La sfida su internet del “Bike sharing” che si consuma in Cina è tra investitori americani

(a quote from The Financial Times- Prof. Franco Quilico)

Mobike has broken from the crowded peloton of Chinese bike-sharing services, raising $215 million in the latest funding round supporting the craze in big cities. The world’s most popular bike-sharing company by app downloads was backed by domestic tech giant Tencent and American private equity firm Warburg Pincus, as lead investors in its fourth big round. Mobike is gearing up for a showdown with its main rival ofo — so-called because the name looks like a bicycle — which raised $130 million in third-round funding last October… The bike-sharing battle in fact mirrors the old Uber-Didi Chuxing spat: ofo is backed by Didi, while Mobike’s founder Davis Wang was an Uber executive in Shanghai. Mobike was launched in April 2016 and, within six months, its distinctive orange-wheeled bikes had become ubiquitous in China’s big cities. Its app has been downloaded 400,000 times on the Android app store alone, compared with ofo’s 170,000… Its key features are a proprietary locking system and GPS navigation technology.

Yuan Yang

(find the last quotes at: www.food4brains.com)




I crocevia economici del 2017

Come si legge un po’ ovunque, ci sono buone speranze che nel 2017 il mondo possa non solo non ridurre la propria crescita economica bensì addirittura accelerarla. A fare da traino della crescita un po’ tutte le aree del globo: dall’America che crede anche troppo al miracolo-Trump fino alle economie emergenti che sperano un po’ troppo nel non dover fare i conti con il super-Dollaro, passando per le tigri asiatiche che anche quest’anno porteranno a casa un risultato da record, fino alla vecchia Europa che, quasi dappertutto, registrerà una modesta crescita…

Quel “quasi” siamo noi italiani e pochi altri, che a livello statistico dovremmo cavarcela “quasi” altrettanto (a causa di una live ripresa degli investimenti fissi), ma che a livello di potere d’acquisto siamo già certi che non vedremo un bel niente, soprattutto se si tiene conto che anche in Italia la media del pollo del dato nazionale con le crescenti disparità tra nord e sud serve a poco per capire cosa succede davvero nello Stivale.

LA CRESCITA ECONOMICA

Il grande Martin Wolf in un recente intervento sul Financial Times ci ricorda che -a livello planetario- essa è determinata dall’innovazione tecnologica oppure dall’adozione nei Paesi emergenti di modelli di business che hanno avuto successo in quelli più sviluppati (il c.d. “catch up”).

Mentre non possiamo proprio lamentarci del livello crescente di innovazione tecnologica di questi anni, non è chiaro se possa determinare effettivamente un incremento del reddito disponibile per la popolazione, tenendo conto del fatto che determina crescita ma anche disoccupazione e che sono alcuni decenni che le statistiche dei Paesi OCSE non registrano più gli incrementi di produttività del lavoro che si vedevano in passato.

Alla montagna di disoccupazione e prepensionamento forzoso che viene generato dall’innovazione aveva sino a ieri provveduto la previdenza pubblica più o meno ovunque nel mondo. Era il prezzo da pagare per il progresso tecnologico.
Ma il prezzo crescente dei deficit dei bilanci governativi causati dal forte ricorso a politiche di “welfare” le generazioni attuali non lo stanno pagando davvero, addossandolo invece a quelle che seguono attraverso l’aumento dei debiti pubblici, senza una chiara strategia per ovviare al problema.

Le nazioni più fortunate finanziano il deficit attirando ricchezza verso di esse dai Paesi meno solidi o con maggiori prospettive di svalutazione monetaria, ma questo fino a prova contraria è un gioco a somma zero. Semplicemente qualcun altro paga (e pagherà) il conto del benessere di cui esse godono (e ce ne stiamo accorgendo anche in Italia).

Di qui la vera questione: il modello attuale di crescita economica dell’Occidente è sostenibile nel tempo? Ogni anno, come si può notare dal grafico sulle previsioni di crescita, gli analisti hanno peccato di eccessivo ottimismo.
La risposta a quella domandaprobabilmente non la conosce nessuno. E fors’anche interessa a pochi leaders politici, di questi tempi totalmente impegnati a combattere un’ondata di ribellione generale mal definita “populismo” a causa del fatto che nuovi leaders la stanno cavalcando cercando di soppiantare quelli che erano in sella.

INFLAZIONE O DEFLAZIONE

La questione della sostenibilità del modello di crescita economica attuale ha un’immediata applicazione pratica: dobbiamo aspettarci nei prossimi anni nuova inflazione o ancora deflazione?
L’inflazione basa i suoi presupposti sull’aspettativa di prevalenza della domanda sul l’offerta di beni e servizi (che fa gonfiare i prezzi) la deflazione sul suo opposto. La prima ha i suoi svantaggi ma normalmente riflette una condizione di salute economica, la seconda rispecchia invece aspettative di declino e minor potere di acquisto, oltre a scoraggiare direttamente consumi e investimenti rendendo conveniente rimandarli nel tempo.

Da questo punto di vista le banche centrali hanno oramai mostrato di avere le armi spuntate perché l’enorme liquidità da esse riversata sui mercati finanziari (negli anni che hanno seguito la grande crisi finanziaria) si è tradotta assai poco in maggior disponibilità di reddito da parte dei consumatori e soprattutto in una ancor minore crescita dei prezzi al consumo.
Questo a livello globale e della media generale, sebbene esistano importanti differenze a livello geografico e anche merceologico.

Si vedono perciò pochi elementi fondamentali a supporto delle recenti aspettative di risalita dei prezzi, persino se la si aspetta come conseguenza del maggior prezzo dell’energia, tutto da consolidarsi anch’esso, dal momento che vi sono poche certezze nella tenuta del cartello oligopolistico che dovrebbe limitare l’offerta di petrolio per favorirne il prezzo. La recente esperienza narra invece una forte elasticità dell’offerta di petrolio al suo prezzo, limitandone di fatto la ripresa delle quotazioni.

Da un punto di vista strettamente teorico la continua crescita di valore del Dollaro americano potrebbe altresì aiutare il resto del mondo a generare/importare inflazione, ma non ci sono grandi evidenze nel riscontro pratico del fatto che andrà effettivamente così. Dunque il ritorno mondiale all’inflazione che tutti attendono potrebbe anche risultare in un fuoco di paglia di inizio anno, per poi non consolidarsi affatto.

IL NODO DELL’ECCESSO DI FINANZA NEL MONDO

Qualche analista accompagna le previsioni di crescita all’osservazione che nel 2017 non ci troviamo esattamente nella situazione delle precedenti espansioni economiche, quantomeno a causa di un nodo gordiano : quello dell’eccesso di debito e della parallela bolla speculativa sui mercati finanziari che vi si è gonfiata intorno.
Pur costituendo un grosso rischio (di replicare la crisi del 2008) il problema teoricamente si potrebbe risolvere con un forte coordinamento tra i principali Paesi nel mondo per arrivare a “monetizzare” i debiti pubblici, ma in realtà nessuno di essi ha oggi davvero interesse ad allentare, sperando di trarne profitto.

In effetti ogni volta che scoppia una grande crisi c’è sempre qualcuno che ne trae enormi benefici, e lo stesso vale per le guerre. Dunque non possiamo fingere di ignorare gli interessi che possono presiedere alle politiche economiche che le generano.
Il punto dell’eccesso di finanziarizzazione però non sono i deficit pubblici, bensì i debiti complessivi di ciascun Paese. Nei Paesi che hanno sviluppato il maggior debito complessivo è il sistema bancario che rischia di non avere indietro i propri prestiti, con eccessi evidenti come quello italiano (ma anche quello europeo in generale non naviga in acque sicure).

In Paesi come il nostro il sistema bancario invece “deve” rimanere in piedi, tanto per evitare shock monetari quanto per aiutare il collocamento dei titoli pubblici che -almeno a casa nostra- sono principalmente le banche ad acquistare con il sussidio finanziario della Banca Centrale.
Fiumi di inchiostro sono stati versati al riguardo, soprattutto perché in Italia è oramai allarme rosso non soltanto per il Monte dei Paschi, bensì anche per molte altre banche “sistemiche” del Paese, a iniziare dall’Unicredit. E se un numero consistente di banche italiane dovesse andare in crisi, chi acquisterà gli €400 miliardi di titoli di Stato italiani in scadenza nel 2017?

Il nostro da questo punto di vista è di gran lunga il Paese OCSE più a rischio, forse ancora più a rischio della Cina, che può sempre contare su una propria autonomia monetaria e su una macchina produttiva prima al mondo (e di cui nessuno può fare a meno).

MORALE E CONCLUSIONE

Ancora una volta le importanti aspettative di crescita per l’anno appena iniziato rischiano di essere ottimistiche ed auto-referenziali, prive cioè di un terreno solido sotto i loro voli pindarici, alimentati soprattutto dalla grande liquidità di cui godono i mercati finanziari.
Se poi quella liquidità a sua volta galleggia su un oceano di debiti e su poco più di tenui speranze che gli investimenti in corso nelle numerose innovazioni tecnologiche all’orizzonte possano davvero innestare nei paesi più sviluppati una crescita del benessere collettivo e che questa possa a sua volta gradualmente estendersi al resto del mondo, forse per adesso non interessa proprio a nessuno.

Non interessa per esempio ai mercati finanziari, impostati su solidi fondamentali di una domanda di attività finanziarie che supera ampiamente l’offerta e fa presagire una nuova ondata di IPO’s che nel 2016 iniziavano a diradarsi.
Non interessa alle imprese che, contrariamente a molte autorevoli previsioni, non hanno vissuto quella riduzione dei profitti di cui si è parlato per tutto lo scorso anno.
Non interessa alle banche centrali, che attraverso le facilitazioni monetarie erogate hanno conquistato le prime pagine della cronaca globale ed hanno vissuto un’esperienza di vere protagoniste anche a livello politico. Non saranno perciò così urgentemente interessate a rientrare nei ranghi del tempo passato.

La vita però è adesso, come dice la pubblicità globale della Vodafone (gestita da un Italiano illustre nel mondo come Vittorio Colao). C’è la seria possibilità che l’umanità riesca ancora una volta ad aggirare le numerosissime trappole pronte a tendere l’agguato alla nuova ondata di crescita che il mondo si aspetta.

Godiamoci perciò questo ottimistico primo scorcio dell’anno, perché viviamo in una delle epoche meno prevedibili che la storia abbia mai annoverato!

Stefano di Tommaso




Italian Startuppers, Time to Polish Your Act

( https://www.viasarfatti25.unibocconi.eu/notizia.php… )

IN ITALY, THERE IS A DEARTH OF INVESTMENT IN STARTUP COMPANIES. NEW ENTREPRENEURS SHARE PART OF THE BLAME, THOUGH, BECAUSE THEY OFTEN PRESENT UNSUSTAINABLE BUSINESS MODELS, SHAKY TEAMS, AND MODEST GROWTH AMBITIONS TO INVESTORS. TO REVERSE THE TREND, LET’S START FROM THE TOP

by Mikkel Draebye, SDA Bocconi
Translated by Alex Foti

Working with Italian startuppers, I often hear that they have trouble finding people (angels) and entities (funds) prepared to invest in the early stages of a firm’s life, when the business model is not yet consolidated, and revenues (if any) are still low. Startuppers who feel unlucky to have their fledgling companies based in Italy have a point. According to EY/AIFI data, Italian investment in startups in 2015 amounted to less than €100 million in 2015. By comparison, German, British and French funds invested more than €5 billion. This big difference in capitalization, liquidity and cash flow puts Italian startups at a disadvantage, also because their venture capital is mainly local. But the fact that investment deals are not done through specialized actors, such as institutional investors and business angel networks, does not necessarily mean the money is not there.

Italian companies, even established ones, heavily rely on private financing and banking loans. The problem is that these channels are hard to reach for startups. However, while Italian startuppers have grounds to complain, it is also true they are doing themselves no favors by not doing the things that would make them attractive in the eyes of the few Italian angel investors that do exist. Three are the most common errors that Italian startups do.

First item on the list has to do with unsustainable business models. There is a widespread misconception that the money of investors is needed to cover structural losses in the business. This isn’t true. A startup looking for an investor must present a sound business model and organizational structure which comfort the view that the business is sustainable. If the cost of acquiring a new customer is €30, the startup must show that revenues per customer exceed that figure. Otherwise there is no margin for growth. Often, a startupper will claim that the difference between cost of acquisition (CPA) and earnings (lifetime value) is to be financed by investors. This is an error: investors put their money in financing growth.

Second, the lack of a committed team. A business achieves results and creates value through the execution of ideas, and the implementation of strategies and action plans. For this, motivated people are needed. The value of a startup lies not in the idea, but in its execution. Often startuppers instead present to investors while they still lack a full, motivated and strong-willed team. Maybe a startup hasn’t yet found a good coder, or the sales person has another full-time job and cannot devote 100% of his worktime to the startup. In a business like that people won’t invest, because it does not deliver results.

Third, the potential market is too small or growth ambitions are too modest. In other words, Italian startuppers tend not to think big. An investor will invest in a business that’s realistic (i.e. that has sustainable unit economics and a solid team), only if there’s also the opportunity of big returns. Such returns cannot be expected from a market generating €30,000 in the first year of sales, €80,000 the second, and €150,000 the third. This is a business with no great pretensions. No matter if a startupper asks an angel investor for fifty thousand, five-hundred thousand, or a million euros, the business should be able to deliver a return that is 5 to 10 times the capital borrowed.

In conclusion, we can lament the predicament of startups in Italy, but since we still make many mistakes that, unlike structural problems, it’s in our power to correct, let’s start by fixing fix what we can.




La Sharing Economy celebra il successo a Wall Street

In America dopo una prima ondata di quotazioni in borsa di aziende della new economy intorno alla fine degli anni ’90 sono capitate grandi sciagure come la caduta delle torri gemelle e la grande crisi del 2008 che per qualche tempo hanno messo in ombra le internet companies e fatto sì che personaggi come Warren Buffet si vantassero di non aver mai investito un centesimo su di esse.

Poi è arrivato il Quantitative Easing (denaro facile) e gli investitori, in cerca di novità, sono tornati a guardare con interesse le start-up tecnologiche di ogni genere, ivi comprese le internet companies, molte delle quali propongono modelli di business fondati sulla cosiddetta “Sharing Economy” (condivisione di opportunità e servizi gratuiti in cambio di pubblicità e promozioni).

Il fenomeno è diventato virale e in tutto il mondo si è incominciato di nuovo a parlare di valori stratosferici per aziende che, di norma, non guadagnano dollari anzi, ne perdono parecchi. La più famosa delle start-up tecnologiche è tutt’ora Tesla (già quotata) divenuta un gigante mondiale ed entrata anche nel cuore di molti osservatori.

Dopo il fenomeno di costume dei Social Network (con Facebook e Linkedin) la più prossima alla quotazione a Wall Street nonché la più famosa società della sharing economy è senza dubbio Uber (valutata dai suoi finanziatori poco meno di $70 miliardi) famosa per la possibilità di risparmio e le opportunità di lavoro che propone oramai in tutto il pianeta, ma soprattutto assurta alle cronache di mezzo mondo per le proteste che ha generato (dai tassisti ai trasportatori fino alle autorità fiscali).

I nuovi modelli di business proposti dalla Sharing Economy brillano non soltanto per la genialità delle loro proposte, ma anche e soprattutto perché sono partite da uno dei settori economici più scontati, ad esempio quello dei trasporti, per poi mostrare di essere in grado di applicare la loro tecnologia anche a numerosissimi altri ambiti. Un esempio fra tutti è la tecnologia della “blockchain” che è servita per assicurare in modo indipendente la certezza delle transazioni per la moneta elettronica “Bitcoin”. La medesima tecnologia è oggi oggetto di interesse per ogni genere di archivi “sicuri” e sistemi di catalogazione.

Altra start-up candidata a Wall Street anche perché divenuta nuovo campione mondiale della “Sharing Economy” è AirBnb , cresciuta come un fungo in pochi anni, per aver saputo piazzare a viaggiatori di ogni parte del globo qualcosa come 500.000 camere per ogni notte dell’ultimo anno, assommando un’offerta di oltre 640.000 camere (quanto Hilton Hotels dopo 97 anni di storia) in 57.000 città e 191 nazioni. L’ultima valutazione attendibile di AirBnb (sulla base del collocamento di 3 miliardi di Dollari effettuato nell’ultimo round di Dicembre) implica una valutazione di $30-40 miliardi da parte dei venture capitalists che l’hanno sostenuta.

Questi “Unicorni” (come sono stati chiamati i nuovi campioni) hanno dimostrato che il miracolo dello sviluppo accelerato (grazie all’assenza di barriere fisiche) per le imprese della Sharing Economy può esistere nel mondo reale e, anzi, è un fenomeno dilagante. La creazione di ricchezza che alcune di esse hanno mostrato di saper realizzare non è più una nozione teorica, tant’è che persino grandi aziende della old economy stanno pianificando una sempre maggiore presenza online.

Ecco che dunque, come si poteva presupporre, con i nuovi record di Wall Street raggiunti dopo l’elezione di Trump, molte di esse oggi tornano a guardare alla Borsa come traguardo di un successo anche finanziario che, sino ad oggi, soltanto colossi come Google e Facebook hanno saputo raggiungere.

Molte altre di esse, non ancora arrivate a valutazioni di diverse decine di miliardi di Dollari, sono oggetto di attenzione del Private Equity e di Investitori Istituzionali come i fondi pensione, le compagnie assicurative, gli hedge funds che vedono il loro investimento come stadio intermedio per la quotazione. Tra queste troviamo ad esempio: Instantcart (grocery delivery), Glassdoor (community per l’analisi della reputazione delle aziende), Thumbtack (servizi professionali).

L’elenco potrebbe proseguire a lungo ma il fenomeno della Sharing Economy sta cambiando i connotati di molti settori economici e Wall Street è solo uno degli aspetti più macroscopici.

Uno degli aspetti più importanti ma anche decisamente meno evidenti è la misura del prodotto lordo dell’economia, che evidentemente non viene contabilizzato per la parte di servizi di interscambio o gratuiti forniti online dalle aziende della Sharing Economy.
Price Waterhouse ha stimato che il valore annuo del loro fatturato ha superato i 20 miliardi di Dollari, ma il valore non monetario dei servizi da queste forniti è incalcolabilmente più elevato.
Per quella parte (prevalente) della loro attività non esiste un fatturato che viene rilevato, ma il valore da esse generato per i milioni di utenti innegabilmente si (attraverso la capitalizzazione), dal momento che la loro utilità pratica porta le aziende che li forniscono a grande notorietà e a un posizionamento strategico particolarmente solido.

Niente male come risultato per un’intera categoria di aziende che forniscono servizi immateriali che per buona parte non vengono contabilizzati, no?

Stefano di Tommaso