Piccole banche al bivio

Le nuove tecnologie potrebbero sancire la fine delle banche di limitate dimensioni?

La domanda non è oziosa dal momento che tutto il mondo sta commentando l’avvento delle nuove tecnologie informatiche nel settore bancario come l’unico sistema capace di riproporzionare i costi correnti con le magre prospettive di limitati margini nell’intermediazione del denaro e un futuro di maggior concorrenza online tra istituti di credito che mette a rischio quella voce del loro conto economico che sino ad oggi era sempre cresciuta: i ricavi da servizi e commissioni accessorie.

Le banche di piccole dimensioni tuttavia non soltanto potrebbero incontrare maggiori difficoltà (di quelle dotate di più ampi budget da investire) nel rivoluzionare le proprie tecnologie di “remote banking” e consulenza automatizzata agli investimenti basata sull’intelligenza artificiale. I veri problemi per le banche di piccole dimensioni stanno più spesso altrove.

Il primo punto da prendere in considerazione è che molte di esse hanno forti radici nel proprio territorio, cosa che negli ultimi anni si è tramuta in uno svantaggio per la qualità del credito concesso o per le pressioni politiche ricevute nel supportare determinati soggetti economici.

Ciò che infatti fino alla svolta del secolo poteva essere considerato un vero e proprio vantaggio (quello di conoscere bene le caratteristiche e la qualità degli operatori economici del proprio territorio), con l’arrivo di anni più turbolenti si è tramutato invece in una vera e propria iattura: molte delle aziende affidate (anch’esse di piccole dimensioni) non hanno retto l’impatto con la globalizzazione e non sono riuscite a stabilire buoni canali di distribuzione internazionale, finendo per vedere i propri costi sopravanzare i ricavi calanti.

In più gli interventi della politica e delle istituzioni locali a sostegno dell’occupazione hanno ispirato ristrutturazioni aziendali basate quasi esclusivamente sul sacrificio delle banche creditrici e troppo spesso si sono rivelate inopportune oltre che poco lungimiranti, causando soltanto il prolungamento del l’agonia di tali aziende, molte perdite per i creditori bancari e, alla lunga, l’incapacità di questi ultimi di continuare ad erogare credito.

Il secondo e più letale fattore che mina alla base le speranze di vita delle piccole banche risiede tuttavia nella loro capacità di raccogliere depositi bancari, vera e propria preziosa materia prima per gli tutti operatori finanziari, tanto per proseguire con l’erogazione del credito quanto per poter alimentare i ricavi da servizi accessori a quelli dell’intermediazione del denaro.

Nel sistema bancario la raccolta normalmente proviene da due diverse fonti : l’essere operatore del sistema di pagamenti (che genera depositi “in transito” a favore di chi li opera) e, soprattutto, l’amministrazione delle eccedenze finanziarie (risparmi individuali e collettivi che si incanalano in strumenti di investimento).

Ora l’avvento tanto delle nuove tecnologie quanto della globalizzazione hanno chiaramente giocato a sfavore dell’intero sistema nella sua capacitá di raccogliere depositi bancari, ma soprattutto hanno giocato a sfavore delle piccole banche: i pagamenti transitano sempre più dai sistemi online a partire dalle carte di credito, mentre la discesa costante del tasso di remunerazione dei depositi nonché la maggior facilità d’accesso per i pericoli operatori a opzioni di investimento provenienti magari dall’altro capo del mondo rendono sempre più improbabile per i soggetti minori la capacità di esprimere autorevolezza nella gestione del risparmio.

È dunque proprio il declino inesorabile dei depositi bancari il fattore critico che minaccia la sopravvivenza degli istituti di minori dimensioni, più delle perdite su crediti e più della ridotta capacità tecnologica che limita l’offerta di servizi finanziari ad elevato valore aggiunto o a costi competitivi.

Questo non significa che non potranno nascere (anche nelle periferie economiche) nuove istituzioni bancarie, magari anche di ridotte dimensioni ma capaci di formulare alla clientela potenziale proposte davvero innovative o di grande convenienza. Anzi le nuove tecnologie promettono meraviglie in tal senso senza nessun bisogno di eserciti di dipendenti per farle “girare” e i mercati finanziari premiano tali iniziative con valutazioni da capogiro.

È solo assai meno probabile che tali innovazioni possano vedere la luce a partire da soggetti tradizionali e di ridotte dimensioni patrimoniali. Per queste ultime le strade obbligate di strategie estreme per posizionarsi in particolari “nicchie” di mercato che consentano loro la sopravvivenza ovvero quella (più probabile) delle aggregazioni forzose per trovare economie di scala rappresentano forse l’unica alternativa alla bancarotta, a evitare la quale sarà sempre meno probabile che possano intervenire altri denari pubblici.

Il messaggio per il sistema bancario italiano -che esprime in massima parte banche piccole- non potrebbe essere più chiaro: innovare (pesantemente) oppure tagliare, aggregare, o infine chiudere. “Pantalone” non pagherà in eterno per gli errori di gestione!

Stefano di Tommaso




I forti investimenti dei fondi di venture capital nelle start-up della nuova tecnologia “Hail & Ride” ne accelerano la crescita nei paesi del Sud-Est Asiatico

La notizia che la piattaforma GRAB-A-TAXI più recentemente ribattezzata GRAB (concorrente online di UBER e di molte altre start-up tecnologiche basate su applicazioni di utilità per tablet e smartphone) investirà 700 milioni di dollari in un centro di ricerca a Giacarta e nello sviluppo del mercato indonesiano dei servizi online per la mobilità personale ha appena fatto il giro del mondo.

Si parla di assumere nel Paese nuovi 150 ingegneri per mappare tutto il territorio e soprattutto quello circostante la suddetta capitale del Paese, caratterizzata da uno dei sistemi viari più congestionati del sud-est asiatico, oltre che dell’assunzione dell’ex-comandante della Polizia Thailandese quale suo presidente.

L’indicazione che ne discende è che la competizione si accentua per conquistare la quota maggiore di un mercato stimato in crescita verticale (dai 2,5 miliardi di dollari nel 2016 a circa 13 miliardi nel 2025, con un numero di utenti che si stima passerà dagli attuali 7milioni di persone a circa 29 milioni in otto anni.

GRAB è già attiva con analoghi centri di ricerca e sviluppo a Singapore, Pechino e Seattle e con questa mossa va a investire quasi tutti i 750 milioni di dollari da lei raccolti nell’ultimo round dello scorso Settembre e a insidiare la leadership locale di UBER, già fortemente presente nel Paese sud-asiatico e quella di una analoga piattaforma “indigena” chiamata GO-JEK che aveva anch’essa ricevuto, nello scorso mese di Ottobre, cospicui finanziamenti (550 milioni di dollari) da fondi di private equity e venture capital quali KKR e Warburg Pincus.

Perché la competizione è così accentuata e il mercato thailandese così interessante da far prevalere da parte dei colossi internazionali dei servizi online la scelta di investire su un mercato che non è il più popoloso al mondo sebbene la sua demografia sia in crescita verticale a quello americano, cinese o indiano?

Da un lato il bacino del sud-est asiatico è stimato in maggior crescita rispetto a molte altre regioni del pianeta, ma dall’altro è la constatazione che quella di Giacarta è tra le aree più densamente popolate e inquinate, ragione per cui l’utilizzo di automobili di proprietà privata risulterà meno attraente per buona parte della popolazione.

D’altra parte il fenomeno UBER e le sue valutazioni implicite che hanno raggiunto livelli astronomici indicano una forte attenzione del mercato finanziario nei confronti di quei servizi internet che andranno, nel prossimo futuro, a rivoluzionare le abitudini della gente.

E i Paesi del sud-est asiatico sono caratterizzati da una popolazione giovane e desiderosa di crescere economicamente, ragione per la quale essi risultano solo più veloci di altri ad assumere i modelli di comportamento dettati dalle nuove tecnologie.

Stefano L.di Tommaso




Le boutiques finanziarie hanno cambiato (in meglio) il mercato delle fusioni e acquisizioni

Un recente articolo del Financial Times racconta, numeri alla mano,  che negli ultimi tempi le boutiques di M&A (fusioni e acquisizioni) hanno migliorato le loro performances in paragone alle grandi banche d’affari internazionali, guadagnandoci e fornendo una serie di vantaggi anche alla loro clientela. Per chi volesse consultarlo, ecco il link all’articolo:

https://www.ft.com/content/23221ff8-de2c-11e6-86ac-f253db7791c6

Il loro numero è molto elevato (sono migliaia già solo in Europa) e molto spesso esse si caratterizzano per la fama di taluni professionisti di successo che provengono da importanti esperienze in realtà più grandi e più internazionali, desiderosi di privilegiare la qualità del lavoro, l’impegno nei confronti della clientela, nonché il loro tornaconto personale e quello della clientela azzerando i cospicui costi generali delle grandi istituzioni internazionali che pesano sulla retribuzione come sull’ammontare complessivo delle fees.

I VANTAGGI DELLA PICCOLA DIMENSIONE

Tipicamente le piccole banche d’affari possono assicurare alla clientela indipendenza e discrezione, oltre alla disponibilità ad occuparsi anche di operazioni di minor dimensione. Ma il vero vantaggio riscontrato nell’indagine promossa riguarda la passione e l’impegno profuso sul cliente che esse possono assicurare, a causa della prevalenza del fattore personale su quello “aziendale” nel rapporto con gli imprenditori, a volte anche a scapito dei profitti (per esempio quando le cose, strada facendo, si complicano ed esse tengono duro indipendentemente dalla ridotta convenienza).

LA FASE DI INTEGRAZIONE POST-DEAL

La cosa è ancora più evidente nella fase di integrazione successiva al vero e proprio “closing” di una qualche operazione straordinaria, meno strombazzata dai titoli dei giornali e nella quale l’intuitus personae fra professionista e cliente fa si che le c.d. Boutiques possano avere interesse a continuare ad erogare la loro assistenza. Accade poi spesso che quest’ultima si riveli particolarmente efficace in un segmento di attività (la fase post-merger) la cui importanza viene spesso sottovalutata dalla maggior parte degli imprenditori.

L’INTUITUS PERSONAE

Perché ciò accade? Innanzitutto bisogna notare che il “brand” più noto delle grandi organizzazioni internazionali le aiuta molto ad ottenere mandati di prestigio, ragion per la quale tutti gli altri mandati sono vissuti da queste ultime come “di serie B”.

In secondo luogo la prevalenza della grande organizzazione sull’individualità di chi ci lavora dentro non è un fattore oltremodo motivante per il singolo professionista a “dare l’anima” per riuscire a trovare soluzioni ai problemi più complessi. È ovvio ma succede ugualmente e questo significa minor attenzione alle esigenze specifiche di ciascun cliente.

Il fenomeno peraltro non riguarda soltanto le imprese familiari e/o di prima generazione, attente più alla fiducia che si instaura tra le persone di quanto possano contare gli standard e le interconnessioni internazionali che le grandi case possono vantare. Negli ultimi tempi sono state soprattutto le società di gestione dei fondi di private equity che si sono rivolte alle “boutiques”, alla ricerca di un miglior rapporto qualità prezzo e, spesso, di una più accentuata specializzazione per singoli settori economici. Nemmeno da trascurare è l’approfondita conoscenza delle logiche di chi investe denaro altrui, che fa sì che si preferiscano professionisti ben capaci di comprenderle a coloro che magari hanno fatto tutta la loro carriera nei principali dipartimenti di una grande banca generalista.

LA CONSULENZA STRATEGICA E L’ESPERIENZA NEGOZIALE

Ma la vera differenza sta nel contenuto di consulenza strategica che le piccole banche d’affari possono inserire nel “pacchetto” di servizi che vengono forniti all’impresa cliente, molto spesso di maggior valore per quest’ultima di quanto possano valere le grandi connessioni internazionali che esaltano la capacità di ricerca della società-target ideale.

La strategia non è soltanto quella “sulla carta” relativamente all’analisi di mercato e del posizionamento competitivo, ma soprattutto quella che può essere immediatamente ultilizzata per trovare le leve giuste che aiutino a concludere l’affare.

Spesso l’esperienza negoziale di chi è seduto alla regia dell’affare, unita alla conoscenza storica di taluni attori di uno specifico mercato possono fare la differenza, contribuendo non solo alla riuscita del deal, ma soprattutto alla corretta impostazione della società che risulterà dall’integrazione con la target, che non può che derivare da un duro lavoro di pianificazione strategica e di analisi delle singole fasi attuazione della medesima.

È in questo lavoro che prevalgono l’esperienza pratica e l’attenzione personale prestata dal professionista che si trova a lavorare nelle realtà più piccole e più esposte direttamente al rapporto diretto con il cliente. Per costui un eventuale fallimento dell’operazione da lui seguita sarebbe vissuto come una vera e propria disfatta personale, con la quale egli dovrebbe convivere per molti anni.

LA CONTINUITÀ DEL RAPPORTO NEGLI ANNI

In un mondo che continua a veder consolidare ogni settore economico che giunge ad una relativa maturità di prodotto, la vera sfida nel mercato delle fusioni e acquisizioni sta proprio nella riuscita delle unioni tra aziende più piccole e meno internazionalizzate, molte delle quali non hanno alcuna valida alternativa al percorso di progressiva crescita dimensionale.

Spesso per quegli imprenditori che si trovano di fronte ad un tale dilemma strategico il trovare professionisti entusiasti e dedicati ad una strategia di collaborazione con il cliente impostata sul medio-lungo periodo non è nemmeno praticabile senza aver individuato una banca d’affari che esprime talenti ma al tempo stesso anche calore umano!

 

Stefano di Tommaso




Perchè la Cina continua la sua corsa

La tumultuosa crescita economica della Cina provoca da tempo molte discussioni sulla sua sostenibilità, soprattutto finanziaria.

Il principale motivo di preoccupazione riguarda infatti la composizione della crescita del prodotto interno lordo cinese, dove la componente investimenti ha sempre contato per una larga parte, sebbene sia in riduzione negli ultimi anni, sostituita progressivamente da incrementi nella spesa per consumi (spesso di importazione).

La Cina non sarebbe oggi quel che è diventata se non ci fossero state tutte le principali imprese occidentali ad investire in joint-ventures industriali di ogni genere apportando capitali e competenze.

È chiaro che man mano che quel fenomeno si ritrae altri capitali di diversa provenienza devono prenderne il posto, oppure devono ridursi gli investimenti lordi e con essi il P.I.L.

Il secondo motivo storico di preoccupazione per la sostenibilità dello sviluppo economico dell’ex celeste impero riguarda invece la natura della sua industrializzazione, principalmente orientata a produzioni “low-cost” e pertanto a rischio di incorporare una sempre minor componente di valore aggiunto, man mano che altri paesi si affacciano alla prima industrializzazione.

Questo anche a causa dell’aumento progressivo del reddito medio della popolazione, che mal si conciliava con le attività più “povere”, che si potevano realizzare con un più basso costo della manodopera.

La risposta cinese alle minacce di cui sopra però è stata particolarmente vivace e ha tratto spunto soprattutto dalla crescita dei consumi interni. Dallo sviluppo delle tecnologie elettroniche ed informatiche al passaggio verso produzioni a maggior valore aggiunto, l’intero sistema economico nazionale si è mobilitato per  migliorare la qualità dei propri prodotti e subito dopo incrementare la penetrazione commerciale dei medesimi nel resto del mondo.

 

Giganti produttivi come Huawei, Lenovo, Hisense, Skyworth  o TLC hanno sfondato anche grazie ad acquisizioni strategiche nei mercati di largo consumo occidentali (i più ricchi) precedentemente dominati da Giapponesi e Coreani, colossi della distribuzione online come Alibaba e Tencent hanno raggiunto anch’essi i mercati occidentali più ricchi e grandi innovatori come Xiaomi (telefonia mobile e elettronica di consumo) hanno raggiunto grandi traguardi anche perché il mercato interno cinese, povero ma pur sempre popolato da oltre un miliardo di consumatori, ha permesso loro di raggiungere grandi dimensioni prima ancora di esportare un solo pezzo.

Due grandi limiti a questa corsa verso gli standard occidentali sono tuttavia consistiti nella capacità di supportare lo sviluppo con adeguate risorse finanziarie e nella fuga dei capitali verso l’estero che in parte è maturata man mano che gli investitori cinesi si rendevano conto della necessità di iniziare a diversificare i loro portafogli e in parte è una conseguenza delle infinite svalutazioni competitive pianificate dal governo centrale cinese per mantenere la necessaria competitività fino a quando una larga parte delle proprie produzioni non potrà dichiararsi arrivata ad eguagliare gli standard occidentali.

Questo spiega in parte la dura risposta del nuovo corso politico americano nei confronti di quella che viene percepita come una concorrenza commerciale quasi sleale, ma soprattutto illumina sul perché il credito in Cina, tanto quello “ufficiale” quanto quello riferibile al cosiddetto “sistema bancario-ombra” sia stato lasciato a briglia semisciolta dai pianificatori centrali, con il rischio evidente di un possibile collasso, ma con il vantaggio di moltiplicare la moneta a disposizione di imprenditori e consumatori.

Un’ ultima, amara considerazione, riguarda il fatto che ciò è l’esatto opposto di quanto è avvenuto in Europa, anch’essa alle prese con la necessità di convertire buona parte del proprio sistema industriale indirizzandolo a maggiori valori aggiunti, ma dove sono ad oggi le tensioni interne all’Unione e le crescenti regolamentazioni del settore bancario e finanziario hanno viceversa ridotto il moltiplicatore del credito, limitando lo sviluppo.

 

Stefano di Tommaso