMIATA… È UNA LIRA GUADAGNATA!

Intervista a Luca Pieroni, partner di DGPA Rational Management

 

Al termine di un convegno dei Family Offices in cui, tra gli altri, si e’ sviluppato un dibattito sull’”Ebitda Sano” abbiamo occasione di un breve confronto con Luca Pieroni, partner di DGPA Rational Management che opera in Italia sul licenza di Expense Reduction Analysts, gruppo inglese fondato nel’92 da Fred Marfleet il cui core business, avvalendosi di 700 specialisti, e’ l’ottimizzazione dei costi generali ovvero la gestione attiva dei fornitori, che annovera tra i propri clienti realtà del calibro di Deborah, Sundek, Samsung, Soleko, Calearo, Generali,  Hugo Boss e molte altre.
L’idea portata avanti da Pieroni è quella di aiutare le aziende ad ottimizzare i costi, con un impatto diretto sul margine (pari appunto alla conquista di nuovo fatturato), migliorando il risultato complessivo e aumentando le risorse per lo sviluppo perché la riduzione dei costi normalmente ha effetto diretto sul “cash-out”. In pratica mentre l’azienda si concentra su fatturato e crescita, gli specialisti della riduzione dei costi la aiutano ad amplificarne l’effetto in termini di margini e a ridurre le uscite di cassa.

 Il Prof. Luca Pieroni


(D) CI È APPARSO DALLE SUE OSSERVAZIONI CHE LEI HA PORTATO UN TEMA STRETTAMENTE INDUSTRIALE IN UN CONTESTO FORTEMENTE FINANZIARIO. COME MAI?

(R) In effetti appartengo ad una delle ultime generazioni che prima di arrivare alla finanza sono dovuti passare dall’industria, anche perche’ la finanza era, diciamo, “essenziale”.  L’”Ebitda Sano”, e’ un ottimo pay-off perche’ sintetizza bene la necessita’ del ritorno alla logica industriale e di una crescita che non deve avvenire esclusivamente un’attività di spinta sul mercato, o sfruttando al massimo la leva finanziaria, ma può avere un interessante contributo anche agendo sul “saving”.


(D) SE DOVESSE DARE LA SUA DEFINIZIONE DI “EBITDA SANO”?

(R) Faccio riferimento a un insieme di interventi tesi a recuperare efficienza dal punto di vista operativo e organizzativo, in modo che l’ebitda risultante sia frutto effettivo della qualita’ dei prodotti e dei processi. Un ritorno a privilegiare la “leva operativa” e a considerare quella finanziaria come servizio, consolidando la qualita’ del business.
Tutti abbiamo studiato la leva operativa a suo tempo ma, siamo sinceri, negli ultimi tre lustri forse quattro, se ne era un po’ persa la traccia.  Era cosi’ comodo costruire i rendimenti attraverso la leva finanziaria, privilegiare il ROE sul ROI, etc … era rapido, pulito, portava le discussioni e le negoziazioni dalle aziende alle banche e, grazie alle condizioni di mercato, quindi a fattori esogeni alla stretta gestione del business, si ottenevano risultati interessanti. La cosa ha funzionato sempre meno, perche’ il contesto e’ mutato.
Fa quindi piacere constatare che qualcuno nel mercato riporta l’attenzione “sull’azienda” come fattore primario, ottimizzandola e accompagnandone lo sviluppo, recuperando i fattori strutturali della stessa per garantire la stabilita’ dell’espansione. Se fossi un investitore sarei contento.
Non con quanto sopra che la leva finanziaria sia “il male” e la leva operativa “il bene”, ma, siamo sinceri, molte realta’ cresciute impetuosamente, a volte sorprendenti, si sono poi rivelate eccessivamente alimentate dal supporto finanziario, richiedendo poi radicali ristrutturazioni del debito.


(D) COME INTERVIENE UN TEAM PER LA RIDUZIONE DEI COSTI ?

(R) Con diversi professionisti di livello, ognuno dei quali con un know-how specifico per progetto, noi suddividiamo l’intervento per area di costo.
Tra le principali categorie che abbiamo piu’ frequentemente affrontato in Italia troviamo: viaggi e trasferte del personale, trasporti e la logistica, energia & gas, telecomunicazioni, flotta e POP (Point of Purchase). Certo, qualche imprenditore mi dice ancora “ma voi tirate il collo ai fornitori, e poi ci trattano male …”: non e’ cosi’, ci limitiamo a portare a conoscenza dell’azienda tariffe che gia’ sono sul mercato solo che senza un canale attrezzato mai sarebbero arrivate alla stessa. I mercati non sono ancora completamente trasparenti, ma siccome sono molto piu’ trasparenti di qualche tempo fa, lo “sembrano”. Quindi non tiriamo il collo a nessuno, ma rendiamo disponibili a tutti la nostra consapevolezza del fatto che si puo’ spendere meno e mantenere ottimi rapporti con I fornitori aiutando essi stessi a fare efficienza. È come indurre a una dieta che può risultare sana e bilanciata.


(D) E TUTTO QUESTO FUNZIONA?

(R) Ogni anno vengono complessivamente analizzati nel mondo un totale di circa 2 miliardi di euro di progetti ottenendo un risparmio medio di circa il 20% (dall’8% ad oltre il 45% a seconda delle categorie). In Italia generiamo decine di milioni di euro di risparmi all’anno con un impatto diretto sul margine, migliorando sensibilmente la “leva operativa”, accrescendo il risultato complessivo e aumentando le risorse per lo sviluppo.
Nel mondo si genera quasi mezzo miliardo di maggior ebitda solo agendo sulla “filiera secondaria”, quella non strategica.
Come detto, per il private equity dovrebbe essere un “must”: un dubbio del tipo “abbiamo 3-4 milioni di costi generali, li lasciamo li o vediamo se ne ricaviamo risorse ?” sarebbe un dubbio sano.
Anche perche’ poi, alla fine, la way-out e’ spesso legata a multipli dell’ebitda, e quindi il “valore” che si genera e’ a sua volta “multiplo”. Non e’ proprio irrilevante per le aziende, per i fondi e per gli investitori.


(D) I FONDI DI INVESTIMENTO SONO UN OTTIMO VEICOLO PER LE AZIENDE CHE VOGLIONO CRESCERE MA SONO MOLTO ESIGENTI IN TERMINI DI REDDITIVITÀ. POTETE AIUTARE LE AZIENDE A PERFORMARE MEGLIO?

(R) Certo, le aziende e i fondi stessi.  I Fondi di investimento che siano Private Equity o Venture Capital, sono sicuramente un partner interessante per le aziende italiane, soprattutto in questo periodo storico caratterizzato dal difficile dialogo con le banche. È vero, loro sono interessati al valore dell’azienda ed al suo incremento, per prassi parametrato alla dinamica dell’ebitda. L’impatto sui costi è chiaramente importante perché ha effetti tanto sull’Ebitda prospettico quanto sui flussi di cassa attesi.
In presenza di un piano industriale credibile tale intervento aumenta il valore dell’azienda per azionisti e investitori fin dal “tempo zero”.


(D) PUÒ FARE UN ESEMPIO NUMERICO?

(R) Prendiamo un’azienda generica che chiameremo Alfa, con un fatturato di 39,7 milioni di euro, un’Ebitda di 6,2 milioni pari al 15,61%. Per aumentarne il valore si può intervenire sul fatturato per farlo crescere, ma anche sul cost saving: per proseguire nell’esempio, se il nostro intervento giungesse a portare un risparmio sui costi anche solo di €100.000, il nuovo Ebitda di 6,3 milioni di euro sarebbe comunque migliorato dell’1,5%. Poiche’ il mercato dei Fondi opera sulla base di multipli dell’Ebitda, da 4 a 7 nella norma, e fino a 10-12 in alcuni casi, il valore creato diventa sensibile (da mezzo milione a un milione di euro). E volendo c’e’ il tema dell’efficienza gestionale.


(D) COSA INTENDE ?

(R) Beh, in genere per aumentare il fatturato, a meno che ci si trovi in particolari condizioni di forza di mercato, ma e’ infrequente, diventa necessario attuare delle politiche commerciali aggressive in termini di prezzo praticato o di natura finanziaria. In realta’ il rischio di vedere aumentare l’Ebitda in valore assoluto ma di vederlo ridurre in termini percentuali non e’ remoto. In altri termini, si cresce in termini dimensionali ma si peggiora la marginalita’ e quel che è peggio è che se la cassa generata non sale corrispondentemente, si peggiora il fabbisogno di circolante e si appesantisce la leva finanziaria.
Il “nostro” intervento invece e’ “netto”: produce un beneficio assoluto a parita’ di condizioni, e migliora la “leva operativa” ben piu’ sana della leva finanziaria. Alcune volte produce anche miglioramenti organizzativi. Ecco cosa intendo con “efficienza gestionale”.


(D) TRA LE CITATE CI SONO AZIENDE MOLTO NOTE E. INTROLLATE DA FONDI DI INVESTIMENTO, COME KICKOFF, LICENZIATARIA DEL MARCHIO SUNDEK. QUALE È STATO L’INTERVENTO?

(R) Kickoff voleva effettuare un’analisi dei costi indiretti aziendali, con specifica attenzione alle spese di “Trasporto & Logistica”, dal momento che rivestono un’importanza particolare per il tipo di prodotto. I tempi e i livelli di servizio richiesti, la distribuzione capillare nei punti vendita delle località turistiche o presso i centri logistici specializzati, richiedono fornitori di standard elevato capaci di soddisfare ogni particolare esigenza del cliente. Nel loro caso sono stati individuati tre principali segmenti di analisi: il segmento “import” (mare/aria) dal Far East, il segmento “trasporti su vendite nazionali” e infine quello relativo ai “trasporti su vendite Internazionali”. Per queste tre aree di costo l’intervento ha individuato specifiche soluzioni di risparmio che hanno generato una riduzione dei costi del 22%.


(D) PUÒ FARE ALTRI ESEMPI DI TAGLIO AI COSTI INDIRETTI?

 

(R) Vale ricordare Building Energy, un produttore indipendente di energia da fonti rinnovabili con un ampio portfolio di impianti -in esercizio, in costruzione e in sviluppo- con una pipeline complessiva di oltre 1000 MW in Europa, Africa, America centrale e Stati Uniti. Da questa descrizione si comprende come la struttura dei costi indiretti della società sia particolarmente complessa. Abbiamo lavorato in due direzioni, la telefonia e i viaggi, centri di costo importanti vista l’organizzazione aziendale.
Per la telefonia si sono ottenuti risultati mediamente superiori al 45%. Si è lavorato in maniera estremamente rigorosa sul profilo di spending di ogni singolo utente: i manager ed i tecnici-commerciali di Building Energy viaggiano in vari continenti e hanno naturalmente esigenze specifiche di connessione voce e dati. Ad ogni utente è stata data una risposta precisa con la scelta più adatta di piani tariffari.
Per i viaggi si è lavorato da un lato su fattori come le tariffe e gli accordi con le compagnie aeree per le tratte più ricorrenti, ottenendo risultati che, trimestre dopo trimestre, si attestano intorno al 25% di risparmio medio. E dall’altro sulle prenotazioni alberghiere, cambiando i fornitori precedentemente utilizzati e aggiornando le convenzioni. Chiaramente in condizioni di forte sviluppo dell‘azienda e di budget crescenti, l‘effetto leva ha consentito di ottenere significativi riduzioni di costo in termini assoluti.


(D) SI PUÒ AFFERMARE CHE IMPRENDITORI E FONDI DI INVESTIMENTO ABBIANO UN SOSTANZIALE VANTAGGIO NELLA RIDUZIONE DEI COSTI?

(R) Soprattutto in coincidenza con una discontinuità nella gestione aziendale e’ innegabile che una sforbiciata sui costi produce vantaggi a 2 livelli, per l’azienda in sè e, implicitamente, per l’azionista. Per l’impresa le risorse vengono ottimizzate, viene migliorata la leva operativa, si “difende” la marginalita’, si dirottano le uscite finanziarie.
Per l’azionista individuare miglioramenti dell’Ebitda senza appesantire, anzi migliorando la posizione finanziaria, rende piu’ appetibile l’azienda, tanto per la ricerca di capitali quanto per la way-out, ritrovandosi in più con il maggior valore creato dall’applicazione dei moltiplicatori all’Ebitda.
Oggettivamente non vedo controindicazioni a valutare un intervento: se si verificasse che non c’è nulla o quasi dove intervenire, il management aziendale avrebbe la consapevolezza di avere i costi ad uno standard coerente con il proprio benchmark, e il Fondo un ottimo argomento da presentare agli investitori.

 

Stefano di Tommaso

 




Faremo shopping solo su Amazon?

Negli ultimi tempi c’è allarme generale riguardo alla sopravvivenza dei supermercati e negozi al dettaglio: se il commercio si sposta sullo spazio virtuale c’è ancora ragion d’essere per il commercio “tradizionale”?
E se nessuno occuperà più gli spazi fisici degli empori tradizionali (tanto per le strade del centro città quanto tra i corridoi dei centri commerciali), allora il valore di quegli immobili e di quelle vetrine da essi utilizzati resterà quello di prima?

La prima risposta che viene in mente è che no: il cambiamento non avverrà in un giorno, ma è altrettanto vero che esso è inesorabile.
Così come inesorabilmente la grande distribuzione e la distribuzione organizzata hanno in buona parte soppiantato i negozi alimentari della signora Maria che ricordiamo da bambini, allo stesso modo le edicole dei giornalai stanno progressivamente scomparendo e, quando sopravvivono, vendono soprattutto schede del telefono, coltellini, patatine e biglietti del tram.

 

IL CREPUSCOLO DEGLI EMPORI

Avevamo già vissuto le avvisaglie della fine del commercio tradizionale con la scomparsa (o quasi) dei grossisti, dei negozietti famigliari (rimpiazzati da catene almeno regionali di negozi -nemmeno troppo piccoli- magari con il commesso multilingue).
Avevamo iniziato a fare shopping quasi solo nei centri commerciali e qualche volta anche on-line, magari solo quando volevamo la pizza pronta all’ultimo istante.
Ma adesso sembra proprio che persino i centri commerciali siano divenuti roba del passato, e che se via internet troviamo i migliori prezzi e la scelta più ampia, è solo questione di tempo prima che per la maggior parte delle nostre abitudini di consumo ce ne staremo seduti comodi a casa davanti allo schermo (o altrove in panciolle con il maxi-smartphone in mano).

 

LE IMPLICAZIONI DI VALORE

Cosa significa da un punto di vista finanziario? Che dovremmo vendere i titoli delle aziende commerciali quotate in borsa e comperare quelli di chi produce poltrone e sedute? Che dovremmo attenderci un calo dei valori immobiliari legati alla vendita al dettaglio e un innalzamento di quelli connessi alla logistica e al trasporto verso “l’ultimo miglio”?
Probabilmente sì. Ma non solo.

La verità (completa) è che difficilmente il lusso vero (per quel che ne resterà) sarà venduto dal cellulare senza l’ausilio di splendide commesse nelle vie del centro, che difficilmente l’emozione di entrare da un concessionario di automobili che vi fa provare l’ultimo modello e supervaluta l’usato potrà essere sostituita dalla migliore offerta di un sito cinese che vi offre la Mahindra a prezzi di saldo.

Difficile che l’acquisto dell’ultimo grido di prodotti cosmetici o di lucida-labbra non avvenga ancora in un piacevole salone dove le signore possono prima provarne un paio di dozzine, nelle varie nuances di colore e di profumo…

 

VINCANO I PIÙ SIMPATICI!

In tutti quei casi cioè dove prevale l’interazione umana (e dove ce lo si può permettere), lo spazio virtuale è perdente. L’uomo ha bisogno di trovare calore e “comunità”. L’altro ieri erano: la sezione XY del partito, il bar sport, il circolo cittadino oppure la serata rotariana, domani sarà probabilmente qualcos’altro, ma il bisogno di interagire è innato in noi. “L’uomo è un animale sociale” scriveva Aristotele nel IV secolo avanti Cristo!

Quindi non basta l’esplosione di “pet”, ovvero cani, gatti e altri pelosetti in giro per la casa, spesso al posto dei bambini e degli anziani. Quando usciamo di casa vogliamo incontrare qualcuno, discutere di qualcosa e provare emozioni… tra cui lo shopping!

Alcuni analisti suggeriscono che sarà il concetto di “comunità ” a farsi strada nelle nostre scelte, anche perché in un mondo sempre più complesso ci risulta difficile fidarci di qualcuno.

 

IL FUTURO È DIFFICILE DA GESTIRE

Poi però cercheremo ugualmente di risparmiare (anche perché arrivano cose nuove a risucchiare il nostro budget), cercheremo ugualmente di evitare luoghi noiosi, sporchi o male illuminati o anche solo troppo difficili da raggiungere.

Ma il piacere qualche ora di passeggiata per le vie del centro o dei mall più simpatici, con gli animatori che ci intrattengono o gli spazi-gioco per i bambini probabilmente non scomparirà mai.

Se invece proviamo a gettare uno sguardo nel futuro e più profondo, allora gli oracoli parlano di realtà aumentata e virtuale, di intelligenza artificiale, di robot domestici… potrebbero anche essere cose che arrivano domani mattina ma oggi sarebbe difficile costruirci sopra qualche ragionamento di puro business.
Accontentiamoci allora soltanto della prospettiva (c’è chi è disposto a pagare bene per averne una davanti a casa propria!).

Morale: lo shopping cambia, si virtualizza, è soggetto a selezione naturale e a un processo inesorabile di erosione dei margini unitari. Non c’è dubbio.
E dal punto di vista dei valori in gioco, delle dimensioni aziendali, del prezzo degli immobili non potremo non tenerne conto.

 

MA LA VITA VA AVANTI… E IL COMMERCIO PURE !

Ma la vita va avanti, la selezione severa lascia emergere le catene di dettaglio più simpatiche, più “fidelizzanti” (nessuno ammazzerà mai i “ricchi premi e cotillons”), più pronte all’uso e meno invadenti.

E poi l’economia cresce, il nostro potere d’acquisto (insospettabilmente) pure, e la scelta di articoli e “luoghi” dello shopping che avremo davanti a noi nei prossimi anni è probabilmente destinata ad ampliarsi.
Le nuove generazioni vengono considerate come “native digitali” ma non disdegnano nemmmeno loro le emozioni.
Sono perciò piuttosto sicuro che ci sarà spazio per tutti (coloro che se lo meritano).
Basta riuscire a capire dove e a quali condizioni..!

 
Stefano di Tommaso