APPLE BANK

Apple fa il suo ingresso in grande stile nei servizi finanziari, con il supporto di un’istituzione bancaria arcinota e molto autorevole: Goldmann Sachs. E non si è limitata a fornire il suo contributo nell’innovare e integrare i sistemi di pagamento e le carte di credito, bensì ha iniziato ad offrire ai suoi clienti anche pagamenti rateali e conti correnti di risparmio, sconvolgendo in tal modo l’intero sistema finanziario per la minaccia derivante dall’ingresso di un concorrente così importante.

 

LA SCOMMESSA DI WARREN BUFFETT

Pochi giorni fa il novantaduenne Warren Buffett, in un’intervista alla CNBC aveva espresso un’opinione significativa riguardo alla Apple, società di cui la sua Berkshire Hathaway detiene una quota importante: “se sei loro cliente e ti offrono 10mila Dollari a condizione che non potrai mai più comprare un Iphone, forse non accetterai quella somma. Ma se vuoi acquistare una Ford e ti danno 10k$ per non farlo, allora è invece piuttosto probabile che la accetterai e che comprerai qualcos’altro”. Si può non essere d’accordo con lui (per noi 10mila Dollari sono infatti una bella cifra) ma fa riflettere: ci sono aziende, come la Apple che in più di un ventennio hanno sviluppato nella propria clientela un granitico rapporto di fiducia e fedeltà, difficile da scalfire. Un patrimonio di credibilità che può essere travasato anche in altri settori.

LA FIDUCIA NEL SISTEMA BANCARIO TRADIZIONALE

Al contrario il sistema bancario ha oramai eroso buona parte della fedeltà dei propri clienti: dopo quindici anni di forte instabilità (cioè a partire dalla crisi di fiducia del 2008, derivata dalla crisi dei mutui “subprime”, passando dalle nostre parti dalle crisi delle Casse di Risparmio e delle Banche Popolari, fino ad arrivare alla caduta di credibilità delle scorse settimane, seguita al fallimento di alcune importanti banche americane e all’insolvenza del Crédit Suisse). Oggi la gente (soprattutto in Europa) non si fida più nemmeno dell’assicurazione pubblica sui depositi, complice anche la direttiva sul bail-in, parola che in Italia poi evoca anche un noto termine dialettale genovese con il medesimo significato di “fregatura”!

LA FUGA DAI DEPOSITI BANCARI

Il momento per l’intero settore bancario delle principali economie occidentali è insomma particolarmente delicato, vuoi per l’ennesima “stretta” sulle normative a tutela della sua solidità (che però di fatto ne ingessano l’operatività), vuoi per l’esplicita volontà delle banche centrali di proseguire nella restrizione delle politiche monetarie per combattere l’inflazione, che rischia di generare ulteriori problemi ad un sistema bancario che ha visto, sì, incrementare la forbice dei tassi d’interesse, ma deve anche sopravvivere ad una situazione di grande restrizione della liquidità disponibile sui mercati, che ne limita fortemente la capacità di raccolta di risparmi sui conti correnti. Dallo scorso Marzo la clientela ha prelevato dai propri conti presso banche commerciali americane la bellezza di quasi un trilione di Dollari, per timore di vederli perduti!

In Europa la BCE ha appena annunciato di non voler rinnovare alle proprie banche le facilitazioni monetarie legate ai prestiti TLTRO, cosa che le costringerà ad una ulteriore stretta nell’erogazione di prestiti (e dunque ad ulteriori riduzioni nei profitti), mentre negli USA le banche di minori dimensioni stanno ancora sperando di ricevere l’ennesima erogazione di sostegno straordinario da parte della Federal Reserve, dal momento che non solo devono convivere con la gigantesca riduzione dei depositi da parte della clientela, ma non stanno neanche riuscendo a compensare le perdite accumulate nel settore immobiliare con il rialzo dei tassi d’interesse.

UN PERFETTO TEMPISMO

È in questo contesto di grande fermento e instabilità diffusa del sistema finanziario che si inserisce la mossa, geniale e assassina al tempo stesso, da parte del colosso dell’investment banking Goldman Sachs: quella di accendere una singolare “joint venture” con Apple nel settore dei servizi finanziari evoluti. Apple non è nuova a questo settore, dove aveva da tempo sviluppato tanto una propria carta di credito (Apple Card)basata sui propri telefoni cellulari nonché un importante sistema di pagamento basato su di esso (Apple Pay). Ora lo ha anche implementato con l’arrivo dei servizi di pagamento rateale (Apple Pay Later). Gli strabilianti numeri delle proprie vendite in tutto il mondo e l‘entusiastica fedeltà della propria clientela ne hanno immediatamente decretato il successo anche nel settore finanziario.

LA FIDUCIA DELLA CLIENTELA

Apple ha una presenza così globale sui mercati e gode di un elevatissimo livello di fiducia per cui non c’è da stupirsi se sta rapidamente anche trasformandosi in un’istituzione finanziaria a livello planetario, forte dei suoi 2.600 miliardi di Dollari di capitalizzazione di borsa, dei circa 160 miliardi di Dollari di liquidità corrente e, soprattutto, di una base di clientela di 1.200 milioni di utenti sparsi nei 5 continenti. Questi ultimi sembrano decisamente soddisfatti e affezionati al marchio della mela morsa, possiedono e utilizzano diverse volte al giorno il loro Iphone (anche per i pagamenti) e spesso detengono contemporaneamente anche uno o più Ipad, un personal computer MacBook eccetera.

TUTTO PASSA ORAMAI DAL TELEFONINO

Uno studio del 2016 mostrava che l’utente medio del telefonino arriva a maneggiare il suo splendido accessorio in media 2600 volte in un giorno, cioè in media oltre due volte ogni minuto in cui è sveglio. È nella memoria del telefonino che riponiamo buona parte dei nostri segreti, è il telefonino che ci aiuta a sostenere una fetta sempre più importante della nostra vita sociale e che ci aiuta sempre più ad organizzare la nostra giornata, i nostri impegni lavorativi, e sinanco i nostri svaghi e i nostri spostamenti. Era impensabile che non iniziassero a passare dal medesimo strumento anche i nostri risparmi! E il telefonino Apple risulta come quello più sicuro nel custodire tali informazioni.

LA “BANK DISRUPTION”

La ”discesa in campo” di Apple nel settore dei servizi finanziari ha dunque colto intelligentemente e cinicamente una grande occasione fornitale dalla “disruption” globale che sta vivendo il comparto delle banche. Non a caso essa ha scelto (per il momento) di non esagerare, dunque di non richiedere la licenza bancaria e di non voler strafare, anche per non attirare troppo l’attenzione delle autorità pubbliche.


Appoggiandosi all’esperienza e ai suggerimenti strategici di Goldman Sachs oggi Apple è arrivata a raccogliere anche depositi bancari su un conto di risparmio che offre la bellezza del 4,15% di interesse, cioè più della maggior parte dei fondi di mercato monetario dove avevano trasferito buona parte dei propri depositi bancari i depositanti in fuga dalle banche commerciali, terrorizzati dall’idea di perdere la titolarità dei propri risparmi.

UN TEMIBILE CONCORRENTE

E con le sue dimensioni planetarie (è ancora oggi la più grande multinazionale della terra e forse anche la più patrimonializzata) Apple si conferma tutt’a un tratto come il più temibile concorrente delle maggiori banche del globo. Già oggi i servizi ricorrenti venduti da Apple ai suoi utilizzatori generano ogni anno 55 miliardi di Dollari di profitti, cioè fa più soldi di JP Morgan e Citibank messi insieme! E la sua profonda conoscenza di molti aspetti della vita privata dei propri utenti può aiutare la casa di Cupertino a fare ancora molto di più per cavalcare l’innovazione e offrire servizi a più elevato valore aggiunto.

È proprio vero che è quando il gioco si fa duro che i duri iniziano a giocare!

Stefano di Tommaso




IL DOLLARO PERDE LA CORONA?

Da quando i paesi “non allineati” e quelli del cosiddetto gruppo dei BRICS (Brasile, Cina, India, Russia e Sud Africa) hanno iniziato a decidere di voler commerciare tra loro utilizzando altre divise valutarie invece che il Dollaro americano ci si è ovviamente posti la domanda: quanto a lungo quest’ultimo resterà la divisa di riserva valutaria globale? Ovviamente non ci sono risposte scontate e non è mai facile prevedere il futuro. Peraltro la lista dei paesi che sembrano orientati a togliere la corona reale al Dollaro si allunga con alcuni illustri detentori di riserve economiche e risorse naturali come l’Arabia Saudita (e altri paesi del Golfo tra i quali ovviamente l’Iran) e un certo numero di paesi del continente africano, dove la Cina conta molti “amici”.

 

Un altro importante argomento a favore della detronizzazione del Dollaro risiede nel fatto che nel mondo occidentale esistono diverse altre valute tra le quali la divisa unica europea, la Sterlina britannica, lo Yen Giapponese, il Dollaro canadese e quello australiano (prescindendo per un attimo dal Bitcoin e dalle altre “criptovalute” circa le quali occorre molta prudenza). Anch’esse sono sempre state considerate divise di riserva valutaria. Il Dollaro americano oggi prevale su queste ultime principalmente poiché poggia la sua supremazia sulla grande diffusione presso quasi tutti gli altri paesi emergenti e in America Latina. Ma cosa succederebbe se gradualmente non fosse più così?

IL CALO DELLE RISERVE VALUTARIE DENOMINATE IN DOLLARI

Il fatto che oggi molti di quei paesi emergenti tra i quali il Brasile (cioè l’economia più sviluppata del Sud-America) e la maggioranza dei paesi africani vogliono prendere le distanze deve far riflettere. La percentuale di riserve valutarie in Dollari americani detenute dalle banche centrali di tutto il mondo è scesa dal 55% della fine del 2021, a circa il 47% a fine 2022, secondo una nota pubblicata lo scorso 17 Aprile da Eurizon S.L.J. Asset Management. Una discesa davvero rapida della diffusione del biglietto verde, che potrebbe preconizzare anche una discesa progressiva nel cambio con le altre valute.


Gli Stati Uniti d’America hanno contato a lungo sui benefici derivanti dalla diffusione internazionale del Dollaro, per poter ampliare la loro base monetaria senza scatenare un’inflazione devastante e per poter finanziare il loro disavanzo pubblico vendendo titoli di stato ai numerosissimi privati investitori che desiderano diversificare. Ma quando il biglietto verde cesserà di essere la divisa di gran lunga più utilizzata al mondo, è probabile che quei benefici si ridurranno parecchio. È lecito chiedersi di quanto? Qualcuno prevede che il declino del biglietto verde passerà innanzitutto da una sua importante svalutazione nel cambio con le altre valute, la quale a sua volta potrebbe contribuire non poco alla riduzione della sua diffusione globale.

MA IL DOLLARO AL MOMENTO RESTA FORTE

La tendenza di fondo alla discesa del cambio del Dollaro però, oggi preconizzata sulla base della volontà politica di preferire per il commercio internazionale altre divise valutarie (come l’Euro e lo Yuan cinese) da parte dei governi di numerosi paesi emergenti, non è affatto scontata, a causa di almeno un paio di altri importanti fattori che hanno permesso alla valuta americana l’attuale supremazia, e che al momento non sono affatto scalfiti: il mercato finanziario e le nuove tecnologie, tanto civili quanto militari.


Sin tanto che cioè ci sarà una domanda di Dollari americani per poter investire sulle borse più liquide e regolamentate del mondo (quali quelle di New York e Chicago) e sin tanto che ci sarà una domanda di beni e servizi di prodotti (principalmente tecnologici) americani, a partire dagli armamenti fino ai computers e alle biotecnologie, è probabile che quest’ultimo manterrà ampia parte del suo valore. E se la domanda di Dollari prevarrà sulla sua offerta, se il resto del mondo continuerà a comperare azioni quotate a Wall Street e titoli pubblici americani, ecco che l’America potrà tranquillamente continuare a farsi finanziare dal resto del mondo.

LE MULTINAZIONALI AMERICANE FANNO PIU’ PROFITTI

Senza contare l’importante flusso di profitti e dividendi di cui godono le multinazionali americane che, rimpatriandoli, vendono sul mercato dei cambi valute le altre divise per acquistare Dollari. Le più grandi compagnie al mondo, come le più grandi banche e i più grandi colossi tecnologici sono tutt’ora americani, e, piaccia o meno, continuano a macinare profitti ben più dei loro rivali nel resto del mondo, come si può leggere nel grafico qui riportato.


Indubbiamente la probabile futura minor diffusione del Dollaro americano nei paesi emergenti ne ridurrà il peso globale a causa del fatto che per acquistare le principali risorse naturali non bisognerà più procurarsi preventivamente dei Dollari per poterle pagare. Ma di qui a considerare il biglietto verde sull’orlo di un precipizio ce ne passa. Intanto per una vischiosità intrinseca nell’utilizzo delle divise valutarie per le transazioni. Era già successo per la Sterlina britannica, la principale “valuta forte” sui mercati finanziari sino a tutta la seconda guerra mondiale, che ha gradualmente lasciato spazio al Dollaro americano sui mercati internazionali ma che, ancora oggi, quasi ottant’anni dopo, è ancora più utilizzata dello Yuan cinese nel commercio internazionale.

AL DOLLARO MANCA UN VERO RIVALE

E poi perché sul mercato è evidente l’assenza di una vera divisa rivale, capace di surclassare il Dollaro, al momento almeno. Forse un giorno questo rivale sarà lo Yuan, ma come abbiamo visto al momento è più diffusa la Sterlina e comunque casomai il vero rivale potrebbe essere l’Euro, di gran lunga più diffuso al mondo di entrambe Sterlina e Yuan, come si può leggere dal grafico qui riportato, ma difficilmente lo sarà mai, dal momento che l’Eurozona appare un’area geografica caratterizzata dalla bassa crescita.


Dunque, al di là delle dichiarazioni politiche dei paesi BRICS e dintorni, i quali si rendono conto di essere sempre più in contrapposizione con gli interessi americani e che pertanto preferiscono privilegiare altre divise valutarie per il pagamento di esportazioni e importazioni, la strada per la “de-dollarizzazione” sembra alquanto lunga, al momento. Né si vede all’orizzonte una chiara tendenza che possa suggerire l’emergere di una vera alternativa. Ciò che si può invece immaginare è, questo si, un lento declino del cambio del Dollaro, principalmente a causa di una sua minor domanda sui mercati finanziari internazionali, man mano che altre economie si rafforzano e sviluppano piazze finanziarie alternative a quella americana. La sola forza commerciale dell’economia americana infatti non sarebbe sufficiente a sostenere gli attuali livelli di cambio, una volta ridotti gli altri fattori di fora del Dollaro. Qualcuno stima una potenziale riduzione del cambio dai livelli attuali a circa il 30% in meno, nell’arco di un paio di decenni però.

MA SE SCOPPIASSE UNA GUERRA…

A meno del possibile scoppio di una nuova guerra mondiale, la quale non potrebbe che tornare a rafforzare, almeno al suo incipit, lo status del Dollaro americano quale valuta di riserva globale. Non bisogna infatti dimenticare che nell’ultimo decennio gli USA sono diventati esportatori netti non soltanto di derrate, strumenti finanziari, tecnologie ed armamenti, bensì anche di petrolio, gas, legname e molte altre “commodities”. E in caso di una grande guerra anche molte delle risorse naturali del centro e Sud America sarebbero di fatto soggette allo strapotere del Dollaro.

Stefano di Tommaso




FARE A MENO DELLE BANCHE

ARRIVA IL CREDIT CRUNCH

Se lo stato dell’economia globale appare (al momento) meno peggiore di ciò che si poteva temere, il cosiddetto “credit crunch” (la restrizione del credito) diviene tuttavia una prospettiva sempre più concreta per le imprese, soprattutto quelle italiane ed europee. L’inflazione infatti non tornerà presto ai livelli precedenti (addirittura persino il governo italiano ha pragmaticamente inserito nelle proprie previsioni che l’inflazione media del 2023 sarà del 6%) e conseguentemente le banche centrali proseguiranno -almeno per un po’- il loro percorso di “stretta” monetaria, basato sull’ulteriore innalzamento dei tassi d’interesse e sulla restrizione della liquidità disponibile sui mercati.

 

Fonte: Milano Finanza 13.4.2023

LE BANCHE CENTRALI ANDRANNO AVANTI

Che l’inflazione dipenda prevalentemente da cause esogene (guerra e petrolio, transizione energetica, materie prime, scarsità di risorse lavorative, siccità, inadeguatezza delle infrastrutture eccetera) piuttosto che dalla vivacità dei consumi apparentemente non interessa a nessuno. Né ai “media” né alle banche centrali. Anche se viene comunemente riconosciuto che sono proprio le cause esogene dell’inflazione quelle che determinano oggi la sua resistenza a scendere più velocemente. La sensazione è che le banche centrali perciò andranno avanti a “stringere” sin tanto che non avranno contribuito a provocare una forte frenata dello sviluppo economico, l’unico fattore che può davvero riportare l’inflazione al tasso/obiettivo del 2% .

I RISCHI PER IL SISTEMA

Che questo comportamento possa generare rischi per il sistema finanziario e per la salute delle banche è assolutamente evidente, come si è visto nei casi recenti di fallimento di colossi come il Crédit Suisse. Cosa che si spera di limitare attraverso una più severa regolamentazione e vigilanza sul sistema bancario. Ma ciò non potrà non influire sulla prudenza con la quale esso sarà disponibile a fare credito alle imprese.


Una disponibilità che dipende anche dall’andamento della raccolta di depositi e dalla capacità di collocare sul mercato emissioni azionarie ed obbligazionarie, ovviamente entrambe molto danneggiate dalle minori prospettive di profitto e dalla limitazione conseguente della fiducia dei risparmiatori.

E in periodo come questo si è già visto un forte deflusso di denaro dei risparmiatori dai depositi bancari ai fondi di mercato monetario oppure a investimenti alternativi capaci di proteggere dalla svalutazione, come l’oro e gli altri metalli preziosi.

LA CONSEGUENZA PRATICA: MENO CREDITO

Se perciò sembra evidente che la tenuta del sistema bancario sarà legata ad un deciso inasprimento delle politiche di erogazione del credito, soprattutto quello “commerciale”, cui sono legati i maggiori rischi per le banche, è relativamente facile di conseguenza prevedere che per le imprese clienti sarà più difficile andare avanti, soprattutto per quelle più piccole e meno capitalizzate, cioè più dipendenti dai rubinetti del credito. Se insomma in passato si parlava di un “rischio credit crunch” oggi esso sta divenendo una realtà con cui dover fare i conti, per tempo possibilmente!

PREVENIRE, PRIMA CHE CURARE:

Inutile quindi soffermarsi troppo sulle cause macroeconomiche di quel che accade, dal momento che non si tratta più di esplorare un possibile scenario bensì di prendere atto del fatto che esso si è tradotto in realtà e, casomai, chiedersi cosa ne discende in termini microeconomici e come confrontarvisi dal punto di vista delle imprese. A partire dall’individuazione di un nuovo e diverso equilibrio finanziario basato, appunto, sulla minor disponibilità di credito, soprattutto per le imprese meno capitalizzate. Queste ultime dovrebbero pertanto prenderne giusta nota senza sottovalutare il problema, arrivando a rivedere radicalmente la loro strategia di business, come vedremo più avanti.

1.RIDURRE GLI INVESTIMENTI PROGRAMMATI

Le esigenze finanziarie dipendono dall’equilibrio tra il denaro contante in entrata e quello in uscita. Se perciò erano previsti investimenti produttivi sulla cui finanziabilità si sarebbe potuto ragionare in termini opportunistici, alla luce del quadro macroeconomico che si profila all’orizzonte occorrerà condizionarli alla possibilità di riuscire a reperire le risorse necessarie. Non solo: anche dal punto di vista della loro convenienza occorrerà fare nuovamente di conto, dal momento che il maggior costo del denaro rischia di minarla alla radice.

2.RIDURRE IL CAPITALE CIRCOLANTE

Un altro fronte “caldo” sotto il profilo delle risorse finanziarie aziendali è ovviamente il capitale circolante netto (CCN), ovvero la somma algebrica delle risorse impiegate nel “magazzino” e nei crediti alla clientela, al netto di quelle indirettamente godute attraverso il credito di fornitura. Spesso il successo finanziario delle imprese si gioca proprio sulla capacità di controllare il CCN, soprattutto in tempi non favorevoli in termini di profitti netti (e cassa generata dai margini aziendali) e di credito disponibile.


Conviene pertanto ragionare in termini di manovre alternative alla riduzione dei finanziamenti che è possibile raccogliere sul mercato sebbene anche tali alternative normalmente incorporano un costo, che spesso non è facile stimare. Tali manovre passano innanzitutto dalla possibilità di ridurre il magazzino sino al limite del medesimo, dal momento che comporta immobilizzi finanziari. Così come dal concedere minor credito alla clientela, soprattutto se in parallelo accade ciò che è ovvio in questi casi: e cioè che anche le forniture andranno progressivamente pagate più in fretta, dal momento che probabilmente lo stessa esigenza è nutrita anche dalle imprese fornitrici.

3.RIVEDERE LA STRATEGIA DI MERCATO

Occorre poi riflettere sui possibili impatti di tali manovre sulle vendite e sui profitti, dal momento che spesso il minor credito alla clientela si traduce in una contrazione tanto del fatturato quanto dei margini di profitto. Così come una maggior cautela negli investimenti produttivi comporta un impatto pressoché ovvio sull’efficienza gestionale e sullo sviluppo del business. Entrambi fattori che normalmente determinano la necessità di ridurre allo stretto indispensabile i costi del personale (diretti e indiretti), di rinviare decisioni di spesa e ogni genere di allocazioni di capitale non strettamente produttrici di reddito, di ridurre ad esempio gli investimenti rivolti alla transizione energetica, di rivedere i programmi di spesa informatica e nella digitalizzazione nonché di selezionare diversamente la clientela, anche sulla base della tempistica di pagamento.


In termini macroeconomici perciò la riduzione di risorse finanziarie disponibili per le imprese ha sicuramente severi effetti recessivi e può addirittura contribuire ad alimentare l’inflazione dal momento che ha ricadute in termini di velocità di circolazione della moneta, che non può che aumentare quando le risorse finanziarie sono scarse e il ciclo dei pagamenti tende ad accelerare. Così come il maggior costo dei servizi finanziari non può che riflettersi nella necessità di incrementare i prezzi di vendita, talvolta anche per recuperare quei margini di profitto che sono rimasti compressi a causa dell’impossibilità di agire istantaneamente.

4.IL MODELLO DI BUSINESS VA RIVEDUTO

Ma è dal punto di vista strategico che la maggior vischiosità del credito può generare i problemi principali a livello nazionale, perché -come è ovvio- essa colpisce soprattutto le imprese più deboli, cioè meno capitalizzate, e quelle meno stabilizzate, ovvero quelle nate da poco che puntavano decisamente sullo sviluppo del business per trovare un miglior equilibrio. Anche laddove la maggior parte di quelle imprese venisse acquisita o passasse sotto il controllo (anche indiretto) delle imprese più grandi (e sappiamo invece che in molti casi non è così), il danno collettivo in termini di sviluppo e occupazione è praticamente assicurato. E viene del pari messa a rischio la sopravvivenza di quelle imprese che stavano nascendo o attraversando una crisi temporanea o un percorso di ristrutturazione aziendale.


È questo un tema di grande riflessione per l’industria, anche quella di maggiori dimensioni, dal momento che spesso essa basa il proprio modello di business su una miriade di micro-fornitori i quali, in caso di severa restrizione del credito, non possono sopravvivere oppure pretendono di essere pagati in anticipo per garantirsi un qualche equilibrio finanziario. L’intero comparto manifatturiero perciò ha molto da temere laddove il sistema finanziario arrivi a tirare decisamente i freni, ma soprattutto ha da rivisitare le filiere di approvvigionamento, il contesto competitivo e l’impostazione dei canali distributivi, dal momento che questo genere di cambiamenti genera ogni sorta di rischi e opportunità ma soprattutto punisce chi rimane immobile.

5.IL COSTO DEL CAPITALE SALE

In generale peraltro è intuitivo ragionare sulle conseguenze anche in termini di domanda dei capitali di rischio, che in questi casi non può che crescere proprio mentre la relativa offerta si assottiglia. Non può che derivarne un incremento del loro costo, così come una riduzione dei moltiplicatori di valore d’impresa, tanto nelle fusioni&acquisizioni quanto sui mercati borsistici, le cui valutazioni si basano quasi esclusivamente sull’attualizzazione dei profitti futuri. È chiaro che se i tassi di attualizzazione (soprattutto quelli in termini reali, cioè al netto dell’inflazione) crescono, le quotazioni azionarie non potranno che scendere.

È sulla base di queste considerazioni che, almeno nel contesto europeo, tendiamo ad essere prudenti circa le prospettive dei mercati, tanto azionari quanto obbligazionari. Anche per questi ultimi infatti, se i rischi di credito si impennano, le quotazioni finiranno con il risentirne, anche nei casi dei migliori rating aziendali. Ragione per la quale si accorciano le scadenze e si innalzano i rendimenti assoluti.


CONCLUSIONI

In definitiva le imprese possono sì “fare a meno delle banche” e, almeno in parte, ne saranno costrette, data la minor disponibilità di queste ultime ad erogare con la stessa facilità del passato. Ma tirare i cordoni della borsa non è mai facile e comporta una revisione integrale della strategia delle imprese che valutano di procedere in tal senso. Non basta infatti qualche razionalizzazione a sprechi e immobilizzi per evitare che la sopravvivenza stessa del business vada a rischio. In un contesto dove il credito costa più caro ed è meno facile da reperire è l’intera filiera produttiva che deve trovare un nuovo equilibrio, probabilmente passando per un allargamento della base azionaria, tanto per prudenza quanto per contrappeso al fisiologico incremento dei rischi che ciò comporta.

Stefano di Tommaso




APPUNTI DI TRADING

N. 27 – giovedì 13 aprile 2023

Nessuna operazione in essere

Questa lettera ha un contenuto limitato in quanto scritta giovedì 13.4 in tarda sera

E’ unicamente un aggiornamento della precedente N.26

Dalla N. 28 riprenderà la redazione del fine settimana che beneficia dei dati di chiusura di ogni venerdì precedente

GOLD GIU 23

Il livello di 1998, corrispondente al top di aprile 2022, da possibile tetto, sembra diventato un pavimento.

Uso il condizionale perché la mia analisi tecnica si basa sui prezzi di GOLD in USD, ma il grafico è ben diverso se vedessimo un grafico di GOLD in EURO.

Segnalo che USD rispetto ad EURO è sceso in poco tempo da 1,055 a 1,105 e quindi bisogna capire quanto GOLD è salito per forza intrinseca e quanto è dovuto al cambio valutario.

Il grafico registra fino a gio 13 apr, in quanto mi sono assentato dallo studio in tale data

Allego un grafico mensile che evidenzia che siamo in zona triplo massimo mensile con i precedenti di 2075 ( Covid nell’anno 2020 ) e 2070 ( Ucraina nel 2022 )

Il triplo massimo è certamente una delle più potenti figure di vendita, nella analisi tecnica ed inoltre GOLD sta arrivando a questi prezzi in un clima nuvoloso, dal punto di vista della politica internazionale (guerra UCRAINA e rischi TAIWAN )

Mi limito volutamente all’analisi tecnica, non avendo capacità di previsione su questi fatti internazionali, ma osservo che GOLD sta giungendo per la terza volta nell’area 2070 e per la terza volta ci sono gravi preoccupazioni; comprerò malvolentieri la eventuale rottura di 2075.

Al momento non inserisco ordini, prima di vedere se GOLD ritorna sotto 1998 cash, in questi gg.

DOW JONES INDU CASH – NASDAQ 100 CASH

DOW JONES ha andamento ascendente, con forza relativa che si alterna di settimana in settimana rispetto al NAS 100.

Proseguo quindi l’analisi anche sul DOW, per capire ove mi converrà operare.

Ritengo che eventuali aperture di short siano meno convenienti di posizioni rialziste e quindi cercherò di capire quale dei due mercati USA sarà il più forte per aprire un LONG su di esso.

Veniamo ora al NASDAQ 100.

Il prezzo non molla mai ed evita di scendere a 12650 – 12200, per consentire un acquisto con risk-reward accettabile

Si mantiene quindi molto lontano dallo stop loss, che sbaglierei ad alzare da 11800 a suo tempo individuato.

Invito a controllare il livello di 12900 del FUT GIUGNO che mi sembra significativo, se rotto al ribasso.

Nel caso di rottura, tutta questa presunta forza potrebbe dissolversi e diverrebbe possibile un ritracciamento profondo, anche sotto 12200, molto comodo per comperare con stop loss accettabile

La Lettera da lu 17 aprile rinnoverà gli ordini scaduti gio 6 aprile e che, ritengo scadranno non eseguiti, ven 14 aprile:

compero 1 GIUGNO MICRO NASDAQ 100 a 12650 con stop loss 11800

compero 1 GIUGNO MICRO NASDAQ 100 a 12200 con stop loss 11800

Lo stop loss è già così molto ampio, ma ritengo che debba essere accettato per riuscire ad entrare nel volatile NAS 100 e segnalo che un rischio medio di 600 su 12000 circa corrisponde già al 5 %.

Ritengo obbligatorio quindi usare dosi minime, da incrementare solo sulle eventuali conferme di un trend rialzista, che sembra già avviato.

Leonardo Bodini