La crisi delle banche italiane non si risolve per decreto

Nel corso degli ultimi anni i bilanci delle banche di tutto il mondo hanno accusato segni di cedimento, soffrendo di un malessere che ha attraversato l’intero settore finanziario. Tra i problemi principali: il calo strutturale dei tassi d’interesse (voluto dalle banche centrali di tutto il mondo per rilanciare gli investimenti e ridurre gli oneri dei debiti pubblici), la riduzione dei depositi bancari, dovuta alla lenta ma costante disintermediazione creditizia, rilanciata dal fiorire delle alternative disponibili tramite internet sul mercato dei capitali e infine la necessità di rispondere a requisiti di capitalizzazione sempre più stringenti introdotti in forma graduale a seguito della crisi del 2008.

In buona parte dei Paesi del mondo le banche hanno affrontato la crisi ricevendo da un lato aiuti dalla mano pubblica o dalle banche centrali, e dall’altro lato aiutando sè stesse fondendosi tra loro per migliorare la propria efficienza di gestione o cercando di guadagnare la leadership di mercato in taluni ambiti di specializzazione, per migliorare la propria capacità di reddito e, indirettamente, la propria appetibilità per gli investitori a cui veniva richiesto di apportare altro patrimonio. In Italia il problema però è stato più intenso e meno facile da risolvere, anche perché affrontato in modo tardivo.

Per chiunque abbia seguito il dibattito che si è acceso a proposito della crisi del Monte dei Paschi di Siena (MPS) è divenuto ormai agevole comprendere che il problema delle banche italiane va inquadrato in un più ampio problema di rapporti tra l’Italia e l’Unione Europea, ma anche che non si limita a ciò e che non si risolve soltanto migliorando quei rapporti o con l’intervento dello Stato.

Infatti l’allarme collettivo sulle sofferenze creditizie italiane ha crea un problema generale sugli investitori per l’intera area Euro, contribuendo a deprimere le quotazioni di borse e divisa unica, sebbene non si possa negare che esso è anche figlio delle politiche europee a senso unico: se il Quantitative Easing continentale non avesse subito il veto tedesco e fosse arrivato in tempo per riattivare il credito quando ancora in Italia c’era più domanda, forse si poteva risparmiare alle nostre banche la marea di sofferenze che si sono generate con la recessione e, soprattutto, con l’austerity forzosa.

L’ASIMMETRIA DELLA NORMATIVA BANCARIA EUROPEA

Ancor più grave è il profondo senso di ingiustizia che gli Italiani hanno provato quando hanno visto francesi, tedeschi e spagnoli profondere decine e decine di miliardi nel sostegno pubblico alle loro banche e, un istante dopo, promuovere una normativa europea sul c.d. “bail-in” che sembrava fatta apposta perché l’Italia, indietro come sempre, non potesse più fare altrettanto.

Per non parlare dell’asimmetria delle norme europee che dovrebbero portare all’armonizzazzione del sistema bancario, quando esse si concentrano sulle sofferenze ma poi chiudono tutti e due gli occhi sui derivati e titoli complessi (c.d. “attivi di livello 3”) di cui sono piene le banche tedesche, francesi e spagnole. Anzi queste ultime non ce li avevano, ma hanno risolto il loro problema delle sofferenze sul comparto immobiliare con una norma (quella sui “repossessed assets”) che le autorizza a cancellare i crediti in sofferenza acquisendone la garanzia reale sottostante a un valore da esse stesse stimato.

Se poi si tiene conto del misero misero livello di capitalizzazione richiesto come percentuale dell’attivo di bilancio: un 3%, senza dubbio insufficiente a tutelare i risparmiatori soprattutto quando non è chiaro il vero valore dei “repossessed assets” o di quegli attivi di livello 3 di cui sono piene le banche del resto d’Europa, diviene chiaro che tutta l’attenzione di quella normativa è stata spostata sulle sofferenze creditizie, ove noi Italiani siamo campioni del mondo!

IL PARADOSSO DEL MPS

Il caso del MPS, icona dell’intera struttura creditizia italiana, per certi versi è anche paradossale, per vari motivi:

– perché mai prima d’ora era accaduto per un istituto di rilevanza nazionale che i suoi crediti incagliati arrivassero ad assommare a quasi il 40% dei prestiti erogati (come dire che l’errore nella valutazione del rischio è stato così frequente da lasciare più di un sospetto che la logica sottostante fosse di matrice squisitamente politico-clientelare);

– perché la banca è storicamente vicina al partito che guida la coalizione di governo, partito che evidentemente Renzi non è riuscito a “rottamare” o peggio, cui ha contribuito egli stesso nell’influenza che esso ha esercitato sul MPS;

– perché l’aumento di capitale ventilato (si è arrivati a parlare di €10 miliardi, conversione delle obbligazioni compresa) non sarà sufficiente a ristabilire la fiducia dei risparmiatori nella banca se non interverrà anche un nuovo management, forte e credibile (ma di tale staffetta non si parla, mentre affiorano problemi anche per molte altre banche italiane e il governo è costretto a stanziare l’incredibile cifra di €20 miliardi, pari a una “manovra economica” di medie dimensioni);

-‘perché gli analisti hanno comunque stimato che il fabbisogno complessivo di maggior capitale della banca sembra ammontare a non meno di €30-40 miliardi e dunque la decina di miliardi stanziati per la sua ricapitalizzazione non solo costituisce un salasso per l’intero Paese, ma non migliora la percezione degli investitori sulle reali prospettive della banca.

LA DEBOLEZZA DELL’INTERO SISTEMA

Il punto di attenzione tuttavia, al di là dei problemi di due pesi e due misure per la normativa europea e persino al di là degli incommensurabili pasticci che il Paese ha saputo esprimere attraverso il Monte dei Paschi, risiede soprattutto sulle magre prospettive dell’intero panorama bancario nazionale, tanto a livello di reddito quanto di credibilità.

A partire da Intesa San Paolo che sembra ben capitalizzata e molto avanti nella dismissione di crediti insoluti, passando per l’Unicredit che ha appena lanciato un enorme aumento di capitale e la dismissione di un gran numero di dipendenti, fino alle più piccole realtà locali, il problema delle banche italiane sembra innanzitutto la scarsa capacità di produrre reddito nell’attività caratteristica, quella di prestare denaro, ponendo dubbi di fondo non solo sulle capacità dei loro vertici, ma anche sulla sopravvivenza dell’ecosistema che si è sviluppato intorno alle banche italiane.

L’aver realizzato profitti consistenti sui mercati finanziari negli ultimi anni ha infatti spesso controbilanciato le magre performances sul fronte del credito ma non può certo costituire la risposta strutturale alla crisi delle banche! C’è da attendersi infatti che prima o poi il tema della separazione tra le attività di banca commerciale e quelle di banca d’affari tornerà di moda e la giostra del trading finanziario con cui sono stati puntellati i bilanci delle maggiori banche del Paese dovrà fermarsi.

La scarsa capacità di attrazione delle nostre banche per gli investitori sta perciò soprattutto negli scarsi risultati economici che esse possono promettere, oltre che nella costante emorragia dei capitali dal mercato finanziario italiano. Solo una parte del problema italiano è dunque figlio di un’Europa poco solidale con noi.

LA NECESSITÀ DI UNA STRATEGIA – PAESE

Non si può tacere infatti che, se il Paese vuol ritrovarsi con un sistema creditizio sano, esso deve iniziare a confrontarsi con il più strategico dei problemi delle banche: quello della loro credibilità, con il conseguente calo nella raccolta dei depositi, tale da pregiudicare le prospettive di sopravvivenza di buona parte delle banche di piccola e media dimensione.

E i problemi strategici delle banche nostrane sono a ben guardare i medesimi che attanagliano l’economia italiana, a tutti i livelli. Perché -a forza di pannicelli caldi- è l’intero sistema economico nazionale che negli ultimi anni è andato in crisi.
L’intero sistema economico nazionale con l’arrivo della crisi ha infatti sperato nella panacea dell’intervento pubblico, senza affrontare i propri gangli strutturali e in tal modo ha contribuito ad aggravare il debito pubblico senza risolvere i suoi veri problemi.

Le banche italiane ad esempio sono troppo spesso piccole, come le imprese loro clienti peraltro. E lo sono per il solito motivo: la frammentazione delle poltrone di comando e l’incapacità di concepire una vera strategia di mercato.
La logica delle parrocchiette fino a ieri andava bene ma poi è arrivato il vento della globalizzazione, che ha costretto ogni azienda, bancaria e non, a confrontarsi con la concorrenza globale.
Oggi se un consumatore vuole comprare un prodotto in Indonesia o un risparmiatore vuole spostare i risparmi su una banca australiana, ha pochi problemi e li risolve in un minuto con Internet. E peraltro in Italia si è più che mai costretti a risparmiare per la necessità di integrare una Previdenza Sociale sempre più svuotata di contenuti.

Dunque con l’assistenza pubblica che sempre meno potrà fare la sua parte a causa del l’eccesso di debito, se banche e imprese italiane vogliono mantenersi competitive e restare appetibili per il mercato dei capitali, dovranno mostrare solidità, capacitá dei propri managers e convenienza per i loro clienti, altrimenti questi ultimi svolteranno l’angolo e navigheranno in rete alla ricerca di valide alternative.

Non sono solo le banche italiane perciò, ma é l’intero sistema-paese che deve decidere di ristrutturarsi prima che sia troppo tardi, di affrontare le sfide della tecnologia e delle nuove tendenze globali per riposizionarsi nelle aree di propria eccellenza.
È tutta l’Italia (banche incluse) che deve fare scelte dolorose ma necessarie per evitare che i propri clienti facciano shopping altrove, che i propri cervelli emigrino all’estero, che i capitali cerchino rifugio oltre confine, che i cittadini perdano ogni fiducia nelle istituzioni.
È l’intera nazione che deve risvegliare le proprie coscienze dal letargo del vero populismo, quello strisciante buonismo portato avanti negli ultimi quarant’anni in modo subdolo dall’amministrazione pubblica di vecchia maniera e dai politici di tutti i partiti !

Stefano di Tommaso




Apocalisse

Unicredit è la seconda banca italiana ed è sull’orlo del disastro. Per rimettere in sesto Unicredit servirebbero almeno 9 miliardi di euro. Il problema è che nessuno li ha, e non sarebbero nemmeno sufficienti a mettere in salvo la banca in maniera definitiva.

Procediamo con ordine, e proviamo a raccontare la storia, tutta italiana, di questo istituto di credito, che potrebbe avere un finale drammatico per tutto il Paese, ed esporre ad un salvataggio bancario milioni di italiani.

Si può asserire che Unicredit ha imboccato la strada dell’apocalisse fin da quando l’allora CEO, Profumo, forgiò la Banca aggregando realtà italiane, a partire dal Credito Italiano e da Banca di Roma, e tedesche. La banca crebbe velocemente, è inutile ricordare tutte le aggregazioni e le acquisizioni, e Profumo divenne l’alfiere della finanza Ulivista, politicamente schierata senza pudori.
Il gigante, però, aveva i piedi di argilla.

I dipendenti erano (e sono) troppi, mal organizzati, pagati in maniera eccessiva e con una bizzarra organizzazione del lavoro. In questo contesto, il management spinse in modo forsennato per aumentare la redditività della Banca con metodi che possiamo definire al limite della legalità e che, in alcuni casi sanzionati dalla magistratura, questo limite lo hanno più che abbondantemente superato.

In ogni caso la gestione Profumo terminò non tanto per la sua cattiva gestione ma perché si trasformò in una specie di lacchè dell’allora dittatore libico Gheddafi che entrò in forza nel capitale della banca.

Dopo la defenestrazione di Profumo la situazione non migliorò di molto: non si è mai avuto il coraggio di incidere in una situazione di sprechi faraonici, sovrapposizioni di filiali frutto delle aggregazioni, dipendenti costosi e poco efficienti.
Una banca ben gestita, avrebbe potuto superare la crisi con qualche doloretto ma senza danni. Unicredit non era in queste condizioni.
I clienti fallivano (alcuni come nel caso di Divania, vennero fatti fallire per derivati capestro proprio dalla stessa Unicredit) o iniziavano a non restituire i prestiti.
Le sofferenze quindi, salivano in maniera esponenziale e oggi siamo arrivati alla somma mostruosa di oltre 80 miliardi di crediti in sofferenza.
Anche a voler immaginare che si riesca a recuperarne il 20%, significa per Unicredit una perdita secca di più di 65 miliardi. E’ vero che ci sono stati accantonamenti e che gli utili generati dall’attività bancaria sono stati utilizzati in parte per coprire questi crediti. Ma è come voler svuotare l’oceano utilizzando un cucchiaino, bucato per di più.

Gli utili delle banche italiane sono in picchiata. La colpa è di Draghi che ha abbassato fino ad annullarli i tassi di interesse ma questo ha distrutto anche il margine di intermediazione delle banche.
A questo punto Unicredit ha dovuto fare i conti con la realtà. Il management ha deciso di provare a cambiare rotta scaricando l’Ad Ghizzoni.
Quello che servirebbe subito sono almeno 10 miliardi di euro. Tale aumento, avrebbe però un effetto devastante: diluirebbe il peso delle Fondazioni Bancarie.

Ma nel caso di Unicredit, l’aumento di capitale avrebbe l’effetto di diluire la quota azionaria delle fondazioni per rafforzare il primo azionista, il fondo Aabar degli Emirati Arabi Uniti. O il quarto azionista, il fondo sovrano libico che malgrado la guerra civile che infuria in Libia ha trasferito la sede a Malta e continua i suoi oscuri traffici sui mercati finanziari oltre che a finanziare milizie di ogni tipo in patria. Insomma, non proprio una bella situazione. Le fondazioni si oppongono, dunque all’aumento, forse potrebbero essere disposte a sottoscrivere pro quota un aumento di capitale da appena 5 miliardi.

Ma le sofferenze sono mostruose, un aumento da 5 miliardi non servirebbe a molto, al massimo permetterebbe alla banca di continuare a galleggiare per qualche mese. Poi saremmo punto e a capo. Loro non hanno soldi, i fondi libico o degli Emirati Arabi sì e si prenderebbero la banca per meno, molto meno di un piatto di lenticchie. Cosa ne farebbero poi questi moderni predoni non è dato sapere.

La soluzione che qualcuno ha proposto e la vendita di una serie di banche ad alta redditività che operano in centro e est Europa. Un’idea che ha una serie di controindicazioni. In primo luogo, non si tratterebbe di una vendita ma di una svendita a prezzi così bassi da non risolvere assolutamente il problema.
Unicredit in effetti ci ha provato, cedendo la sua controllata Ucraina. Risultato? Ha dovuto mettere nel bilancio 600 milioni di euro di perdite dovute anche al crollo della valuta locale. Conti alla mano, la cessione delle controllate europee di Unicredit potrebbe, se le cose vanno bene, lasciare invariata la situazione patrimoniale.
Ma siccome siamo realistici, diciamo che molto probabilmente se Unicredit si mette a vendere per un piatto di lenticchie o meno queste banche, la situazione peggiorerebbe.

E se intervenisse Atlante? Ormai è una figura quasi mitologica del panorama bancario italiano.
In effetti, diciamo subito che Atlante ha già salvato Unicredit. Lo ha fatto quando ha sottoscritto interamente il capitale della Banca Popolare di Vicenza, evitando quindi che a farlo fosse Unicredit che aveva garantito l’aumento stesso. E se Unicredit avesse dovuto sborsare più di un miliardo di euro, avrebbe dovuto deliberare il giorno dopo a sua volta un aumento di capitale. Perché Atlante non può sottoscrivere l’aumento di capitale di Unicredit? Semplicemente perché non ha i soldi.

Se Atlante volesse sottoscrivere l’aumento, dovrebbe andare prima sul mercato a cercare altri soldi. Ci sono banche piene di liquidità che potrebbero sottoscrivere altre quote di Atlante? No, al massimo potrebbe essere la famigerata Cassa Depositi e Prestiti, cioè il custode del risparmio postale degli italiani. Insomma, se alla fine la soluzione sarà quella di Atlante, a tenere aperto per qualche altro mese la seconda banca italiana saranno i risparmi delle vecchiette (e meno male che sono un sacco di soldi grazie al generosissimo sistema pensionistico retributivo). Una forma mascherata all’italiana, di nazionalizzazione, che servirebbe a tenere aperto il carrozzone.

La soluzione vera, l’unica definitiva e sostenibile, sarebbe l’acquisto dell’intera banca da parte di un cavaliere bianco con un patrimonio solido e capacità gestionali, oltre che dotato del pugno di ferro necessario per riformare la banca e ridurre i costi tagliando filiali e personale.
Questo cavaliere bianco oggi in Italia non esiste. Un’alba rossa si sta per alzare su Unicredit, un’alba tinta dal sangue dei risparmiatori colpiti ferocemente da quello che potrebbe essere il più grande bail in della storia europea.

Chi può, si salvi, anche perché il Fondo di garanzia Interbancario ha le casse vuote e non potrebbe intervenire per coprire i depositi, non solo sopra i 100 mila euro, ma neanche al di sotto.

Guido Gorla




La sfida su internet del “Bike sharing” che si consuma in Cina è tra investitori americani

(a quote from The Financial Times- Prof. Franco Quilico)

Mobike has broken from the crowded peloton of Chinese bike-sharing services, raising $215 million in the latest funding round supporting the craze in big cities. The world’s most popular bike-sharing company by app downloads was backed by domestic tech giant Tencent and American private equity firm Warburg Pincus, as lead investors in its fourth big round. Mobike is gearing up for a showdown with its main rival ofo — so-called because the name looks like a bicycle — which raised $130 million in third-round funding last October… The bike-sharing battle in fact mirrors the old Uber-Didi Chuxing spat: ofo is backed by Didi, while Mobike’s founder Davis Wang was an Uber executive in Shanghai. Mobike was launched in April 2016 and, within six months, its distinctive orange-wheeled bikes had become ubiquitous in China’s big cities. Its app has been downloaded 400,000 times on the Android app store alone, compared with ofo’s 170,000… Its key features are a proprietary locking system and GPS navigation technology.

Yuan Yang

(find the last quotes at: www.food4brains.com)




I crocevia economici del 2017

Come si legge un po’ ovunque, ci sono buone speranze che nel 2017 il mondo possa non solo non ridurre la propria crescita economica bensì addirittura accelerarla. A fare da traino della crescita un po’ tutte le aree del globo: dall’America che crede anche troppo al miracolo-Trump fino alle economie emergenti che sperano un po’ troppo nel non dover fare i conti con il super-Dollaro, passando per le tigri asiatiche che anche quest’anno porteranno a casa un risultato da record, fino alla vecchia Europa che, quasi dappertutto, registrerà una modesta crescita…

Quel “quasi” siamo noi italiani e pochi altri, che a livello statistico dovremmo cavarcela “quasi” altrettanto (a causa di una live ripresa degli investimenti fissi), ma che a livello di potere d’acquisto siamo già certi che non vedremo un bel niente, soprattutto se si tiene conto che anche in Italia la media del pollo del dato nazionale con le crescenti disparità tra nord e sud serve a poco per capire cosa succede davvero nello Stivale.

LA CRESCITA ECONOMICA

Il grande Martin Wolf in un recente intervento sul Financial Times ci ricorda che -a livello planetario- essa è determinata dall’innovazione tecnologica oppure dall’adozione nei Paesi emergenti di modelli di business che hanno avuto successo in quelli più sviluppati (il c.d. “catch up”).

Mentre non possiamo proprio lamentarci del livello crescente di innovazione tecnologica di questi anni, non è chiaro se possa determinare effettivamente un incremento del reddito disponibile per la popolazione, tenendo conto del fatto che determina crescita ma anche disoccupazione e che sono alcuni decenni che le statistiche dei Paesi OCSE non registrano più gli incrementi di produttività del lavoro che si vedevano in passato.

Alla montagna di disoccupazione e prepensionamento forzoso che viene generato dall’innovazione aveva sino a ieri provveduto la previdenza pubblica più o meno ovunque nel mondo. Era il prezzo da pagare per il progresso tecnologico.
Ma il prezzo crescente dei deficit dei bilanci governativi causati dal forte ricorso a politiche di “welfare” le generazioni attuali non lo stanno pagando davvero, addossandolo invece a quelle che seguono attraverso l’aumento dei debiti pubblici, senza una chiara strategia per ovviare al problema.

Le nazioni più fortunate finanziano il deficit attirando ricchezza verso di esse dai Paesi meno solidi o con maggiori prospettive di svalutazione monetaria, ma questo fino a prova contraria è un gioco a somma zero. Semplicemente qualcun altro paga (e pagherà) il conto del benessere di cui esse godono (e ce ne stiamo accorgendo anche in Italia).

Di qui la vera questione: il modello attuale di crescita economica dell’Occidente è sostenibile nel tempo? Ogni anno, come si può notare dal grafico sulle previsioni di crescita, gli analisti hanno peccato di eccessivo ottimismo.
La risposta a quella domandaprobabilmente non la conosce nessuno. E fors’anche interessa a pochi leaders politici, di questi tempi totalmente impegnati a combattere un’ondata di ribellione generale mal definita “populismo” a causa del fatto che nuovi leaders la stanno cavalcando cercando di soppiantare quelli che erano in sella.

INFLAZIONE O DEFLAZIONE

La questione della sostenibilità del modello di crescita economica attuale ha un’immediata applicazione pratica: dobbiamo aspettarci nei prossimi anni nuova inflazione o ancora deflazione?
L’inflazione basa i suoi presupposti sull’aspettativa di prevalenza della domanda sul l’offerta di beni e servizi (che fa gonfiare i prezzi) la deflazione sul suo opposto. La prima ha i suoi svantaggi ma normalmente riflette una condizione di salute economica, la seconda rispecchia invece aspettative di declino e minor potere di acquisto, oltre a scoraggiare direttamente consumi e investimenti rendendo conveniente rimandarli nel tempo.

Da questo punto di vista le banche centrali hanno oramai mostrato di avere le armi spuntate perché l’enorme liquidità da esse riversata sui mercati finanziari (negli anni che hanno seguito la grande crisi finanziaria) si è tradotta assai poco in maggior disponibilità di reddito da parte dei consumatori e soprattutto in una ancor minore crescita dei prezzi al consumo.
Questo a livello globale e della media generale, sebbene esistano importanti differenze a livello geografico e anche merceologico.

Si vedono perciò pochi elementi fondamentali a supporto delle recenti aspettative di risalita dei prezzi, persino se la si aspetta come conseguenza del maggior prezzo dell’energia, tutto da consolidarsi anch’esso, dal momento che vi sono poche certezze nella tenuta del cartello oligopolistico che dovrebbe limitare l’offerta di petrolio per favorirne il prezzo. La recente esperienza narra invece una forte elasticità dell’offerta di petrolio al suo prezzo, limitandone di fatto la ripresa delle quotazioni.

Da un punto di vista strettamente teorico la continua crescita di valore del Dollaro americano potrebbe altresì aiutare il resto del mondo a generare/importare inflazione, ma non ci sono grandi evidenze nel riscontro pratico del fatto che andrà effettivamente così. Dunque il ritorno mondiale all’inflazione che tutti attendono potrebbe anche risultare in un fuoco di paglia di inizio anno, per poi non consolidarsi affatto.

IL NODO DELL’ECCESSO DI FINANZA NEL MONDO

Qualche analista accompagna le previsioni di crescita all’osservazione che nel 2017 non ci troviamo esattamente nella situazione delle precedenti espansioni economiche, quantomeno a causa di un nodo gordiano : quello dell’eccesso di debito e della parallela bolla speculativa sui mercati finanziari che vi si è gonfiata intorno.
Pur costituendo un grosso rischio (di replicare la crisi del 2008) il problema teoricamente si potrebbe risolvere con un forte coordinamento tra i principali Paesi nel mondo per arrivare a “monetizzare” i debiti pubblici, ma in realtà nessuno di essi ha oggi davvero interesse ad allentare, sperando di trarne profitto.

In effetti ogni volta che scoppia una grande crisi c’è sempre qualcuno che ne trae enormi benefici, e lo stesso vale per le guerre. Dunque non possiamo fingere di ignorare gli interessi che possono presiedere alle politiche economiche che le generano.
Il punto dell’eccesso di finanziarizzazione però non sono i deficit pubblici, bensì i debiti complessivi di ciascun Paese. Nei Paesi che hanno sviluppato il maggior debito complessivo è il sistema bancario che rischia di non avere indietro i propri prestiti, con eccessi evidenti come quello italiano (ma anche quello europeo in generale non naviga in acque sicure).

In Paesi come il nostro il sistema bancario invece “deve” rimanere in piedi, tanto per evitare shock monetari quanto per aiutare il collocamento dei titoli pubblici che -almeno a casa nostra- sono principalmente le banche ad acquistare con il sussidio finanziario della Banca Centrale.
Fiumi di inchiostro sono stati versati al riguardo, soprattutto perché in Italia è oramai allarme rosso non soltanto per il Monte dei Paschi, bensì anche per molte altre banche “sistemiche” del Paese, a iniziare dall’Unicredit. E se un numero consistente di banche italiane dovesse andare in crisi, chi acquisterà gli €400 miliardi di titoli di Stato italiani in scadenza nel 2017?

Il nostro da questo punto di vista è di gran lunga il Paese OCSE più a rischio, forse ancora più a rischio della Cina, che può sempre contare su una propria autonomia monetaria e su una macchina produttiva prima al mondo (e di cui nessuno può fare a meno).

MORALE E CONCLUSIONE

Ancora una volta le importanti aspettative di crescita per l’anno appena iniziato rischiano di essere ottimistiche ed auto-referenziali, prive cioè di un terreno solido sotto i loro voli pindarici, alimentati soprattutto dalla grande liquidità di cui godono i mercati finanziari.
Se poi quella liquidità a sua volta galleggia su un oceano di debiti e su poco più di tenui speranze che gli investimenti in corso nelle numerose innovazioni tecnologiche all’orizzonte possano davvero innestare nei paesi più sviluppati una crescita del benessere collettivo e che questa possa a sua volta gradualmente estendersi al resto del mondo, forse per adesso non interessa proprio a nessuno.

Non interessa per esempio ai mercati finanziari, impostati su solidi fondamentali di una domanda di attività finanziarie che supera ampiamente l’offerta e fa presagire una nuova ondata di IPO’s che nel 2016 iniziavano a diradarsi.
Non interessa alle imprese che, contrariamente a molte autorevoli previsioni, non hanno vissuto quella riduzione dei profitti di cui si è parlato per tutto lo scorso anno.
Non interessa alle banche centrali, che attraverso le facilitazioni monetarie erogate hanno conquistato le prime pagine della cronaca globale ed hanno vissuto un’esperienza di vere protagoniste anche a livello politico. Non saranno perciò così urgentemente interessate a rientrare nei ranghi del tempo passato.

La vita però è adesso, come dice la pubblicità globale della Vodafone (gestita da un Italiano illustre nel mondo come Vittorio Colao). C’è la seria possibilità che l’umanità riesca ancora una volta ad aggirare le numerosissime trappole pronte a tendere l’agguato alla nuova ondata di crescita che il mondo si aspetta.

Godiamoci perciò questo ottimistico primo scorcio dell’anno, perché viviamo in una delle epoche meno prevedibili che la storia abbia mai annoverato!

Stefano di Tommaso