DUE SCENARI PER L’ECONOMIA

C’è una domanda che viene sussurrata in questi giorni sui mercati finanziari: è possibile che -a causa delle numerose campagne elettorali in corso- qualcuno stia ”tacitando” gli istituti di statistica al riguardo dei dati macroeconomici effettivi? È cioè possibile una lettura del quadro congiunturale diversa da quella del “mainstream”? Ebbene sì: è possibile che la situazione macroeconomica dell’intero Occidente (e in particolare del vecchio continente) sia decisamente peggiore di quanto ci vogliono far ritenere le statistiche ufficiali e gli organi di informazione.

LA MISURA DELLA VERA INFLAZIONE

Nello scriverlo ammetto di stupirmene io stesso, ma tutti possiamo testimoniare che i rincari nei prezzi di merci, servizi, affitti e generi alimentari che comperiamo quotidianamente hanno ecceduto parecchio quelle piccole percentuali di inflazione che gli istituti di statistica vorrebbero far passare agli annali della storia recente.


Negli ultimi due anni invece la spirale inflazionistica dei prezzi al consumo ha rasentato il 30-40% di rincaro, a partire dal maggior costo del carrello della spesa fino alle utenze domestiche, alle autostrade e ai prezzi di bar, ristoranti, locali, alberghi e intrattenimenti vari. I numeri, come diceva George Bernard Shaw , sono maledettamente testardi, cioè difficili da addomesticare, anche quando a tentare di farlo sono le grandi istituzioni.


Purtroppo lo scenario “iperinflattivo” che le banche centrali, i media e gli uffici di statistica tendono a mettere in secondo piano coincide plasticamente con una pari riduzione (sinanco negli U.S.A.) del potere d’acquisto di stipendi e salari, i quali sono lungi dall’essersi effettivamente incrementati parimenti (soprattutto in Europa).

CAMBIANO I COMPORTAMENTI DEI CONSUMATORI

Questo spinge a ritenere che, in realtà, la maggior parte dei dei cittadini che con l’inflazione viene privata di una fetta più o meno consistente della propria capacità di spesa (o di ricchezza privata), possa tendere nel tempo ad adattarsi alla situazione limitando i propri consumi, incrementando gli sforzi (e le rivendicazioni sociali) per riacciuffare il terreno economico perduto, o modificando i propri comportamenti e, ad esempio, incrementando il proprio indebitamento personale.


Nel grafico qui sopra gli incrementi nominali di reddito degli americani, che tuttavia sono stati molto migliori di quelli europei, come si può vedere dall’andamento storico sotto riportato:


È possibile insomma che nel tempo, una volta esauriti gli effetti espansivi della maggior spesa pubblica (in deficit) che oggi incrementa il Prodotto Interno Lordo dell’Occidente (dai sussidi del welfare agli incentivi per gli investimenti e all’ampliamento dell’arsenale militare, passando per la digitalizzazione della pubblica amministrazione e l’incremento delle forze di polizia), l’inflazione che ne deriva possa sospingere di fatto l’economia verso una contrazione piuttosto che verso uno sviluppo.

I TASSI D’INTERESSE NON POSSONO SCENDERE

A dimostrarlo ci sarebbero i ripetuti cali dell’output produttivo, soprattutto quelli delle piccole e medie imprese, come pure l’incremento dei tassi d’interesse a medio-lungo termine espressi dai titoli di stato, che prosegue oramai da alcuni mesi, nonostante il fatto che le banche centrali continuino a ventilare la possibilità di tagli del tasso di sconto, i quali tuttavia avrebbero efficacia soltanto sui saggi d’interesse a breve termine. Ulteriori risalite dei tassi a medio-lungo termine tuttavia affliggerebbero i moltiplicatori di valore delle aziende, che non potrebbero restare elevati troppo a lungo, nemmeno nel comparto delle tecnologie più avanzate (come l’A.I.), dove hanno sinora trovato ampie eccezioni.

LE VALUTAZIONI D’AZIENDA NE RISENTONO

Non per nulla sono calate le valutazioni delle società quotate di dimensione piccola e media (Ivi compresi sinanco gli istituti bancari e finanziari minori), pur in presenza di una crescita consistente della capitalizzazione complessiva dei listini di borsa, la quale però poggia sui crescenti profitti di pochi importantissimi titoli a grande capitalizzazione, a scapito di tutti gli altri. In questa chiave di lettura persino i progressi degli indici dei mercati azionari restano da guardare con attenzione, dal momento che sino ad oggi gli incrementi di valutazione di pochi grandissimi titoli azionari sono stati l’unico antidoto alla svalutazione monetaria.

IL P.I.L. NON È STATO ADEGUATAMENTE DEFLAZIONATO

Anche gli avanzamenti dei prodotti interni lordi dei principali paesi occidentali potrebbero essere “letti” in altra maniera, laddove dovessimo prendere atto del fatto che essi non sono stati “deflazionati” come si sarebbe dovuto. Se così invece fosse stato potremmo affermare che sono invece stati di fatto “annacquati” e che in realtà sono calati in termini assoluti. Il condizionale appare d’obbligo in questi casi ma oggi il dubbio avanza.


Laddove infatti la crescita economica registrata negli ultimi mesi per l’intero Occidente fosse da derubricare ad una mancata corretta deflazione dei redditi nominali, allora il quadro congiunturale complessivo ci si mostrerebbe assai diverso, dal momento che l’inflazione media non soltanto non sembra coincidere con il 3% annuo ufficiale, ma appare addirittura in ripresa, mentre la crescita economica non soltanto potrebbe essere corrispondentemente ridotta, ma potrebbe peggiorare presto.

D’altra parte se l’inflazione effettiva fosse stata maggiore di quella rilevata sarebbe lecito attendersi che un certo numero di prezzi e tariffe che sino ad oggi sono rimaste “indietro” debbano prima o poi necessariamente arrivare ad adeguarsi, quantomeno al maggior costo di produzione. Questo farebbe si che nemmeno il dato ufficiale sull’inflazione possa mai raggiungere l’obiettivo dichiarato del 2%, perché un certo numero di altri prezzi, salari e tariffe che sino ad oggi è stato plafonato, si adegui lentamente alla cruda realtà.


IL RINCARO DELLE COMMODITIES E LA MONETIZZAZIONE

Aggiungiamo allo sconfortante quadretto che ne deriverebbe ancora un paio di elementi assai poco rassicuranti: innanzitutto non soltanto c’è da attendersi la prosecuzione dell’adeguamento di salari e stipendi al maggior costo della vita, cosa che evidentemente manterrà pressioni al rialzo sui saggi d’inflazione, sinanco su quelli ufficiali. Non soltanto perché negli ultimi mesi abbiamo assistito anche ad un sostanziale incremento dei prezzi del petrolio, delle principali “commodities” (derrate alimentari e materiali di prima necessità) e dell’energia che non sembra voler regredire. Incremento registrato proprio negli ultimi mesi, quelli in cui ci si aspettava invece un calo dei tassi d’interesse . Tale rialzo non può che complicare la vita di chi vorrebbe affermare che l’inflazione sta scendendo, dal momento che esso sta gettando le basi per ulteriori maggiorazioni future nei prezzi dei prodotti finiti, sebbene ciò non avverrà immediatamente.

Ma ci sono anche le cosiddette “variabili finanziarie”: vale a dire la sostanziale monetizzazione (l’accollo alle banche centrali) dei crescenti debiti pubblici di tutto l’Occidente, i quali possono oramai risultare sostenibili soltanto a due condizioni: che i tassi di rendimento dei nuovi titoli emessi risultino progressivamente crescenti e che l’economia globale cresca più che proporzionalmente. La monetizzazione in corso dei debiti pubblici genera uno sgradevole effetto di fondo: quello di svalutazione della moneta emessa dalla banca centrale stessa, dal momento che quest’ultima deve metterne in circolazione una maggior quantità. E la svalutazione della moneta si traduce inesorabilmente in inflazione dei prezzi aggiuntiva, sebbene i relativi meccanismi di trasmissione non siano mai immediati.

L’INCREMENTO DELL’OFFERTA DI MONETA NEL MONDO

I BENI RIFUGIO RIFLETTONO LA SVALUTAZIONE EFFETTIVA

È da spiegare in tal senso l’incremento di prezzo di tutti i beni-rifugio, ivi compresi oro (si veda il grafico sotto riportato) e Bitcoin (sulle altre criptovalute avrei invece dubbi), usati quale riserva di valore da parte di chi vuole proteggersi dalla svalutazione progressiva delle “fiat currencies”, cioè delle divise ufficiali di conto, quali ad esempio il Dollaro, l’Euro e lo Yen.


Tanto la svalutazione delle monete quanto l’incremento dei tassi d’interesse a lungo termine (con l’erosione conseguente dei prezzi dei titoli a reddito fisso) non potranno che determinare nel tempo delle altre spinte al rialzo dell’inflazione dei prezzi al consumo. Ragione per la quale non è ragionevole attendersi altri ribassi negli indici di inflazione, quanto casomai dei rialzi.

LE BORSE POTREBBERO NON RISENTIRNE

Sebbene i mercati finanziari stiano registrando delle inevitabili discese di valore dei titoli a reddito fisso (i quali devono adeguarsi ai maggiori tassi d’interesse a medio-lungo termine che gli Stati sovrani devono accettare di pagare per collocare le nuove emissioni), le borse fino ad oggi hanno “tenuto botta” e potrebbero anche in futuro continuare a farlo in virtù di numerosi fattori a sostegno quali è innanzitutto l’incremento (soprattutto nominale, si badi bene) dei profitti aziendali, ma anche la grande liquidità in circolazione (buona parte della quale proviene ancora dai paesi emergenti e dai rifinanziamenti delle banche centrali a quelle ordinarie) nonché senza dubbio le elevate aspettative concernenti le nuove tecnologie.


Queste ultime (spesso fondate) generano aspettative di incremento dei profitti futuri e che anno contribuito sino ad oggi alla tenuta degli elevati moltiplicatori di valore delle grandissime multinazionali tecnologiche. Ma poiché il contesto generale nel quale si muovono le borse valori oggi sta peggiorando, si accentuano le differenze tra i moltiplicatori di queste ultime e quelli di tutto il resto del mercato, i quali non potranno che soffrire qualora l’inflazione permanesse e i tassi continuassero a crescere.


Nel grafico qui sopra possiamo vedere come la strabiliante corsa dell’indice Standard & Poor’s 500 che si può leggere nel grafico precedente sia in realtà da ridimensionare moltissimo se il valore delle azioni Ivi contenute venisse misurato in grammi d’oro, cioè in termini di valore reale. Se ne deduce che la borsa americana, nonostante i suoi ripetuti record, ha soltanto leggermente superato il valore nel tempo dell’oro fisico, ritrovandosi ad esempio, ai giorni nostri, agli stessi livelli di cinquant’anni fa.

I COMPARTI INDUSTRIALI PIÙ PRIVILEGIATI

Per le ragioni sopra esposte le quotazioni medie delle borse valori potrebbero subire qualche perdita, ma con almeno tre importantissime eccezioni :

  1. il comparto dell’energia (non potrà non beneficiare dei prezzi elevati),
  2. quello finanziario (i tassi d’interesse elevati generano margini crescenti),
  3. quello della produzione degli armamenti (che beneficia della corsa al riarmo in atto).

Dunque c’è da attendersi che, sinanco nello scenario peggiore, i livelli delle borse verranno ampiamente puntellati dalla crescita dei profitti derivanti dalle nuove tecnologie, dai maggiori margini energetici, dal più ampio margine derivante dai tassi elevati e dai grandi profitti dell’industria bellica (quest’ultima però non costituisce più un’esclusiva occidentale). Con buona pace dei settori più tradizionali, che si muoveranno invece in un contesto più difficile a causa dei tassi d’interesse elevati.

LA VOLATILITÀ POTREBBE AUMENTARE ANCORA

Sebbene sino a questo punto abbiamo soltanto ventilato un’ipotesi, bisogna ammettere che pare corrispondere alla perfezione a quanto sta succedendo negli ultimi giorni, e che in tal caso ci sarebbe da attendersi che la tendenza prosegua. I crescenti tumulti geopolitici (e prima o poi anche possibili disordini sociali, soprattutto in Europa) possono sospingere gli investitori del risparmio gestito verso ulteriori rotazioni dei portafogli a favore di titoli più “difensivi” e ad una maggior cautela, cosa che non potrà che sgonfiare le valutazioni delle grandi multinazionali tecnologiche, pur in presenza di profitti crescenti. Ma queste considerazioni proiettano ugualmente uno scenario “piatto” per i listini azionari, anche se la volatilità dei corsi potrebbe ora tornare a crescere significativamente.


L’INFLAZIONE LIMITA LE PROSPETTIVE DI SVILUPPO

Il problema di fondo è tuttavia relativo alle sorti dei numerosi paesi emergenti le cui economie si basano su estrazione e trasformazione delle materie prime, perché fintanto che buona parte dei loro indebitamenti resteranno denominati in dollari americani, essi potranno subirne il rafforzamento progressivo nei cambi valute, riducendo di conseguenza gli spazi per la crescita macroeconomica globale. Nel grafico qui riportato si può vedere come le aspettative relative al cambio del dollaro nei confronti delle principali altre valute siano decisamente al rialzo.


Ciò tuttavia può sospingere i paesi emergenti verso un progressivo affrancamento dal Dollaro nei commerci internazionali e per gli investimenti infrastrutturali. Ma un eventuale minor afflusso di valuta dai paesi emergenti verso gli U.S.A. renderebbe poco sostenibile il debito pubblico americano nel medio-lungo termine senza che intervengano nuove guerre o altri significativi progressi in campo iper-tecnologico che potranno venire esportati nel resto del mondo.

IL ”MODELLO” OCCIDENTALE È SOSTENIBILE?

Quali possono essere le conseguenze macroeconomiche di un tale scenario? Innanzitutto c’è da attendersi una crescente divaricazione tra le sorti di America e Regno Unito da un lato e quelle dell’Europa dall’altro lato, dal momento che quest’ultima non potrà che vedere ridursi i propri margini di profitto a causa della vetustà della struttura industriale e della riduzione progressiva del commercio internazionale. In secondo luogo occorre stimare la sostenibilità dell’attuale modello di sviluppo delle economie occidentali, basato su sussidi e stimoli economici pubblici i quali generano sempre più ampi deficit di stato e, di conseguenza, svalutazione della moneta e inflazione dei prezzi, che nel tempo si traducono in elevati tassi d’interesse.


LA PROGRESSIVA DE-DOLLARIZZAZIONE

È presumibile che la storica tendenza dell’Occidente a “esportare” inflazione e svalutazione a scapito dei paesi emergenti attraverso la rivalutazione delle proprie monete forti trovi in futuro dei crescenti limiti a causa della progressiva “de-dollarizzazione” delle economie emergenti (la quale ha un riflesso immediato nella crescita del prezzo dell’oro e degli altri metalli preziosi). Le esportazioni dei paesi emergenti -sempre più coalizzati in una sorta di bocco alternativo a quello occidentale- avvengono cioè sempre più in valute diverse da Dollaro, Sterlina, Euro e Yen.

È in questo contesto generale che può trovare spazio l’ipotesi che l’Occidente si ritrovi verso la fine dell’anno in una situazione di stagnazione e inflazione al tempo stesso (cioè in ”stagflazione”), dal momento che l’inflazione prolungata (e in parte occultata sino ad oggi) mette a rischio lo sviluppo economico, cioè quell’elemento che ne avrebbe mitigato gli effetti negativi in termini di consumi e investimenti. Al riguardo non vi sono certezze ma soltanto ipotesi, che ovviamente ci auguriamo che non prendano corpo.

DUE SCENARI DIFFERENTI

Esistono margini di speranza che ciò non accada, derivanti dalle potenziali ampie ricadute del progresso tecnologico in tutti i comparti industriali, le quali potrebbero favorire la deflazione dei prezzi (invece che dare benefici soltanto ai soliti, pochissimi detentori di grandi ricchezze). Così come esistono inoltre concrete speranze di una riduzione delle contrapposizioni geopolitiche in atto tra i grandi blocchi. Non soltanto questa possibilità sprigionerebbe molte speranze per il benessere dell’umanità, ma sarebbero soprattutto i paesi OECD a beneficiarne anche in termini di riduzione dei tassi d’interesse.

Tuttavia in caso di riduzione delle tensioni geopolitiche il “partito della guerra” avrebbe molto da perdere in termini di minori spese militari e calo dei prezzi dell’energia. Sono proprio questi interessi che oggi soffiano sul fuoco delle possibili degenerazioni del conflitto mediorientale e di quello in atto nell’est Europa. Scenari che non possono che spaventare chi deve investire e che riducono le prospettive di crescita economica globale. E in tal caso una stagflazione conclamata sarebbe probabilmente l’inevitabile conseguenza di un’eventuale deriva bellica allargata. Evitabile tuttavia qualora ce ne fosse la volontà.

 

Stefano di Tommaso




MERCATI,GUERRE E INFLAZIONE

Cosa succede agli investimenti azionari e ai titoli a reddito fisso? La mancata discesa dell’inflazione e la guerra in Medio Oriente hanno rovinato la festa definitivamente o soltanto temporaneamente? La risposta non è semplice perché è a rischio la crescita economica globale, fino a poche settimane fa molto ben impostata in tutto il mondo e oggi a rischio soprattutto in Occidente a causa dei conflitti armati. Nel dubbio i mercati finanziari hanno innestato la marcia ridotta e prevengono l’inflazione investendo in oro e commodities. Ma lo sgonfiamento delle posizioni più speculative non è di per sé una cattiva notizia…

 

LA CORREZIONE DELLE BORSE

Dopo l’attacco di Israele al consolato persiano di Damasco e la mancata discesa dell’inflazione borse non l’hanno mandata a dire: non soltanto gli indici principali sono scesi dai recenti massimi del 5%, ma addirittura le grandi multinazionali della tecnologia hanno raddoppiato il ribasso, arrivando a -10%. NVIDIA, pur essendo cresciuta da inizio d’anno di circa il 70%, rispetto ai massimi toccati è sotto addirittura del 15%, dopo aver bruciato 350 miliardi di dollari di valore. TESLA è scesa addirittura del 40%.


Le tensioni geopolitiche in Medio Oriente e in est Europa hanno avuto la funzione di detonatore ma in realtà le borse erano chiaramente affette da eccesso di ottimismo e attendevano soltanto qualche segnale per iniziare a invertire la rotta. E di segnali ce ne sono stati parecchi, dal calo delle vendite di microchip all’acuirsi delle tensioni geopolitiche, fino alla constatazione di un brusco calo della liquidità in circolazione.

LA VARIABILE GEOPOLITICA È IN PEGGIORAMENTO

Nella scorsa settimana parecchi episodi hanno determinato un brusco risveglio alla realtà: non soltanto attacchi e contrattacchi tra Iran e Israele (che peraltro continua imperterrito a fare molti morti tra i Palestinesi, attirandosi non poche “attenzioni” da parte del mondo arabo), ma anche il rinnovato stanziamento per la spesa militare da parte del Congresso americano (quasi 100 miliardi di dollari) che lascia temere il riacuirsi dello scontro con la Russia e con la Cina (i principali destinatari di questi fondi sono infatti, oltre a Israele, l’Ucraina e Taiwan).


D’altra parte i mercati ne hanno ben donde. Innanzitutto la grande ondata di entusiasmo per l’intelligenza artificiale che ha portato il principale indice di Wall Street (lo SP500) oltre quota 5200 punti (lo scorso venerdì sera è invece arrivato a scendere sotto la soglia psicologica di 5000 punti) non si è mai davvero estesa al resto del mercato azionario, cresciuto invero assai poco se si escludono i “magnifici 7” (i quali notoriamente rappresentano da soli oltre un quarto del valore di capitalizzazione complessivo dell’intera Wall Street) e oggi tornato addirittura sotto la parità rispetto a inizio d’anno.

IL CALO DEI SEMICONDUTTORI PUÒ ESSERE UN BRUTTO SEGNALE

Ma soprattutto c’è un dato che pesa più di tutti gli altri sulle ”magnifiche sorti et progressive” del comparto tecnologico: la fiacca complessiva del mercato globale dei semiconduttori, nonostante l’entusiasmo dovuto agli sviluppi dell’intelligenza artificiale abbia rinvigorito la domanda di quelli più performanti. Le attese di crescita del mercato globale dei semiconduttori sono infatti state tagliate del 10% negli ultimi giorni, segnalando la concreta possibilità che questo calo rappresenti quello che viene considerato dai mercati il “canarino nella miniera”, cioè un campanello d’allarme relativo ad un rallentamento in arrivo tanto negli investimenti quanto nei consumi di tecnologia.


D’altra parte come già fatto notare buona parte della grande ondata di acquisti degli investitori si era concentrata proprio sui titoli tecnologici, per i quali dunque era da mettere in conto una volatilità dei corsi ben più alta della media. Dunque l’entusiasmo per i titoli azionari “aromatizzati” con il sapore dell’intelligenza artificiale aveva semplicemente superato ogni limite. Ma ora cosa può succedere? Il calo delle vendite di semiconduttori torna a far temere per un rallentamento generale dell’economia, notoriamente sempre più digitalizzata.

I PROFITTI DEL PRIMO TRIMESTRE SARANNO PIATTI

La stagione dei profitti del primo trimestre sta per aprirsi con le prime risultanze che verranno pubblicate a partire dalla settimana in corso, ma le stime degli analisti ci anticipano risultati piuttosto deludenti un po’ per tutti i settori. In realtà le attese per l’anno in corso restano ancora positive, ma si riducono gli eccessi recenti delle valutazioni delle grandi multinazionali tecnologiche.

I MERCATI RESTANO AL MOMENTO RESILIENTI

Per molti gestori di patrimoni le forti oscillazioni dei mercati di questi giorni sembrano rappresentare soltanto delle ottime occasioni per proseguire l’investimento azionario, mantenendo dunque un atteggiamento sostanzialmente favorevole, tanto nelle prospettive dell’economia quanto in quelle delle borse. Anche per questo modo di analizzare le ultime tendenze ci sono ottime ragioni, che partono innanzitutto dall’analisi della liquidità in circolazione, per poi prendere in considerazione il potenziale effetto positivo dell’attesa di nuovo rallentamento dello sviluppo economico globale: quello di un minor timore di una nuova pesante ondata inflazionistica.


È evidente infatti che, se il peggioramento del commercio internazionale e i maggiori timori di nuove guerre dovessero proseguire, allora anche i timori d’inflazione si placherebbero e lascerebbero di nuovo spazio ad attese di interventi delle banche centrali, ivi comprese le riduzioni del “tapering” in atto (cioè delle politiche monetarie restrittive) e del tasso di sconto, dunque dei tassi d’interesse a breve termine.

LA LIQUIDITÀ DEI MERCATI È CONTROLLATA DALLA FED

Almeno per gli Stati Uniti d’America ci sono inoltre fondate speranze che la liquidità in circolazione (fattore determinante per l’andamento dei mercati finanziari), sebbene non sia mai stata tanto bassa, si è progressivamente ridotta per effetto della politica monetaria restrittiva da parte della Federal Reserve, la quale -a colpi di 95 miliardi al mese- ha ridotto il suo “bilancio” di quasi duemila miliardi negli ultimi due anni.


Adesso la liquidità sta risalendo per l’effetto combinato di due fattori: da un lato l’attesa di nuove politiche fiscali di stimolo all’economia che potrebbe deliberare l’amministrazione Biden in prossimità delle elezioni (ha accumulato un “tesoretto” di mille miliardi di dollari che potrebbe spendere presto), e dall’altro lato la speranza che la banca centrale torni a immettere denaro nel sistema alimentando il sistema bancario, il quale, dato il permanere di tassi d’interesse elevati, resta indubbiamente alle prese con forti minusvalenze tanto per il portafoglio dei titoli a reddito fisso quanto per i prestiti al settore immobiliare.

Dunque negli USA tanto la prospettiva di un possibile intervento da parte della banca centrale è una buona notizia per i mercati borsistici, quanto la prospettiva di nuove politiche fiscali espansive può contribuire a mantenere elevato il tasso di crescita economica. Elementi che potrebbero incidere positivamente sui due fattori che sostengono le borse: i profitti aziendali e i “buy-back” stanziati da parte delle società quotate, che erano stati recentemente molto ridotti.

IL MERCATO DELLE “IPO” STA ANCORA SOFFRENDO

Un altro fattore di grande attenzione da parte degli investitori è la possibile ripresa delle grandi operazioni di Initial Public Offerings (IPO, cioè le quotazioni in borsa da parte di nuove ”matricole”). Negli ultimi due anni decisamente ridotte, tanto in numero quanto in valore, a seguito delle maggiori cautele espresse dagli investitori nei confronti delle Startup.

È chiaro che se la liquidità dovesse tornare a crescere forse anche le IPO potrebbero tornare ad essere oggetto di interesse da parte degli investitori, magari con aspettative di valore meno esagerate di quelle viste ultimamente. Ma se il numero ed il volume di matricole continueranno a non affluire alle borse valori allora sarebbe ancora più evidente che le prospettive del mercato azionario non sono affatto positive.

SE ATENE PIANGE, SPARTA NON RIDE

Molte delle considerazioni sin qui svolte per gli U.S.A. sono da copiare -purtroppo assai in peggio- per l’Europa, dal momento che nel vecchio continente la crescita economica media attuale è quasi nulla, e le possibili conseguenze delle possibili guerre ai suoi confini sarebbero assai peggiori con la sua forte dipendenza da fonti energetiche di terze parti. Non per niente i profitti attesi per il primo trimestre 2024 delle società quotate dello Stoxx600 sono decisamente in calo, come si può leggere dalle tabelle qui sotto riportate:


Sebbene i conti delle principali società quotate in Italia dovrebbero risultare tra i meno danneggiati dall’attuale situazione generale, comunque il quadro generale resta piuttosto negativo. Non per niente i multipli di valore sono stati generalmente meno generosi per l’Europa nel corso degli ultimi 12 mesi:


Nei prossimi giorni tuttavia molte delle incertezze qui riportate potrebbero venire a chiarire il possibile scenario per l’anno in corso, dal momento che verranno pubblicati, oltre ai profitti aziendali, i nuovi dati sull’inflazione, attesa peraltro meno persistente nel vecchio continente dove infatti la ripresa economica è quasi assente. Il rischio è quello che le tensioni geopolitiche e le loro conseguenze in termini di rialzo dei costi energetici e delle materie prime possa generare rincari a catena, quantomeno sino a tutta la prima metà del 2024.

ORO E PETROLIO POTREBBERO CONTINUARE LA CORSA

Questo spiegherebbe molto bene le vere cause delle tendenze rialziste di fondo dei prezzi (in dollari) di oro e petrolio, come si può chiaramente evincere dai due grafici qui riportati:

Nell’incertezza cioè gli investitori cercano sponde sicure di valore assoluto, come il metallo giallo e speculano sul possibile divario tra domanda e offerta di petrolio, soprattutto nel caso di inasprimento dei conflitti in corso. Come si può desumere chiaramente dalla performance (in dollari) trimestrale (in arancione) e annuale (in azzurro) riportata qui sotto per ciascuna della più importanti “asset class”:


Ma la diversificazione in atto significa soltanto mostrare la necessaria prudenza, tanto nei confronti dell’inflazione (che probabilmente è già molto più elevata di quanto tradiscano le statistiche ufficiali) e delle guerre. E non necessariamente una sfiducia nelle prospettive di medio-lungo termine.

Stefano di Tommaso

 




APPUNTI DI TRADING

N. 72 – sa 20 apr 2024

Operazioni in essere : lu 15.4 venduto 1 GIU MICRO NAS 100 a 17900, ora con stop loss in pari a 17900

Solo perché i lettori ben comprendano, segnalo che lo stop loss dalla apertura della posizione di lu 15.4 fino a ieri ve 19.4 era stato inserito sopra il top dei 3 gg precedenti al 15.4, vale a dire a 18520.

GOLD GIUGNO 24

Nella precedente N. 71 avevo scritto :

“Posso ugualmente riprovare un acquisto di GOLD ? Forse sì .………………………………..Segnalo che ve 12 aprile 2024, GOLD ha segnato il top storico a 2431 cash ( 2448,80 per il contratto giu 24 ) per poi perdere in poche ore, 98 USD, cadendo come un sasso. I punti a basso rischio dove proverò a comperare sono :
– 2146 ( top dic 2023 )
– 2088 – 2040 ( svolta long a metà febbraio )”

Questi livelli sono ancòra molto lontani e quindi sto valutando se, prima di comprare, sia possibile effettuare una vendita, giustificata dal fatto che GOLD ha raggiunto il livello che avevo indicato nella N. 54 di sa 2 dic 2023 che era 2400 usd.

Tutto ciò premesso, da lu 22 aprile, sin dal mattino, inserirò il seguente ordine :

vendo 1 GIUGNO MICRO GOLD a 2430 con stop loss a 2460 e, solo se viene eseguita la vendita senza essere stoppata, dal giorno successivo all’eseguito, vendo 1 GIUGNO MICRO GOLD a rottura del minimo di ogni giorno precedente, con stop loss sopra il massimo della settimana 22-26 aprile, che ora non posso conoscere.

SILVER MAGGIO 24

In due mesi da metà feb 2024 GOLD è salito del 20 %, ma SILVER gli ha risposto con un + 35 %; immaginate la dimensione in % degli stop loss che dovrebbe accettare la Lettera.

Analizzerò se in questa enorme volatilità si possano ugualmente assumere posizioni su SILVER ( ne dubito ), ma ciò potrebbe anche essere, in caso di pull back sotto 25,01 fino a 23,49 che è stato il top di feb 2024; ricordo infine che feb 24 era il primo dei due mesi consecutivi di possibile cambio di trend.

La dimensione delle barre settimanali è talmente ampia che, nonostante sia evidente il tentativo di disegnare un doppio massimo tra il vecchio 30,09 usd e il nuovo 29,79 usd, il profilo di rischio della Lettera non consente una strategia come ho illustrato per GOLD.

SILVER richiede pazienza, a costo di un lungo rinvio.

DOW JONES INDU CASH

La discesa di DJ CASH è stata lenta e lunga , con perdita in percentuale poco inferiore a NAS 100.

Potrò considerare una vendita solo dopo un eventuale rimbalzo ad almeno 39000 di DJ CASH.

Non posso valutare un acquisto, dopo tutto quello che ho scritto del ciclo di 180 mesi.

NASDAQ 100 CASH

Avevo scritto :

“Negli ultimi giorni NAS 100 ha dormito, senza accompagnare il lento scivolare del DOW JONES.”

Forse NAS 100 ha letto la Lettera, si è indispettito e già lo scorso lu 15.4 ha rotto il minimo di marzo a 17765 cash, accelerando al ribasso, ben più velocemente di DJ.

Un cliente ha chiesto se ciò sia conseguenza delle iniziative dell’IRAN.

Osservo che l’IRAN c’è anche per DOW JONES; ritengo pertanto che l’accelerazione al ribasso di NAS 100, che prima si muoveva in laterale, sia legata alla rottura del minimo di marzo, che il DOW JONES aveva già rotto da molti gg.

La posizione di 1 MICRO NAS 100 è la minima possibile e cerco di non chiuderla, anche se il profitto percentuale è interessante, ma non passo a riscuotere; quindi faccio un sacrificio e semplicemente abbasso lo stop loss in pari, vale a dire a 17900 NAS 100 future.

Leonardo Bodini




IL CIGNO NERO DELL’ IRAN

Il mondo intero sembrava avviato verso un percorso di crescita economica, relativamente bassa inflazione e ripresa degli investimenti infrastrutturali, essenziali per veder crescere l’economia nei prossimi 3-5 anni. E invece sabato mattina è arrivato un altro “cigno nero” (per citare un famoso libro di Nassim Taleb), con la pesante risposta dell’Iran al recente attacco subìto da Israele. Le conseguenze in termini di inflazione possono risultare notevoli.

L’AVVERTIMENTO

L’effetto voluto era soltanto quello di inviare al mondo occidentale “un avvertimento” circa il fatto che Teheran non tollererà alcun altro attacco come quello recentemente subìto al consolato persiano di Damasco. L’invio dei droni non ha fatto vittime, grazie all’intervento dei sistemi americani e di diversi altri paesi nell’intercettarli, come pure per il fatto che l’Iran ha voluto limitare (e preannunciare) la sua risposta, segnalando che la misura è colma.

COME DOPO LA GUERRA DEL KIPPUR

Nel vedere tuttavia le immagini dei droni sopra Gerusalemme la memoria corre alla guerra del Kippur. Correva l’anno 1973 e l’attacco a Israele durante la festività religiosa del pentimento e del digiuno costituì la scintilla per un conflitto breve ma capace di generare un importante incremento dei prezzi di petrolio e materie prime, a loro volta prodromi di un’inflazione selvaggia dei prezzi al consumo. Il risultato finale in termini economici del maggior costo del petrolio fu particolarmente devastante per diversi anni successivi.


L’invio di un centinaio di droni su Israele e le eventuali rappresaglie che potrebbero proseguire da entrambe le parti (ivi compreso l’ennesimo blocco dei trasporti su nave nel Mar Rosso) hanno già scosso il mondo intero e potrebbero determinare a livello inflattivo qualcosa di simile a ciò che successe più di cinquant’anni fa tra Israele ed Egitto. Non per nulla per oggi le borse di tutto il mondo sono previste in ribasso (Tokyo ha già chiuso sotto dell’1% stamane) mentre dollaro, petrolio e criptovalute sono decisamente in rialzo. È ragionevole inoltre temere un’ulteriore risalita dei prezzi di quasi tutte le commodities (derrate, materie prime e semilavorati essenziali) in ragione quantomeno del maggior costo dei trasporti e poi della necessità di aumentarne le riserve strategiche.

IL NUOVO RISIKO GEOPOLITICO

Oggi la situazione potrebbe risultare addirittura più complessa di cinquant’anni fa: innanzitutto c’è appena stato un importante rincaro delle materie prime nel 2022-2023 che ha avuto come conseguenza una prima ondata globale di inflazione non ancora peraltro del tutto rientrata. In secondo luogo il Medio Oriente è in fiamme per l’operazione militare su Gaza con il tacito benestare occidentale. Inoltre anche l’Europa orientale vede un’escalation in corso del conflitto con la Russia con la previsione di un probabile coinvolgimento delle truppe NATO. Infine anche l’Estremo Oriente resta agitato per le tensioni tra Cina e USA (dove Taiwan è quasi soltanto una scusa). Insomma si rischia la terza guerra mondiale dell’Occidente nei confronti di un’alleanza di paesi “Brics” che continua ad allargarsi, e i mercati finanziari stavolta sono costretti a prenderne atto.


Una risposta, quella di Israele, certamente dovuta per sgominare un’importante organizzazione terroristica, ma anche assai sproporzionata e dunque estremamente pericolosa, nei confronti dell’intero Islam globale, per l’eccesso di morti e distruzione che ne è conseguito.

CHI CI GUADAGNA E CHI CI PERDE

Non è del tutto fuori luogo intravedere un filo conduttore tra le diverse problematiche geopolitiche, dal momento che esse portano le materie prime, l’energia e i beni rifugio ai prezzi massimi di sempre e che trainano una forte ripresa della spesa militare (attuale e soprattutto prospettica). Non è difficile infatti -come dicono gli inglesi- “follow the money” vedere cioè chi ci guadagna (gli U.S.A. ad esempio, che non soltanto sono i principali produttori di armamenti, ma esportano anche petrolio e gas). E non è nemmeno difficile cogliere chi sono i Paesi che ne risultano più danneggiati: quelli del bacino mediterraneo ad esempio, come pure quelli dell’est europeo e le economie intorno al Golfo d’Arabia.

Non per nulla i prezzi dell’oro, del Dollaro e del petrolio appaiono in ascesa verticale mentre l’Euro è in ritirata persino nei confronti di tutte le altre valute. Le tensioni geopolitiche alimentano poi inesorabilmente il rincaro (anche in termini di dollari) delle materie prime e dei combustibili fossili. Un rialzo dei prezzi che era già iniziato prima della “retaliation” iraniana. Ora con i nuovi blocchi navali ed i conseguenti ovvi rincari nei noli dei trasporti la situazione può soltanto peggiorare.

BORSE PIATTE D’ORA IN AVANTI?

Come reagiranno i mercati finanziari? Male, appunto, ma sarebbe sbagliato ritenere che d’ora in avanti si rischi un “sell-off” generalizzato (alla condizione che le tensioni non vadano troppo in là). Il problema peraltro non sono le borse, che pur dovranno prendere atto di una prospettiva assai peggiorativa ma che dall’altro lato continuano a celebrare le conquiste della nuova tecnologia dell’intelligenza artificiale. È infatti ragionevole immaginare che -davanti a una situazione cambiata in peggio- le borse non continueranno la loro corsa. Con gli episodi di sabato mattina l’era di Goldilocks sembra dunque venire archiviata.


Ho letto peraltro uno spunto interessante da parte di Mauldin Economics (pubblicato prima degli eventi di Sabato) che richiama una tendenza storica ricorrente: dopo un lungo periodo di ascesa dei valori di borsa, c’è da attendersi un probabile periodo di volatilità e sostanziale stasi dei corsi. Come richiamato nel grafico di lunghissimo periodo sopra riportato.


il problema vero è che quando si innalzano i costi delle materie prime, dell’energia e dei trasporti, allora -tempo qualche mese- si innesta una nuova ondata di inflazione dei prezzi al consumo che rischia di travolgere ogni precedente scenario strategico. Non soltanto d’ora in avanti i tassi d’interesse potrebbero non scendere, ma addirittura rischiano di riprendere a salire ancora, come peraltro sta già succedendo dall’inizio dell’anno sul fronte del mercato secondario dei titoli di stato americani ed europei.

LA SECONDA ONDATA

Un recente studio sulle serie storiche dell’economia fatto da Strategas (citato da Jason de Sena Trennert) indica infatti nel 90% la probabilità che, dopo una prima ondata di inflazione sopra il 6%, se ne possa registrare una seconda del medesimo tenore. E se guerre, attacchi e disastri geopolitici danno anche una mano, allora dall’elevata probabilità di una nuova ondata inflattiva, si rischia di passare alla certezza assoluta! Se ciò fosse, le rosee prospettive di crescita economica globale di cui si discuteva sino a ieri, dovute ai profitti derivanti dalla crescente spesa militare alla grande liquidità in circolazione, potrebbero lasciare il posto a una maggior volatilità delle borse e a altri rialzi dei rendimenti impliciti dei titoli a reddito fisso. Uno scenario sostanzialmente diverso da quello che stavamo iniziando a dare per scontato fino a soltanto una o due settimane fa.


Una cosa è tuttavia piuttosto probabile: l’impennata della volatilità dei mercati, colti ancora una volta alla sprovvista dal cigno nero di un conflitto allargato con sempre maggiore probabilità a tutto il Medio Oriente e all’Europa orientale e alle prese con la possibilità che si riducano i profitti di quasi tutte le imprese al di fuori delle grandi multinazionali tecnologiche.

 

Stefano di Tommaso