Mercati finanziari: ad ovest molto di nuovo!

Uno scoppiettante inizio del 2017 anche quest’anno lascia in bocca a quasi tutti gli analisti finanziari parole di ottimismo oltre che la sensazione di una relativa stabilità dei mercati finanziari e, di conseguenza, la possibilità che ripartano gli investimenti produttivi, nell’innovazione e nelle infrastrutture.
L’attesa di una leggera inflazione dei prezzi al consumo è il sintomo della nuova positività ritrovata dagli operatori economici dopo la vittoria di Trump alla Casa Bianca.

Non è solo il Presidente Eletto della nazione egemone a promettere sviluppo e prosperità, bensì anche il “consensus” di buona parte degli economisti attorno ad un ritrovato quadro generale di compostezza nello sviluppo come nelle relazioni internazionali, anche se in molti casi ciò è dovuto più all’attendismo che non a un effettivo rilassamento.

L’Europa del resto, come entità geopolitica non è autonoma e non potrebbe fare altro che attendere, dopo aver subito una serie di bordate “populiste” (come sono state erroneamente classificate dalla vecchia classe politica) quali la Brexit, il cambio della guardia nel referente americano e la bocciatura dei referendum costituzionali italiani. E come se non bastasse si avvicinano importanti appuntamenti elettorali nel cuore del vecchio continente (in Francia e Germania innanzitutto) molto delicati dal punto di vista della tenuta dell’Unione.

Le borse internazionali, pur ai massimi di sempre, hanno sino ad oggi avuto buoni motivi per restare su livelli elevati di valutazione implicita delle aziende quotate : l’anno che si apre sembra promettere più di quanto possa minacciare il contesto industriale e commerciale, a partire da Wall Street, il cui principale indice azionario si è decisamente risollevato ed è giunto alla soglia storica dei 20.000 punti nel corso dell’ultimo mese e mezzo ma è salito in 12 mesi parallelamente all’indice della produzione industriale.

Proprio quel traguardo storico tuttavia lascia qualche perplessità circa la possibilità he la giostra possa procedere molto oltre i livelli già toccati, riportando la maggior parte degli analisti su livelli di neutralità nelle previsioni, nonostante si prospettino un prosieguo della corsa del Dollaro Americano e un incremento generale dei tassi di interesse.
Le prospettive di relativa calma nelle tensioni geopolitiche e nei prezzi delle principali commodities, l’attesa di politiche fiscali di stimolo all’economia e di nuovi importanti investimenti infrastrutturali infatti sembrano ai più un argomento sufficiente a controbilanciare le conseguenze negative del superdollaro e del rialzo dei tassi.

Anche il Giappone sta vivendo una fase positiva della propria economia e sembra orientato a nuovi traguardi con una leadership politica che oggi non viene più messa in discussione e con un tessuto industriale di prim’ordine dal punto di vista del valore aggiunto e della capacità di innovare e rinnovarsi, che si associa alla prospettiva di ulteriori svalutazioni competitive dello Yen.

A livello di macroaree geografiche possiamo solo notare che le Borse europee, Milano compresa, per i motivi suddetti quasi non hanno invece beneficiato del rinnovato entusiasmo nippo-americano e sono dunque le prime candidate a proseguire il rally che altrove potrebbe essere giunto al capolinea, mentre le altre nazioni che stanno intorno al “Pacific Rim” sembrano molto meno interessanti per gli investitori a causa della relativa instabilità del sistema finanziario cinese, dominante in quell’area.

Nessuno peraltro oggi si aspetta particolari sussulti provenienti dal celeste impero e pertanto giocano a sfavore quasi solo le prospettive di ulteriori, continuative svalutazioni del Renminbi, dovute più che altro all’uscita netta di capitali che vi si associa.

La relativa calma generale si assapora anche osservando le prospettive dei principali Paesi Emergenti, sui quali gli investitori, per gli stessi motivi visti per la Cina, non sono particolarmente ottimisti, ma che indubbiamente hanno ritrovato una relativa stabilità con il recupero dei prezzi (in Dollari) delle maggiori materie prime, oro e preziosi esclusi ovviamente.

Non sembrano così malvagie nemmeno le prospettive di uno dei Paesi che rappresenta il maggior rischio sistemico tra i più progrediti -il nostro- a causa del combinato disposto di un debito pubblico fuori controllo e di un sistema bancario in apparente avaria.
Intendiamoci: le banche nostrane hanno serissimi problemi di capitalizzazione e di controllo delle elevatissime sofferenze sui crediti, ma non sono le uniche (in un’Europa che ha voluto darsi al riguardo una normativa fatta di due pesi e due misure) e non potrebbero essere lasciate fallire senza quelle inimmaginabili conseguenze che oggi gli analisti non ritengono una vera minaccia.

Ulteriore motivo di ottimismo è dato dall’accresciuta non-correlazione degli andamenti borsistici dei diversi settori economici, cosa che lascia supporre che i grandi investitori in borsa stiano facendo ruotare i loro portafogli e non stiano soltanto scommettendo sul mercato. Nel caso della borsa italiana questo può significare un minor rischio per i titoli diversi da quelli bancari.

I mercati scontano la possibilità che l’Italia, in un modo o nell’altro, superi l’attuale baratro del sistema finanziario interno e il suo Prodotto Interno Lordo, nonostante tutto, cresca anche quest’anno di un altro risicatissimo punto percentuale. Se poi per qualche meravigliosa congiuntura favorevole il Governo Gentiloni dovesse riuscire a proseguire nel percorso delle riforme, allora le prospettive del Bel Paese diverrebbero le migliori d’Europa!

Lasciamo dunque che questa speranza accarezzi i pensieri degli operatori economici nostrani, per lungo tempo sino ad oggi fin troppo tartassati e vituperati !

Stefano di Tommaso




Luxottica si fonde con Essilor: il controllo passa in Francia ma il principale azionista è italiano

La notizia è di quelle che faranno eco per parecchio tempo: la Luxottica (fondata nel 1961 da Leonardo Del Vecchio) si fonde con la francesissima Essilor (una vera e propria public company risultante da una lunga serie di aggregazioni precedenti, gestita da un management completamente autonomo rispetto ai propri azionisti) raggiungendo la vetta astronomica degli €45 miliardi di valore della “combined entity” (la risultante della fusione).

L’operazione (uno dei maggiori “mergers” mai realizzati in Europa) è stata annunciata ufficialmente nel fine settimana, prima dell’apertura dei mercati finanziari e, tutto sommato, per chiunque la osservi, è una buona notizia, dal momento che in un macrosettore -quello della moda e degli accessori- dove noi “europei” (se ancora è lecito usare questa terminologia) siamo leaders, si consolida un gigante che nel 2016 arriva a fatturare circa €16 miliardi e occupa approssimativamente 130.000 persone (distribuite più o meno a metà tra l’uno e l’altro gruppo ma con lieve prevalenza dì Luxottica nel fatturato, nel valore e nel numero di dipendenti).

Questo gigante vede l’unione tra la francese Essilor, leader mondiale nella produzione di lenti ottiche e titolare di brevetti come “varilux” o di licenze come “Kodak”, e l’italiana Luxottica, che annovera marchi di proprietà (Rayban, Sunglass Hut, Oakley…) e in licenza, di grandissima notorietà.

La fusione è destinata a riconfigurare completamente il sub-settore dell’occhialeria che, in totale, assomma nel mondo un giro d’affari di circa $100 miliardi e cresce ogni anno ad un ritmo impressionante (è prevista per il settore una crescita annua di almeno il 2,5% da qui al 2020) è stata preferita da Del Vecchio a quella -similare- con la concorrente tedesca Zeiss, da tempo candidata anch’essa al matrimonio con Luxottica.

Il principale fattore di crescita dell’industria degli occhiali è senza dubbio quello demografico, innanzitutto per il fatto che si calcola che il 63% dei 7,3 miliardi di abitanti sulla terra abbia ancora bisogno di acquistare supporti per la corretta visione e circa 2,5 miliardi di abitanti non possono ancora permetterselo. In secondo luogo per la prevalente crescita della domanda asiatica di beni di consumo come questi, spesso legati ai più famosi marchi di fabbrica, accessori che aiutano le nuove generazioni a definire il loro “stile di vita”.

L’operazione di aggregazione configura quindi un nuovo soggetto economico, leader mondiale del settore, che ha le risorse e le dimensioni per approcciare il mercato in modo completamente diverso dal passato, in uno dei pochi campi dei beni di consumo che non ha ancora visto la predominanza della Cina tra i suoi produttori.

Sin qui le considerazioni più ovvie, mentre quelle più controverse (ad esempio: chi comanderà davvero, adesso) lasciano luogo per il momento soltanto a qualche supposizione:

– da una parte sembra infatti chiaramente configurarsi una prevalenza francese della nuova entità, anche per il fatto che Leonardo del Vecchio che più di un anno fa sembrava essere sceso al di sotto del 30% di Luxottica (e invece poi ne apporta il 62% alla fusione) e da tempo si poneva la problematica della sua successione al vertice;

– dall’altro lato il medesimo Del Vecchio, un anziano ex-operaio ancora molto in forma e perciò difficile da classificare come il classico capitano d’industria che si è messo in pensione, ha maturato una lunga e travagliata storia di conflitti con i dirigenti della propria azienda (e licenziamenti in tronco) e resta di gran lunga l’azionista singolo di maggior peso all’interno della nuova società (oltre il 30%). Avendo egli accumulato negli ultimi decenni una propria ricchezza familiare di assoluto rilievo e divenendo “PDG” (presidente e direttore generale) tanto quanto Hubert Sagnieres (quello di Essilor) del nuovo gruppo, non può dunque di fatto escludersi una sua futura influenza dominante nella governance societaria, nonostante i probabili accordi odierni, tesi ad assicurare tranquillità al futuro management congiunto.

Per il momento dunque chi pare rimetterci di più è l’Italia, che sembra perdere ancora un altro pezzo pregiato della propria imprenditoria e vede spostare oltre confine un’altra plancia di comando delle proprie attività industriali ma, con il peso di stragrande maggioranza relativa che Del Vecchio assume all’interno del nuovo gruppo, non sono da escludere dei clamorosi colpi di scena, che per una nazione come la Francia, da sempre gelosissima della nazionalità delle proprie aziende, sarebbero vissuti come un dramma nazionale!

Stefano di Tommaso




Populismo e de -globalizzazione o più semplicemente attenzione alle nuove istanze sociali?

Prima la vittoria dei conservatori nel referendum britannico sull’uscita dall’Unione Europea, poi la vittoria repubblicana di Donald Trump in America, infine la bocciatura del referendum renziano: se ci aggiungiamo la possibilità di una vittoria (o quantomeno di un forte piazzamento) di Marine Le Pen in Francia alle prossime elezioni non possiamo che dedurne l’affermazione dirompente di una tendenza politica e sociale avversa agli eccessi di quel fenomeno della globalizzazione e della caduta delle frontiere che sembrava simbolo di libertà di movimento e che molti intellettuali avevano salutato come segno del progresso dell’umanità.

Le nazioni dalle economie più sviluppate insomma, nonostante i numerosi ed evidenti benefici della caduta di molte frontiere, delle barriere al libero scambio di merci, servizi e capitali, abbia imboccato la strada del ripiego verso una maggior difesa dei propri confini nazionali, della propria cultura ed identità etnica e forse in definitiva del proprio sistema sociale.

Forse nell’inaugurare questa nuova tendenza apparentemente regressiva ha giocato più di ogni altra cosa il disagio delle classi meno abbienti, seguito all’aumento della disoccupazione (o meglio, tecnicamente, alla riduzione del numero di coloro che ancora fanno parte della forza-lavoro) e più ancora da mettere in diretta correlazione con una vera e propria invasione dei luoghi da questi vissuti da parte di migranti provenienti dai Paesi più poveri della Terra. Migrazione dalle dimensioni forse eccessive, che ha creato eccessiva pressione soprattutto sulle condizioni di vita delle persone autoctone meno abbienti.

L’esplicazione “sociologica” della rivalutazione delle frontiere dovuta al nuovo “populismo” che sembra affermarsi nella politica dei Paesi più avanzati e teoricamente più acculturati non basta tuttavia a descrivere un vasto fenomeno che trae sicuramente origine dalle pressioni demografiche dei migranti nei confronti delle classi più povere, ma va anche a sommarsi ad altre concause e va analizzato con più attenzione di quanto il termine “populismo” possa suggerire di primo acchitto.

È mia opinione inoltre che per comprendere il fenomeno della deglobalizzazione bisogna prima intendersi sulle caratteristiche salienti (economiche e sociali) del suo opposto: quello della globalizzazione, che si è affermato in un tempo molto più lungo, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale e venuto ad accelerarsi con l’affermazione dell’America come unico grande egemone, in parallelo alla caduta del muro di Berlino e, più ad oriente, dei moti di piazza Tienanmen.

Strumenti di misura del grado di globalizzazione di ciascuna nazione riguardano il livello di restrizioni/facilitazioni al commercio internazionale e di imposte doganali, i costi delle transazioni internazionali, delle telecomunicazioni e dei trasporti, il livello di utilizzo delle nuove tecnologie e la diffusione sul territorio delle sedi secondarie delle società multinazionali, il livello di conoscenza delle lingue straniere e la quota di prodotto interno lordo assorbita dall’interazione con l’estero. Seguono il numero e l’importanza della presenza di unità territoriali degli organismi internazionali, di ambasciate e consolati, di persone impegnate in missioni umanitarie (o presunte tali).

Dal 1992 al 2007 il commercio mondiale è cresciuto (in volume) di oltre il 7%  medio annuo, mentre è aumentato solo di una frazione di punto percentuale nell’ultimo anno, suggerendo un’inversione di tendenza che va al di là della tendenza più recente al protezionismo.

È la struttura industriale che si sta modificando, disperdendo produzioni e assemblaggi in giro per il mondo anche quando esiste ben poca concorrenza in ogni specifico settore economico. Questa dispersione delle fabbriche e dei magazzini ha  favorito il fenomeno della globalizzazione ma ha indubbiamente contribuito alla riduzione della crescita degli scambi commerciali trans-frontalieri.

La cosiddetta “delocalizzazione” delle produzioni industriali però ha anche generato un trasferimento delle competenze e delle tecnologie nei paesi meno sviluppati e ha contemporaneamente privato nel tempo interi distretti produttivi dell’occupazione e della continuità delle competenze tra le generazioni, costringendo quelle nuove  ad andare a cercare fortuna altrove. La scomparsa delle fabbriche ha spesso addirittura privato la direzione di molte imprese della capacità strategica di innovare o evolvere i propri prodotti.

La “ri-localizzazione” delle produzioni nei paesi che intendono adottare politiche protezionistiche potrà dunque risolvere d’un tratto i problemi di disoccupazione, continuità generazionale e ripresa della crescita dei commerci mondiali? La risposta è quasi ovvia: probabilmente no. La storia non torna mai pedissequamente indietro e la nostalgia dei bei tempi andati non poggia i suoi piedi nella realtà.

È qui tuttavia che si può comprendere la necessità sociale di un certo “populismo”: è la risposta della politica alla necessità della gente comune di trovare nelle istituzioni chi rappresenta il suo disagio! È una nuova forma di “social-democrazia” che, non trovando risposte alle proprie istanze nei suoi vecchi rappresentanti cosiddetti progressisti si è sbilanciata nei confronti dei nuovi politici che hanno inteso cavalcarle. Sarà anche demagogia ma si tratta di una risposta funzionale della politica alle esigenze reali di chi era rimasto indietro in forma accelerata man mano che la globalizzazione esplicava i suoi prodigiosi effetti in tutte le direzioni.

Ad essere più attenti poi si può intuire che il colpo di grazia al consenso sociale nei confronti del progressivo abbattimento delle frontiere è venuto proprio da quelle tecnologie che l’hanno reso possibile: le telecomunicazioni e la digitalizzazione hanno avuto un primo ovvio effetto nell’andare a sostituire i vecchi posti di lavoro, un certo artigianato e la bassa manovalanza, con l’automatizzare praticamente qualsiasi cosa, ivi compresi i servizi e talune attività professionali.

Ulteriore colpo di grazia all’equilibrio sociale (duramente conquistato negli ultimi anni dalle nazioni più evolute a colpi di pesantissime politiche di welfare) è in arrivo dalla diffusione della cosiddetta “intelligenza artificiale”, ulteriore stadio evolutivo della digitalizzazione e del trasferimento delle mansioni dall’uomo alle macchine.

È mia opinione che senza analizzare in profondità gli effetti attuali e quelli che devono ancora dispiegarsi dei violenti cambiamenti in corso risulti difficile interpretare il risentimento delle classi meno agiate nei confronti dell’accelerazione del processo tecnologico.

Senza comprendere (e se possibile alleviare) il disagio sociale che esso ha creato risulterebbe difficile comprendere l’ascesa dei nuovi nazionalismi, delle istanze di protezionismo, di una nuova tipologia di leaders politici in grado di comunicare in forma diretta con i loro elettori (Donald Trump pare essere in grado di raggiungere ogni giorno in diretta ben 46 milioni di propri elettori con i suoi “Twits”) e di fare proprie le loro istanze.

C’era una volta la contrattazione collettiva, che puntava a costringere gli imprenditori a redistribuire i guadagni di produttività con i propri salariati. Poi gli indici tradizionali di incremento della produttività sembrano aver indicato un arresto se non qualche passo indietro, con la conseguenza che nessuna contrattazione collettiva ha ottenuto più l’effetto di redistribuire la nuova ricchezza tra imprenditori e salariati, complici la delocalizzazione e l’automazione, la separazione delle funzioni logistiche e l’interscambio delle informazioni in tempo reale.

Sembrano averci guadagnato gli imprenditori (o almeno coloro che hanno saputo cavalcare la globalizzazione e le nuove tecnologie) e averci perso i lavoratori di base, i meno specializzati, i più anziani, i piu decentrati.

La nuova istanza di ri-localizzazione delle produzioni e di occuparsi dei bisogni di chi già vive in difficoltà interpreta questo bisogno di riequilibrio, approfondisce la condizione di chi non accetta qualsivoglia caduta delle tutele sociali a qualsiasi costo. Si oppone al vantaggio della pressione migratoria nei confronti del costo marginale del lavoro, non necessariamente alla diffusione delle tecnologie e alla facilitazione degli scambi internazionali. L’istanza è quasi ovvia. È la risposta a quell’istanza che deve risultare illuminata e che non può essere negata “a prescindere”.

Una politica che tenda a favorire la ri-localizzazione produttiva, se perseguita con intelligenza, può favorire la nascita di nuove imprese e contribuire all’evoluzione delle aziende familiari, all’utilizzo di tecnologie all’avanguardia e la creazione di alleanze trans-nazionali.

Come sempre tutto dipende dall’intelligenza dell’applicazione delle idee da parte di chi governa, più che dal colore delle medesime.

 

Stefano di Tommaso