L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE MUOVE LE BORSE

IL “CASUS BELLI “ : META PLATFORMS

È stata la miracolosa ripresa delle quotazioni di Meta a WALL Street. Dopo essere sceso da 360 dollari a 80, venerdì è tornato a superare i 240. Il titolo è sugli scudi non soltanto per i risultati positivi della trimestrale, ma anche e soprattutto a causa dei cospicui investimenti nel settore dell’intelligenza artificiale che non soltanto li hanno consentiti nonostante una cospicua riduzione del personale, ma promettono anche ulteriori avanzamenti.

LE “BIG TECH” GUIDANO IL LISTINO AMERICANO

Con differenti sfumature la stessa narrazione riguarda sostanzialmente anche tutti gli altri principali titoli quotati delle grandi multinazionali della tecnologia. Responsabili del 53% dell’apprezzamento del listino americano dall’inizio dell’anno ad oggi (+8%) sono infatti soltanto sei società: Microsoft Alphabet (Google), Amazon, Meta Platforms (Facebook, Instagram e Whatsapp), Nvidia e Salesforce. E le prime dieci società (per capitalizzazione) quotate a Wall Street non sono mai state così preponderanti sull’andamento dell’indice Standar/Poor’s 500. Si calcola che i soli investimenti in ”chatbot” (robot che rispondono al telefono a ogni genere di domanda) abbiano incrementato il valore di capitalizzazione della borsa americana di quasi un miliardo e mezzo di Dollari nei primi quattro mesi di quest’anno.

Ma soprattutto le grandi imprese multinazionali sono state quasi le uniche a rivalutarsi, mentre il resto delle imprese quotate (che comunque a Wall Street non sono mai troppo piccole) si è addirittura svalutato per via del rallentamento dell’economia reale.

 

 

LA RAGIONE? LE PROSPETTIVE DI PROFITTO

A fare la differenza però non sono soltanto le preferenze degli investitori verso i grandi gruppi della tecnologia, e nemmeno le forti razionalizzazioni di costo che queste società hanno avviato negli ultimi mesi (anticipando quasi tutti gli altri settori industriali, tanto nelle spese generali quanto nella riduzione del personale), bensì le prospettive di profitto (e di minor necessità di manodopera specializzata) che derivano dall’impiego estensivo dei nuovi strumenti di intelligenza artificiale. Una tecnologia che ovviamente ha molte più probabilità di essere impiegata dalle Big Tech come NVIDIA (giunta a quasi 650 miliardi di Dollari di capitalizzazione di Borsa) o ALPHABET che non dalle altre grandi quotate.

Nonostante dunque l’America si avvii verso una probabile recessione o quantomeno verso una forte frenata dello sviluppo economico, sui mercati finanziari imperversa già la febbre da intelligenza artificiale, con l’aspettativa di ulteriori apprezzamenti per i gruppi economici che prima degli altri riusciranno a stabilire una leadership.

UN CAMBIO DI PARADIGMA


L’intelligenza artificiale (AI) peraltro -non soltanto appare destinata a cambiare il mondo- ma è essa stessa un mondo tutto nuovo e ancora da scoprire, dal momento che sta iniziando a diventare chiaro sia che si tratta di una tecnologia ancora ai primordi (e dunque suscettibile di un enorme sviluppo, man mano che viene affinata) sia anche che potrà presto essere applicata in qualsiasi campo, dalle armi intelligenti alla guida autonoma, alla gestione della produzione industriale, ai servizi domestici, alla sanità, ai servizi avanzati, fino all’ingegneria, all’alta finanza e alla consulenza. Praticamente non ci sarà alcun settore che non verrà rivoluzionato dai chip che divengono capaci di apprendere e di conseguenza di reagire autonomamente agli stimoli che vengono loro posti. Si inizia anche a parlare di AI nel mondo dello spettacolo, delle arti figurative e della cucina.


La corsa all’oro che sta per partire dunque non soltanto rivoluzionerà le nostre abitudini e renderà obsoleto praticamente qualsiasi strumento di cui disponiamo, ma sta già determinando importanti scelte da parte degli investitori i quali sono tornati a privilegiare i giganti della tecnologia a scapito delle industrie più tradizionali, soprattutto quei giganti che risultano in migliore posizione per poterne trarre profitto. Ad esempio coloro che hanno sviluppato le soluzioni informatiche migliori, o i produttori di microchip di ultima generazione o ancora i produttori di autoveicoli che riusciranno per primi a beneficiare del cambiamento di paradigma dell’industria.

LE RICADUTE MACROECONOMICHE

Guardando in prospettiva ciò che sta per succedere si potrebbe sperare in una nuova fase della crescita di benessere per l’umanità, dal momento che lo sviluppo di nuovi prodotti, servizi e soluzioni basate sull’intelligenza delle macchine dovrebbe provocare ingenti investimenti, dunque nuovo sviluppo economico e nuova occupazione. È successo nei primi anni del nuovo millennio, con l’avvento della digitalizzazione, peraltro tutt’ora in corso. È successo, in minor misura, anche con il lancio della cosiddetta “transizione ecologica” e lo sviluppo dei titoli che potevano vantare caratteristiche “ESG” (Environment, Social, Governance). Può succedere dunque anche con la diffusione di prodotti e servizi collegati a sistemi di intelligenza artificiale. Anzi: è proprio questo che accende la fantasia degli investitori!


Ma la festa potrebbe risultare assai poco amena sin dal suo inizio se le cose andranno come si può vedere al momento: per ora infatti chi ne sta beneficiando sono quasi esclusivamente i grandi conglomerati globali, i loro grandi azionisti e i detentori delle tecnologie più avanzate. Addirittura a spese della maggior parte delle attività tradizionali. Senza contare inoltre il fatto che la situazione di grande disordine geopolitico globale potrebbe confiscare le tecnologie più avanzate a servizio del loro impiego militare, negli armamenti o nei sistemi di spionaggio. Resta da considerare inoltre la più bassa attrattiva degli investimenti necessari in un regime di tassi d’interesse elevati e di rischi di recessione.

OGGI L’A.I. E’ “CAPITAL INTENSIVE”

Perché l’avvento di questa nuova tecnologia possa generare benessere diffuso inoltre sarà necessario che essa sia resa accessibile ai più, alle startup, ai giovani e alle imprese tradizionali, che in tal modo potranno modernizzarsi, in definitiva a tutti coloro che potranno farne uso per sviluppare nuovi prodotti e servizi. La qual cosa non è così semplice poiché al momento, per sviluppare sistemi di intelligenza artificiale o anche soltanto per adattarli ad esigenze specifiche, occorrono fortissimi investimenti, alla portata dunque di pochi grandi operatori.

I RISCHI DI CREARE DISTOPIE

Qualcuno fa anche osservare i giganteschi rischi che possono celarsi dietro il passaggio delle comunità umane ad un’automazione sempre più spinta di ogni genere di attività materiali e commerciali. Attività che prima venivano svolte dall’uomo e che oggi rischiano di svolgersi perdendo completamente di vista gli aspetti soggettivi, psicologici e umanitari. Generando dunque indirettamente malessere a vantaggio del controllo dei costi e del monopolio di fatto di numerosi settori.

Soprattutto nei primi tempi: sin tanto infatti che la tecnologia non farà un nuovo grande passo in avanti per tenere conto di tutti quegli aspetti umani (oltre cioè la pura e immediata convenienza) che oggi non sono ancora contemplati nei software che sviluppano ragionamenti induttivi quasi esclusivamente nell’ambito dell’elaborazione di vaste serie di dati statistici. Nell’ambito dei rapporti bancari, ad esempio, dove il digital banking è già oggi divenuto prevalente nelle attività creditizie ed in quelle di investimento, l’assenza di considerazioni generali può generare molte incomprensioni.

MA LE BORSE CI CREDONO


Le borse mostrano di volerci credere. E ci stanno scommettendo, sia pure limitatamente ai pochi grandi operatori (quotati quasi solo a Wall Street) che ci si sono buttati e i cui titoli oggi sono i preferiti dei grandi investitori istituzionali, i quali scommettono quindi su ulteriori rialzi. Se poi anche l’economia reale ne trarrà giovamento è presto per dirlo, anche se nel medio termine è piuttosto probabile.

Stefano di Tommaso




APPUNTI DI TRADING

N.28 – sabato 29 aprile 2023

Nessuna operazione in essere

La N. 28 viene scritta dopo una lunga laterale dei prezzi delle borse U.S.A. e quindi risulterà insolitamente complessa

Aprile è stato un mese breve, con soli 19 gg di trading.

La mia ( ipotizzata ) sensibilità mi allerta per una possibile compressione dell’energia, con conseguenti accelerazioni in uscita da questa calma (apparente ?)

GOLD GIU 23

Avevo scritto :

“Il livello di 1998, corrispondente al top di aprile 2022, da possibile tetto, sembra diventato un pavimento. Uso il condizionale perché la mia analisi tecnica si basa sui prezzi di GOLD in USD, ma sarebbe ben diverso se vedessimo un grafico di GOLD in EURO.”

Forse non riesco a spiegare perché la rottura di 1998 non mi convince pienamente, ma credo sia per la grande importanza da attribuire al top di 12 mesi orsono (aprile 2022)

Ripeto infine :

“Allego un grafico mensile che evidenzia che siamo in zona triplo massimo con i precedenti di 2075 ( Covid nell’anno 2020 ) e 2070 ( Ucraina nel 2022 )

Il triplo massimo è certamente una delle più potenti figure di vendita nella analisi tecnica ed inoltre GOLD sta arrivando a questi prezzi in un clima nuvoloso, dal punto di vista della politica internazionale (guerra UCRAINA e rischi TAIWAN )

Mi limito volutamente all’analisi tecnica, non avendo capacità di previsione su questi fatti internazionali, ma osservo che GOLD sta giungendo per la terza volta in questa area di prezzo e per la terza volta ci sono gravi preoccupazioni; comprerò quindi malvolentieri la eventuale rottura di 2075.”

Ciò premesso, vorrei sfruttare il recente top di 2063 GOLD FUT GIUGNO ( 2049 GOLD CASH ) per provare a vendere, chiaramente contro il trend mensile, per finanziare un acquisto, se GOLD sarà in seguito così cortese da scendere almeno verso il 50 % della recente salita ( da 1804 a 2049 con una media di 1926,5 GOLD CASH – aggiungerò 10 punti per la scadenza giugno 2023 )

Lu 1 maggio festeggerò il Lavoro, che mi appassiona; inserirò quindi :

vendo 5 MICRO GOLD FUT GIUGNO a 2050 con stop loss a 2065

Se volessi fare una operazione da puro lettore di grafici, se GOLD FUT salirà almeno a 2025 ( top di gio 20.4 ), senza raggiungere 2050, potrei vendere in rottura di 1975 inserendo contestualmente lo stop loss sopra il top registrato fino a quell’istante nella settimana da 1 a 5 maggio. Non inserirò in tabella, in quanto difficile da incasellare in un foglio EXCEL.

DOW JONES INDU CASH

Il range disegnato dal DOW JONES nel mese di aprile, che si è chiuso ieri ven 28, è molto ridotto in termini percentuali (34104 – 33235 corrisponde al 2,61 %)

Vorrei sfruttarlo per acquistare a basso rischio; pertanto, dopo i primi 90 minuti di contrattazioni, dalle ore 17.00 ( orario Italia ) di lunedì 1.5, inserirò il seguente ordine:

Compero 1 GIUGNO MINI DOW JONES a 33800, con stop loss 33340

Forse comprerò la seconda dose in caso di rottura del top di aprile ( 34104 cash – 34300 GIU FUT ), ma questo ordine non può essere anticipato di molte sedute.

Per far capire quanto è difficile gestire una previsione valida per 5 gg di trading, senza poter intervenire, cosa che invece faccio con i miei quattrini, basti osservare quanto segue : tutto il range di aprile, da 33235 a 34104 di DJ CASH, è stato percorso tra mercoledì 26.4 e ve 28.4, realizzando un “outside rialzista” rispetto ai gg precedenti di aprile, da lu 3 a mart 25.

Un contropiede tale da stoppare l’80 – 90 % degli operatori.

Si salva solo chi accetta stop loss ampi ( e qualcuno molto fortunato, come questa Lettera )

NASDAQ 100 CASH

Confermo che NAS 100 può accelerare dopo la eventuale, probabile, rottura di 13350 FUT GIUGNO, ma ritengo che da ora si possa anche vendere con buona confidenza la eventuale rottura di 12800 FUT GIUGNO; non inserisco questo ordine, ma utilizzerò 12800 come stop loss.

Pertanto, dopo i primi 90 minuti di contrattazioni, dalle ore 17.00 ( orario Italia ) di lunedì 1.5, inserirò il seguente ordine :

Compero 1 GIUGNO MICRO NASDAQ 100 a 13380 stop, con stop loss 12800

Ritengo obbligatorio quindi usare dosi minime, da incrementare solo sulle eventuali conferme di un trend rialzista, che sembra già avviato.
Per quanto riguarda la eventuale vendita, non reputo probabile un trend ribassista che scenda al di sotto di 12200 – 12000 e quindi, in caso di discesa a 12800, stopperò in perdita l’acquisto eventualmente eseguito, ma ritengo che una vendita presenterebbe un risk reward non favorevole.

Faticosa da scrivere e, temo, anche da ben comprendere.

Leonardo Bodini


 




APPLE BANK

Apple fa il suo ingresso in grande stile nei servizi finanziari, con il supporto di un’istituzione bancaria arcinota e molto autorevole: Goldmann Sachs. E non si è limitata a fornire il suo contributo nell’innovare e integrare i sistemi di pagamento e le carte di credito, bensì ha iniziato ad offrire ai suoi clienti anche pagamenti rateali e conti correnti di risparmio, sconvolgendo in tal modo l’intero sistema finanziario per la minaccia derivante dall’ingresso di un concorrente così importante.

 

LA SCOMMESSA DI WARREN BUFFETT

Pochi giorni fa il novantaduenne Warren Buffett, in un’intervista alla CNBC aveva espresso un’opinione significativa riguardo alla Apple, società di cui la sua Berkshire Hathaway detiene una quota importante: “se sei loro cliente e ti offrono 10mila Dollari a condizione che non potrai mai più comprare un Iphone, forse non accetterai quella somma. Ma se vuoi acquistare una Ford e ti danno 10k$ per non farlo, allora è invece piuttosto probabile che la accetterai e che comprerai qualcos’altro”. Si può non essere d’accordo con lui (per noi 10mila Dollari sono infatti una bella cifra) ma fa riflettere: ci sono aziende, come la Apple che in più di un ventennio hanno sviluppato nella propria clientela un granitico rapporto di fiducia e fedeltà, difficile da scalfire. Un patrimonio di credibilità che può essere travasato anche in altri settori.

LA FIDUCIA NEL SISTEMA BANCARIO TRADIZIONALE

Al contrario il sistema bancario ha oramai eroso buona parte della fedeltà dei propri clienti: dopo quindici anni di forte instabilità (cioè a partire dalla crisi di fiducia del 2008, derivata dalla crisi dei mutui “subprime”, passando dalle nostre parti dalle crisi delle Casse di Risparmio e delle Banche Popolari, fino ad arrivare alla caduta di credibilità delle scorse settimane, seguita al fallimento di alcune importanti banche americane e all’insolvenza del Crédit Suisse). Oggi la gente (soprattutto in Europa) non si fida più nemmeno dell’assicurazione pubblica sui depositi, complice anche la direttiva sul bail-in, parola che in Italia poi evoca anche un noto termine dialettale genovese con il medesimo significato di “fregatura”!

LA FUGA DAI DEPOSITI BANCARI

Il momento per l’intero settore bancario delle principali economie occidentali è insomma particolarmente delicato, vuoi per l’ennesima “stretta” sulle normative a tutela della sua solidità (che però di fatto ne ingessano l’operatività), vuoi per l’esplicita volontà delle banche centrali di proseguire nella restrizione delle politiche monetarie per combattere l’inflazione, che rischia di generare ulteriori problemi ad un sistema bancario che ha visto, sì, incrementare la forbice dei tassi d’interesse, ma deve anche sopravvivere ad una situazione di grande restrizione della liquidità disponibile sui mercati, che ne limita fortemente la capacità di raccolta di risparmi sui conti correnti. Dallo scorso Marzo la clientela ha prelevato dai propri conti presso banche commerciali americane la bellezza di quasi un trilione di Dollari, per timore di vederli perduti!

In Europa la BCE ha appena annunciato di non voler rinnovare alle proprie banche le facilitazioni monetarie legate ai prestiti TLTRO, cosa che le costringerà ad una ulteriore stretta nell’erogazione di prestiti (e dunque ad ulteriori riduzioni nei profitti), mentre negli USA le banche di minori dimensioni stanno ancora sperando di ricevere l’ennesima erogazione di sostegno straordinario da parte della Federal Reserve, dal momento che non solo devono convivere con la gigantesca riduzione dei depositi da parte della clientela, ma non stanno neanche riuscendo a compensare le perdite accumulate nel settore immobiliare con il rialzo dei tassi d’interesse.

UN PERFETTO TEMPISMO

È in questo contesto di grande fermento e instabilità diffusa del sistema finanziario che si inserisce la mossa, geniale e assassina al tempo stesso, da parte del colosso dell’investment banking Goldman Sachs: quella di accendere una singolare “joint venture” con Apple nel settore dei servizi finanziari evoluti. Apple non è nuova a questo settore, dove aveva da tempo sviluppato tanto una propria carta di credito (Apple Card)basata sui propri telefoni cellulari nonché un importante sistema di pagamento basato su di esso (Apple Pay). Ora lo ha anche implementato con l’arrivo dei servizi di pagamento rateale (Apple Pay Later). Gli strabilianti numeri delle proprie vendite in tutto il mondo e l‘entusiastica fedeltà della propria clientela ne hanno immediatamente decretato il successo anche nel settore finanziario.

LA FIDUCIA DELLA CLIENTELA

Apple ha una presenza così globale sui mercati e gode di un elevatissimo livello di fiducia per cui non c’è da stupirsi se sta rapidamente anche trasformandosi in un’istituzione finanziaria a livello planetario, forte dei suoi 2.600 miliardi di Dollari di capitalizzazione di borsa, dei circa 160 miliardi di Dollari di liquidità corrente e, soprattutto, di una base di clientela di 1.200 milioni di utenti sparsi nei 5 continenti. Questi ultimi sembrano decisamente soddisfatti e affezionati al marchio della mela morsa, possiedono e utilizzano diverse volte al giorno il loro Iphone (anche per i pagamenti) e spesso detengono contemporaneamente anche uno o più Ipad, un personal computer MacBook eccetera.

TUTTO PASSA ORAMAI DAL TELEFONINO

Uno studio del 2016 mostrava che l’utente medio del telefonino arriva a maneggiare il suo splendido accessorio in media 2600 volte in un giorno, cioè in media oltre due volte ogni minuto in cui è sveglio. È nella memoria del telefonino che riponiamo buona parte dei nostri segreti, è il telefonino che ci aiuta a sostenere una fetta sempre più importante della nostra vita sociale e che ci aiuta sempre più ad organizzare la nostra giornata, i nostri impegni lavorativi, e sinanco i nostri svaghi e i nostri spostamenti. Era impensabile che non iniziassero a passare dal medesimo strumento anche i nostri risparmi! E il telefonino Apple risulta come quello più sicuro nel custodire tali informazioni.

LA “BANK DISRUPTION”

La ”discesa in campo” di Apple nel settore dei servizi finanziari ha dunque colto intelligentemente e cinicamente una grande occasione fornitale dalla “disruption” globale che sta vivendo il comparto delle banche. Non a caso essa ha scelto (per il momento) di non esagerare, dunque di non richiedere la licenza bancaria e di non voler strafare, anche per non attirare troppo l’attenzione delle autorità pubbliche.


Appoggiandosi all’esperienza e ai suggerimenti strategici di Goldman Sachs oggi Apple è arrivata a raccogliere anche depositi bancari su un conto di risparmio che offre la bellezza del 4,15% di interesse, cioè più della maggior parte dei fondi di mercato monetario dove avevano trasferito buona parte dei propri depositi bancari i depositanti in fuga dalle banche commerciali, terrorizzati dall’idea di perdere la titolarità dei propri risparmi.

UN TEMIBILE CONCORRENTE

E con le sue dimensioni planetarie (è ancora oggi la più grande multinazionale della terra e forse anche la più patrimonializzata) Apple si conferma tutt’a un tratto come il più temibile concorrente delle maggiori banche del globo. Già oggi i servizi ricorrenti venduti da Apple ai suoi utilizzatori generano ogni anno 55 miliardi di Dollari di profitti, cioè fa più soldi di JP Morgan e Citibank messi insieme! E la sua profonda conoscenza di molti aspetti della vita privata dei propri utenti può aiutare la casa di Cupertino a fare ancora molto di più per cavalcare l’innovazione e offrire servizi a più elevato valore aggiunto.

È proprio vero che è quando il gioco si fa duro che i duri iniziano a giocare!

Stefano di Tommaso




IL DOLLARO PERDE LA CORONA?

Da quando i paesi “non allineati” e quelli del cosiddetto gruppo dei BRICS (Brasile, Cina, India, Russia e Sud Africa) hanno iniziato a decidere di voler commerciare tra loro utilizzando altre divise valutarie invece che il Dollaro americano ci si è ovviamente posti la domanda: quanto a lungo quest’ultimo resterà la divisa di riserva valutaria globale? Ovviamente non ci sono risposte scontate e non è mai facile prevedere il futuro. Peraltro la lista dei paesi che sembrano orientati a togliere la corona reale al Dollaro si allunga con alcuni illustri detentori di riserve economiche e risorse naturali come l’Arabia Saudita (e altri paesi del Golfo tra i quali ovviamente l’Iran) e un certo numero di paesi del continente africano, dove la Cina conta molti “amici”.

 

Un altro importante argomento a favore della detronizzazione del Dollaro risiede nel fatto che nel mondo occidentale esistono diverse altre valute tra le quali la divisa unica europea, la Sterlina britannica, lo Yen Giapponese, il Dollaro canadese e quello australiano (prescindendo per un attimo dal Bitcoin e dalle altre “criptovalute” circa le quali occorre molta prudenza). Anch’esse sono sempre state considerate divise di riserva valutaria. Il Dollaro americano oggi prevale su queste ultime principalmente poiché poggia la sua supremazia sulla grande diffusione presso quasi tutti gli altri paesi emergenti e in America Latina. Ma cosa succederebbe se gradualmente non fosse più così?

IL CALO DELLE RISERVE VALUTARIE DENOMINATE IN DOLLARI

Il fatto che oggi molti di quei paesi emergenti tra i quali il Brasile (cioè l’economia più sviluppata del Sud-America) e la maggioranza dei paesi africani vogliono prendere le distanze deve far riflettere. La percentuale di riserve valutarie in Dollari americani detenute dalle banche centrali di tutto il mondo è scesa dal 55% della fine del 2021, a circa il 47% a fine 2022, secondo una nota pubblicata lo scorso 17 Aprile da Eurizon S.L.J. Asset Management. Una discesa davvero rapida della diffusione del biglietto verde, che potrebbe preconizzare anche una discesa progressiva nel cambio con le altre valute.


Gli Stati Uniti d’America hanno contato a lungo sui benefici derivanti dalla diffusione internazionale del Dollaro, per poter ampliare la loro base monetaria senza scatenare un’inflazione devastante e per poter finanziare il loro disavanzo pubblico vendendo titoli di stato ai numerosissimi privati investitori che desiderano diversificare. Ma quando il biglietto verde cesserà di essere la divisa di gran lunga più utilizzata al mondo, è probabile che quei benefici si ridurranno parecchio. È lecito chiedersi di quanto? Qualcuno prevede che il declino del biglietto verde passerà innanzitutto da una sua importante svalutazione nel cambio con le altre valute, la quale a sua volta potrebbe contribuire non poco alla riduzione della sua diffusione globale.

MA IL DOLLARO AL MOMENTO RESTA FORTE

La tendenza di fondo alla discesa del cambio del Dollaro però, oggi preconizzata sulla base della volontà politica di preferire per il commercio internazionale altre divise valutarie (come l’Euro e lo Yuan cinese) da parte dei governi di numerosi paesi emergenti, non è affatto scontata, a causa di almeno un paio di altri importanti fattori che hanno permesso alla valuta americana l’attuale supremazia, e che al momento non sono affatto scalfiti: il mercato finanziario e le nuove tecnologie, tanto civili quanto militari.


Sin tanto che cioè ci sarà una domanda di Dollari americani per poter investire sulle borse più liquide e regolamentate del mondo (quali quelle di New York e Chicago) e sin tanto che ci sarà una domanda di beni e servizi di prodotti (principalmente tecnologici) americani, a partire dagli armamenti fino ai computers e alle biotecnologie, è probabile che quest’ultimo manterrà ampia parte del suo valore. E se la domanda di Dollari prevarrà sulla sua offerta, se il resto del mondo continuerà a comperare azioni quotate a Wall Street e titoli pubblici americani, ecco che l’America potrà tranquillamente continuare a farsi finanziare dal resto del mondo.

LE MULTINAZIONALI AMERICANE FANNO PIU’ PROFITTI

Senza contare l’importante flusso di profitti e dividendi di cui godono le multinazionali americane che, rimpatriandoli, vendono sul mercato dei cambi valute le altre divise per acquistare Dollari. Le più grandi compagnie al mondo, come le più grandi banche e i più grandi colossi tecnologici sono tutt’ora americani, e, piaccia o meno, continuano a macinare profitti ben più dei loro rivali nel resto del mondo, come si può leggere nel grafico qui riportato.


Indubbiamente la probabile futura minor diffusione del Dollaro americano nei paesi emergenti ne ridurrà il peso globale a causa del fatto che per acquistare le principali risorse naturali non bisognerà più procurarsi preventivamente dei Dollari per poterle pagare. Ma di qui a considerare il biglietto verde sull’orlo di un precipizio ce ne passa. Intanto per una vischiosità intrinseca nell’utilizzo delle divise valutarie per le transazioni. Era già successo per la Sterlina britannica, la principale “valuta forte” sui mercati finanziari sino a tutta la seconda guerra mondiale, che ha gradualmente lasciato spazio al Dollaro americano sui mercati internazionali ma che, ancora oggi, quasi ottant’anni dopo, è ancora più utilizzata dello Yuan cinese nel commercio internazionale.

AL DOLLARO MANCA UN VERO RIVALE

E poi perché sul mercato è evidente l’assenza di una vera divisa rivale, capace di surclassare il Dollaro, al momento almeno. Forse un giorno questo rivale sarà lo Yuan, ma come abbiamo visto al momento è più diffusa la Sterlina e comunque casomai il vero rivale potrebbe essere l’Euro, di gran lunga più diffuso al mondo di entrambe Sterlina e Yuan, come si può leggere dal grafico qui riportato, ma difficilmente lo sarà mai, dal momento che l’Eurozona appare un’area geografica caratterizzata dalla bassa crescita.


Dunque, al di là delle dichiarazioni politiche dei paesi BRICS e dintorni, i quali si rendono conto di essere sempre più in contrapposizione con gli interessi americani e che pertanto preferiscono privilegiare altre divise valutarie per il pagamento di esportazioni e importazioni, la strada per la “de-dollarizzazione” sembra alquanto lunga, al momento. Né si vede all’orizzonte una chiara tendenza che possa suggerire l’emergere di una vera alternativa. Ciò che si può invece immaginare è, questo si, un lento declino del cambio del Dollaro, principalmente a causa di una sua minor domanda sui mercati finanziari internazionali, man mano che altre economie si rafforzano e sviluppano piazze finanziarie alternative a quella americana. La sola forza commerciale dell’economia americana infatti non sarebbe sufficiente a sostenere gli attuali livelli di cambio, una volta ridotti gli altri fattori di fora del Dollaro. Qualcuno stima una potenziale riduzione del cambio dai livelli attuali a circa il 30% in meno, nell’arco di un paio di decenni però.

MA SE SCOPPIASSE UNA GUERRA…

A meno del possibile scoppio di una nuova guerra mondiale, la quale non potrebbe che tornare a rafforzare, almeno al suo incipit, lo status del Dollaro americano quale valuta di riserva globale. Non bisogna infatti dimenticare che nell’ultimo decennio gli USA sono diventati esportatori netti non soltanto di derrate, strumenti finanziari, tecnologie ed armamenti, bensì anche di petrolio, gas, legname e molte altre “commodities”. E in caso di una grande guerra anche molte delle risorse naturali del centro e Sud America sarebbero di fatto soggette allo strapotere del Dollaro.

Stefano di Tommaso