Sviluppi e scenari possibili per l’Italia

Negli ultimi venti anni il nostro paese non è riuscito a ridurre il suo debito pubblico, anzi: persino in rapporto al Prodotto Interno Lordo esso non ha fatto altro che peggiorare costantemente.

La realtà dei fatti dice inoltre che la situazione non è quasi migliorata nemmeno nei due anni circa di vita dell’ultimo Governo, che sono invece risultati particolarmente positivi rispetto a quelli precedenti dal punto di vista delle condizioni generali dell’economia mondiale (petrolio basso, euro in discesa, facilitazioni monetarie della Banca Centrale Europea…).

La domanda che ne discende è dunque cosa ci aspetta nel prossimo futuro. E cosa è possibile fare.

IL DILEMMA DEL DEBITO PUBBLICO E DELLA TENUTA DELL’UNIONE

Con il 2017 si apre probabilmente per l’Europa un periodo storico molto diverso da quello appena concluso, che lascia supporre un risveglio dell’inflazione, un rialzo dei tassi e forse anche qualche progressivo irrigidimento nelle facilitazioni monetarie concesse dalla BCE.

Quest’ultima ha già acquistato la bellezza di 210 miliardi di euro di debito pubblico italiano (cioè un decimo circa del debito totale), guadagnandosi gli strali di molti paesi del Nord Europa che hanno iniziato ad aver qualcosa da obiettare.

Dunque, nonostante si possa ragionevolmente ritenere che la BCE andrà avanti a sostenere il debito pubblico italiano più o meno a qualsiasi costo sintantoché agli altri paesi europei interesserà ancora mantenere un’Europa unita e una moneta comune, è altresì facile immaginare che le condizioni generali di emissione dei titoli in rinnovo potranno ugualmente peggiorare, a partire dallo spread con i titoli tedeschi fino a toccare il livello dei tassi di intere in generale.

In un paese sovraindebitato come il nostro lo scenario non è dei migliori, sebbene il rialzo dei tassi possa indirettamente (e limitatamente) aiutare il sistema bancario a risollevarsi e le prospettive di debolezza dell’Euro aiutare la competitività delle nostre esportazioni.

Cosa può succedere dopo la fine degli aiuti comunitari? C’è chi è fiducioso nella possibilità che alla fine di tutti i giochi l’Unione Europea si cementifichi condividendo i debiti pubblici complessivi oppure favorendone una progressiva monetizzazione, che avvenga con un eccesso di inflazione o con un rigonfiamento ulteriore dei bilanci della BCE poco importa.
Ovviamente il prezzo da pagare di un tale scenario sarà la perdita dell’autonomia fiscale e legislativa di ciascuno dei suoi membri, ma -data la politica anziché ci ritroviamo- potrebbe anche risultare il male minore.

IL RISCHIO CONCRETO DI FINIRE IN “SERIE B”

L’alternativa allo scenario di unificazione politica, bancaria e fiscale del continente europeo non è probabilmente quello di un ritorno della Lira e dell’isolamento, bensì quello, ancora peggiore, di appartenere ad una mediterranea fascia-cuscinetto di “second tier”, dove si sentirà ancora la cospicua influenza dell’Unione Centrale Europea ma che potrebbe istituire una seconda moneta unica, destinata a fronteggiare maggiore inflazione e una certa svalutazione, limitata in funzione degli aiuti che potrebbe ricevere dal centro dell’Europa.

Il dramma di un tale scenario è che esso non salverebbe la penisola da ulteriori dolorose fughe di capitali all’estero, che non possono certo favorire la ripresa economica e gli investimenti, anzi allargando la disoccupazione e il precariato nonché favorendo un’ulteriore pressione al ribasso dei salari che nessuna rivolta sindacale sarà mai capace di combattere.

Non si vede alcun vantaggio in una tale proiezione, salvo il fatto che l’appartenenza una fascia “di contenimento” dell’Europa centrale potrebbe consentire ai paesi membri di secondo livello comunque un pacchetto corposo di finanziamenti e contemporaneamente forse anche una qualche oscillazione del cambio che possa ovviare alla limitata competitività delle aziende.

L’alternativa autonomista a un’Unione a due velocità sarebbe sì migliore, ma comporterebbe la capacità di fronteggiare giganteschi problemi immediati di tenuta dei conti pubblici e la necessità di orgoglio e compattezza nazionali che oggi non sembrano così probabili.

I POSSIBILI SCENARI DEL NUOVO CICLO DELLA POLITICA EUROPEA

Dopo quello che si è visto con l’esito del referendum britannico, la vittoria di Trump oltreoceano e l’elevata probabilità di vittoria di Marine LePen a Parigi, sembra inutile illudersi troppo circa la permanenza al potere dell’attuale classe politica continentale.
Anche in Italia entro un anno si andrà al voto ed è difficile ipotizzare la fotocopia del governo attuale: la gente -soprattutto al di qua delle Alpi- è stufa del continuo impoverimento sostanziale, dell’eccessiva immigrazione e dell’illegalità diffusa e preme per un ricambio che sarà però tutt’altro che indolore.

Definire tale voglia di cambiamento che proviene dalle classi più disagiate “populismo” è commettere una grave ipocrisia: dopo oltre mezzo secolo di propaganda in tal senso, il germe della voglia di democrazia si è insinuato nella cultura popolare e, sebbene essa non sia stata mai davvero praticata nei fatti, essa si traduce nel desiderio di ribaltare l’attuale “intellighenzia” al potere.

Le conseguenze del cambiamento politico che rischia seriamente di prender piede consisteranno tuttavia probabilmente nel disordine finanziario e nella mancanza di coordinamento a livello comunitario che non potranno che tradursi in grigie prospettive per gli investitori e gli operatori economici.

L’alternativa, fortemente auspicabile, è quella di una federazione di Stati europei con divise monetarie autonome e forte integrazione commerciale e legislativa, che viceversa fornirebbe agli investimenti industriali prospettive di stabilità e al tempo stesso di adattamento alle diverse condizioni di partenza, per procedere nel tempo a una concreta unificazione continentale, una volta risolti al meglio i problemi strutturali.
Sotto tale scenario mediano le istituzioni sovranazionali potrebbero dedicarsi ad alleviare i problemi derivanti dal ritorno alle valute nazionali e agli investimenti infrastrutturali comunitari, che potrebbero gettare le basi di una futura maggiore integrazione fra i popoli.

UN 2017 ANCORA PROFICUO

Nonostante molte nuvole di addensino all’orizzonte, l’anno in corso non si preannuncia invece così malvagio da un punto di vista economico per l’Italia.

Nonostante terremoti, scandali e proteste di piazza, il governo Gentiloni rischia di rimanere in sella abbastanza a lungo da riuscire a tranquillizzare tutti i partners europei del fatto che, gattopardescamente: “tutto cambi affinché nulla cambi”.
Al tempo stesso il suo basso profilo mediatico potrebbe fargli riuscire a portare avanti ulteriori riforme legislative  da far si che tanto le borse quanto il sistema bancario possano godere di un anno di relativa tranquillità.

Il momento appare proficuo anche per quella parte di Paese che esporta pesantemente e che potrà beneficiare di un ulteriore bonanza derivante dalla relativa stabilità commerciale che sembra delinearsi nel mondo, al punto che persino il turismo dall’estero potrebbe migliorare e dare una boccata d’ossigeno al meridione italiano. Nel complesso il Prodotto Interno Lordo potrebbe perciò crescere di oltre l’1%.

La permanenza dell’ “ombrello europeo” farà il resto, facendo guadagnare al Bel Paese del tempo prezioso per ritrovare parte della competitività perduta alleviando le tensioni emotive sulla tenuta del debito pubblico, anche se è chiaro che i problemi sopra evidenziati restano e, qualora lo scenario politico continentale dovesse peggiorare decisamente, le conseguenze negative (derivanti dall’eccesso burocratico, dalla scarsità di credito disponibile, dall’elevata pressione fiscale e dal deficit di infrastrutture) finirebbero per farsi sentire trascinando verso altri anni di sventura l’intera economia nazionale.

L’UNICA SOLUZIONE POSSIBILE

Paradossalmente la complicanza dei problemi politici, economici e finanziari italiani potrebbe essere controbilanciata da una semplice ed efficace medicina, costituita dalla progressiva trasformazione di un contesto che scoraggia gli investimenti ad uno che riesce ad incoraggiarli, a partire dalla spesa pubblica che potrebbe piuttosto velocemente riconvertire i suoi endemici eccessi dalla direzione della spesa corrente a quella per investimenti infrastrutturali e di valorizzazione dell’immenso demanio pubblico (tanto quello con valenze culturali quanto quello con valenze turistiche).

Tutto qui? Si, tutto qui. Trasformare il Paese da cicala a formica si può senza nemmeno troppo sforzo, orientando decisamente gli attuali eccessi verso la costruzione di una prospettiva migliore e con lo spauracchio concreto di un abisso dal quale esso potrebbe non riprendersi più.

Da questo punto di vista anche lo stimolo fiscale nella direzione di nuovi investimenti e iniziative scientifiche e culturali di ogni genere potrebbe trovare la sua giustificazione nell’indotto di crescita che esso potrebbe provocare, in tal modo rendendosi tollerabile anche alla Commissione Europea, che potrà permettersi sempre meno di imporre un’austerity tout-court: un’austerity della spesa corrente sì, ma controbilanciata da una forte accelerazione di investimenti privati e pubblici !
Stefano di Tommaso




Una Boutique vince il mandato per la più grande quotazione in borsa della storia

Il più grande mandato della storia per l’advisory della quotazione in Borsa di un’azienda tra le più grandi al mondo (SAUDI ARAMCO, il cui valore di capitalizzazione di borsa è stimato in duemila miliardi di dollari) è stato conferito ieri ad una “boutique” finanziaria quale MOELIS e non ad una delle grandi banche d’affari di Wall Street che per anni avevano corteggiato la società che gestisce le attività petrolifere d’Arabia Saudita, di proprietà della famiglia reale.

Ken MOELIS, fondatore della boutique finanziaria nel 2007 era saltato di recente alla ribalta della cronaca per il suo intervento al World Economic Forum dello scorso Gennaio a Davos cui era poi seguita un’intervista della rete televisiva Bloomberg che aveva fatto il giro del mondo.
Il curriculum di questo veterano della finanza inizia nel 1981 con la Drexel del famoso Michael Miken, da cui si è poi staccato con il suo team per andare all’altrettanto famosa DLJ (Donaldson Lufkin and Jenrette), contribuendo a farne la più famosa boutique finanziaria degli anni ’90. Dal 2000 Moelis passa brevemente alla CSFB per poi approdare alla UBS dove sarà presidente della divisione banca di investimenti fino al 2006.

Erano anni che si parlava della volontà del principe
ereditario alla corona Saudita: Mohammed bin Salman, di portare alla quotazione la società araba concessionaria dell’estrazione, raffinazione e distribuzione petrolifera per farne la più grande al mondo in termini di capitalizzazione di borsa. Oggi un barile di petrolio su nove venduti nel mondo proviene da essa.

Con un “coup de teatre” degno di un grande professionista, Moelis si è aggiudicato il mandato più ambito al mondo da diversi anni a questa parte, che gli darà modo di sedere alla cabina di regia di una storica quotazione in Borsa. Sarà quindi lui a coordinare tutti gli altri mandati professionali, nonché quelli da attribuire alle grandi banche d’affari per la sottoscrizione a fermo e il collocamento delle azioni al mercato.

Si parla per il momento del collocamento di circa il 5% del capitale di SAUDI ARAMCO, potenzialmente del valore di almeno 100 miliardi di dollari, che dovrebbe concludersi entro un anno. In questi casi però è possibile che sia la tempistica che gli importi possano cambiare non poco.

L’importo che i reali Sauditi potrebbero incassare, comunque considerevole da qualsiasi punto di vista, dovrebbe costituire il fulcro di un ampio progetto di riqualificazione dell’economia della penisola araba e potenzialmente inaugurare una stagione di privatizzazioni con la finalità di aiutare il Paese a svincolarsi dal petrolio e incrementare l’occupazione in altri settori industriali e tecnologici. Progetto in gestazione da anni ma recentemente rinviato “sine die” a causa del crollo dei prezzi dell’energia e, di conseguenza, delle entrate.

L’operazione di quotazione della società costituirà tra l’altro un unicum per la sua complessità anche dal punto di vista legale, dal momento che nell’ambito delle attività della corona Saudita nessuna distinzione era stata sino ad oggi definita tra le entrate derivanti dal petrolio e le spese per investimenti in opere pubbliche quali scuole, ospedali o edifici, molto spesso operate direttamente dalla stessa SAUDI ARAMCO.

Senza contare problematiche tipiche per le società che vanno in quotazione come quelle relative alle procedure operative, alla governance, alle deleghe concesse al management e alla politica dei dividendi.

Una vera e propria novità nel settore che deriva dalla gigantesca dimensione del collocamento costituita anche dalla selezione delle Borse Valori ove il titolo sarà collocato (molto probabilmente con una operazione di quotazione contemporaneamente su più di una piazza finanziaria), dal momento che tutte le principali borse al mondo (si parla di New York, Londra, Tokyo e Hong Kong, oltre ovviamente a quella di Riyadh) parteciperanno alla selezione per essere prescelte.

Anche da questo punto di vista Ken Moelis si prepara ad avere l’intero mondo finanziario letteralmente ai propri piedi!
Stefano di Tommaso




L’infinita agonia della Grecia

Con la Grecia -dopo pochi mesi dal “salvataggio”- di nuovo sull’orlo del baratro, non dovrebbe risultare così difficile ammettere che il programma impostole dai creditori dell’Unione Europea è stato un vero e proprio fallimento. L’Italia guarda ovviamente con molta attenzione agli sviluppi della situazione greca, quali indicatori di quello che con una certa probabilità potrebbe coincidere con il proprio destino, se non cambiano le regole del gioco economico comunitario.


Con un avanzo primario del 3,5% del P.I.L. nel 2016 cosa è venuto in mente ai burocrati della Commissione Europea? Di chiedere un aumento del tasse, ovviamente, così da uccidere sul nascere qualsiasi ripresa economica e degli investimenti.

Oggi sono in molti a credere che, in caso di referendum sulla permanenza in Europa il partito del NO stravincerebbe. Il programma di austerità imposto oramai sette anni fa dall’Unione non ha prodotto che un aumento del debito pubblico dal 120% al 180% con un prodotto interno lordo che si è contratto da €354 miliardi a €195 miliardi dal 2008 al 2015 (approssimativamente meno 45%) e ha costretto mezzo milione di cittadini greci ad emigrare ufficialmente all’estero (soprattutto giovani e laureati) dato l’aumento della disoccupazione dal 7% del 2009 al 28% del 2015.

Con il programma di austerità proposto si assumeva che la Grecia potesse riportare il suo debito al 120% del P.I.L. già nel 2020 e che nel corso di dieci anni il P.I.L. stesso potesse crescere del 4% annuo. Ipotesi ovviamente irrealizzabili anche nel migliore degli scenari globali e totalmente in conflitto con le richieste di maggior austerità che provengono da Bruxelles!

Ovviamente il persistere di tali pressioni può facilmente portare il partito di Tsipras, attualmente al governo, ad accettarle “ob torto collo” ma questo non farebbe che precipitare il Paese verso ulteriori tensioni sociali e, in definitiva, verso l’uscita dall’Euro e dall’Unione.

È chiaro che in tale scenario le Borse di tutta Europa ne risentirebbero negativamente e che soprattutto si aggiungerebbe nuova benzina sul fuoco delle tensioni tra europeisti e disgregazionisti in un momento cruciale quale quello del voto della Francia per il nuovo Presidente della Repubblica (dove il più probabile vincitore tra i candidati, Marine LePen, si è detta immediatamente a favore di un referendum sulla permanenza nell’Unione).

Ma tant’è: la sfacciataggine con la quale l’Unione germanocentrica continua a perseguire politiche economiche manifestamente sbagliate può solo far pensare alla malafede, non all’incompetenza.

Stefano di Tommaso




Hanno ragione i giornalisti o gli analisti finanziari?

Secondo gli analisti finanziari la crescita economica anche quest’anno ci sarà, nonostante tutto il clamore che fanno gli oppositori di Trump, gli europeisti incalliti, i detrattori del Brexit e gli ululatori televisivi della sciagura prossima ventura che si abbatterà sull’intera Europa meridionale (a partire da una Francia che sembra destinata ad essere governata dal nuovo Trump in gonnella: Marine LePen).

Anzi, probabilmente nel 2017 la crescita sarà più copiosa e più ordinata di quella dell’anno bisesto che si è appena concluso, con minori timori di guerra termonucleare e forse anche minori focolai di terrorismo ora che l’Isis sembra orientata a una ritirata strategica.

Non è un peana indirizzato ai nuovi leader del mondo, bensì una constatazione razionale tratta dal comportamento dei mercati: in mezzo alla confusione  politica che regna sovrana nel mondo ricordiamoci che però le borse non sono quasi scese, i sistemi bancari sembrano tenere meglio del previsto, il dollaro non è cresciuto e il Renminbi non si è quasi svalutato (e quest’anno c’è da scommettere che performerà bene perché in Cina ci sarà la riconferma (scontata) di Xi Jimping che vuole riuscire a farsi acclamare dal suo popolo. La produzione industriale tiene dunque un po’ dappertutto e la disoccupazione non allarma più (anzi in America si è giunti al limite inferiore).

È possibile che un’America più forte e più efficiente come dovrebbe venire fuori in tempi ragionevoli dal nuovo corso politico possa addirittura trainare la crescita economica del resto del mondo, mentre il debito pubblico italiano è evidentemente tornato a preoccupare man mano che tornano sulle piazze finanziarie i timori di disgregazione della moneta unica europea.

Ma l’anno 2017 sembra destinato a contraddire ogni precedente correlazione tra fenomeni politici e accadimenti economici: più si teme per l’ordine costituito più l’economia sembra accelerare!

Si pensi ad esempio all’allarme disoccupazione che scaturiva dalla disgregazione industriale conseguente alla digitalizzazione del pianeta: con l’avvento dell’Intelligenza Artificiale dovremmo essere ancora più preoccupati ma la verità è che invece oggi tutti si aspettano più ricchezza disponibile dalle innovazioni tecnologiche (e una parte di questa maggior ricchezza non viene conteggiata nel prodotto interno lordo, dal momento che risulta gratuita o condivisa sulla rete: c.d. “Sharing Economy”).

Il vero problema politico dei prossimi anni dunque sarà quello di realizzare un nuovo patto sociale che permetta di redistribuire anche alle fasce sociali più basse il maggior reddito (esplicito o implicito) prodotto con le nuove tecnologie. Ma è altresì improbabile che se ne occuperanno i politici del passato e che restino valide le categorie sociologiche del novecento. L’avvento di internet ha probabilmente portato più voglia di democrazia diretta nelle case dei cittadini occidentali, dai giornalisti denominata spesso “populismo”. Parola di cui invece io ho un gran rispetto, almeno sino a quando essa non si trasforma in assolutismo.

Anche su altri fronti gli analisti finanziari non sono mai stati meno allineati alla stampa prevalente circa i destini del mondo: gli stimoli monetari delle banche centrali lasceranno il posto a quelli fiscali e la spesa per le infrastrutture costituirà la nuova panacea per alimentare aspettative meravigliose oppure i timori per il debito pubblico globale spegneranno ogni entusiasmo e ci faranno cadere in una sorta di “Minsky Moment”?

Il momento della verità si avvicina perché la liquidità in giro per il mondo, cresciuta di oltre 10.000 miliardi di dollari dal 2009 ad oggi a seguito degli interventi delle banche centrali, sta iniziando a ridursi e il vecchio adagio che i mercati corrono perché altrimenti quell’eccesso di liquidità non saprebbe dove riversarsi sarà messo alla prova: l’entusiasmo dei mercati si propagherà agli investimenti produttivi che generano vero valore oppure imploderà insieme alla riduzione degli impieghi delle banche centrali?

Qui gli analisti finanziari divergono profondamente dai commentatori della maggior parte dei media: secondo i primi il mix di efficientamento delle pubbliche amministrazioni e di elevate ricadute delle nuove tecnologie ha una certa probabilità di aprire all’umanità nuovi orizzonti; secondo gli altri il rimescolamento dei poteri che sta consumandosi nel mondo aprirà le porte a maggiore instabilità e dunque ad un minor livello di investmenti, chiave di volta per la generazione di futuri maggiori livelli di reddito e di consumo.

Come spesso accade la verità sta nel mezzo, ma non è difficile immaginare quali giganteschi interessi economici vengano toccati dall’uno o dall’altro scenario…

Stefano di Tommaso