Le borse rispecchiano aspettative positive, nonostante tutto

Le borse rimangono ben impostate perchè rispecchiano aspettative positive per l’economia reale

 

Fino a qualche giorno fa con l’indice Dow Jones che sfondava la soglia psicologica dei 20.000 punti, il mondo intero guardava i listini azionari con timore e ammirazione , mentre un ringalluzzito Donald Trump (non che abbia mai smesso di esserlo) teneva fede alle proprie promesse elettorali scatenando proteste e scompiglio nelle piazze come tra gli operatori economici.

A seguito di quelle proteste anche i listini hanno vacillato, ma lo scompiglio non sembra destinato a durare a lungo.

Sino alla fine di Gennaio, nell’attendersi una forte crescita economica gli operatori di mercato non si erano domandati quanto fosse socialmente accettabile ciò che Trump stava decidendo (oppure se lo ha fatto si è  espresso a favore e poi è apparso tentennare) ma avevano apprezzato la determinazione dimostrata nel dare a tempo di record sostanza alle iniziative annunciate.

Molti di loro si sono poi parzialmente ricreduti sulla razionalità e lungimiranza del Presidente nelle ultime sedute.

Ovviamente il timore più diffuso riguarda i livelli stratosferici delle valutazioni aziendali, mai così alte dalla crisi del 1929, con la conseguente preoccupazione che la bolla speculativa che le sostiene potrebbe  sgonfiarsi in qualsiasi istante, per un numero elevato di motivazioni, prima fra tutte l’eventuale innalzamento oltre il previsto dei tassi di interesse.

Ma la FED per ora resta alla finestra e sembra rispettare un programma di marcia di piccoli rialzi che i mercati dovrebbero aver scontato oramai da tempo. Dunque è difficile prevedere crolli motivati dai rialzi dei tassi, anzi: la discesa dei corsi dei bond che deriva da quei rialzi è nuova benzina per i motori delle borse!

Proviamo allora a osservare innanzitutto quali iniziative governative potrebbero incidere sulla situazione economica americana.

Sul fronte positivo troviamo:

  • minor tassazione sui profitti derivanti dai capitali investiti: non soltanto determina l’attesa di migliori profitti netti, ma stimola gli investimenti e addirittura attrae all’economia reale nuovi capitali, dall’interno del continente americano come dall’esterno, moltiplicandone gli effetti;
  • riduzione dell’aspettativa di un maggior deficit di bilancio del governo a stelle e strisce, grazie alla contemporanea revisione che Trump sta portando avanti in tutti i capitoli di spesa per eliminare le inefficiente e liberare risorse per le sue iniziative;
  • maggior concretezza delle prospettive di fare seguito alle promesse elettorali di avviare importanti investimenti infrastrutturali, per accompagnare con un contesto generale in miglioramento l’invito pressante rivolto alle imprese americane a rimpatriare le iniziative e i profitti che in precedenza erano destinati a rimanere fuori dei confini .

Su quello negativo negli ultimi tempi si sono aggiunti:

  • spavento per la possibilità che i calcoli politici del Presidente non coincidano con quelli sulla salute generale dell’economia (in particolare a proposito di immigrazione e tasse doganali);
  • possibile avvio di una spirale di protezionismo per le importazioni americane che potrebbe innescare analoghe iniziative al di là dei due oceani;
  • progressiva riduzione della liquidità sui mercati dovuta al “tapering” (riduzione dell’intervento sui mercati) da parte delle Banche Centrali di tutto il mondo, i cui bilanci da inizio 2017 sono in restrizione nel loro complesso per la prima volta dal 2009: cosa che evidentemente può contribuire a far calare le quotazioni borsistiche;
  • probabili rialzi dei tassi di interesse che riducono la propensione agli investimenti e rischiano di far salire ancor di più il cambio del Dollaro, con possibili conseguenze immediate sui mercati finanziari e successive conseguenze anche sull’economia reale.

Non esistono però soltanto le aspettative di mercato e quelle degli operatori industriali che orientano le loro scelte sugli investimenti. Esistono anche molti indicatori economici che misurano l’andamento economico e contribuiscono a rendere particolarmente ottimisti gli economisti di questi tempi. E ciò accade non solo in America.

Si legga ad esempio nel grafico qui riportato l’andamento dei prezzi al dettaglio raffrontato con quello del Prodotto Interno Lordo di ciascun Paese: se escludiamo l’Italia (che potrebbe essere storicamente indietro rispetto agli altri nel suo ciclo economico, come potrebbe avere risentito della crisi del sistema bancario e dell’accesso di spesa pubblica) l’Eurozona registra un andamento positivo che lascia sperare in una ulteriore accelerazione.

 

 

In U.S.A., dove tutto avviene con un po’ di anticipo, le aspettative di un solido progresso arrivano soprattutto dai risultati attesi per le piccole e medie imprese, che nei primi anni della ripresa dopo la crisi non avevano beneficiato come quelle più grandi e più internazionalizzate. L’indice di fiducia delle piccole imprese americane ha registrato in poche settimane un picco quasi unico negli ultimi trent’anni.

Sono molti perciò gli economisti che iniziano a ritenere plausibile che l’economia americana possa passare ad una nuova fase di espansione senza dover necessariamente attraversare prima un periodo di recessione perché dal punto di vista strettamente industriale si è giunti al momento attuale di ottimismo nonostante  un livello minimo di scorte fisiche dei magazzini e un arretrato di investimenti da fare presto.

Trump può spaventare una vasta platea di oppositori e conservatori (quelli “vecchio stampo” dal momento che le parti sembrano essersi invertite con i democratici), ma è indubbio che il corso che ha inaugurato stimola negli operatori economici più entusiasmi di quanto i commentatori pubblici siano effettivamente disposti ad ammettere!

E ancora una volta dopo molti anni in cui non accadeva più, il resto del mondo (con l’Europa in testa) spera in una  ulteriore ripresa trainata dalla locomotiva americana, nonostante i timori di danni all’economia che potrebbero derivare dal protezionismo!

 

Stefano di Tommaso




Amazon One, un’icona del gigantismo finanziario della new new economy

É sul Financial Times di questa mattina la notizia che Jeff Bezos, capo e fondatore di Amazon.com, anche per celebrare il successo commerciale raggiunto a vent’anni dalla nascita, ha annunciato l’imminente consegna del suo nuovo aereo cargo-icona chiamato (nientemeno) che “Amazon One”.

La sua matricola nei cieli: N1997A, è infatti un fin troppo esplicito riferimento all’anno di fondazione della internet company che ha letteralmente rivoluzionato il commercio elettronico e che sta ancora lavorando a cambiare le regole del gioco a livello planetario per aver investito più di ogni altro concorrente in una imponente organizzazione logistica direttamente controllata in buona parte dei Paesi OCSE.

Così, tanto per fare il verso anche dal punto di vista estetico a quell’altrettanto iconico aereo presidenziale americano denominato “Air Force One” che il Presidente Eletto ha giusto iniziato a mettere in discussione per l’eccesso di costi che si porta dietro. Le fasce blu e oro sui fianchi dell’aereo-icona tolgono infatti ogni residuo dubbio alle caratteristiche pubblicitarie dell’operazione.

L’aver Jeff Bezos investito così pesantemente in una propria capacità di trasporto, logistica e distribuzione sino all’ultimo miglio (è nota l’altra iniziativa iconica che risale a pochi mesi fa denominata “Amazon Prime Air” con la quale sfida i cieli pubblicando i primi test di consegna in tempo reale -per mezzo di una flotta di droni volanti- dei prodotti venduti attraverso la propria catena commerciale online) è stata giudicata da molti analisti come una via di mezzo tra una strategia di lunghissimo termine, una trovata pubblicitaria e una sbruffonata, dal momento che è noto il risultato ancora pesantemente negativo (esattamente per 6,4 miliardi di dollari negli ultimi 12 mesi) della divisione logistica della sua organizzazione. Una perdita economica che anzi, il Financial Times fa notare, cresce per Amazon più velocemente delle proprie vendite.

Non più tardi di qualche mese fa infatti era stato pubblicato un articolo dall’autorevole Forbes, di cui riporto qui il link:

http://www.forbes.com/…/amazon-is-using-logistics-to-lead…/…

nel quale si faceva notare quanto fosse fortemente perseguito l’intento originario del gigante del commercio elettronico: quello di poter controllare più o meno direttamente la propria logistica per arrivare a promettere di effettuare le consegne addirittura in un’ora nei maggiori centri abitati e sbaragliare così la concorrenza.
Intento comprensibile, dal momento che essere il più grande dei commerci mondiali al dettaglio senza avere propri punti vendita può destare, nel tempo, qualche perplessità.

Per lo stesso motivo Amazon ha addirittura aperto lungo le strade cittadine i suoi primi punti vendita di cibo e generi di prima necessità, ovviamente supportati dall’organizzazione logistica di consegne a domicilio più possente del mondo.

Ma quella dell’Amazon One è forse un’iniziativa che va oltre gli intenti originari del poter battere sul tempo (e dunque non sul prezzo) la propria concorrenza: il gigantismo finanziario del colosso americano le cui azioni in Borsa capitalizzano 160 volte i profitti attesi per il 2016 (cioè volgarmente tradotto, i cui titoli sono quotati per un prezzo pari agli utili dei prossimi 160 anni qualora essi non dovessero crescere) ha questa volta inteso celebrare sé stesso!

Un articolo di ieri su un importante blog americano:

http://seekingalpha.com/…/4030587-todays-amazon-facebook-go…

ricorda che il problema del possibile scoppio della nuova bolla speculativa riguardante i titoli azionari dei giganti della new new economy riguarda anche molti altri campioni quotati.

Un difetto -quello dell’autoreferenzialità- comune a molti tycoon e dittatori nel corso della storia dell’umanità, quasi sempre corrispondente all’inizio di una loro parabola discendente…

Stefano di Tommaso




La crisi delle banche italiane non si risolve per decreto

Nel corso degli ultimi anni i bilanci delle banche di tutto il mondo hanno accusato segni di cedimento, soffrendo di un malessere che ha attraversato l’intero settore finanziario. Tra i problemi principali: il calo strutturale dei tassi d’interesse (voluto dalle banche centrali di tutto il mondo per rilanciare gli investimenti e ridurre gli oneri dei debiti pubblici), la riduzione dei depositi bancari, dovuta alla lenta ma costante disintermediazione creditizia, rilanciata dal fiorire delle alternative disponibili tramite internet sul mercato dei capitali e infine la necessità di rispondere a requisiti di capitalizzazione sempre più stringenti introdotti in forma graduale a seguito della crisi del 2008.

In buona parte dei Paesi del mondo le banche hanno affrontato la crisi ricevendo da un lato aiuti dalla mano pubblica o dalle banche centrali, e dall’altro lato aiutando sè stesse fondendosi tra loro per migliorare la propria efficienza di gestione o cercando di guadagnare la leadership di mercato in taluni ambiti di specializzazione, per migliorare la propria capacità di reddito e, indirettamente, la propria appetibilità per gli investitori a cui veniva richiesto di apportare altro patrimonio. In Italia il problema però è stato più intenso e meno facile da risolvere, anche perché affrontato in modo tardivo.

Per chiunque abbia seguito il dibattito che si è acceso a proposito della crisi del Monte dei Paschi di Siena (MPS) è divenuto ormai agevole comprendere che il problema delle banche italiane va inquadrato in un più ampio problema di rapporti tra l’Italia e l’Unione Europea, ma anche che non si limita a ciò e che non si risolve soltanto migliorando quei rapporti o con l’intervento dello Stato.

Infatti l’allarme collettivo sulle sofferenze creditizie italiane ha crea un problema generale sugli investitori per l’intera area Euro, contribuendo a deprimere le quotazioni di borse e divisa unica, sebbene non si possa negare che esso è anche figlio delle politiche europee a senso unico: se il Quantitative Easing continentale non avesse subito il veto tedesco e fosse arrivato in tempo per riattivare il credito quando ancora in Italia c’era più domanda, forse si poteva risparmiare alle nostre banche la marea di sofferenze che si sono generate con la recessione e, soprattutto, con l’austerity forzosa.

L’ASIMMETRIA DELLA NORMATIVA BANCARIA EUROPEA

Ancor più grave è il profondo senso di ingiustizia che gli Italiani hanno provato quando hanno visto francesi, tedeschi e spagnoli profondere decine e decine di miliardi nel sostegno pubblico alle loro banche e, un istante dopo, promuovere una normativa europea sul c.d. “bail-in” che sembrava fatta apposta perché l’Italia, indietro come sempre, non potesse più fare altrettanto.

Per non parlare dell’asimmetria delle norme europee che dovrebbero portare all’armonizzazzione del sistema bancario, quando esse si concentrano sulle sofferenze ma poi chiudono tutti e due gli occhi sui derivati e titoli complessi (c.d. “attivi di livello 3”) di cui sono piene le banche tedesche, francesi e spagnole. Anzi queste ultime non ce li avevano, ma hanno risolto il loro problema delle sofferenze sul comparto immobiliare con una norma (quella sui “repossessed assets”) che le autorizza a cancellare i crediti in sofferenza acquisendone la garanzia reale sottostante a un valore da esse stesse stimato.

Se poi si tiene conto del misero misero livello di capitalizzazione richiesto come percentuale dell’attivo di bilancio: un 3%, senza dubbio insufficiente a tutelare i risparmiatori soprattutto quando non è chiaro il vero valore dei “repossessed assets” o di quegli attivi di livello 3 di cui sono piene le banche del resto d’Europa, diviene chiaro che tutta l’attenzione di quella normativa è stata spostata sulle sofferenze creditizie, ove noi Italiani siamo campioni del mondo!

IL PARADOSSO DEL MPS

Il caso del MPS, icona dell’intera struttura creditizia italiana, per certi versi è anche paradossale, per vari motivi:

– perché mai prima d’ora era accaduto per un istituto di rilevanza nazionale che i suoi crediti incagliati arrivassero ad assommare a quasi il 40% dei prestiti erogati (come dire che l’errore nella valutazione del rischio è stato così frequente da lasciare più di un sospetto che la logica sottostante fosse di matrice squisitamente politico-clientelare);

– perché la banca è storicamente vicina al partito che guida la coalizione di governo, partito che evidentemente Renzi non è riuscito a “rottamare” o peggio, cui ha contribuito egli stesso nell’influenza che esso ha esercitato sul MPS;

– perché l’aumento di capitale ventilato (si è arrivati a parlare di €10 miliardi, conversione delle obbligazioni compresa) non sarà sufficiente a ristabilire la fiducia dei risparmiatori nella banca se non interverrà anche un nuovo management, forte e credibile (ma di tale staffetta non si parla, mentre affiorano problemi anche per molte altre banche italiane e il governo è costretto a stanziare l’incredibile cifra di €20 miliardi, pari a una “manovra economica” di medie dimensioni);

-‘perché gli analisti hanno comunque stimato che il fabbisogno complessivo di maggior capitale della banca sembra ammontare a non meno di €30-40 miliardi e dunque la decina di miliardi stanziati per la sua ricapitalizzazione non solo costituisce un salasso per l’intero Paese, ma non migliora la percezione degli investitori sulle reali prospettive della banca.

LA DEBOLEZZA DELL’INTERO SISTEMA

Il punto di attenzione tuttavia, al di là dei problemi di due pesi e due misure per la normativa europea e persino al di là degli incommensurabili pasticci che il Paese ha saputo esprimere attraverso il Monte dei Paschi, risiede soprattutto sulle magre prospettive dell’intero panorama bancario nazionale, tanto a livello di reddito quanto di credibilità.

A partire da Intesa San Paolo che sembra ben capitalizzata e molto avanti nella dismissione di crediti insoluti, passando per l’Unicredit che ha appena lanciato un enorme aumento di capitale e la dismissione di un gran numero di dipendenti, fino alle più piccole realtà locali, il problema delle banche italiane sembra innanzitutto la scarsa capacità di produrre reddito nell’attività caratteristica, quella di prestare denaro, ponendo dubbi di fondo non solo sulle capacità dei loro vertici, ma anche sulla sopravvivenza dell’ecosistema che si è sviluppato intorno alle banche italiane.

L’aver realizzato profitti consistenti sui mercati finanziari negli ultimi anni ha infatti spesso controbilanciato le magre performances sul fronte del credito ma non può certo costituire la risposta strutturale alla crisi delle banche! C’è da attendersi infatti che prima o poi il tema della separazione tra le attività di banca commerciale e quelle di banca d’affari tornerà di moda e la giostra del trading finanziario con cui sono stati puntellati i bilanci delle maggiori banche del Paese dovrà fermarsi.

La scarsa capacità di attrazione delle nostre banche per gli investitori sta perciò soprattutto negli scarsi risultati economici che esse possono promettere, oltre che nella costante emorragia dei capitali dal mercato finanziario italiano. Solo una parte del problema italiano è dunque figlio di un’Europa poco solidale con noi.

LA NECESSITÀ DI UNA STRATEGIA – PAESE

Non si può tacere infatti che, se il Paese vuol ritrovarsi con un sistema creditizio sano, esso deve iniziare a confrontarsi con il più strategico dei problemi delle banche: quello della loro credibilità, con il conseguente calo nella raccolta dei depositi, tale da pregiudicare le prospettive di sopravvivenza di buona parte delle banche di piccola e media dimensione.

E i problemi strategici delle banche nostrane sono a ben guardare i medesimi che attanagliano l’economia italiana, a tutti i livelli. Perché -a forza di pannicelli caldi- è l’intero sistema economico nazionale che negli ultimi anni è andato in crisi.
L’intero sistema economico nazionale con l’arrivo della crisi ha infatti sperato nella panacea dell’intervento pubblico, senza affrontare i propri gangli strutturali e in tal modo ha contribuito ad aggravare il debito pubblico senza risolvere i suoi veri problemi.

Le banche italiane ad esempio sono troppo spesso piccole, come le imprese loro clienti peraltro. E lo sono per il solito motivo: la frammentazione delle poltrone di comando e l’incapacità di concepire una vera strategia di mercato.
La logica delle parrocchiette fino a ieri andava bene ma poi è arrivato il vento della globalizzazione, che ha costretto ogni azienda, bancaria e non, a confrontarsi con la concorrenza globale.
Oggi se un consumatore vuole comprare un prodotto in Indonesia o un risparmiatore vuole spostare i risparmi su una banca australiana, ha pochi problemi e li risolve in un minuto con Internet. E peraltro in Italia si è più che mai costretti a risparmiare per la necessità di integrare una Previdenza Sociale sempre più svuotata di contenuti.

Dunque con l’assistenza pubblica che sempre meno potrà fare la sua parte a causa del l’eccesso di debito, se banche e imprese italiane vogliono mantenersi competitive e restare appetibili per il mercato dei capitali, dovranno mostrare solidità, capacitá dei propri managers e convenienza per i loro clienti, altrimenti questi ultimi svolteranno l’angolo e navigheranno in rete alla ricerca di valide alternative.

Non sono solo le banche italiane perciò, ma é l’intero sistema-paese che deve decidere di ristrutturarsi prima che sia troppo tardi, di affrontare le sfide della tecnologia e delle nuove tendenze globali per riposizionarsi nelle aree di propria eccellenza.
È tutta l’Italia (banche incluse) che deve fare scelte dolorose ma necessarie per evitare che i propri clienti facciano shopping altrove, che i propri cervelli emigrino all’estero, che i capitali cerchino rifugio oltre confine, che i cittadini perdano ogni fiducia nelle istituzioni.
È l’intera nazione che deve risvegliare le proprie coscienze dal letargo del vero populismo, quello strisciante buonismo portato avanti negli ultimi quarant’anni in modo subdolo dall’amministrazione pubblica di vecchia maniera e dai politici di tutti i partiti !

Stefano di Tommaso




Apocalisse

Unicredit è la seconda banca italiana ed è sull’orlo del disastro. Per rimettere in sesto Unicredit servirebbero almeno 9 miliardi di euro. Il problema è che nessuno li ha, e non sarebbero nemmeno sufficienti a mettere in salvo la banca in maniera definitiva.

Procediamo con ordine, e proviamo a raccontare la storia, tutta italiana, di questo istituto di credito, che potrebbe avere un finale drammatico per tutto il Paese, ed esporre ad un salvataggio bancario milioni di italiani.

Si può asserire che Unicredit ha imboccato la strada dell’apocalisse fin da quando l’allora CEO, Profumo, forgiò la Banca aggregando realtà italiane, a partire dal Credito Italiano e da Banca di Roma, e tedesche. La banca crebbe velocemente, è inutile ricordare tutte le aggregazioni e le acquisizioni, e Profumo divenne l’alfiere della finanza Ulivista, politicamente schierata senza pudori.
Il gigante, però, aveva i piedi di argilla.

I dipendenti erano (e sono) troppi, mal organizzati, pagati in maniera eccessiva e con una bizzarra organizzazione del lavoro. In questo contesto, il management spinse in modo forsennato per aumentare la redditività della Banca con metodi che possiamo definire al limite della legalità e che, in alcuni casi sanzionati dalla magistratura, questo limite lo hanno più che abbondantemente superato.

In ogni caso la gestione Profumo terminò non tanto per la sua cattiva gestione ma perché si trasformò in una specie di lacchè dell’allora dittatore libico Gheddafi che entrò in forza nel capitale della banca.

Dopo la defenestrazione di Profumo la situazione non migliorò di molto: non si è mai avuto il coraggio di incidere in una situazione di sprechi faraonici, sovrapposizioni di filiali frutto delle aggregazioni, dipendenti costosi e poco efficienti.
Una banca ben gestita, avrebbe potuto superare la crisi con qualche doloretto ma senza danni. Unicredit non era in queste condizioni.
I clienti fallivano (alcuni come nel caso di Divania, vennero fatti fallire per derivati capestro proprio dalla stessa Unicredit) o iniziavano a non restituire i prestiti.
Le sofferenze quindi, salivano in maniera esponenziale e oggi siamo arrivati alla somma mostruosa di oltre 80 miliardi di crediti in sofferenza.
Anche a voler immaginare che si riesca a recuperarne il 20%, significa per Unicredit una perdita secca di più di 65 miliardi. E’ vero che ci sono stati accantonamenti e che gli utili generati dall’attività bancaria sono stati utilizzati in parte per coprire questi crediti. Ma è come voler svuotare l’oceano utilizzando un cucchiaino, bucato per di più.

Gli utili delle banche italiane sono in picchiata. La colpa è di Draghi che ha abbassato fino ad annullarli i tassi di interesse ma questo ha distrutto anche il margine di intermediazione delle banche.
A questo punto Unicredit ha dovuto fare i conti con la realtà. Il management ha deciso di provare a cambiare rotta scaricando l’Ad Ghizzoni.
Quello che servirebbe subito sono almeno 10 miliardi di euro. Tale aumento, avrebbe però un effetto devastante: diluirebbe il peso delle Fondazioni Bancarie.

Ma nel caso di Unicredit, l’aumento di capitale avrebbe l’effetto di diluire la quota azionaria delle fondazioni per rafforzare il primo azionista, il fondo Aabar degli Emirati Arabi Uniti. O il quarto azionista, il fondo sovrano libico che malgrado la guerra civile che infuria in Libia ha trasferito la sede a Malta e continua i suoi oscuri traffici sui mercati finanziari oltre che a finanziare milizie di ogni tipo in patria. Insomma, non proprio una bella situazione. Le fondazioni si oppongono, dunque all’aumento, forse potrebbero essere disposte a sottoscrivere pro quota un aumento di capitale da appena 5 miliardi.

Ma le sofferenze sono mostruose, un aumento da 5 miliardi non servirebbe a molto, al massimo permetterebbe alla banca di continuare a galleggiare per qualche mese. Poi saremmo punto e a capo. Loro non hanno soldi, i fondi libico o degli Emirati Arabi sì e si prenderebbero la banca per meno, molto meno di un piatto di lenticchie. Cosa ne farebbero poi questi moderni predoni non è dato sapere.

La soluzione che qualcuno ha proposto e la vendita di una serie di banche ad alta redditività che operano in centro e est Europa. Un’idea che ha una serie di controindicazioni. In primo luogo, non si tratterebbe di una vendita ma di una svendita a prezzi così bassi da non risolvere assolutamente il problema.
Unicredit in effetti ci ha provato, cedendo la sua controllata Ucraina. Risultato? Ha dovuto mettere nel bilancio 600 milioni di euro di perdite dovute anche al crollo della valuta locale. Conti alla mano, la cessione delle controllate europee di Unicredit potrebbe, se le cose vanno bene, lasciare invariata la situazione patrimoniale.
Ma siccome siamo realistici, diciamo che molto probabilmente se Unicredit si mette a vendere per un piatto di lenticchie o meno queste banche, la situazione peggiorerebbe.

E se intervenisse Atlante? Ormai è una figura quasi mitologica del panorama bancario italiano.
In effetti, diciamo subito che Atlante ha già salvato Unicredit. Lo ha fatto quando ha sottoscritto interamente il capitale della Banca Popolare di Vicenza, evitando quindi che a farlo fosse Unicredit che aveva garantito l’aumento stesso. E se Unicredit avesse dovuto sborsare più di un miliardo di euro, avrebbe dovuto deliberare il giorno dopo a sua volta un aumento di capitale. Perché Atlante non può sottoscrivere l’aumento di capitale di Unicredit? Semplicemente perché non ha i soldi.

Se Atlante volesse sottoscrivere l’aumento, dovrebbe andare prima sul mercato a cercare altri soldi. Ci sono banche piene di liquidità che potrebbero sottoscrivere altre quote di Atlante? No, al massimo potrebbe essere la famigerata Cassa Depositi e Prestiti, cioè il custode del risparmio postale degli italiani. Insomma, se alla fine la soluzione sarà quella di Atlante, a tenere aperto per qualche altro mese la seconda banca italiana saranno i risparmi delle vecchiette (e meno male che sono un sacco di soldi grazie al generosissimo sistema pensionistico retributivo). Una forma mascherata all’italiana, di nazionalizzazione, che servirebbe a tenere aperto il carrozzone.

La soluzione vera, l’unica definitiva e sostenibile, sarebbe l’acquisto dell’intera banca da parte di un cavaliere bianco con un patrimonio solido e capacità gestionali, oltre che dotato del pugno di ferro necessario per riformare la banca e ridurre i costi tagliando filiali e personale.
Questo cavaliere bianco oggi in Italia non esiste. Un’alba rossa si sta per alzare su Unicredit, un’alba tinta dal sangue dei risparmiatori colpiti ferocemente da quello che potrebbe essere il più grande bail in della storia europea.

Chi può, si salvi, anche perché il Fondo di garanzia Interbancario ha le casse vuote e non potrebbe intervenire per coprire i depositi, non solo sopra i 100 mila euro, ma neanche al di sotto.

Guido Gorla