LE BANCHE ITALIANE SONO CORRETTAMENTE VALUTATE?

I recenti apprezzamenti dei titoli bancari quotati hanno sostenuto non poco le borse europee, e in particolare quella italiana, dove i principali gruppi bancari pesano più che nel resto del continente. Non fosse stato per l’annuncio della tassa sugli extra-profitti bancari, l’indice FTSE relativo al comparto bancario sarebbe forse oggi intorno al massimo storico.

 

Come si può leggere qui sopra la performance dei titoli bancari italiani a un anno ha raggiunto quasi il 47%, dopo aver toccato un massimo ancora maggiore a fine Luglio. Anzi: insieme ai titoli tecnologici sono stati i più levereggiati dalla situazione che si è creata a seguito del rialzo dei tassi. Il punto però è comprendere se le attuali quotazioni azionarie sono da considerare ancora sostenibili. Come si può leggere nel grafico qui sotto c’è chi lo mette in dubbio:


La grande risalita dei corsi si deve senza dubbio al forte e repentino rialzo dei tassi d’interesse da parte della banca centrale europea, che ha permesso alle principali banche europee di godere di una miglior “forbice” tra tassi attivi (in rapida ascesa) e tassi passivi (in lentissima risalita). Di seguito lo storico delle recenti mosse della BCE dove si può notare la fortissima impennata dei tassi a partire dalla fine del 2022.


Dunque, se confrontiamo la forte risalita dei tassi d’interesse con l’incremento dei tassi d’interesse, sarebbe corretto affermare che non c’è proporzione e che pertanto la miglior marginalità delle banche non si sia ancora completamente riflessa sulla loro capitalizzazione di borsa.

Esistono però altre ragioni per le quali i titoli non si sono apprezzati di più, o peggio: potrebbero tornare a scendere: la scorsa settimana Jamie Dimon, grande capo di JP Morgan, mette in guardia: ulteriori “strette” regolamentari per assicurare solidità patrimoniale alle banche rischiano di allontanare ancora una volta l’appetito degli investitori. E non a caso nelle ultime ore si sono moltiplicati gli allarmi: adesso che i tassi hanno (forse) appena finito di salire, bisognerà vedere cosa accade alla clientela delle banche, società immobiliari in testa, che rischiano di vedere crollare i valori dei loro portafogli.

Jamie Dimon, CEO JP Morgan Chase

Ne sa qualcosa Société Generale, ruzzolata alla Borsa di Parigi dopo aver pubblicato un piano aziendale deludente e senza abbastanza riduzioni dei costi. In effetti i “rischi regolamentari”, insieme all’ampliamento del numero di governi europei intenzionati a mettere uno stop agli extra-profitti bancari derivanti dalla scarsa concorrenza di cui beneficia il settore costituiscono una minaccia per la tenuta nel tempo dei margini che oggi le banche stanno accumulando.


Tutto però dipenderà, ancora una volta, dall’inflazione, che rischia di tornare a guastare i sonni dei banchieri centrali con il rialzo (che non sembra arrestarsi) del costo delle materie prime energetiche (petrolio in primis). Se l’inflazione costringerà le banche centrali ad ulteriori “strette” le banche potrebbero incocciare con nuove perdite in conto capitale sul valore dei titoli obbligazionari in portafoglio, e, indirettamente, sul rischio di nuove minusvalenze sul valore attuale dei crediti erogati. Ragione per cui c’è da attendersi, per i titoli del comparto bancario, anche una maggior volatilità rispetto al passato.

Un recente articolo di Wolf Street denuncia il picco cui sono arrivate le minusvalenze non contabilizzate sui titoli detenuti dalle banche americane (fonte: FED): 558 miliardi di dollari!


Ora, è lecito chiedersi, se i rialzi dei tassi operati dalla banca centrale americana (FED) appaiono in linea con quelli della banca centrale europea (BCE), anche in Europa esistono probabilmente ampie minusvalenze su titoli che le banche non hanno ancora dichiarato! Il punto è che le banche spesso detengono titoli a reddito fisso, e che negli ultimi anni il loro ammontare si è moltiplicato per tre.

L’ammontare dei titoli detenuti dalle banche americane

Tuttavia occorre notare che le banche italiane sono state storicamente sottovalutate dal mercato borsistico! Ancora oggi, alla luce dei recenti rialzi (abbiamo visto sopra: +47% nell’ultimo anno), il rapporto tra il valore di capitalizzazione espresso dalla Borsa e quello del patrimonio netto contabile per molte grandi banche risulta decisamente penalizzato, come si può vedere da questa tabella:

IL RAPPORTO CAPITALIZZ.DI MERCATO/PATRIMONIO NETTO DELLE PRINCIPALI BANCHE ITALIANE (FONTE: FACTSET)

Morale? La corsa dei titoli bancari (almeno in Italia) non è ancora arrivata al capolinea, anzi!

Per il nostro listino di Milano sono l’equivalente delle Big Tech americane! E per di più ancora oggi decisamente sottovalutate.

 

Stefano di Tommaso




DIVERGENZA (INFLAZIONE E BORSE SU, TASSI E PIL GIÙ)

La divergenza tra l’andamento dell’economia e quello dei mercati finanziari non è mai stata una novità, ma stavolta rischiamo di fare il record: l’anno 2023 è stato sinora ottimo per le borse (anche quelle europee) e pessimo per lo sviluppo economico (soprattutto quello europeo). Ma c’è il rischio che le due tendenze contrapposte proseguano verso ulteriori divergenze. Anche perché il rialzo dei tassi d’interesse (che a casa nostra ha sostenuto le banche, grandi protagoniste del listino alla Borsa di Milano) avrà effetti per lo sviluppo economico soprattutto nei prossimi mesi. Mentre l’attesa per un ritorno alla relativa normalità dei tassi d’interesse può tenere alte le quotazioni di borse e titoli a reddito fisso. E questo nonostante un’attesa di peggioramento della corsa dei prezzi, soprattutto a causa del costo dell’energia.

 

L’INFLAZIONE E’ IN RITIRATA?

La domanda è molto semplice ma la risposta è tutt’altro che scontata: se guardiamo al presente sì, l’inflazione sembra in ritirata, soprattutto negli USA, dove il mercato del lavoro è più elastico, la concorrenza più pressante, la tecnologia più avanzata e dunque i prezzi sono difficilmente manipolabili dagli oligopoli che invece imperversano in Europa. In America le ultime rilevazioni danno l’inflazione tendenziale quasi a zero, sebbene la rilevazione anno-su-anno resti ancora oltre il 3%.


Ma nemmeno negli USA ci credono troppo: una serie di fattori fanno temere che possa esserci una recrudescenza dell’inflazione, dovuta principalmente a due fattori: i tassi d’interesse non proprio a buon mercato provocano una serie di rialzi dei costi finanziari che inevitabilmente si riflettono nei prezzi dei beni di consumo. I mercati finanziari (in particolare nella zona Euro) non possono che prenderne atto.


MA IL PETROLIO È IN CRESCITA

Poi c’è il prezzo del petrolio in decisa risalita, il quale notoriamente comanda una filiera lunghissima di derivati e trascina con sé al rialzo il costo dell’energia. Senza considerare poi la “transizione verde”, anch’essa un fattore di stimolo al rialzo dei prezzi che per il prossimo anno è possibile che rimanga relativamente silenziosa, dal momento che, con le elezioni presidenziali in arrivo, cercheranno di non nominarla troppe volte.

ANDAMENTO DEL PREZZO DEL PETROLIO BRENT

A tenere su le quotazioni dell’oro nero non ci pensa soltanto l’OPEC (l’organizzazione dei paesi esportatori di petrolio) con i suoi tagli programmati all’estrazione, cui sin’ora ha fatto da contraltare l’aumento della produzione da parte dei paesi non-Opec. Sono soprattutto le economie asiatiche che marciano su un ritmo di crescita economica media reale di quasi il 5% annuo a incrementare la domanda di petrolio.

PETROLIO: CHI NE CHIEDE DI PIÙ

MA IN EUROPA E’ DIVERSO

In Europa tuttavia non c’è soltanto il rialzo dei tassi d’interesse a guastare i sonni agli imprenditori, ai dirigenti e ai governanti, non c’è solo il costo dell’energia (a casa nostra è principalmente quello del gas) che è molto più fuori controllo di quello americano, anche perché la produciamo con materie prime importate e non c’è soltanto la transizione verde a imporre costi aggiuntivi a molti fattori di produzione. C’è anche il super Dollaro (divisa in cui comperiamo la quasi totalità delle nostre importazioni) a rovinare i budget di spesa, che scarica dall’America al resto del mondo una parte degli incrementi dei prezzi, e c’è una rovinosa gestione dell’Unione stessa a mettere gli stati membri l’uno contro l’altro, evitando una collaborazione che aiuterebbe a trovare efficienza.

IL “DOLLAR INDEX” (FORZA RELATIVA DEL BIGLIETTO VERDE) E’ IN ASCESA

Nel grafico che segue si può notare che l’ultimo aggiornamento relativo alle previsioni di sviluppo economico nell’Unione Europea è al ribasso. Ma se guardiamo bene con ogni probabilità queste previsioni saranno ancora da rivedere all’ingiù, dal momento che continuano a prospettare una crescita per l’anno in corso e per quello a venire che saranno tutte da verificare!

 

Che l’inflazione a casa nostra tenda a zero è dunque un sogno destinato a non avverarsi presto. Anzi: c’è il rischio opposto! Quello che si rivedano nuove fiammate. In fondo in Italia l’inflazione del “carrello della spesa” che evidentemente rappresenta una componente sostanziale dell’inflazione totale per le famiglie meno abbienti, non è mai scesa sostanzialmente sotto al 10%. E la cosa non è dovuta soltanto ai rialzi dei tassi, delle materie prime (spesso in Dollari) e dei costi dell’energia, ma anche al fatto che molte imprese che producono alimentari, bevande e accessori per la casa sono riuscite molto bene a trasferire sui consumatori i rialzi dei costi, migliorando addirittura i loro margini a causa di una limitata pressione competitiva.


La parte meridionale dell’Europa si confronta poi con un dilemma nel dilemma: quello dei conti pubblici. L’ambizione tedesca di reinstaurare una politica di controllo dei deficit pubblici potrebbe costringere il nostro governo a ridurre la spesa e ad aumentare ulteriormente la pressione fiscale (siamo al record storico e geografico al riguardo, cioè non c’è mai stato uno stato che ha tassato di più i propri sudditi). Il rischio è quello di incorrere in un vero e proprio scontro con il resto dell’Unione, fermamente decisa a reinstaurare il patto di stabilità.


IL COMMERCIO INTERNAZIONALE PUÒ SCENDERE ANCORA

C’è dunque da attendersi dalle nostre parti un mix di inflazione che continua a mordere e recessione che rischia di aggravarsi, e tutto questo mentre il mondo torna a dividersi tra Oriente e Occidente come non si vedeva dai tempi della guerra fredda, con il rischio cioè di veder ridurre il flusso delle esportazioni di manufatti nazionali che è da decenni l’unica vera colonna dell’economia nazionale.

LE ESPORTAZIONI ITALIANE NEL 2022

 

I MERCATI RESTANO OTTIMISTI

Ironicamente tuttavia le prospettive di ”stagflazione” (cioè stagnazione più inflazione) appena citate potrebbero non intaccare la fiducia dei mercati finanziari, i quali sono innanzitutto globalizzati e dunque fortemente dipendenti da ciò che accade oltre oceano, ma sono anche tutto sommato felici di vedere prospettive più concrete di uno stop al rialzo dei tassi d’interesse, che sta divenendo sempre più probabile. Anzi: c’è chi inizia a scommettere in nuovi ribassi dei tassi all’inizio del prossimo anno. Cosa che darebbe tono alle Borse e, soprattutto, ai prezzi dei titoli a reddito fisso.


La Banca Centrale Europea dal canto suo ha parlato chiaro: se lo scenario non cambierà significativamente quello appena decretato sarà l’ultimo aumento dei tassi d’interesse, peraltro in assoluto un punto percentuale in meno rispetto a quelli americani (4% contro 5%). E il motivo non sarà l’inflazione, circa la quale nessuno si aspetta davvero un miracolo. Il vero motivo sembra essere invece il disastroso stato dell’economia reale, che rischia di rovinare le prospettive di percepire un sufficiente gettito fiscale per gli stati ultra indebitati di tutta Europa. D’altra parte i rialzi dei tassi d’interesse non soltanto in Europa sembrano incidere molto meno sui prezzi al consumo a causa della minor esuberanza dell’economia, ma sono anche cresciuti così velocemente come non si vedeva da alcuni decenni in precedenza che una pausa ci sta bene di sicuro!


Un altro motivo di possibile attesa di riduzione dei tassi d’interesse sarà ovviamente la necessità di tamponare il problema endemico che essi si portano dietro: il rialzo del costo dei debiti pubblici, i quali sono più alti che mai. Spesso infatti si fanno paragoni con l’inflazione degli anni ‘70 (cioè mezzo secolo fa), ma c’è una differenza sostanziale: all’epoca i debiti pubblici erano ben poca cosa e l’economia era molto meno “finanziarizzata” di quanto lo sia effettivamente oggi. Le banche centrali ne sono ben consce e non possono far finta di niente troppo a lungo perché il risultato può essere l’insostenibilità del costo dei debiti pubblici.

BORSE SÙ, ECONOMIA GIÙ E INFLAZIONE CHE NON SCENDE

Dunque c’è una certa probabilità di vedere, accanto ad un’economia reale in seria difficoltà (soprattutto in Europa, dove promette assai meno bene che negli States) e alla minaccia di sperimentare nuove fiammate inflazionistiche, i mercati finanziari che invece potranno restare piuttosto esuberanti ancora fino a tutto l’anno in corso, tanto per l’attesa positiva sui tassi d’interesse quanto per il traino americano dove, accanto alle grandi performances delle grandi multinazionali della tecnologia, ci si aspetta una ripresa di margini e sviluppo anche per molte altre grandi aziende che fino ad oggi non hanno praticamente giovato dei rialzi dei listini borsistici.

Altro grande protagonista dei mercati, se il ribasso prossimo venturo dei tassi d’interesse sarà conclamato, può essere l’oro, le cui quotazioni sono già cresciute, ma che ancora subiscono la forte concorrenza della remunerazione della liquidità (mentre è noto che l’oro non ha cedola). Sinché dunque il mercato finanziario resterà ottimista sull’inflazione e i tassi d’interesse rimarranno alti, i tassi reali positivi manterranno compressa la quotazione del metallo giallo. Ma se lo scenario dovesse invertirsi ecco che le sue quotazioni potrebbero compiere un gran balzo!

D’altra parte la divaricazione tra l’economia reale e quella di carta non è certo una novità: vuoi per il fatto che le lancette degli orologi dei mercati finanziari corrono parecchio avanti a quelle dei cronometri dell’economia reale, vuoi per la forte dipendenza dalle banche centrali e dai tassi d’interesse che queste manovrano. Nessuno stupore quindi! E, come si suol dire, non tutti i mali vengono per nuocere. Soprattutto per chi investe.

Meno per i percettori di salari, soprattutto quelli di base, che difficilmente staranno dietro alla vera inflazione, quella del “carrello della spesa”. Ma nemmeno questa è una novità: è sempre successo che, nei momenti più delicati, chi sta peggio rischia di stare ancora peggio mentre chi sta meglio può migliorare ancora, soprattutto grazie ai mercati finanziari.

Stefano di Tommaso




APPUNTI DI TRADING

N. 43 – sabato 16 settembre 2023

Operazioni in essere :

comperato merc. 6.9 un DIC MINI SILVER a 23,50 con stop loss a 22,30


GOLD OTT 23

Registra movimenti molto contenuti, che rendono impossibile guadagnare.

Segnalo un ciclo che pone due minimi evidenti ( 1893 cash e 1885 cash ) a 8 e 16 settimane dal top di 2060.

Il livello di 1885 quindi rappresenta un doppio minimo decrescente e la eventuale rottura potrebbe dare una discesa di rilievo, primo ostacolo circa 1800.

Sul lato opposto, richiamo ancora una volta l’attenzione sul fatto che attribuirei importanza alla eventuale chiusura di un qualsiasi mese sopra 1998 ( rammento che si tratta del top di aprile 2022, di notevole rilievo ciclico )

Nel caso si verificasse, potremmo assistere allo sfondamento del triplo massimo, con accelerazione difficile da stimare.


SILVER DIC 23

Un lettore, che mi conosce per la mia professione, mi ha espresso il suo entusiasmo nei confronti di SILVER, chiedendo se si possa dare più spazio a questo Mercato.

Purtroppo no.

Rammento che scrissi : “Ha dato un utile enorme in un lampo, ma le svolte sono violente, poco adatte ad una Lettera che deve durare tutta la settimana e che si è data un profilo di rischio contenuto. Grande profitto, ma presenterà il conto”.

Resto positivo su SILVER, al punto che da lunedì 18.9 inserirò il seguente ordine:

compero un DIC MINI SILVER a 22,80 con stop loss a 22,30 per entrambi i DIC MINI SILVER

Evidenzio che potrebbe crearsi un triplo minimo circa a 22,00 cash che, come detto spesso, costituirebbe una figura grafica molto forte.

La eventuale, non creduta, rottura di 22,00 cash – oltre a rappresentare lo stop loss per le posizioni rialziste – forse meriterebbe uno short, ma non ho fretta.

Evidenzio che nella settimana 52 dal vistoso minimo di 17,56 SILVER ha segnato un top ed è sceso in modo evidente.

Si tratta di un ciclo da osservare, anche nel caso di successiva rottura al rialzo del livello di 25,01 cash. La rottura, oggi prematura, potrebbe dare una accelerazione verso l’alto, anche oltre il top di 26,13.


DOW JONES INDU CASH

Ormai dal 14 agosto non riesce a toccare la trend line che avevo tracciato dal 13 ott 2022.

Appare debole rispetto al NAS 100

L’eventuale rottura del minimo di agosto potrebbe già essere un detonatore per il ribasso, ma mi sembra presto; gradirei che trascorresse un anno dal 13 ott 2022 e manca veramente poco.

Una discesa prima di allora sarebbe poco maneggevole per la Lettera.

NASDAQ 100 CASH

NAS 100 cash incontra ostacolo a 15600 ormai da 8 settimane.

L’ostacolo di 15600, formatosi in gennaio del 2022, era stato indicato nel grafico allegato sin dalla N. 32 di sabato 27 maggio 2023, quando NAS 100 non aveva superato 14300.

Quel prezzo ha tenuto sino ad ora, con eccessi di pochi gg.

Comincio a ritenere possibile che NAS 100 romperà questo livello al rialzo, poi dovrò stare molto attento a possibili, violenti, reversal.

Sto valutando un acquisto a circa 15000 cash ( 15200 dic fut ), ma non ora.

Segnalo infine che, non solo NAS 100 cash stenta a oltrepassare 15600, ma abbiamo un doppio inside settimanale e questo potrebbe rappresentare una grande incertezza con successiva accelerazione; devo capire da quale parte.

 

Leonardo Bodini

 

 




CICLO ECONOMICO: DOVE SIAMO?

Cosa succederà nelle prossime settimane alle principali variabili macroeconomiche? Come influenzeranno il nostro reddito, i nostri affari, la nostra sicurezza? Le risposte a queste domande stanno sicuramente nella “congiuntura” che – essendo difficile- va meticolosamente analizzata, ma spesso tendono ad essere prevedibili sulla base dei cosiddetti cicli economici, che pur con una tempistica assolutamente difficile da prevedere, rispondono più o meno sempre alla sinusoide mostrata nell’immagine di copertina. Ne discendono due possibili scenari…

 

MOLTE VARIABILI SI COMPORTANO IN FUNZIONE DEL CICLO

In funzione del punto in cui ci si trova nell’andamento della sinusoide del ciclo economico (all’inizio di una recessione, alla sua fine, ovvero al culmine di un’espansione o ancora nella fase declinante della medesima) molte variabili tendono a comportarsi di conseguenza, perché parallelamente a ciascuna di queste fasi è probabile che si sviluppi una deflazione (cioè uno sgonfiamento) dei prezzi, ovvero un’inflazione dei medesimi (cioè un loro rigonfiamento che comporta la svalutazione della divisa monetaria) o ancora un periodo di stagnazione nel corso del quale c’è tuttavia ancora inflazione.

E se arriva l’inflazione dei prezzi allora i beni reali e le materie prime rincareranno e conviene accumularle (ivi compresi i metalli preziosi e i beni d’investimento come gli immobili ad esempio), mentre se si approssima un periodo di deflazione essi (in termini relativi alle altre variabili) scenderanno di valore. Gli immobili tenderanno a svalutarsi perché ci sarà più offerta che domanda e le materie prime saranno più a buon mercato.

In funzione del punto del ciclo economico in cui ci si trova possono quindi convenire gli investimenti in titoli a reddito fisso, che si rivalutano quando i tassi d’interesse scendono, o quelli azionari, che rappresentano quote di possesso di attività reali (quelle delle aziende), molto spesso preferibili alle obbligazioni in caso di rialzi dei tassi d’interesse.


A CHE PUNTO CI TROVIAMO?

Come si vede, i cicli economici esistono ed esisteranno sempre, anche se non è mai facile comprendere in quale fase dei medesimi ci si trova perché molte variabili possono congiurare per allungarli o accorciarli (ad esempio l’eccezionale stop all’economia e la conseguente ripresa della medesima conseguenti alla pandemia hanno stravolto la normalità dei cicli economici disturbandone -ma non annullandone- l’andamento). Di conseguenza la domanda “a che punto ci troviamo” non è così teorica come può sembrare: le conseguenze pratiche di ciascuna fase del ciclo economico possono essere importanti e prevedibili.

Secondo molti osservatori il ciclo economico che si è sviluppato negli ultimi anni, dopo la grande recessione che ha colpito l’Occidente a partire dal 2009, è durato straordinariamente più del previsto e ha comportato una lunga fase di crescita conseguente ad una profondissima crisi in cui eravamo caduti, per poi sviluppare -dopo l’espansione- una fase inflazionistica che non è ancora affatto detto si sia esaurita. Se così fosse il ciclo, vecchio oramai di quattordici anni, potrebbe trovarsi in una delle sue ultime due fasi, qualora il periodo di reflazione dei prezzi si fosse esaurito in soli due anni.

Il punto è che l’economia delle varie regioni del mondo, per certi versi sempre più interdipendenti, risulta questa volta particolarmente ”sfasata” tra le une e le altre. Dunque non è facile parlare di un unico ciclo economico ma dobbiamo necessariamente riferirci a quello dell’Occidente. E pure in tal caso occorre osservare che l’economia dell’Eurozona si sta comportando piuttosto diversamente da quella americana, seppur con molte similitudini con l’economia britannica. E quando la crescita (o la decrescita) non sono sincronizzate le borse tendono ad una certa sfiducia.


DUE SCENARI POSSIBILI

Dunque potremmo trovarci nel caso in cui il ciclo economico volga già verso una fase finale, dunque di stagnazione, sia pur condita ancora da inflazione, prima di riabbracciare la crescita, ma potrebbe invece essere il caso che, dopo uno sviluppo così lungo della fase precedente di espansione, il periodo di reflazione dei prezzi arrivi anch’esso durare ben più a lungo del paio d’anni che abbiamo già sperimentato e che in tal caso il periodo di crescita economica, seppure inflazionistica, non sia affatto esaurito. Ci troveremmo allora oggi soltanto nella fase 4 del nostro ciclo economico, cioè poco oltre l’inizio della seconda metà dell’intero ciclo economico.

In tal caso saremmo in una fase che è ancora probabilmente di una qualche crescita economica, ma in cui i prezzi potrebbero continuare a salire più che proporzionalmente, e non per poco tempo. Se infatti le tre fasi precedenti (sia pur comprendendo i due-tre anni di disturbo del Covid) sono durate dodici anni, quelle successive potrebbero durarne quasi una decina. Cioè sia pure iniziando a contare dalla fine del 2021, per arrivare alla fase di deflazione si dovrebbe aspettare ancora a lungo e per giungere alla fine del ciclo si arriverebbe addirittura al 2030 o oltre.


IN UNO DEGLI SCENARI L’INFLAZIONE POTREBBE CONTINUARE

In effetti Larry Summers (uno dei maggiori economisti viventi, tra l’altro ex rettore della Harvard University ed ex consigliere economico del governo americano) fa notare in un suo Twit che ha fatto il giro del mondo, che negli anni’70 la fase inflazionistica si era sviluppata per ondate successive e che dunque quella che abbiamo vissuto (e che sembra volgere alla sua conclusione) potrebbe corrispondere solo alla prima di una serie di due-tre ondate. Si tratta di un grafico che io ho già pubblicato la settimana scorsa ma che qui ripropongo perché deve far riflettere: l’andamento dell’indice dei prezzi al consumo (CPI) nel periodo 1966-1975 è stato finora praticamente speculare a quello del periodo 2013-2023:


Perciò, se il calcolo spannometrico che ho proposto più sopra circa la durata dell’attuale ciclo economico fosse realistico, ci aspetterebbe ancora un buon lustro di inflazione (cioè di svalutazione), addirittura con punte superiori a quelle raggiunte lo scorso anno.

Proviamo di conseguenza ad osservare cosa succederebbe in entrambi gli scenari economici. Cioè quello -che chiameremo scenario di base- in cui ci troveremmo alla fine della fase 5 del grafico di copertina oppure quello -che chiameremo scenario estremo- in cui (come scrive Larry Summers) ci troveremmo ancora in piena fase 4:


A: SCENARIO DI BASE

Laddove ci trovassimo alla fine del periodo di inflazione sarebbe relativamente normale sperimentare una coda di quest’ultima, sia pur in presenza di un cospicuo rallentamento dell’economia, cioè di una fase in cui la crescita del prodotto interno lordo delle principali nazioni si sta interrompendo. E’ ciò che gli economisti chiamano “deflazione”, in cui i prezzi delle materie prime scendono perché la loro domanda si indebolisce in funzione del calo del reddito disponibile per i consumi.

In effetti In tale scenario l’inflazione ha eroso una parte del potere d’acquisto di salari e stipendi, che però fanno fatica ad adeguarsi ai prezzi accresciuti perché intervengono licenziamenti e tagli dei costi, necessari per far fronte al calo dei consumi. Sarebbe una fase in cui anche i prezzi degli immobili volgeranno al ribasso per il medesimo motivo: il calo della capacità di reddito media e l’offerta che eccede la domanda.

E’ ancora una fase in cui l’investimento azionario continua a convenire (ma sempre meno) rispetto a quello in titoli a reddito fisso, che assicurano una cedola (a differenza dei titoli azionari, i quali pagano dividendi soltanto se ci sono abbastanza profitti e questi non devono essere tutti reinvestiti nelle innovazioni). I titoli a reddito fisso potrebbero addirittura rivalutarsi in un prossimo futuro in cui i tassi scenderanno, ma evidentemente deve essersi verificata prima la condizione che le banche centrali abbiano finito la stretta antinflazionistica che riduce la liquidità (cosa tutt’altro che scontata al momento attuale). Viceversa il valore capitale delle obbligazioni scenderebbe per adeguarsi ad ulteriori crescite dei tassi d’interesse.


B: SCENARIO ESTREMO

E’ quello in cui l’ampia durata del ciclo economico comporterebbe una fase inflazionistica finale tutt’altro che esaurita. Laddove infatti ci fossero nuovi rincari del costo delle materie prime (e ad esempio al momento attuale stiamo sperimentando un rincaro dei costi energetici) l’inflazione potrebbe riservarci nuove sorprese, soprattutto se l’economia occidentale non avesse smesso di crescere (e in effetti l’economia americana marcia ancora al ritmo del +2,5% al netto dell’inflazione quest’anno).

In tal caso l’investimento azionario sarebbe ancora relativamente conveniente (soprattutto per gli investimenti in tecnologia e per le “cash cow” cioè per le imprese capaci di produrre generosi dividendi) e invece l’investimento obbligazionario riserverebbe di nuovo brutte sorprese.

In realtà i tassi a lungo termine (che sono quelli di riferimento per i titoli di stato e obbligazionari) potrebbero continuare a salire di livello anche per un altro motivo: la legge della domanda e dell’offerta. Se l’offerta di titoli a reddito fisso (cioè la ricerca di finanziamenti) dovesse continuare a superare la domanda (cioè l’ammontare dell’investimento complessivo nei medesimi titoli) ecco allora che il valore in conto capitale scenderebbe, e i tassi relativi si accrescerebbero. Ora, poiché il debito pubblico dell’intero Occidente continua ad aumentare e le banche centrali continuano con la stretta monetaria, è chiaro che il rischio che ciò accada è piuttosto concreto.


CONCLUSIONI

E’ relativamente probabile che l’inflazione non abbia ancora finito di mordere, quantomeno per i problemi geopolitici che a loro volta tengono alto il prezzo dell’energia (in primis petrolio e gas). Che questa situazione danneggi l’Europa è assolutamente evidente, mentre per l’economia americana, esportatrice netta tanto di tecnologie quanto di energia, la situazione e più complessa da analizzare.

Difficile spingersi oltre, se non per riassumere tutte le indicazioni emerse con un invito maggiore del solito all’investimento mobiliare.

In Italia peraltro fanno eccezione le PMI che si quotano in borsa, tanto per le basse valutazioni che il mercato riserva loro e che possono far sperare in apprezzamenti successivi dei titoli, quanto per l’indubbia selezione che il mercato è costretto a fare tra le migliori aziende per poterle accettare al listino di borsa. I titoli obbligazionari restano invece decisamente speculativi, soprattutto in questa fase e sino a quando l’Unione Europea non avrà fatto qualche altro passo avanti verso un effettivo consolidamento.

 

Stefano di Tommaso