Italian Startuppers, Time to Polish Your Act

( https://www.viasarfatti25.unibocconi.eu/notizia.php… )

IN ITALY, THERE IS A DEARTH OF INVESTMENT IN STARTUP COMPANIES. NEW ENTREPRENEURS SHARE PART OF THE BLAME, THOUGH, BECAUSE THEY OFTEN PRESENT UNSUSTAINABLE BUSINESS MODELS, SHAKY TEAMS, AND MODEST GROWTH AMBITIONS TO INVESTORS. TO REVERSE THE TREND, LET’S START FROM THE TOP

by Mikkel Draebye, SDA Bocconi
Translated by Alex Foti

Working with Italian startuppers, I often hear that they have trouble finding people (angels) and entities (funds) prepared to invest in the early stages of a firm’s life, when the business model is not yet consolidated, and revenues (if any) are still low. Startuppers who feel unlucky to have their fledgling companies based in Italy have a point. According to EY/AIFI data, Italian investment in startups in 2015 amounted to less than €100 million in 2015. By comparison, German, British and French funds invested more than €5 billion. This big difference in capitalization, liquidity and cash flow puts Italian startups at a disadvantage, also because their venture capital is mainly local. But the fact that investment deals are not done through specialized actors, such as institutional investors and business angel networks, does not necessarily mean the money is not there.

Italian companies, even established ones, heavily rely on private financing and banking loans. The problem is that these channels are hard to reach for startups. However, while Italian startuppers have grounds to complain, it is also true they are doing themselves no favors by not doing the things that would make them attractive in the eyes of the few Italian angel investors that do exist. Three are the most common errors that Italian startups do.

First item on the list has to do with unsustainable business models. There is a widespread misconception that the money of investors is needed to cover structural losses in the business. This isn’t true. A startup looking for an investor must present a sound business model and organizational structure which comfort the view that the business is sustainable. If the cost of acquiring a new customer is €30, the startup must show that revenues per customer exceed that figure. Otherwise there is no margin for growth. Often, a startupper will claim that the difference between cost of acquisition (CPA) and earnings (lifetime value) is to be financed by investors. This is an error: investors put their money in financing growth.

Second, the lack of a committed team. A business achieves results and creates value through the execution of ideas, and the implementation of strategies and action plans. For this, motivated people are needed. The value of a startup lies not in the idea, but in its execution. Often startuppers instead present to investors while they still lack a full, motivated and strong-willed team. Maybe a startup hasn’t yet found a good coder, or the sales person has another full-time job and cannot devote 100% of his worktime to the startup. In a business like that people won’t invest, because it does not deliver results.

Third, the potential market is too small or growth ambitions are too modest. In other words, Italian startuppers tend not to think big. An investor will invest in a business that’s realistic (i.e. that has sustainable unit economics and a solid team), only if there’s also the opportunity of big returns. Such returns cannot be expected from a market generating €30,000 in the first year of sales, €80,000 the second, and €150,000 the third. This is a business with no great pretensions. No matter if a startupper asks an angel investor for fifty thousand, five-hundred thousand, or a million euros, the business should be able to deliver a return that is 5 to 10 times the capital borrowed.

In conclusion, we can lament the predicament of startups in Italy, but since we still make many mistakes that, unlike structural problems, it’s in our power to correct, let’s start by fixing fix what we can.




La Sharing Economy celebra il successo a Wall Street

In America dopo una prima ondata di quotazioni in borsa di aziende della new economy intorno alla fine degli anni ’90 sono capitate grandi sciagure come la caduta delle torri gemelle e la grande crisi del 2008 che per qualche tempo hanno messo in ombra le internet companies e fatto sì che personaggi come Warren Buffet si vantassero di non aver mai investito un centesimo su di esse.

Poi è arrivato il Quantitative Easing (denaro facile) e gli investitori, in cerca di novità, sono tornati a guardare con interesse le start-up tecnologiche di ogni genere, ivi comprese le internet companies, molte delle quali propongono modelli di business fondati sulla cosiddetta “Sharing Economy” (condivisione di opportunità e servizi gratuiti in cambio di pubblicità e promozioni).

Il fenomeno è diventato virale e in tutto il mondo si è incominciato di nuovo a parlare di valori stratosferici per aziende che, di norma, non guadagnano dollari anzi, ne perdono parecchi. La più famosa delle start-up tecnologiche è tutt’ora Tesla (già quotata) divenuta un gigante mondiale ed entrata anche nel cuore di molti osservatori.

Dopo il fenomeno di costume dei Social Network (con Facebook e Linkedin) la più prossima alla quotazione a Wall Street nonché la più famosa società della sharing economy è senza dubbio Uber (valutata dai suoi finanziatori poco meno di $70 miliardi) famosa per la possibilità di risparmio e le opportunità di lavoro che propone oramai in tutto il pianeta, ma soprattutto assurta alle cronache di mezzo mondo per le proteste che ha generato (dai tassisti ai trasportatori fino alle autorità fiscali).

I nuovi modelli di business proposti dalla Sharing Economy brillano non soltanto per la genialità delle loro proposte, ma anche e soprattutto perché sono partite da uno dei settori economici più scontati, ad esempio quello dei trasporti, per poi mostrare di essere in grado di applicare la loro tecnologia anche a numerosissimi altri ambiti. Un esempio fra tutti è la tecnologia della “blockchain” che è servita per assicurare in modo indipendente la certezza delle transazioni per la moneta elettronica “Bitcoin”. La medesima tecnologia è oggi oggetto di interesse per ogni genere di archivi “sicuri” e sistemi di catalogazione.

Altra start-up candidata a Wall Street anche perché divenuta nuovo campione mondiale della “Sharing Economy” è AirBnb , cresciuta come un fungo in pochi anni, per aver saputo piazzare a viaggiatori di ogni parte del globo qualcosa come 500.000 camere per ogni notte dell’ultimo anno, assommando un’offerta di oltre 640.000 camere (quanto Hilton Hotels dopo 97 anni di storia) in 57.000 città e 191 nazioni. L’ultima valutazione attendibile di AirBnb (sulla base del collocamento di 3 miliardi di Dollari effettuato nell’ultimo round di Dicembre) implica una valutazione di $30-40 miliardi da parte dei venture capitalists che l’hanno sostenuta.

Questi “Unicorni” (come sono stati chiamati i nuovi campioni) hanno dimostrato che il miracolo dello sviluppo accelerato (grazie all’assenza di barriere fisiche) per le imprese della Sharing Economy può esistere nel mondo reale e, anzi, è un fenomeno dilagante. La creazione di ricchezza che alcune di esse hanno mostrato di saper realizzare non è più una nozione teorica, tant’è che persino grandi aziende della old economy stanno pianificando una sempre maggiore presenza online.

Ecco che dunque, come si poteva presupporre, con i nuovi record di Wall Street raggiunti dopo l’elezione di Trump, molte di esse oggi tornano a guardare alla Borsa come traguardo di un successo anche finanziario che, sino ad oggi, soltanto colossi come Google e Facebook hanno saputo raggiungere.

Molte altre di esse, non ancora arrivate a valutazioni di diverse decine di miliardi di Dollari, sono oggetto di attenzione del Private Equity e di Investitori Istituzionali come i fondi pensione, le compagnie assicurative, gli hedge funds che vedono il loro investimento come stadio intermedio per la quotazione. Tra queste troviamo ad esempio: Instantcart (grocery delivery), Glassdoor (community per l’analisi della reputazione delle aziende), Thumbtack (servizi professionali).

L’elenco potrebbe proseguire a lungo ma il fenomeno della Sharing Economy sta cambiando i connotati di molti settori economici e Wall Street è solo uno degli aspetti più macroscopici.

Uno degli aspetti più importanti ma anche decisamente meno evidenti è la misura del prodotto lordo dell’economia, che evidentemente non viene contabilizzato per la parte di servizi di interscambio o gratuiti forniti online dalle aziende della Sharing Economy.
Price Waterhouse ha stimato che il valore annuo del loro fatturato ha superato i 20 miliardi di Dollari, ma il valore non monetario dei servizi da queste forniti è incalcolabilmente più elevato.
Per quella parte (prevalente) della loro attività non esiste un fatturato che viene rilevato, ma il valore da esse generato per i milioni di utenti innegabilmente si (attraverso la capitalizzazione), dal momento che la loro utilità pratica porta le aziende che li forniscono a grande notorietà e a un posizionamento strategico particolarmente solido.

Niente male come risultato per un’intera categoria di aziende che forniscono servizi immateriali che per buona parte non vengono contabilizzati, no?

Stefano di Tommaso




Mercati finanziari: ad ovest molto di nuovo!

Uno scoppiettante inizio del 2017 anche quest’anno lascia in bocca a quasi tutti gli analisti finanziari parole di ottimismo oltre che la sensazione di una relativa stabilità dei mercati finanziari e, di conseguenza, la possibilità che ripartano gli investimenti produttivi, nell’innovazione e nelle infrastrutture.
L’attesa di una leggera inflazione dei prezzi al consumo è il sintomo della nuova positività ritrovata dagli operatori economici dopo la vittoria di Trump alla Casa Bianca.

Non è solo il Presidente Eletto della nazione egemone a promettere sviluppo e prosperità, bensì anche il “consensus” di buona parte degli economisti attorno ad un ritrovato quadro generale di compostezza nello sviluppo come nelle relazioni internazionali, anche se in molti casi ciò è dovuto più all’attendismo che non a un effettivo rilassamento.

L’Europa del resto, come entità geopolitica non è autonoma e non potrebbe fare altro che attendere, dopo aver subito una serie di bordate “populiste” (come sono state erroneamente classificate dalla vecchia classe politica) quali la Brexit, il cambio della guardia nel referente americano e la bocciatura dei referendum costituzionali italiani. E come se non bastasse si avvicinano importanti appuntamenti elettorali nel cuore del vecchio continente (in Francia e Germania innanzitutto) molto delicati dal punto di vista della tenuta dell’Unione.

Le borse internazionali, pur ai massimi di sempre, hanno sino ad oggi avuto buoni motivi per restare su livelli elevati di valutazione implicita delle aziende quotate : l’anno che si apre sembra promettere più di quanto possa minacciare il contesto industriale e commerciale, a partire da Wall Street, il cui principale indice azionario si è decisamente risollevato ed è giunto alla soglia storica dei 20.000 punti nel corso dell’ultimo mese e mezzo ma è salito in 12 mesi parallelamente all’indice della produzione industriale.

Proprio quel traguardo storico tuttavia lascia qualche perplessità circa la possibilità he la giostra possa procedere molto oltre i livelli già toccati, riportando la maggior parte degli analisti su livelli di neutralità nelle previsioni, nonostante si prospettino un prosieguo della corsa del Dollaro Americano e un incremento generale dei tassi di interesse.
Le prospettive di relativa calma nelle tensioni geopolitiche e nei prezzi delle principali commodities, l’attesa di politiche fiscali di stimolo all’economia e di nuovi importanti investimenti infrastrutturali infatti sembrano ai più un argomento sufficiente a controbilanciare le conseguenze negative del superdollaro e del rialzo dei tassi.

Anche il Giappone sta vivendo una fase positiva della propria economia e sembra orientato a nuovi traguardi con una leadership politica che oggi non viene più messa in discussione e con un tessuto industriale di prim’ordine dal punto di vista del valore aggiunto e della capacità di innovare e rinnovarsi, che si associa alla prospettiva di ulteriori svalutazioni competitive dello Yen.

A livello di macroaree geografiche possiamo solo notare che le Borse europee, Milano compresa, per i motivi suddetti quasi non hanno invece beneficiato del rinnovato entusiasmo nippo-americano e sono dunque le prime candidate a proseguire il rally che altrove potrebbe essere giunto al capolinea, mentre le altre nazioni che stanno intorno al “Pacific Rim” sembrano molto meno interessanti per gli investitori a causa della relativa instabilità del sistema finanziario cinese, dominante in quell’area.

Nessuno peraltro oggi si aspetta particolari sussulti provenienti dal celeste impero e pertanto giocano a sfavore quasi solo le prospettive di ulteriori, continuative svalutazioni del Renminbi, dovute più che altro all’uscita netta di capitali che vi si associa.

La relativa calma generale si assapora anche osservando le prospettive dei principali Paesi Emergenti, sui quali gli investitori, per gli stessi motivi visti per la Cina, non sono particolarmente ottimisti, ma che indubbiamente hanno ritrovato una relativa stabilità con il recupero dei prezzi (in Dollari) delle maggiori materie prime, oro e preziosi esclusi ovviamente.

Non sembrano così malvagie nemmeno le prospettive di uno dei Paesi che rappresenta il maggior rischio sistemico tra i più progrediti -il nostro- a causa del combinato disposto di un debito pubblico fuori controllo e di un sistema bancario in apparente avaria.
Intendiamoci: le banche nostrane hanno serissimi problemi di capitalizzazione e di controllo delle elevatissime sofferenze sui crediti, ma non sono le uniche (in un’Europa che ha voluto darsi al riguardo una normativa fatta di due pesi e due misure) e non potrebbero essere lasciate fallire senza quelle inimmaginabili conseguenze che oggi gli analisti non ritengono una vera minaccia.

Ulteriore motivo di ottimismo è dato dall’accresciuta non-correlazione degli andamenti borsistici dei diversi settori economici, cosa che lascia supporre che i grandi investitori in borsa stiano facendo ruotare i loro portafogli e non stiano soltanto scommettendo sul mercato. Nel caso della borsa italiana questo può significare un minor rischio per i titoli diversi da quelli bancari.

I mercati scontano la possibilità che l’Italia, in un modo o nell’altro, superi l’attuale baratro del sistema finanziario interno e il suo Prodotto Interno Lordo, nonostante tutto, cresca anche quest’anno di un altro risicatissimo punto percentuale. Se poi per qualche meravigliosa congiuntura favorevole il Governo Gentiloni dovesse riuscire a proseguire nel percorso delle riforme, allora le prospettive del Bel Paese diverrebbero le migliori d’Europa!

Lasciamo dunque che questa speranza accarezzi i pensieri degli operatori economici nostrani, per lungo tempo sino ad oggi fin troppo tartassati e vituperati !

Stefano di Tommaso




Luxottica si fonde con Essilor: il controllo passa in Francia ma il principale azionista è italiano

La notizia è di quelle che faranno eco per parecchio tempo: la Luxottica (fondata nel 1961 da Leonardo Del Vecchio) si fonde con la francesissima Essilor (una vera e propria public company risultante da una lunga serie di aggregazioni precedenti, gestita da un management completamente autonomo rispetto ai propri azionisti) raggiungendo la vetta astronomica degli €45 miliardi di valore della “combined entity” (la risultante della fusione).

L’operazione (uno dei maggiori “mergers” mai realizzati in Europa) è stata annunciata ufficialmente nel fine settimana, prima dell’apertura dei mercati finanziari e, tutto sommato, per chiunque la osservi, è una buona notizia, dal momento che in un macrosettore -quello della moda e degli accessori- dove noi “europei” (se ancora è lecito usare questa terminologia) siamo leaders, si consolida un gigante che nel 2016 arriva a fatturare circa €16 miliardi e occupa approssimativamente 130.000 persone (distribuite più o meno a metà tra l’uno e l’altro gruppo ma con lieve prevalenza dì Luxottica nel fatturato, nel valore e nel numero di dipendenti).

Questo gigante vede l’unione tra la francese Essilor, leader mondiale nella produzione di lenti ottiche e titolare di brevetti come “varilux” o di licenze come “Kodak”, e l’italiana Luxottica, che annovera marchi di proprietà (Rayban, Sunglass Hut, Oakley…) e in licenza, di grandissima notorietà.

La fusione è destinata a riconfigurare completamente il sub-settore dell’occhialeria che, in totale, assomma nel mondo un giro d’affari di circa $100 miliardi e cresce ogni anno ad un ritmo impressionante (è prevista per il settore una crescita annua di almeno il 2,5% da qui al 2020) è stata preferita da Del Vecchio a quella -similare- con la concorrente tedesca Zeiss, da tempo candidata anch’essa al matrimonio con Luxottica.

Il principale fattore di crescita dell’industria degli occhiali è senza dubbio quello demografico, innanzitutto per il fatto che si calcola che il 63% dei 7,3 miliardi di abitanti sulla terra abbia ancora bisogno di acquistare supporti per la corretta visione e circa 2,5 miliardi di abitanti non possono ancora permetterselo. In secondo luogo per la prevalente crescita della domanda asiatica di beni di consumo come questi, spesso legati ai più famosi marchi di fabbrica, accessori che aiutano le nuove generazioni a definire il loro “stile di vita”.

L’operazione di aggregazione configura quindi un nuovo soggetto economico, leader mondiale del settore, che ha le risorse e le dimensioni per approcciare il mercato in modo completamente diverso dal passato, in uno dei pochi campi dei beni di consumo che non ha ancora visto la predominanza della Cina tra i suoi produttori.

Sin qui le considerazioni più ovvie, mentre quelle più controverse (ad esempio: chi comanderà davvero, adesso) lasciano luogo per il momento soltanto a qualche supposizione:

– da una parte sembra infatti chiaramente configurarsi una prevalenza francese della nuova entità, anche per il fatto che Leonardo del Vecchio che più di un anno fa sembrava essere sceso al di sotto del 30% di Luxottica (e invece poi ne apporta il 62% alla fusione) e da tempo si poneva la problematica della sua successione al vertice;

– dall’altro lato il medesimo Del Vecchio, un anziano ex-operaio ancora molto in forma e perciò difficile da classificare come il classico capitano d’industria che si è messo in pensione, ha maturato una lunga e travagliata storia di conflitti con i dirigenti della propria azienda (e licenziamenti in tronco) e resta di gran lunga l’azionista singolo di maggior peso all’interno della nuova società (oltre il 30%). Avendo egli accumulato negli ultimi decenni una propria ricchezza familiare di assoluto rilievo e divenendo “PDG” (presidente e direttore generale) tanto quanto Hubert Sagnieres (quello di Essilor) del nuovo gruppo, non può dunque di fatto escludersi una sua futura influenza dominante nella governance societaria, nonostante i probabili accordi odierni, tesi ad assicurare tranquillità al futuro management congiunto.

Per il momento dunque chi pare rimetterci di più è l’Italia, che sembra perdere ancora un altro pezzo pregiato della propria imprenditoria e vede spostare oltre confine un’altra plancia di comando delle proprie attività industriali ma, con il peso di stragrande maggioranza relativa che Del Vecchio assume all’interno del nuovo gruppo, non sono da escludere dei clamorosi colpi di scena, che per una nazione come la Francia, da sempre gelosissima della nazionalità delle proprie aziende, sarebbero vissuti come un dramma nazionale!

Stefano di Tommaso