GRANDI MINACCE E GRANDI OPPORTUNITÀ

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Le ultime caotiche settimane hanno fornito nuovi segnali e sintomi di un malessere generale dell’economia globale confermando quello che da tempo quasi tutto gli osservatori stanno dicendo: è in arrivo un’ importante recessione globale. Ragione per cui gli investitori restano ammutoliti e privi di entusiasmo, gli operatori economici rinviano molte decisioni di investimento e i consumatori -già impoveriti dalla riduzione del potere d’acquisto- riducono la domanda di beni e servizi, in attesa di tempi migliori.

 

LA MINACCIA DELLA RECESSIONE HA FATTO SCENDERE I MERCATI

Sarebbe difficile usare parole più nere di quelle appena scritte eppure i mercati finanziari hanno già perduto circa un terzo del valore annuo del prodotto globale lordo e le prospettive rischiano di essere ancora peggiori.

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Sembra insomma in arrivo la tempesta perfetta, mentre i venti di guerra soffiano più impetuosi che mai e il rischio di nuovi disastri ambientali incombe più di prima dal momento che quasi ogni precedente iniziativa rivolta a moderare l’impatto dell’emergenza climatica e dell’inquinamento planetario appare rinviata a tempi migliori, data la crisi energetica che avvolge buona parte delle economie industriali.

Tra l’altro a riprova del fatto che una contrazione del prodotto lordo è già in corso, è sufficiente osservare nel grafico qui riportato quanto si siano ridotti i costi dei trasporti marittimi, evidente anche a causa della riduzione della domanda:

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Cosa succede dunque? Davvero il mondo è rivolto ad un disastro economico epocale? Ovviamente molto dipenderà dall’esito delle fortissime tensioni politiche internazionali oggi in corso, mentre si sta creando una delle maggiori “spaccature” della storia dell’umanità tra il blocco occidentale delle nazioni (maggioritario in termini di ricchezza economica e tecnologica) e quello orientale e dei paesi emergenti (maggioritario invece in termini di popolazione mondiale e di risorse naturali).

I CONFLITTI ARMATI SI MOLTIPLICANO

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Generalizzare è quasi impossibile e molte grandi nazioni cercano di articolare le loro posizioni politiche sforzandosi di non prendere troppo parte alle attuali contrapposizioni tra i due blocchi (a partire dall’India, che avrebbe tutto da perdere nello schierarsi molto apertamente), ma ciò nonostante la sostanza dei fatti non cambia granché: il mondo sta correndo verso una nuova recessione economica globale e aumenta a dismisura il rischio di nuovi conflitti bellici epocali.

L’Europa (e in particolare Germania e Italia, le due principali strutture industriali del vecchio continente) in questa congiuntura -pur essendo schierata sin troppo lealmente con l’alleato americano- è stato senza dubbio il vaso di coccio tra i due d’acciaio, tanto per la sua forte dipendenza dalle forniture energetiche russe che sono venute meno in modo repentino, quanto per i maggiori costi dovuti ai rincari del Dollaro, delle materie prime e dell’energia, che l’hanno resa assai poco competitiva.

Per quali motivazioni tutto ciò avvenga è difficile per chiunque oggi spiegarlo e forse nel prossimo futuro ci vorranno decenni per farlo nel modo più corretto (senza cioè cadere in fuorvianti semplificazioni). Ma certo oggi la vera domanda -una volta metabolizzata la situazione- è divenuta per quasi tutti i cittadini del mondo un’altra: come comportarsi (razionalmente) di conseguenza?

COSA FARE?

Difficile è infatti accettare la dura realtà: il mondo è sulla china di grandi passi indietro nell’evoluzione dell’umanità, la libertà di opinione e di azione di buona parte della popolazione mondiale è fortemente a rischio e persino i grandi avanzamenti sociali, culturali e scientifici del genere umano rischiano di venire in tal modo cancellati. Ma -una volta inquadrati correttamente i rischi che corriamo- ancor più difficile è valutare quale comportamento assumere.

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Purtroppo non soltanto la domanda risuona forte per chiunque osservi i mercati finanziari, scossi da un’inflazione dei prezzi che sembra stabilmente tornata ai livelli visti l’ultima volta più di quarant’anni addietro e gettati nel panico altresì dal comportamento -apparentemente poco comprensibile- delle banche centrali occidentali (nell’immagine il governatore della FED: Powell), che stanno rialzando bruscamente i tassi di interesse. Questo comportamento è andato sino ad oggi a vantaggio del Dollaro ma rischia di alimentare la crisi economica che già oggi consegue all’inflazione.

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Non soltanto. Il timore fare di errate valutazioni passa ora infatti dalle banche centrali anche all’economia reale, dal momento che qualsiasi operatore economico dovrà confrontarsi con crescenti costi energetici e con la lunghissima filiera di rincari che ne consegue per: materie prime, manufatti e servizi. Qualsiasi operatore economico inizia perciò a chiedersi di quanto si restringeranno i consumi e di conseguenza i suoi mercati di sbocco.

IL CAMBIAMENTO ACCELERA CON LA CRISI

Come dire cioè che, ammesso che nonostante i rincari gli imprenditori riescano a restare in piedi riuscendo cioè a limitare i danni e/o a ribaltare i maggiori costi sui prezzi di vendita, le imprese dovranno anche confrontarsi con l’arrivo della recessione e con i possibili cali dei consumi. Se una grande recessione economica globale si farà sentire sarà perciò giocoforza limitare gli investimenti programmati, tanto per ragioni di opportunità quanto per gli incrementi dei costi e le riduzioni delle disponibilità finanziarie che ne conseguiranno.

La riduzione degli investimenti innalzerà poi inevitabilmente la disoccupazione, nonché i gettiti fiscali che -in buona parte del mondo occidentale- sostengono i pagamenti degli interessi da versare a remunerazione dei debiti pubblici. Al tempo stesso tutti chiederanno interventi pubblici in deficit di bilancio, alimentando la crescita dei debiti pubblici oltre ogni ragionevolezza.

Ciò crea inevitabilmente nuove tensioni e nuove pressioni politiche, soprattutto a danno delle nazioni più deboli e a relativo vantaggio di quelle più forti. Nei grafici che seguono: il rialzo dei rendimenti che il mercato ha imposto ai nostri titoli di stato e, di conseguenza, l’incremento della divaricazione (lo “spread”) con i rendimenti dei titoli di stato tedeschi.

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Ma lo stesso varrà anche per le imprese, tra le quali le più piccole subiranno maggiormente e saranno probabilmente fagocitate dalle maggiori. Sarà quindi doveroso tornare ad affermare quanto già ampiamente chiarito in occasione della recente crisi conseguita alla pandemia globale che il mondo ha appena subìto: questi eventi traumatici generano una forte accelerazione verso il cambiamento, in ogni direzione. Un cambiamento in molti casi traumatico ma anche foriero di importanti novità, e circa il quale occorre fare molta attenzione. Gli imprenditori e gli operatori culturali più attenti riusciranno probabilmente a cavalcarlo, altri potranno invece quasi soltanto subirlo.

EFFICIENTARE, COLLABORARE, CAPITALIZZARE…

Ma il cambiamento non riguarderà soltanto i mercati, le tecnologie e le tendenze dei consumi. Riguarderà inevitabilmente anche la struttura sociale e quella delle imprese. Il livello di capitalizzazione e di efficienza, i quali dovranno inevitabilmente incrementarsi a dismisura. Difficile dire cosa succederà a tutti coloro che resteranno indietro in tale processo, ma è più facile prevedere cosa dovrebbero fare tutti coloro che riusciranno a porsi tali questioni per tempo: riflettere ma poi agire presto, efficientare, collaborare e creare alleanze, assicurarsi capitali e intelligenze. E il tutto prima che sia troppo tardi.

Che arrivi o meno una nuova grande crisi economica dell’economia reale (oggi siamo ancora soltanto ad una stagnazione” delle economie del blocco occidentale) dipenderà ovviamente moltissimo dal livello di conflitto che si svilupperà a livello geopolitico. Ma -qualunque cosa succederà- sono sufficienti le attuali tensioni, le attuali aspettative e le attuali problematiche per poter affermare che -ancora una volta- il ritmo evolutivo dell’economia planetaria, così come dell’industria e delle abitudini della gente, è irrimediabilmente destinata ad accelerare. E questo per molti versi acccadrà indipendentemente dell’intensità della crisi. La centrifuga insomma sta accelerando e qualcuno ne rimarrà travolto. Però qualcun altro ne uscirà vincitore, anche a motivo del vuoto che viene creato. Come sempre peraltro…

Stefano di Tommaso




TRADING: GOLD (CASH)

– N. 1 – 01/10/2022

La formazione di un doppio massimo tra il 2020 ( prezzo 2075 ) e il 2022 ( 2070 ) ha reso rilevante il minimo di 1676 – 1680 compreso tra i due massimi, ripetuto più volte nel 2021 ed infine in luglio 2022.

La rottura di 1676 rende probabile una discesa fino a 1550 – primo step- ed eventualmente fino a 1380 – 1350 – vale a dire i massimi del quinquennio 2014 – 2018
Volendo aprire uno short, resta da stimare il possibile rimbalzo, ritenendo :
– probabile 1700-1720
– possibile circa 1800, che costituirebbe un doppio top con ago 2022

L’analisi del tempo mi suggerisce di controllare la settimana del 24 – 28 ottobre 2022, che ha un certo rilievo dal punto di vista ciclico e quindi può dare nuova energia ( anche per una inversione ) da allora in poi.

Se il mercato facesse quello che ci aggrada, sarebbe molto comodo un rimbalzo il più possibile vicino all’area 1800 intorno al 24-28 ott. 2022, per vendere con una sinergia di prezzo e ciclo temporale, ma vorremmo veramente troppo.

Se, viceversa, non vi sarà un rimbalzo così forte, anche la semplice rottura del minimo di settembre ( 1614 cash ) verrà da me seguita con apertura di short, purtroppo con uno stop – loss molto ampio, vale a dire che, in ogni settimana dal posizionamento al ribasso in poi, lo stop loss verrà fissato ( ed in seguito solo abbassato ) al top della settimana precedente, fino ai target.

Allego un grafico mensile dal 2014 e un grafico settimanale del 2022 con alcune sottolineature pertinenti a quanto sopra:

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Leonardo Bodini




LA GELATA

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Il mondo si risveglia oggi, lunedì 26 settembre, un po’ più povero e un po’ più incerto, dopo l’ultimo discorso di Powell, il banchiere centrale di tutti gli altri banchieri centrali, i quali a loro volta sono i banchieri dei banchieri privati. Se esistesse un manuale di come ci si deve comportare quando sta arrivando una recessione globale come quella che si può chiaramente scorgere all’orizzonte degli eventi, l’ultima cosa che quel manuale consiglierebbe sarebbe la promessa di continuare indefinitamente con i rialzi dei tassi per combattere un’inflazione che sarà già messa a dura prova nei prossimi mesi dal calo dei prezzi dell’energia e delle materie prime energetiche (come: petrolio, gas, carbone e uranio).

 

UN SECONDO FINE NON DICHIARATO

È come mostrarsi imperterriti fino alla fine nel combattere la malattia di qualcuno che è già moribondo: l’esito (la morte del malato, magari guarito) è in tal modo del tutto scontato ma evidentemente le motivazioni nel decidere di creare vittime a tavolino sono in realtà altre. Nessuno è infatti autorizzato a pensare che a Washington siano tutti imbecilli. È più probabile che si tratti di banale malafede per celare -dietro la retorica dell’inflazione- l’obiettivo che più di ogni altro è stato negli ultimi mesi sotto gli occhi di tutti: la rivalutazione del biglietto verde, con tutte le conseguenze che ciò comporta, a partire dall’incremento della disoccupazione interna e dalla probabile insolvenza di tutte le repubbliche emergenti che hanno recentemente contratto prestiti in dollari.

D’altra parte lo scenario sarebbe stato grigio in ogni caso: si è accumulato troppo divario tra il tasso d’inflazione (vicino al 10% per entrambe le sponde dell’Atlantico) e i tassi d’interesse, fermi sotto al 4% un po’ ovunque. Le banche centrali del resto d’occidente non dovrebbero mostrare molto coraggio nel decidere di non seguire a ruota, rischiando altrimenti di ritrovarsi comunque il medesimo problema con la svalutazione dei cambi valute contro dollaro.

L’AGGRESSIVITÀ DELLA FED

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La dichiarazione di voler proseguire (quasi) indefinitamente nel rialzo dei tassi e di voler precedere con la stretta monetaria ovviamente crea molte vittime e favorisce qualche illustre vincitore. Le vittime si annoverano soprattutto nell’economia reale, tra le piccole imprese, e fra le startup innovative, che vedranno ulteriormente precluso al loro supporto il mercato dei capitali. Una categoria che poteva uscirne vincitrice come quella del sistema bancario in realtà con quello che potrà succedere viene dato in disfatta anch’esso, salvo ovviamente le grandi istituzioni. La categoria (pur minuscola in numero, ma non in rilevanza) che invece ci guadagna è quella degli speculatori e, tra essi degli “hedge funds”, cioè dei fondi speculativi.

Basterebbero queste considerazioni per individuare un colore politico nel disegno di Powell: il “deep state” come lo chiamano gli americani, cioè la lobby delle lobbies. E, con esso, anche il partito democratico, che ne ha portato a spada tratta le insegne da decenni (o almeno dai tempi di Hillary Clinton, Obama e Biden) e che, di fronte ad una probabilissima sconfitta alle elezioni per il parlamento americano (a Novembre) si gioca la carta della risolutezza della lotta all’inflazione, l’unica che ha messo davvero le mani in tasca al popolo d’oltreoceano.

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LA PREDOMINANZA DEL DOLLARO

Ma la partita è anche un’altra: quella (sinora assolutamente vinta) della predominanza valutaria del Dollaro sul resto del mondo. E di tutte le conseguenze pratiche che ciò comporta per i detentori delle risorse energetiche nonché dei debiti contratti da quasi tutti i paesi emergenti della terra. Per non parlare del mercato finanziario che, a causa dell’attrazione valutaria, richiamerà capitali e risorse umane dalle altre piazze del mondo, esportando viceversa inflazione e quell’eccesso di biglietti verdi che, se fossero rimasti entro i confini degli States, avrebbero contribuito ad alimentare l’inflazione.

Oggi invece i titoli pubblici degli U.S.A. risulteranno ancor più attraenti e, pertanto, aiuteranno l’amministrazione Biden a finanziare gli ulteriori armamenti che verranno inviati nei “focolai di guerra” a suggellare la predominanza geopolitica. Cosa che a sua volta potrebbe alimentare eventuali futuri rincari di petrolio e gas, oggi in decisa controtendenza.

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Ecco, nel citare chi ci guadagna non si può non citare anche la lobby degli armamenti: è evidente che questo per quei signori risulta uno dei maggiori periodi di “vacche grasse” degli ultimi decenni. Manca solo qualche bella nuova variante del virus per allietare i grandi detentori delle aziende farmaceutiche americane, tra le prime a trarre profitto della necessità di un’eventuale ulteriore ondata di contagi, cui seguiranno quasi in automatico copiosi ordini delle nuove versioni dei vaccini. Magari di nuovo coperti dal segreto di stato.

Poco aiuterà la politica economica espansiva di Cina, India e forse anche Russia, poiché il commercio internazionale rischia ugualmente nuove battute d’arresto dovute a problemi geopolitici. E anzi la svolta “a destra” che sta prendendo corpo in Europa potrà esacerbare le tensioni nei rapporti tra governi del vecchio continente, dal momento che risulta ovvio anche ai bambini quale sia stato il mandato che gli elettori hanno conferito ai nuovi eletti: atlantismo sì, ma con giudizio. La Commissione Europea si contorcerà in chissà quali iniziative per frenare l’ondata di malcontento che si è mostrata nelle urne. Ma se lo facesse troppo smaccatamente rischierebbe anche di aggravare la situazione.

L’INFLAZIONE PERÒ RISCHIA DI RIPRENDERSI

Dal punto di vista pratico si prevede perciò un’inflazione solo apparentemente in discesa a causa della caduta libera cui saranno sottoposti i consumi, l’edilizia e molti servizi non essenziali. In realtà le strozzature in termini di offerta rischiano di proseguire e, dopo le prime ondate d’inflazione dei prezzi ce ne potrebbero essere delle altre, dovute all’autoalimentarsi delle aspettative e (almeno in Europa) al caro-Dollaro. Senza contare gli scossoni che potranno facilmente derivare dall’aumento delle rate dei mutui e dei finanziamenti al consumo, vittime tra l’altro di probabili tensioni sui titoli del debito pubblico, che in Italia gioveranno sempre meno della disponibilità della Banca Centrale Europea.

Anzi è quest’ultima la leva che le grandi istituzioni muoveranno contro i governi non troppo allineati: la mancanza di sovranità monetaria azzoppa non poco le aspirazioni di autonomia politica dei paesi dove le elezioni hanno generato un ribaltone. Le borse, per quanto costituiranno un porto (quasi) sicuro dove parcheggiare i risparmi, non potranno non accusare il colpo del repentino cambio di scenario. Ma chi ci rimetterà di più saranno gli innumerevoli detentori di titoli di stato, ai quali non resterà che attendere la loro scadenza, sempre che non li abbiano acquistati tramite fondi di investimento, condannati a rilevarne le perdite di valore in conto capitale ogni mese.

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Il problema più grande resta però l’economia delle piccole e medie imprese, che si beccherà fra i denti l’ennesima recessione, con l’ennesimo “credit crunch” e solo pochi mesi dopo le mazzate subìte con il lockdown e il rincaro dei costi di produzione. Insomma una probabile ecatombe, cui difficilmente i governi potranno porre rimedio dal momento che c’è da attendersi forse anche l’intervento anche della”troika”(banca centrale europea, commissione europea e fondo monetario internazionale) in rappresentanza dei creditori del nostro Paese.

UNA DONNA SOLA AL COMANDO

Chi governerà nei prossimi mesi dovrà gestire un’eredità difficilissima lasciata dal “governo dei migliori”. Lo slalom tra tutti gli ostacoli risulterà quasi impossibile e Giorgia Meloni correrà il serio rischio di ritrovarsi “una donna sola al comando”, dato il distacco che hanno subìto i suoi alleati.

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Dunque nel mondo, ma soprattutto a casa nostra forse non avremo razionamenti di gas ed elettricità ma quasi per certo molte piccole imprese chiuderanno o dichiareranno insolvenza. Altre vedranno crollare le proprie vendite, mentre quelle esportatrici potrebbero beneficiarne (relativamente) nel praticare prezzi più competitivi con la svalutazione monetaria. Sempre però che una domanda ci sia ancora nel resto del mondo con la recessione che rischia di minacciarla non poco e con i problemi finanziari che incontreranno coloro che importano.

Stefano di Tommaso




CI VORREBBE UN MIRACOLO

I contorni di una recessione diventano sempre più nitidi in tutto l’Occidente, nonostante il fatto che l’Europa debba fronteggiare crisi energetiche senza precedenti e l’America no. La Banca Centrale Europea (BCE) stima una decrescita vicina all’1% del prodotto interno lordo per l’anno in corso nel caso di blocco delle importazioni di gas russo, che però è già una realtà, dal momento che la turbina che manca al North Stream 1 il Canada se la tiene stretta e nessuno preme il pulsante per l’utilizzo del North Stream 2, che anzi i media di tutto il mondo fingono di dimenticare.

 


UN DISASTRO ANNUNCIATO

Dunque si tratta di un disastro annunciato, e forse procurato inutilmente. Si calcola che soltanto in Italia nei prossimi 2 trimestri solari mancheranno all’appello ben 11 milioni di metri cubi di gas, con il rischio quindi che molte industrie si fermeranno e che, nell’ inutile tentativo di prolungarne le scorte, si arrivi a razionarlo, con molte famiglie che evidentemente resteranno in casa col cappotto.

C’è poi l’altra faccia della medaglia, e cioè il caro-bolletta, che porterà ugualmente molte imprese (soprattutto quelle artigiane) a fermarsi oppure ad imporre un forte rincaro. Il centro studi di confindustria ha stimato che la sua incidenza sui costi di produzione sia passata dal 4-5% degli anni precedenti al 9-10% di quest’anno (cioè il doppio) e possa arrivare al 14% nel 2023 (cioè a circa il triplo) se il gas russo continuerà a mancare. E questo con un prezzo di 235 euro quest’anno e 298 nel 2023: se dovesse crescere ancora sarebbe ancora peggio.


I guai però non sono confinati all’Europa cui manca il gas perché l’inflazione continua a incombere e, che abbia raggiunto o meno il suo picco, volteggia ben al di sopra dei tassi d’interesse nominali oggi in vigore (intorno al 9% per entrambe le sponde dell’Atlantico), ragion per cui tanto la Federal Reserve Bank of America (FED) quanto la BCE saranno costrette a continuare ancora a lungo ad alzare i tassi d’interesse, oggi ancora al di sotto del 2%, e saranno puntualmente seguite tanto dalla Banca d’Inghilterra quanto da quelle centrali del Canada e dell’Australia.

ASPETTANDO RI RIALZI DEI TASSI

Addirittura si parla di un incremento che potrebbe oscillare tra i tre quarti di punto percentuale e un punto intero per la FED che si riunirà il prossimo Giovedì, con l’ovvia conseguenza che anche le altre banche centrali seguiranno. Già così infatti il Dollaro continua a mostrare i muscoli sfondando tetti che non vedeva da vent’anni e più, figuriamoci se le altre banche centrali non dovessero alzare i tassi anche loro. Ovviamente il caro-gas si riflette in un petrolio più caro, e non soltanto per coloro che devono pagarlo in Dollari ma addirittura anche indipendentemente, visto che c’è il bando delle importazioni anche sul petrolio, se proviene dalla Russia (che però annovera una porzione consistente delle forniture mondiali di greggio). In pratica, scarseggiando anche questo, non è improbabile che le sue quotazioni (già risalite oltre i 90 dollari per barile) superino con l’arrivo dell’autunno di nuovo quota 100.


In pratica in tutta Europa si stima che la frenata indotta da costi e scarsità dell’energia nel prodotto interno lordo arrivi al 3% tra il 2022 e il 2023 con la perdita di ben oltre 1/2 milione di posti di lavoro. E sempre che il resto del mondo non si avviti di nuovo in una recessione feroce, perché sino ad oggi l’export continentale ha mostrato una decisa resilienza, la quale invece verrebbe meno nello scenario peggiore. Per l’America, il Regno Unito, il Canada, l’Australia e i paesi scandinavi la minaccia è meno feroce che per l’Europa continentale, dal momento che sono tutti estrattori in proprio di gas e petrolio e che quindi quantomeno le loro fabbriche più difficilmente si fermeranno. Come si può ben leggere nel grafico qui riportato, il peso dell’energia sul totale del prodotto interno lordo è cresciuto ben di più in Europa che in America.


VALE LA PENA DI INTESTARDIRSI?

  • Fin qui i fatti e i numeri, che risultano immancabilmente testardi anche quando si volesse provare a scompigliarli visto che quasi tutto l’occidente risulta in campagna elettorale. Anzi, questa coincidenza appare terribile, a ben guardarla, perché è la garanzia più forte del fatto che gli attuali governi faranno nel frattempo ben poco per contrastare l’orrenda deriva appena descritta, in attesa di essere sostituiti da quelli in arrivo.

E alla luce di questi fatti ben si comprende la gogna mediatica cui è stato sottoposto negli ultimi giorni il governo ungherese, reo di aver deciso che il carovita dei propri cittadini viene prima delle strategie di pressione internazionali sulla Russia. E scrivo di gogna mediatica perché, a quanto risulta, all’atto pratico la Commissione Europea ha partorito soltanto minacce nei confronti di Victor Orban e dei suoi ministri, che però il gas continuano a riceverlo a buon mercato dalla Russia. Mentre al resto d’Europa gli Stati Uniti (che il gas lo esportano con le navi in grande quantità) hanno fatto sapere che non interverranno con un maggior quantitativo di forniture. Dunque risulta anche piuttosto teorico il dibattito sui nuovi rigassificatori in Italia, dal momento che al momento rimarrebbero parzialmente inutilizzati.

Per non parlare delle politiche di transizione energetiche, delle quali -appunto- non parla proprio più nessuno in questo momento, dopo i grandi sbandieramenti cui abbiamo assistito fino a tutto il 2021. L’incremento della produzione di energia da fonti rinnovabili è sicuramente in corso, ma i suoi tempi non sono compatibili con il taglio repentino degli approvvigionamenti delle materie prime energetiche cui stiamo assistendo, ragione per cui il resto d’Europa continua a tenere accese le centrali nucleari e torna a bruciare il carbon fossile in grande quantità. In questa situazione chi rischia di pagare più salato il conto delle strategie geopolitiche messe in atto a livello atlantico è sicuramente il polo produttivo italiano della pianura padana e del circostante arco alpino, dove le temperature sono più rigide in inverno e dove si concentra la maggior parte delle produzioni industriali energivore.


CI VORREBBE UN MIRACOLO

Ci vorrebbe dunque un miracolo perché l’economia europea (e in particolare quella italiana) non prenda una nuova e più potente sbandata che la induca a subire ulteriori arretramenti nella classifica internazionale dei paesi più industrializzati. Qualcuno ha fatto notare che, in previsione di tutto ciò, è per questo motivo che le elezioni politiche sono state indotte così in fretta. Perché gli attuali governanti non debbano rispondere dei danni all’economia che si manifesteranno in autunno come conseguenza dell’aver accettato supinamente ogni richiesta atlantica, ivi compresi i 12-13 miliardi di euro di debito aggiuntivo per fornire nuove armi al governo di Zelenski.

La nostra borsa però non è destinata a riflettere il dramma che l’economia reale si accinge a subìre nei prossimi mesi. Innanzitutto perché i rialzi dei tassi d’interesse fanno bene ai conti delle banche, il cui peso sul totale del listino italiano non è affatto basso. E poi perché ha già forse subìto più delle altre borse internazionali il problema del caro-energia mentre il numero delle società quotate continua a diminuire per effetto delle migrazioni delle grandi imprese verso le borse più importanti del pianeta. Dunque a parità di domanda mancherà l’offerta.

Per cui è probabile che Piazza Affari si ridimensioni sì ancora un po’ ma non crolli affatto. Casomai il problema dei mercati finanziari al di quà delle alpi sarà quello dell’eccesso di debito pubblico pubblico, che con il rialzo dei tassi tornerà di grande attualità, e condizionerà non poco gli eventuali provvedimenti che il nuovo governo potrà adottare per stimolare la ripresa. Una situazione che non potrà non condizionare il risiko delle compravendite bancarie, desertificando ulteriormente il panorama delle alternative a disposizione delle piccole imprese per reperire credito. E spingendole ancora una volta a chiudere o ad aggregarsi oppure a reperire capitali di rischio.

MA QUEL MIRACOLO, FORSE, STA ARRIVANDO

Ma quel miracolo forse sta arrivando. Ci sono tuttavia dei segnali di distensione tra gli speculatori sui prezzi a termine (i “futures”) del gas i quali potrebbero indicare un’anticipazione di ciò che Russia e Cina potrebbero aver concordato nel vertice di Samarcanda: la riapertura del gasdotto North Stream 1 da parte della Russia. I motivi, politici, strategici o altro non è dato di conoscerli dal momento che non è nemmeno sicuro che succederà, ma il segnale fa il paio con la proposta di Putin di riaprire i negoziati di pace per l’Ucraina, segnale di fatto snobbata tanto da Zelenski quanto dai media nostrani ma che, se portato avanti con insistenza, non potrebbe essere ignorato. Se la Russia mostrasse infatti una forte volontà di ridurre la tensione in corso è piuttosto probabile che lo potrebbe fare accompagnando la strategia diplomatica con un gesto di “amicizia” verso l’Europa, e in particolare verso la Germania, che ha indubbiamente subìto il diktat americano e che rischia di stracciare il proprio tessuto manifatturiero.

Ora è evidente che, qualora la Russia mostrasse di voler fare sul serio, non solo non ci sarebbero i famigerati razionamenti, ma i prezzi dell’energia scenderebbero decisamente così pure come il cambio del Dollaro, che ha sino ad oggi indubbiamente beneficiato dei rischi di guerra. E chi ci guadagnerebbe di più potrebbe essere l’Europa, dal momento che è quella che ha più da perdere nello scenario opposto. Una mossa che indubbiamente scompiglierebbe gli alleati occidentali, alle prese con un’America che vuole vincere sempre e a prescindere e un’Europa continentale che, in preda alla crisi che sta arrivando, rischierebbe soltanto di accelerare le sue divisioni!

Stefano di Tommaso