L’INESORABILE DECLINO DEI VALORI IMMOBILIARI

È di qualche giorno fa l’annuncio della banca centrale americana, la FED (normalmente seguita a ruota dalla banca centrale europea e da quasi tutto il resto del mondo), che i tassi d’interesse potrebbero addirittura crescere ancora un po’ e che resteranno alti ancora a lungo (pare quantomeno per tutto il 2024). La causa principale è ovviamente l’inflazione, che a sua volta però è fortemente dipendente dall’andamento dei prezzi dell’energia e sono molti i segnali che provengono dall’economia reale che confermano che la crisi energetica non è transitoria, dato che era iniziata già prima del conflitto Russia – Ucraina per motivi legati ai prezzi dell’energia e alla transizione green

 

L’INFLAZIONE MORDE IL MATTONE
In effetti un recente studio statistico-storico compiuto dagli economisti di Deutsche Bank evidenzia che quando il tasso d’inflazione sale oltre il livello dell’8% ci vogliono in media due anni per farlo ridiscendere sotto il 6%. E in uno studio pubblicato recentemente dal governo tedesco sulle previsioni di crescita per il 2023 si evidenzia che, nonostante l’economia sarà in recessione, l‘inflazione resterà alta per tutto l’anno in corso.

Un’analisi comparata dell’andamento dell’inflazione attuale (tempo 0) e del 1920

 

Il rapido incremento dei tassi d’interesse operato dalle banche centrali di tutto l’Occidente sta facendo un’altra vittima: i valori immobiliari. Tutta una serie di circostanze congiunturali (inflazione, incremento dei tassi d’interesse dei mutui, aumento dei costi di ristrutturazione, nuove normative sull’efficienza energetica, blocco della liquidazione del 110% eccetera) stanno generando una situazione di calo generalizzato delle compravendite, soprattutto per gli immobili residenziali.

IL CALO DELLE VENDITE DI IMMOBILI

Tra aprile e giugno 2023 le vendite delle case sono scese del 16% in Italia, vale a dire ne sono state vendute 35mila in meno rispetto allo stesso trimestre del 2022. Maggiormente penalizzate sono state le grandi città, dove la flessione ha toccato il 17,2% mentre le vendite in provincia sono scese in media del 15,4%. I prezzi rispetto all’anno precedente sono per il momento rimasti in media invariati (+0,7%) ma evidentemente, al netto dell’inflazione.

Un calo reale di circa il 10% e la media dei prezzi comprende tanto i prezzi delle abitazioni nuove, già in regola con le recenti normative energetiche (e dunque più appetibili), quanto quelli delle case datate. Non per niente il mercato immobiliare a Roma, fatto principalmente di case con una certa vetustà, ha visto una discesa delle compravendite del 21,5% nel secondo trimestre 2023, come riportato in questo grafico:

VENDITE IMMOBILI A ROMA CALATE DEL 21,5% NEL SECONDO TRIMESTRE 2023

 

Anche un famosissimo economista premio Nobel, Robert Shiller, docente di Economia all’Università di Yale, USA, prevede che i prezzi delle abitazioni in America scenderanno di circa il 10% nel corso del 2024. E il valore dei titoli immobiliari nelle borse valori (soprattutto europee) riflette le prospettive poco esaltanti del settore immobiliare.
Ad esempio l’indice FTSE EPRA/NAREIT Europe ex UK Dividend replica le investment trust (REIT) e le società immobiliari quotate dei Paesi europei sviluppati ad esclusione del Regno Unito cioè un paniere di 59 titoli europei. Nonostante rendimenti da dividendo del 3,6% negli ultimi 12 mesi, nell’ultimo anno l’ETF ha perso oltre il 14%. Un bilancio ancora più negativo a distanza di 5 anni con un calo di oltre il 30%. Dal 2014 il guadagno total return è addirittura nullo, dividendi compresi.

 

IL RIALZO DEI TASSI REALI NON FA BENE AL SETTORE

L’inflazione sta togliendo “fiato” alle compravendite residenziali dal momento che strappa via potere d’acquisto ai salari e, con esso, anche la possibilità di investire in immobili, sono i tassi d’interesse reali, cioè quelli al netto dell’inflazione. Se infatti -al netto dell’inflazione- le attività finanziarie danno un rendimento positivo (come sta già accadendo in America e come tra poco sarà anche qui da noi), allora le rendite immobiliari risultano meno appetibili per gli investitori professionali. Esse devono infatti già confrontarsi con tutte le spese di manutenzione straordinaria (il cui costo è cresciuto) per poter risultare “nette”, e devono tenere conto delle attese di rivalutazione degli immobili: se -come in questo momento- queste ultime sono sparite, la resa dell’immobile deve infatti essere depurata anche del tasso d’inflazione.

Per completare il nostro ragionamento occorre notare che, nel lungo termine, l’inflazione normalmente i valori immobiliari si riallineano verso l’alto. Ma nel breve periodo e sintanto che perdura la situazione di crisi dei consumi e di recessione economica (attualmente in corso) l’inflazione toglie capacità di spesa ai consumatori e a coloro che devono sostenere i canoni di locazione.

IL CALO DEL POTERE D’ACQUISTO ERODE IL VALORE DELLE ABITAZIONI

Ho letto recentemente un articolo dove si faceva notare che negli anni ‘60 un operaio che guadagnava mediamente 50.000 lire al mese poteva permettersi di comperare casa, mediamente, dopo circa vent’anni di lavoro. Oggi invece, con uno stipendio mensile di 1300 euro non gli basterebbero nemmeno quarant’anni! Ecco esemplificato il primo effetto dell’inflazione dei prezzi: i salari fanno fatica ad adeguarsi ai rincari: lo fanno con lentezza e mai completamente. Per non parlare della crisi dei matrimoni e dell’elevato livello di disoccupazione giovanile: tutti elementi che incidono sulla minor domanda di abitazioni e di locali per gli esercizi commerciali.

TABELLE DELLE CATEGORIE CATASTALI

 

E con il calo del numero degli acquirenti, con la maggior difficoltà (e costo) a finanziarne l’acquisto e con l’aumento dei loro costi di ristrutturazione, ciò che deve succedere ai prezzi degli immobili è assai intuitivo: essi scenderanno perché l’offerta sul mercato supera la domanda. Per il momento i cali di valore appaiono poco significativi, ma tutto lascia immaginare che il rallentamento delle compravendite (sicuramente non imputabile a scarsità di immobili in vendita) sia principalmente dovuto ad una loro minore domanda sul mercato. Un certo numero di immobili resterà cioè invenduto sino a quando il loro prezzo non arriverà ad adeguarsi alla minor domanda. Cosa che necessita parecchio tempo e che lascia presagire che il processo di adeguamento risulti lento, in funzione di una decisa “vischiosità” del mercato immobiliare.

LA DIRETTIVA EUROPEA SUL’EFFICIENZA ENERGETICA

Un mercato decisamente colpito inoltre dalla direttiva europea sull’efficienza energetica degli immobili: in pratica se per poter risultare adeguati alla normativa e rientrare entro il 2033 nella classe “D” quasi tutti gli immobili necessitano di ingenti spese aggiuntive, che spesso vanno dedotte dal loro prezzo di vendita! Per non parlare della maggiore appetibilità degli immobili di nuova costruzione e concezione (e dunque più efficienti) rispetto a quelli datati, con il risultato che questi ultimi rimarranno più a lungo invenduti e a prezzi inferiori, dal momento che le ristrutturazioni portano con sé tempo e incertezze. Non soltanto: il contenuto di “impianti” sul valore complessivo degli immobili continua a crescere, man mano che il benessere ci spinge a desiderare ogni genere di confort (riscaldamento, condizionamento, ricambio d’aria, interconnessione, maggiore illuminazione e maggiori superfici vetrate, eccetera…). Ovviamente gli immobili più moderni ne incorporano già una buona parte e il costo all’ingrosso di tali accessori risulta molto minore di quello al dettaglio. Per poterli installare negli immobili più datati invece le spese crescono a dismisura, contribuendo a ridurne l’appetibilità.

Per quanto riguarda l’efficienza energetica in particolare, in Italia si stima che circa il 55% degli immobili sia in classe “G” (cioè l’ultima) e il 75% delle abitazioni sia in classi energetiche comprese tra la ”E” e la ”G”. E’ persino difficile calcolare cosa ne sarà del loro valore se non interverranno delle proroghe. Senza considerare il fatto che il prezzo dell’energia (Ivi compresa quella necessaria per riscaldare e raffreddare gli ambienti), anche laddove la normativa europea venisse accantonata, riduce la propensione all’utilizzo di maggiori spazi immobiliari e sospinge tutto il comparto del mattone ad una decisa razionalizzazione dei consumi energetici, spesso a scapito degli ampliamenti. Un recente studio di Casa.it su appartamenti trilocali residenziali mostra a quali differenze di valore si va incontro con le diverse classi energetiche: un trilocale di 80-100 mq in classe A costa mediamente il +68% rispetto ad un appartamento dello stesso taglio e metratura in classe G. A Torino e Palermo la differenza di prezzo tra i trilocali in vendita in classe A e quelli in classe G supera il +130%, il +148% a Palermo e il +134% a Torino. A Milano, dove i prezzi medi dei trilocali sono più alti, la differenza è del +38%, a Bologna del +25%, a Genova e a Firenze del +22% e a Roma del +14%.

IL PATRIMONIO RESIDENZIALE ITALIANO (2021)

 

Se pertanto la vischiosità del mercato immobiliare farà sì che i loro prezzi siano destinati a ridursi ancora per molto tempo a venire, allora agli attuali cali di prezzo ne seguiranno di ulteriori, almeno sino al momento in cui la congiuntura economica generale non sarà cambiata completamente di segno: cioè sino a quando l’economia e i consumi non torneranno a crescere e i tassi d’interesse reali invece a scendere. Nomisma calcola che la propensione all’acquisto di immobili per gli Italiani nei prossimi mesi possa scendere del 13,3%. Più in particolare se il numero delle transazioni immobiliari nel 2022 è stato pari a circa 784mila compravendite, si stima che nel 2024 possano scendere a 643mila (il 18% in meno). Il medesimo Istituto di ricerca prevede tra l’altro che, anche laddove il valore dei cespiti immobiliari non si fosse ridotto nel corso dell’ultimo anno o non si riducesse in quello a venire, a farne calare il valore reale ci penserebbe l’inflazione, nel biennio 2023-2024 almeno pari al 10% del valore reale precedente.

I RISCHI PER GLI ISTITUTI DI CREDITO

Nel frattempo tra l’altro la crisi dei valori immobiliari, così come è già accaduto in primavera negli U.S.A., rischia anche di guastare la festa alla solidità dei piccoli istituti bancari locali, quelli cioè per i quali il peso percentuale dei mutui ipotecari sul totale degli attivi risulta maggiore: se il valore delle garanzie acquisite scende, anche il valore di mercato dei prestiti erogati si adeguerà. E se il valore degli attivi bancari cala, anche il loro patrimonio ai fini di vigilanza ne risulterà danneggiato. Dunque il rialzo dei tassi d’interesse reali non soltanto danneggia i valori immobiliari ma rischia anche di provocare una serie di insolvenze dei piccoli istituti di credito regionali (di cui l’Italia è piena), che può provocare ulteriori esborsi per le finanze pubbliche per poterne attutire l’impatto sul grande pubblico.


Il nostro Paese peraltro è particolarmente ricco di seconde abitazioni (lungo il litorale o in località montane e lacustri) nonché di attività turistico-alberghiere nonché di ristorazione e intrattenimento. Se il valore immobiliare intrinseco di tutte queste attività cala, si genera un forte freno al loro sviluppo, al loro ampliamento, al loro ricondizionamento e alle ristrutturazioni, che per gli esercizi commerciali sono necessarie ben più frequentemente che non per le unità residenziali. In definitiva dunque anche per questo tramite il calo di valore degli immobili rischia di amplificare l’effetto recessivo che già il rialzo diretto dei tassi d’interesse sta provocando.

Senza considerare ancora un altro fattore: l’aumento dei costi di locazione immobiliare e la riduzione del reddito reale disponibile per i consumatori ne riduce spesso la solvibilità, con il risultato che il rischio di insolvenza nella riscossione dei canoni di affitto potrebbe risultare decisamente in aumento nei prossimi mesi. Altro elemento che di fatto riduce il reddito medio atteso netto degli immobili, indebolendone di conseguenza il valore in conto capitale.

ANALISI BANCA CENTRALE EUROPEA

 

Una volta l’investimento nel mattone era visto come qualcosa di stabile, da tramandare alle generazioni future e con una forte resilienza per le svalutazioni monetarie. Le considerazioni sopra esposte fanno pensare che tali assiomi siano di fatto tramontati, e che anzi l’investimento immobiliare, laddove non sia effettuato per godimento personale (e dunque rassomigli più ad un bene di consumo durevole come l’automobile o uno yacht che non a un’allocazione del risparmio), risulti in questo momento storico decisamente penalizzato in buona parte del mondo civilizzato!

 

Stefano di Tommaso




APPUNTI DI TRADING

N. 44 – sabato 23 settembre 2023

 

Operazioni in essere :

comperato merc. 6.9 un DIC MINI SILVER a 23,50 con stop loss a 22,30


GOLD DIC 23

Nota bene : anche se non ritengo di prendere posizione su GOLD in questo periodo, indico che la scadenza su cui eventualmente lavorerò passa da ottobre a dicembre, che vale circa 20 USD più di GOLD CASH

Registra movimenti molto contenuti, che rendono impossibile guadagnare.

Segnalo un ciclo che pone due minimi evidenti ( 1893 cash e 1885 cash ) a 8 e 16 settimane dal top di 2060.

Il livello di 1885 quindi rappresenta un doppio minimo decrescente e la eventuale rottura potrebbe dare una discesa di rilievo, primo ostacolo circa 1800.

Sul lato opposto, richiamo ancora una volta l’attenzione sul fatto che attribuirei importanza alla eventuale chiusura di un qualsiasi mese sopra 1998 ( rammento che si tratta del top di aprile 2022, di notevole rilievo ciclico )

Nel caso si verificasse, potremmo assistere allo sfondamento del triplo massimo, con accelerazione difficile da stimare.

 

SILVER DIC 23

Resto positivo su SILVER, al punto che da 25.9 inserirò nuovamente il seguente ordine:

compero un DIC MINI SILVER a 22,80 con stop loss a 22,30 per entrambi i DIC MINI SILVER

Evidenzio che si sta creando un triplo minimo circa a 22,00 cash che, come detto spesso, costituirebbe una figura grafica molto forte.

Allego un grafico giornaliero, per evidenziare il pattern.

La eventuale, non creduta, rottura di 22,00 cash – oltre a rappresentare lo stop loss per le posizioni rialziste – forse meriterebbe uno short, ma non ho fretta.

Evidenzio che nella settimana 52 dal vistoso minimo di 17,56 SILVER ha segnato un top ed è sceso in modo evidente.

Si tratta di un ciclo da osservare, anche nel caso di successiva rottura al rialzo del livello di 25,01 cash. La rottura, oggi prematura, potrebbe dare una accelerazione verso l’alto, anche oltre il top di 26,13.

 

DOW JONES INDU CASH

Ormai dal 14 agosto non riesce a toccare la trend line che avevo tracciato dal 13 ott 2022.

Appare debole rispetto al NAS 100.

La marginale rottura del minimo di agosto potrebbe essere un detonatore per il ribasso, ma mi sembra presto; gradirei che trascorresse un anno dal 13 ott 2022 e manca veramente poco.

Una discesa prima di allora sarebbe poco maneggevole per la Lettera.

Preferisco attendere un pull back almeno fino a 34500 DJ cash, a costo di perdere l’eventuale discesa.
Se vendessi ora in caduta, lo stop loss sarebbe troppo ampio, oltre i criteri che ho fissato per questa Lettera.

NASDAQ 100 CASH ( quanto segue vale tutto il resto della Lettera )

Avevo scritto : “NAS 100 cash incontra ostacolo a 15600 ormai da 8 settimane ( ora 10 settimane ).

L’ostacolo di 15600, formatosi in gennaio del 2022, era stato indicato nel grafico allegato sin dalla N. 32 di sabato 27 maggio 2023, quando NAS 100 non aveva superato 14300…………………………….Segnalo infine che, non solo NAS 100 cash stenta a oltrepassare 15600, ma abbiamo un doppio inside settimanale e questo potrebbe rappresentare una grande incertezza con successiva accelerazione; devo capire da quale parte.”

Il NAS 100 sembra aver scelto di uscire al ribasso.

Qualcuno penserà che sono troppo prudente, vale a dire che NAS 100 ha rotto al ribasso e non si discute. Ma non credo che sia così.

Spiego meglio.

Avevo scritto che diffido di movimenti direzionali prima che siano trascorse 52 settimane dal minimo del 13 ott 2022, punto che è visibile sui grafici anche ai meno attenti.

Mancano circa 15 sedute. Non voglio anticipare un giudizio su questo mercato, che molte volte ha punito gli investitori affrettati.

Quindi la mia eventuale operatività sul lato short sarà solo in pull back.

In particolare, per affrontare il rischio di shortare il più forte Mercato esistente, pretendo un pull back all’interno del doppio inside settimanale che abbiamo avuto tra mart 5 sett e ven 15 sett, vale a dire nel range tra 15138 cash e 15556 cash ( aggiungerò circa 150 punti per calcolare il prezzo del DIC FUT sul quale inserirò il seguente ordine ) da lu 25 sett, sin dal mattino :

vendo 2 DIC MICRO NAS 100 a 15500 con stop loss 15800.

Per meglio illustrare l’intervallo in cui sono disposto ad aprire la vendita allego un grafico giornaliero con evidenza in giallo del range.

Come dico sempre quando si tratta del NASDAQ, la dose è omeopatica e speriamo bene.

Leonardo Bodini

 




LE BANCHE ITALIANE SONO CORRETTAMENTE VALUTATE?

I recenti apprezzamenti dei titoli bancari quotati hanno sostenuto non poco le borse europee, e in particolare quella italiana, dove i principali gruppi bancari pesano più che nel resto del continente. Non fosse stato per l’annuncio della tassa sugli extra-profitti bancari, l’indice FTSE relativo al comparto bancario sarebbe forse oggi intorno al massimo storico.

 

Come si può leggere qui sopra la performance dei titoli bancari italiani a un anno ha raggiunto quasi il 47%, dopo aver toccato un massimo ancora maggiore a fine Luglio. Anzi: insieme ai titoli tecnologici sono stati i più levereggiati dalla situazione che si è creata a seguito del rialzo dei tassi. Il punto però è comprendere se le attuali quotazioni azionarie sono da considerare ancora sostenibili. Come si può leggere nel grafico qui sotto c’è chi lo mette in dubbio:


La grande risalita dei corsi si deve senza dubbio al forte e repentino rialzo dei tassi d’interesse da parte della banca centrale europea, che ha permesso alle principali banche europee di godere di una miglior “forbice” tra tassi attivi (in rapida ascesa) e tassi passivi (in lentissima risalita). Di seguito lo storico delle recenti mosse della BCE dove si può notare la fortissima impennata dei tassi a partire dalla fine del 2022.


Dunque, se confrontiamo la forte risalita dei tassi d’interesse con l’incremento dei tassi d’interesse, sarebbe corretto affermare che non c’è proporzione e che pertanto la miglior marginalità delle banche non si sia ancora completamente riflessa sulla loro capitalizzazione di borsa.

Esistono però altre ragioni per le quali i titoli non si sono apprezzati di più, o peggio: potrebbero tornare a scendere: la scorsa settimana Jamie Dimon, grande capo di JP Morgan, mette in guardia: ulteriori “strette” regolamentari per assicurare solidità patrimoniale alle banche rischiano di allontanare ancora una volta l’appetito degli investitori. E non a caso nelle ultime ore si sono moltiplicati gli allarmi: adesso che i tassi hanno (forse) appena finito di salire, bisognerà vedere cosa accade alla clientela delle banche, società immobiliari in testa, che rischiano di vedere crollare i valori dei loro portafogli.

Jamie Dimon, CEO JP Morgan Chase

Ne sa qualcosa Société Generale, ruzzolata alla Borsa di Parigi dopo aver pubblicato un piano aziendale deludente e senza abbastanza riduzioni dei costi. In effetti i “rischi regolamentari”, insieme all’ampliamento del numero di governi europei intenzionati a mettere uno stop agli extra-profitti bancari derivanti dalla scarsa concorrenza di cui beneficia il settore costituiscono una minaccia per la tenuta nel tempo dei margini che oggi le banche stanno accumulando.


Tutto però dipenderà, ancora una volta, dall’inflazione, che rischia di tornare a guastare i sonni dei banchieri centrali con il rialzo (che non sembra arrestarsi) del costo delle materie prime energetiche (petrolio in primis). Se l’inflazione costringerà le banche centrali ad ulteriori “strette” le banche potrebbero incocciare con nuove perdite in conto capitale sul valore dei titoli obbligazionari in portafoglio, e, indirettamente, sul rischio di nuove minusvalenze sul valore attuale dei crediti erogati. Ragione per cui c’è da attendersi, per i titoli del comparto bancario, anche una maggior volatilità rispetto al passato.

Un recente articolo di Wolf Street denuncia il picco cui sono arrivate le minusvalenze non contabilizzate sui titoli detenuti dalle banche americane (fonte: FED): 558 miliardi di dollari!


Ora, è lecito chiedersi, se i rialzi dei tassi operati dalla banca centrale americana (FED) appaiono in linea con quelli della banca centrale europea (BCE), anche in Europa esistono probabilmente ampie minusvalenze su titoli che le banche non hanno ancora dichiarato! Il punto è che le banche spesso detengono titoli a reddito fisso, e che negli ultimi anni il loro ammontare si è moltiplicato per tre.

L’ammontare dei titoli detenuti dalle banche americane

Tuttavia occorre notare che le banche italiane sono state storicamente sottovalutate dal mercato borsistico! Ancora oggi, alla luce dei recenti rialzi (abbiamo visto sopra: +47% nell’ultimo anno), il rapporto tra il valore di capitalizzazione espresso dalla Borsa e quello del patrimonio netto contabile per molte grandi banche risulta decisamente penalizzato, come si può vedere da questa tabella:

IL RAPPORTO CAPITALIZZ.DI MERCATO/PATRIMONIO NETTO DELLE PRINCIPALI BANCHE ITALIANE (FONTE: FACTSET)

Morale? La corsa dei titoli bancari (almeno in Italia) non è ancora arrivata al capolinea, anzi!

Per il nostro listino di Milano sono l’equivalente delle Big Tech americane! E per di più ancora oggi decisamente sottovalutate.

 

Stefano di Tommaso




DIVERGENZA (INFLAZIONE E BORSE SU, TASSI E PIL GIÙ)

La divergenza tra l’andamento dell’economia e quello dei mercati finanziari non è mai stata una novità, ma stavolta rischiamo di fare il record: l’anno 2023 è stato sinora ottimo per le borse (anche quelle europee) e pessimo per lo sviluppo economico (soprattutto quello europeo). Ma c’è il rischio che le due tendenze contrapposte proseguano verso ulteriori divergenze. Anche perché il rialzo dei tassi d’interesse (che a casa nostra ha sostenuto le banche, grandi protagoniste del listino alla Borsa di Milano) avrà effetti per lo sviluppo economico soprattutto nei prossimi mesi. Mentre l’attesa per un ritorno alla relativa normalità dei tassi d’interesse può tenere alte le quotazioni di borse e titoli a reddito fisso. E questo nonostante un’attesa di peggioramento della corsa dei prezzi, soprattutto a causa del costo dell’energia.

 

L’INFLAZIONE E’ IN RITIRATA?

La domanda è molto semplice ma la risposta è tutt’altro che scontata: se guardiamo al presente sì, l’inflazione sembra in ritirata, soprattutto negli USA, dove il mercato del lavoro è più elastico, la concorrenza più pressante, la tecnologia più avanzata e dunque i prezzi sono difficilmente manipolabili dagli oligopoli che invece imperversano in Europa. In America le ultime rilevazioni danno l’inflazione tendenziale quasi a zero, sebbene la rilevazione anno-su-anno resti ancora oltre il 3%.


Ma nemmeno negli USA ci credono troppo: una serie di fattori fanno temere che possa esserci una recrudescenza dell’inflazione, dovuta principalmente a due fattori: i tassi d’interesse non proprio a buon mercato provocano una serie di rialzi dei costi finanziari che inevitabilmente si riflettono nei prezzi dei beni di consumo. I mercati finanziari (in particolare nella zona Euro) non possono che prenderne atto.


MA IL PETROLIO È IN CRESCITA

Poi c’è il prezzo del petrolio in decisa risalita, il quale notoriamente comanda una filiera lunghissima di derivati e trascina con sé al rialzo il costo dell’energia. Senza considerare poi la “transizione verde”, anch’essa un fattore di stimolo al rialzo dei prezzi che per il prossimo anno è possibile che rimanga relativamente silenziosa, dal momento che, con le elezioni presidenziali in arrivo, cercheranno di non nominarla troppe volte.

ANDAMENTO DEL PREZZO DEL PETROLIO BRENT

A tenere su le quotazioni dell’oro nero non ci pensa soltanto l’OPEC (l’organizzazione dei paesi esportatori di petrolio) con i suoi tagli programmati all’estrazione, cui sin’ora ha fatto da contraltare l’aumento della produzione da parte dei paesi non-Opec. Sono soprattutto le economie asiatiche che marciano su un ritmo di crescita economica media reale di quasi il 5% annuo a incrementare la domanda di petrolio.

PETROLIO: CHI NE CHIEDE DI PIÙ

MA IN EUROPA E’ DIVERSO

In Europa tuttavia non c’è soltanto il rialzo dei tassi d’interesse a guastare i sonni agli imprenditori, ai dirigenti e ai governanti, non c’è solo il costo dell’energia (a casa nostra è principalmente quello del gas) che è molto più fuori controllo di quello americano, anche perché la produciamo con materie prime importate e non c’è soltanto la transizione verde a imporre costi aggiuntivi a molti fattori di produzione. C’è anche il super Dollaro (divisa in cui comperiamo la quasi totalità delle nostre importazioni) a rovinare i budget di spesa, che scarica dall’America al resto del mondo una parte degli incrementi dei prezzi, e c’è una rovinosa gestione dell’Unione stessa a mettere gli stati membri l’uno contro l’altro, evitando una collaborazione che aiuterebbe a trovare efficienza.

IL “DOLLAR INDEX” (FORZA RELATIVA DEL BIGLIETTO VERDE) E’ IN ASCESA

Nel grafico che segue si può notare che l’ultimo aggiornamento relativo alle previsioni di sviluppo economico nell’Unione Europea è al ribasso. Ma se guardiamo bene con ogni probabilità queste previsioni saranno ancora da rivedere all’ingiù, dal momento che continuano a prospettare una crescita per l’anno in corso e per quello a venire che saranno tutte da verificare!

 

Che l’inflazione a casa nostra tenda a zero è dunque un sogno destinato a non avverarsi presto. Anzi: c’è il rischio opposto! Quello che si rivedano nuove fiammate. In fondo in Italia l’inflazione del “carrello della spesa” che evidentemente rappresenta una componente sostanziale dell’inflazione totale per le famiglie meno abbienti, non è mai scesa sostanzialmente sotto al 10%. E la cosa non è dovuta soltanto ai rialzi dei tassi, delle materie prime (spesso in Dollari) e dei costi dell’energia, ma anche al fatto che molte imprese che producono alimentari, bevande e accessori per la casa sono riuscite molto bene a trasferire sui consumatori i rialzi dei costi, migliorando addirittura i loro margini a causa di una limitata pressione competitiva.


La parte meridionale dell’Europa si confronta poi con un dilemma nel dilemma: quello dei conti pubblici. L’ambizione tedesca di reinstaurare una politica di controllo dei deficit pubblici potrebbe costringere il nostro governo a ridurre la spesa e ad aumentare ulteriormente la pressione fiscale (siamo al record storico e geografico al riguardo, cioè non c’è mai stato uno stato che ha tassato di più i propri sudditi). Il rischio è quello di incorrere in un vero e proprio scontro con il resto dell’Unione, fermamente decisa a reinstaurare il patto di stabilità.


IL COMMERCIO INTERNAZIONALE PUÒ SCENDERE ANCORA

C’è dunque da attendersi dalle nostre parti un mix di inflazione che continua a mordere e recessione che rischia di aggravarsi, e tutto questo mentre il mondo torna a dividersi tra Oriente e Occidente come non si vedeva dai tempi della guerra fredda, con il rischio cioè di veder ridurre il flusso delle esportazioni di manufatti nazionali che è da decenni l’unica vera colonna dell’economia nazionale.

LE ESPORTAZIONI ITALIANE NEL 2022

 

I MERCATI RESTANO OTTIMISTI

Ironicamente tuttavia le prospettive di ”stagflazione” (cioè stagnazione più inflazione) appena citate potrebbero non intaccare la fiducia dei mercati finanziari, i quali sono innanzitutto globalizzati e dunque fortemente dipendenti da ciò che accade oltre oceano, ma sono anche tutto sommato felici di vedere prospettive più concrete di uno stop al rialzo dei tassi d’interesse, che sta divenendo sempre più probabile. Anzi: c’è chi inizia a scommettere in nuovi ribassi dei tassi all’inizio del prossimo anno. Cosa che darebbe tono alle Borse e, soprattutto, ai prezzi dei titoli a reddito fisso.


La Banca Centrale Europea dal canto suo ha parlato chiaro: se lo scenario non cambierà significativamente quello appena decretato sarà l’ultimo aumento dei tassi d’interesse, peraltro in assoluto un punto percentuale in meno rispetto a quelli americani (4% contro 5%). E il motivo non sarà l’inflazione, circa la quale nessuno si aspetta davvero un miracolo. Il vero motivo sembra essere invece il disastroso stato dell’economia reale, che rischia di rovinare le prospettive di percepire un sufficiente gettito fiscale per gli stati ultra indebitati di tutta Europa. D’altra parte i rialzi dei tassi d’interesse non soltanto in Europa sembrano incidere molto meno sui prezzi al consumo a causa della minor esuberanza dell’economia, ma sono anche cresciuti così velocemente come non si vedeva da alcuni decenni in precedenza che una pausa ci sta bene di sicuro!


Un altro motivo di possibile attesa di riduzione dei tassi d’interesse sarà ovviamente la necessità di tamponare il problema endemico che essi si portano dietro: il rialzo del costo dei debiti pubblici, i quali sono più alti che mai. Spesso infatti si fanno paragoni con l’inflazione degli anni ‘70 (cioè mezzo secolo fa), ma c’è una differenza sostanziale: all’epoca i debiti pubblici erano ben poca cosa e l’economia era molto meno “finanziarizzata” di quanto lo sia effettivamente oggi. Le banche centrali ne sono ben consce e non possono far finta di niente troppo a lungo perché il risultato può essere l’insostenibilità del costo dei debiti pubblici.

BORSE SÙ, ECONOMIA GIÙ E INFLAZIONE CHE NON SCENDE

Dunque c’è una certa probabilità di vedere, accanto ad un’economia reale in seria difficoltà (soprattutto in Europa, dove promette assai meno bene che negli States) e alla minaccia di sperimentare nuove fiammate inflazionistiche, i mercati finanziari che invece potranno restare piuttosto esuberanti ancora fino a tutto l’anno in corso, tanto per l’attesa positiva sui tassi d’interesse quanto per il traino americano dove, accanto alle grandi performances delle grandi multinazionali della tecnologia, ci si aspetta una ripresa di margini e sviluppo anche per molte altre grandi aziende che fino ad oggi non hanno praticamente giovato dei rialzi dei listini borsistici.

Altro grande protagonista dei mercati, se il ribasso prossimo venturo dei tassi d’interesse sarà conclamato, può essere l’oro, le cui quotazioni sono già cresciute, ma che ancora subiscono la forte concorrenza della remunerazione della liquidità (mentre è noto che l’oro non ha cedola). Sinché dunque il mercato finanziario resterà ottimista sull’inflazione e i tassi d’interesse rimarranno alti, i tassi reali positivi manterranno compressa la quotazione del metallo giallo. Ma se lo scenario dovesse invertirsi ecco che le sue quotazioni potrebbero compiere un gran balzo!

D’altra parte la divaricazione tra l’economia reale e quella di carta non è certo una novità: vuoi per il fatto che le lancette degli orologi dei mercati finanziari corrono parecchio avanti a quelle dei cronometri dell’economia reale, vuoi per la forte dipendenza dalle banche centrali e dai tassi d’interesse che queste manovrano. Nessuno stupore quindi! E, come si suol dire, non tutti i mali vengono per nuocere. Soprattutto per chi investe.

Meno per i percettori di salari, soprattutto quelli di base, che difficilmente staranno dietro alla vera inflazione, quella del “carrello della spesa”. Ma nemmeno questa è una novità: è sempre successo che, nei momenti più delicati, chi sta peggio rischia di stare ancora peggio mentre chi sta meglio può migliorare ancora, soprattutto grazie ai mercati finanziari.

Stefano di Tommaso