QUELLA STESSA LINEA ROSSA

La presidente della Camera dei Deputati americani, Nancy Pelosi ha annunciato per Agosto una propria visita a Taiwan portandosi dietro addirittura una delegazione di altri parlamentari, e facendo ovviamente infuriare il governo cinese,

 

Neanche a farlo apposta ciò accadrà a pochi mesi di distanza dal giorno che Pelosi lascerà per sempre quella poltrona, visto che in autunno ci saranno le elezioni, che si prospettano disastrose per i democratici.

Pechino ha già detto chiaramente che percepisce quel viaggio come una forte trasgressione da parte di Washington alla propria politica di ”una sola Cina”, portata avanti costantemente ma pazientemente da decenni. Tanto è vero che il Pentagono ha in programma l’invio di jet da combattimento e navi da guerra per proteggere l’aereo di Pelosi in caso di attacchi da parte dell’esercito cinese.

Gli Stati Uniti sono perfettamente consapevoli che un incidente diplomatico di questo genere potrebbe arrivare a scatenare un vero e proprio conflitto, perchè il governo cinese ha iniziato a mettere in guardia Washington usando quello stesso linguaggio della “linea rossa” che la Russia aveva utilizzato a proposito delle provocazioni subìte prima della sua invasione di Ucraina.

“Se gli Stati Uniti insistono a sfidare la linea rossa tracciata dalla Cina incontreranno contromisure risolute. Gli Stati Uniti devono prendersi la piena responsabilità di qualsiasi conseguenza grave che ne derivi” ha annunciato il portavoce del governo cinese. Ma Nancy Pelosi tira dritto..

Lo scorso Dicembre Biden aveva annunciato alla stampa: “Non accettiamo linee rosse di nessuno” riferendosi all’avvertimento lanciato da Putin a proposito dell’adesione dell’Ucraina alla NATO, e sappiamo come è andata a finire.

E’ esattamente quello che sta succedendo stavolta a Taiwan. La “linea rossa” tracciata dalla Cina verrebbe platealmente oltrepassata con lo sbarco di Nancy Pelosi a Taiwan. Nel migliore dei casi aumenterà la tensione internazionale, nel peggiore provocherà una guerra.

Si rischia perciò un ulteriore conflitto tra Oriente e Occidente e potrebbe sembrare ingiustificato, ma forse è proprio lo scontro cià che Washington sta cercando, così come ha fatto pochi mesi fa in Ucraina, per poi muovere la macchina del fango accusando la Cina di imperialismo. E di nuovo si tratterebbe di una guerra per procura, non combattuta da soldati americani. Geniale ma spietata e pericolosissima la strategia americana.

Non voglio nemmeno pensare ad una nuova guerra mondiale ma già soltanto l’ipotesi che l’Occidente ripeta con la Cina le sanzioni e la strategia di tensione applicati alla Russia è prospettiva assai grama per il resto del mondo. E ovviamente stavolta le ripercussioni sarebbero infinitamente maggiori rispetto a quelle conseguenti alla guerra in Ucraina, perché il mondo intero (e soprattutto l’Europa) dipende dall’industria cinese.

Il prezzo del petrolio potrebbe di nuovo schizzare verso l‘alto e così pure probabilmente il dollaro americano come avviene in occasione di ogni nuovo conflitto. Di conseguenza l’inflazione potrebbe andare alle stelle, ma con il dollaro che si rivaluta l’America potrebbe riuscire a esportare parte della propria inflazione e rafforzerebbe al tempo stesso il proprio predominio sul resto del mondo. Chi ci rimetterebbe di sicuro sarebbero ancora una volta i paesi emergenti, i cui debiti nella maggior parte dei casi sono espressi in dollari.

Sanzionare la Cina per un eventuale attacco a Taiwan e arrivare a impedirne le esportazioni verso l’Occidente potrebbe forse fare gioco all’America ma sicuramente getterebbe il resto del mondo in una recessione pesante che colpirebbe soprattutto l’Europa e le sue esportazioni.

Senza contare il rischio di dover rinunciare ai manufatti cinesi e l‘impossibilità di sostituirne in fretta le produzioni. Forse una grande opportunità per le multinazionali americane ma anche un grande passo indietro per il commercio internazionale!

Procedere verso la contrapposizione sempre più marcata tra Oriente e Occidente fa gioco alla strategia anglo-americana rivolta a mantenere il proprio predominio globale, ma fa al tempo stesso molto male all’Europa. E non è affatto detto che finisca per danneggiare davvero la Cina, come si è già visto con la Russia.

Stefano di Tommaso




ALLARME SPREAD

Per usare parole di Ernest Hemingway (nel romanzo “Il sole sorgerà ancora”), la caduta del governo di Mario Draghi è maturata prima gradualmente, e poi improvvisamente. Egli aveva speso tutto il suo prestigio internazionale per rendere credibile la promessa di attuare numerose riforme, con atteggiamento inequivocabilmente pro-NATO e pro-Unione Europea che aveva rassicurato -ma anche illuso- tanto i mercati finanziari internazionali quanto i suoi concittadini. La consapevolezza di non poter arrivare sino in fondo è man mano avanzata, sino a maturare e a divenire esplicita.

 


Forse è utile infatti ricordare che di tutte le riforme promesse al Paese e all’Unione Europea non soltanto sono parecchie quelle non realizzate, ma persino tra quelle già attuate, diverse hanno subìto blocchi inaspettati (si pensi all’incentivo “110%” alle ristrutturazioni edilizie). D’altra parte l’ambizioso programma di governo dell’ex governatore della Banca Centrale Europea non poteva non far emergere la più generale difficoltà per il nostro Paese di conciliare le esigenze dei cittadini e delle imprese con quelle -spesso divergenti- degli alleati atlantici e degli altri stati membri dell’Unione Europea, ognuno dei quali è necessariamente portatore di propri interessi.

IL RISCHIO “CAOS” INGROSSA LO SPREAD


Oggi, prima di trovare un nuovo equilibrio politico e di riuscire a fornire un seguito credibile al governo di unità nazionale che è stato sorretto dal voto favorevole del parlamento per circa un anno e mezzo, l’Italia rischia di scivolare ancora nella recessione e nel caos amministrativo. Per 17 mesi destra e sinistra hanno convissuto con un governo popolato non soltanto da tecnocrati scelti dal Primo Ministro, ma anche da pittoreschi quanto improvvisati “statisti” oltre che da consumati “passisti“ della prima repubblica. All’approssimarsi però delle elezioni, è divenuto chiaro che “sovranisti”, ”globalisti“, ”assistenzialisti” e “moderati” non avrebbero potuto più convivere nel medesimo governo, peraltro tenuto strenuamente da Draghi su posizioni tra le più filo-americane che la storia ricordi.


Attenzione: Mario Draghi resterà ancora saldamente legato alla propria poltrona fino a Ottobre, e forse anche a Novembre, dal momento che le direttive imposte dal presidente della repubblica e la scelta di quest’ultimo di sciogliere le camere e indire nuove elezioni dopo la fine dell’estate permetterà all’attuale Consiglio dei Ministri di fatto di continuare a governare -quasi a pieni poteri- fino all’entrata in carica del nuovo esecutivo. Continuando probabilmente ad inviare segretamente altre armi in Ucraina e a promulgare decreti e provvedimenti relativamente impopolari.

Il punto però riguarda le prospettive politiche del paese, dal momento che i sondaggi rivelano una probabile vittoria dei partiti di destra e, tra questi, una decisa prevalenza di quello meno propenso a proseguire sulla linea del governo attuale: i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. In un paese come il nostro, dove la legge elettorale esprime un sistema proporzionale che rende necessarie ampie maggioranze per governare, è possibile che il prossimo esecutivo, quando verrà partorito, rassomigli parecchio a quello precedente.

QUALE ALLARME


Tali prospettive politiche possono scatenare allarmi di due tipi sui mercati finanziari: l’allarme del primo tipo riguarda il rischio che l’Italia possa moderare la linea atlantista imposta sino ad oggi dal presidente del consiglio e, prima di lui, da quello della repubblica. Una linea non necessariamente virtuosa, poiché ha da un lato trascinato l’Italia allo scontro frontale con il suo maggior fornitore di energia (nonché bacino di sbocco di molte produzioni nazionali) e dall’altro lato ha garantito sì l’apprezzamento della comunità finanziaria ma ha anche fatto crescere sproporzionatamente il debito pubblico.

L’allarme del secondo tipo consiste nel timore che Commissione Europea e Banca Centrale Europea possano scegliere di non intervenire più con la determinazione e la tempestività mostrati in passato nella difesa della sostenibilità del debito pubblico italiano. Si tratterebbe di una subdola modalità di ricatto nei confronti di coloro che prenderanno il posto dell’attuale maggioranza parlamentare, onde ottenere che -chiunque siano- non possano discostarsi troppo dalla linea politica precedente.

LA “MEZZA MISURA” DELLA BANCA CENTRALE EUROPEA


La BCE infatti, ha sì varato il cosiddetto Transmission Protection Instrument (TPI: un nuovo meccanismo di contrasto alla speculazione contro il nostro sistema finanziario, consistente in un programma teoricamente illimitato di acquisto di titoli di stato dei membri più deboli dell’Unione), ma ha altresì lasciato ampia discrezionalità ai propri organi esecutivi circa le modalità e le tempistiche dell’intervento di questo meccanismo, evitando di precisarne troppo il funzionamento e, di fatto, azzoppandolo sin dalla nascita.

Il risultato di questa vaga -seppure illimitata- delibera, è quello che i mercati si attendono già oggi un maggior rischio di deprezzamento dei titoli di stato italiani, con la conseguenza di una crescita decisamente probabile del differenziale tra il rendimento garantito dal “Bund” tedesco e quello del BTP italiano: il famigerato “spread”! E le aspettative sui mercati finanziari -si sa- tendono quasi sempre ad auto-realizzarsi.

Cosa che risulta decisamente penalizzante per il nostro paese proprio adesso che i tassi d’interesse stanno salendo a razzo in tutto il mondo, il costo dell’energia va alle stelle a causa delle tensioni internazionali e il rischio che non arrivi abbastanza combustibile per riscaldare la cittadinanza e far funzionare l’industria continua a crescere. L’Italia infatti non brucia quasi carbone (come invece ha ripreso a fare la Germania), non ha centrali nucleari in funzione (come invece hanno altri membri dell’Unione, come Francia e Germania, anche se quest’ultima aveva, prima della crisi, deciso di spegnerle) e non estrae idrocarburi dal proprio territorio, per dissennata scelta, falsamente ambientalista.

I DANNI PER LE IMPRESE


Chi rischia dunque di fare parecchio le spese di questa situazione sono le imprese italiane, non soltanto per perché pagano inequivocabilmente l’energia più cara di qualunque altro concorrente in ambito comunitario, ma anche per altri due motivi:

1) rischiano in autunno di dover ridurre la loro attività per scarsità e maggior costo dell’energia rispetto alla stragrande maggioranza delle loro concorrenti europee,

2) rischiano di rinviare o ridurre investimenti e capitale circolante a causa del maggior costo del denaro: i tassi d’interesse risultano Infatti appesantiti dall’incremento dello spread e a causa della scarsa liquidità in circolazione nel nostro Paese, con la conseguenza del maggior costo del credito che ne deriva.

Anche la Borsa Italiana, ceduta al circuito europeo Euronext, risulta penalizzata dall’aumento dello spread. La caduta delle aspettative di crescita del nostro paese ha ridotto la quota di investimenti che i grandi gestori del risparmio destinavano in precedenza all’Italia, con il risultato che la liquidità scarseggia e le valutazioni aziendali inevitabilmente ne risentono. Diviene dunque più problematico per le matricole affacciarsi alla quotazione in borsa, proprio adesso che un gran numero di imprese stava decidendo di rompere gli indugi e decidere di proporsi al mercato dei capitali, anche per la scarsità di risorse disponibili a titolo di credito!

WHATEVER IT ”FAKES”


L’annuncio della Banca Centrale Europea insomma ha deluso parecchio. Sembrava che il nuovo programma illimitato di “anti-frammentazione” (di fatto rivolto al sostegno dei debiti pubblici di paesi come il nostro) potesse vagamente somigliare al famoso “whatever it takes” pronunciato proprio da Mario Draghi più o meno esattamente una decina d’anni fa. Ma a guardarlo bene rischia di essere una farsa, un minuetto piuttosto vago nei contenuti. Più simile dunque a un “whatever it fakes”! In linea con la politica di piccoli passi e molta circospezione che ha tenuto la governatrice Christine Lagarde da quando è stata eletta, soprattutto nei confronti dei falchi tedeschi, che notoriamente non sono particolarmente propensi a concedere granché a paesi come il nostro.

Stefano di Tommaso




”CUI PRODEST SCELUS, IS FECIT”

LA COMPAGNIA HOLDING SPA
Il mondo è sull’orlo di una crisi di nervi: la minaccia di una recessione globale avanza (anche la Cina segna il passo nella crescita economica), l’inflazione avanza e spinge le banche centrali a rialzare i tassi, cosa che accentua i rischi di recessione e mette pressione ai mercati finanziari. La tensione geopolitica tra Occidente e Russia, con Iran e Cina) non accenna a diminuire (siamo all’ottavo pacchetto di sanzioni) e, giusto per non farci mancare nulla, la recrudescenza della pandemia aggiunge suspense allo scenario economico, mentre molti capi di governo incontrano problemi inaspettati e si dimettono o vengono ridimensionati (da Johnson a Macron, da Draghi a Biden e a Sholz, passando per l’omicidio di Shinzo Abe). È la tempesta perfetta?

 

UN METODO: A CHI GIOVA?

Gli scenari geopolitici sono sempre incerti, sia perché dipendono dalle scelte di pochi grandi decisori, i quali non sempre seguono percorsi razionali. Ma soprattutto perché quando lo fanno non sempre perseguono obiettivi palesi. E così i risultati macroeconomici delle scelte di politica internazionale possono dipendere da atteggiamenti politici in apparenza ondivaghi o improvvisati, o possono rispondere a mire inconfessabili. Ma in tal caso possiamo stare certi che il mainstream dei media globali farà di tutto per non farle trasparire.

C’è allora un metodo per evitare di girare a vuoto nel cercare di interpretare gli eventi accaduti e predire quelli in fieri? Di solito c’è, anche se non può costituire una vera e propria certezza: è quello di verificare il famoso “cui prodest scelus is fecit” (in latino: ”il delitto l’ha commesso colui al quale giova”) che proponeva Lucio Anneo Seneca nella “Medea”. Gli inglesi dicono “follow the money” per intendere sostanzialmente la stessa cosa: se cerchi di comprendere a chi convengono le cose che succedono, magari riesci anche a coglierne le ragioni. E’ un metodo decisamente cinico ma spesso più oggettivo delle numerose fantasticherie che giornalisti, intellettuali e politici si sperticano a volerci propinare. E quasi sempre funziona, appunto!

Per esempio: dopo oltre due anni da quando si è scatenata la pandemia da Covid (sulle cui origini non si è mai fatta chiarezza), si è potuto vedere abbastanza chiaramente chi ci ha guadagnato: la Cina, innanzitutto, colpita in anticipo ma soltanto in una piccola frazione dei suoi territori, così come le grandi multinazionali del farmaco e delle tecnologie digitali. Insomma: non il fabbro ferraio o il ciabattino di periferia, bensì taluni governi e pochi grandissimi operatori economici. Anche dal punto di vista politico si è visto chi ci ha guadagnato: il partito democratico americani è riuscito a riprendersi la Casa Bianca sconfiggendo Trump. Anche in Europa, la cupola dei governi di centro-sinistra ha consolidato le sue posizioni. E le borse, dopo un primo scoramento, hanno finito col trarre grandissimi benefici dal vortice che si è creato, tornando a crescere oltre i livelli precedenti al virus.

QUALCUNO CI GUADAGNA

La morale sembra essere che ”a pensar male si fa peccato” come diceva il grande gobbo della politica italiana, ”ma spesso ci si coglie”! E anche stavolta che il mondo sembra essere davvero a ferro e fuoco (e non soltanto in Ucraina) probabilmente c’è qualcuno che ne sta approfittando a mani basse: possiamo iniziare ad elencare ad esempio coloro che controllano il mercato del petrolio, schizzato alle stelle con la guerra. Ma anche i grandi esportatori di gas americano (spesso sono i medesimi), pronti a rimpiazzare -a carissimo prezzo- il gas che non compreremo più da Mosca. Non a caso il Dollaro americano si è apprezzato contro praticamente tutte le altre valute.

E poi ci stanno sicuramente guadagnando i grandi produttori di armamenti, sommersi da nuovi ordinativi persino da parte di stati costretti al pacificismo più assoluto, come la Svizzera o il Giappone. Nonché quasi tutte le grandi lobbies che controllano le principali risorse naturali. Così stiamo anche vedendo chi ci rimette: sicuramente l’Europa, che guarda caso stava rialzando la testa rispetto all’ “alleato” americano, come pure ci rimette la Gran Bretagna, che sembrava essere uscita più che indenne dal divorzio con l’Unione, ma anche un po’ la Cina, rea di essersi schierata a supporto della Federazione Russa. Il turismo ha subìto un nuovo duro colpo. E le economie emergenti sono in ginocchio.

LA GRANDE FINANZA HA SCOMMESSO AL RIBASSO

Anche stavolta poi l’altra vittima potrebbero sembrare i grandi operatori finanziari, dal momento che i loro asset, con l’inflazione e i timori di recessione, sono scesi di prezzo. Ma siamo sicuri sia davvero così? O invece qualcuno di loro magari lo sapeva già prima, come ad esempio il più grande “hedge fund” del pianeta, denominato Bridgewater e gestito da Ray Dalio (il 58.mo uomo più ricco del mondo), che da tempo dichiara pubblicamente di aver speculato al ribasso contro i mercati finanziari europei. E se anche nessuno ne avesse certezza, siamo sicuri che il mercato finanziario seguirà pedissequamente al ribasso l’economia reale anche in futuro? Già tre mesi dopo la pandemia era successo l’opposto. E anche stavolta rischia di andare allo stesso modo.

In effetti le bombe di profondità del rialzo dei tassi d’interesse, sganciate tardivamente dalle principali banche centrali occidentali contro l’inflazione, potrebbero finire per non proseguire molto a lungo. E dopo aver spaventato tutti i pesci piccoli potrebbero -a recessione conclamata- arrivare a decidere di cambiare rotta, aiutando le borse a ritrovare nuovi massimi. Cosi come era successo all’inizio dell’estate del 2020. Dunque non subito, ma soltanto dopo che le statistiche avranno iniziato ad intonare il “de profundis” per l’economia globale.

INFLAZIONE E RECESSIONE

L’inflazione peraltro non è solo un tema di scontro politico a proposito della tutela del potere d’acquisto delle classi più disagiate. E’ anche il risultato di molte variabili “primarie” che si sommano e si intrecciano generando rialzi dei prezzi al consumo con notevole ritardo rispetto alle principali determinanti di quei rincari. Dunque se gl’indici dell’inflazione arriveranno a flettere nei prossimi mesi, questo lo si dovrà più alle incertezze nella domanda di energia e materie prime che deriverà dalla recessione economica, che non al venire meno delle cause strutturali. E non possiamo escludere che già la notizia della tendenza al ribasso dell’inflazione potrebbe farsi accompagnare da un bel rialzo degli indici di borsa, i quali di solito tendono ad anticipare così tanto gli eventi che quasi li contraddicono.

Le statistiche ufficiali sull’andamento dell’economia reale infatti non confermeranno presto l’entrata in recessione, nemmeno in Europa, se non forse alla fine dell’estate, nonostante ve ne sia già sufficiente evidenza. Ma nel frattempo la domanda di petrolio, gas, metalli e minerali vari potrebbe essere discesa abbastanza da farne calare le quotazioni, anticipando quel che potrebbe succedere entro pochi mesi successivi all’inflazione “ufficiale”. E a quel punto le borse potrebbero aver abbondantemente superato il loro punto di minima, anche se ciò dovesse coincidere con l’ufficializzazione della recessione economica globale e con una corrispondente riduzione dei posti di lavoro.

COME EVOLVERÀ LA GUERRA IN CORSO?

Ovviamente ciò potrebbe materializzarsi solo qualora le tensioni geopolitiche non dovessero invece esplodere e magari estendersi alle zone limitrofe al conflitto bellico, che è oramai una guerra santa dell’Occidente contro la Russia, se non addirittura contro tutto l’Oriente del mondo. Se infatti i signori della guerra dovessero decidere di rincarare la dose di vittime quotidiane delle bombe, allora per le Borse sarebbe tutto rinviato a data da destinarsi. Ma come scrivevamo all’inizio, forse c’è un modo di prevederlo: quello di chiedersi se e a chi converrebbe.

Sino ad oggi infatti la guerra sembra aver favorito i grandi detentori di risorse naturali, i leader di determinate fazioni politiche e i grandi costruttori di opere infrastrutturali. Ha invece apparentemente spiazzato i mercati finanziari e i loro protagonisti. Ma se la guerra dovesse andare ancora avanti a lungo a chi potrebbe convenire? Forse non più ai medesimi soggetti che ci hanno guadagnato sino ad oggi. I governi dovranno sostenere il confronto con le popolazioni colpite da inflazione e disoccupazione. L’instabilità che ne conseguirebbe non aiuterebbe necessariamente i grandi detentori di interessi economici. Inoltre se la “stagflazione” (stagnazione + inflazione) persisterà, allora anche gli investimenti produttivi si ridurranno e i debiti pubblici vacilleranno pericolosamente. E a chi potrebbe convenire? Non ai banchieri e nemmeno alle grandi industrie.

Non è detto perciò che si lasci accadere che la guerra proceda troppo a lungo: alcuni importanti operatori finanziari (che sino ad oggi hanno potuto guadagnare dalle posizioni ribassiste) potrebbero rimanerne vittima. I grandi produttori di materie prime ed energia troverebbero poco conveniente vedere scemare troppo la domanda. E molti altri soggetti potrebbero avere poca convenienza a veder proseguire indefinitamente il conflitto ucraino, e con esso anche l’inflazione e la recessione.

SONO SOLO CONGETTURE

Se dunque il metodo del “cui prodest” potesse rivelarsi valido, allora è possibile ipotizzare che la guerra in Ucraina non continuerà ad oltranza, che l’inflazione possa arrivare a rallentare in coincidenza con le elezioni di medio termine americane, e che le borse occidentali possano rimbalzare. Ovviamente sono solo congetture. Ma in un mondo che oscilla pericolosamente forse sono meglio che niente.

Resterebbe poi un punto interrogativo su ciò che accadrà alla martoriata Ucraina: si dividerà in due? O resterà neutrale? Le grandi risorse naturali che custodisce fa pensare che sia piuttosto probabile che la si voglia far entrare nell’Unione Europea, dove le multinazionali avrebbero gioco facile. Anche se questo dovesse comportare l’ altissimo costo della ricostruzione. Non sarebbero loro a doverla pagare, anzi! E la Cina potrà ritenersi soddisfatta della propria alleanza tattica con Mosca oppure alzerà la sua posta arrivando giocando su entrambi i tavoli?

Difficile riuscire a fare previsioni anche in questo. Così come è difficile indovinare la scansione temporale degli eventi. E la tempistica spesso è assolutamente predominante nelle decisioni finanziarie. Meglio tenere alta la prudenza, dunque. E al tempo stesso anche la liquidità. All’autunno e ai suoi appuntamenti elettorali mancano ancora diversi mesi, nei quali può ancora succedere di tutto…

Stefano di Tommaso




SE MANCA IL GAS ALL’EUROPA

LA COMPAGNIA HOLDING
Lunedi 11 Luglio 2022 potrebbe essere ricordato nella storia come il giorno in cui le forniture di gas dalla Russia si arrestarono quasi del tutto per l’Europa occidentale. E’ previsto infatti dall’11 al 21 Luglio il fermo tecnico del gasdotto North Stream, che attraversa il mar baltico per finire sulle coste della Germania. Si tratta in realtà del primo di due gasdotti con il medesimo nome e il medesimo percorso (North Stream 1 e 2) ma il secondo, da tempo pronto all’uso, non è mai stato utilizzato per pressioni americane. Molti analisti concordano sul fatto che, probabilmente, non riaprirà mai più, a causa delle tensioni geopolitiche in corso.

 

L’INCIDENTE DIPLOMATICO

La Germania già doveva fare i conti con una riduzione di circa il 40% del gas in arrivo tramite il North Stream 1. Ora per 10 giorni il gasdotto si fermerà del tutto. Secondo Mosca, questo è dovuto a problemi tecnici: Gazprom spiega che il gasdotto funziona al 60% per la mancanza di una gigantesca turbina della Siemens fabbricata però in Canada, che però in base al regime delle sanzioni in vigore non può essere inviata in Russia. Ora il Canada ha finalmente sbloccato l’invio della turbina, ma toccherebbe alla Germania infrangere le sanzioni alla Russia. Dal canto suo quest’ultima potrebbe approfittarne per segnalare l’evidenza che le sanzioni colpiscono innanzitutto chi le ordina. E potrebbe decidere di non riceverla nei suoi porti.

L’EUROPA È QUELLA CHE CI RIMETTE DI PIÙ

Se il flusso del gas russo dovesse interrompersi però, l’industria tedesca (e non soltanto quella tedesca) potrebbe essere messa a dura prova, a corto di energia e senza valide alternative. L’evento è tutt’altro che certo, ma il solo rischio che possa accadere è fortemente esemplificativo della situazione che L’Europa sta vivendo in questi mesi, cioè da quando è partita la guerra in Ucraina: è senza dubbio l’area economica che ci sta rimettendo di più dallo scorso Febbraio, quando al termine di un crescendo di bombardamenti e pressioni di ogni genere del governo centrale di Kiev nei confronti delle due repubbliche separatiste de nord-est, ucraine ma filo-russe, l’esercito di Mosca si è deciso ad intervenire militarmente per disarmare il paese ed impedire il suo ingresso nella NATO, cosa che gli avrebbe impedito di farlo in futuro.

Non rientra nell’oggetto di questo articolo comprendere chi possa aver ragione e chi torno (sappiamo che i nostri media sono tutti pesantemente schierati sulla narrativa anglo-americana della vicenda) bensì è importante il fatto che, da quel momento, l’economia europea è stata sottoposta ad una serie di eventi che ne hanno limitato la prosperità e che rischiano oggi di metterla del tutto in ginocchio. La Germania peraltro può ancora decidere di non fermare le proprie centrali elettriche basate sul nucleare, il cui stop è programmato per il 2023, e sta riaprendo le proprie centrali elettriche a carbone. La Francia può decidere di incrementare la produzione elettrica da energia nucleare. E’ casomai l’Italia quella che può attivare ben poche opzioni strategiche.

IL RISCHIO CHE CROLLI L’INDUSTRIA TEDESCA

Tuttavia il solo rischio che l’arrivo del gas russo si interrompa sta provocando una serie di problemi all’economia tedesca. Problemi che evidentemente rischiano di ripercuotersi in tutti gli altri paesi dell’Unione. Il gigante tedesco del gas Uniper -ad esempio- ha chiesto al governo un salvataggio pubblico acquisendo una partecipazione azionaria «rilevante». Ha anche chiesto un ulteriore finanziamento del debito attraverso un aumento della linea di credito garantita dallo Stato: si stima che la compagnia, controllata dal gruppo finlandese Fortum, potrebbe aver bisogno di circa 9 miliardi di euro, più del doppio del suo valore di mercato. Uniper ha dovuto comprare gas sui mercati spot a prezzi molto elevati pur in presenza di prezzi di vendita “rigidi”, il che ha messo a dura prova le sue finanze. Il capo di Uniper ha anche preannunciato un «enorme aumento delle bollette del gas il prossimo anno» a carico di imprenditori e consumatori tedeschi.

L’azienda energetica tedesca rischia perdite fino a 10 miliardi di euro quest’anno. Il governo ha approvato una legge per l’acquisizione di partecipazioni in aziende energetiche in crisi. Il ministro dell’Economia Habeck ha messo in guardia circa la possibilità che il fallimento delle imprese energetiche possa comportare fallimenti a catena, con un meccanismo simile a quello di Lehman Brothers sulle altre banche. Non soltanto: con il rialzo oltre misura dei prezzi dell’energia, alcune città tedesche stanno già organizzando spazi pubblici riscaldati per il prossimo inverno, in maniera da poter ospitare gratuitamente quanti, all’arrivo della stagione fredda, non potranno permettersi di pagare le bollette rincarate dall’aumento del costo del gas. Il fatto che altri paesi europei, meno previdenti, non ne stiano ancora parlando, non significa che il rischio di un inverno “freddo” non sia reale.

LA COMPAGNIA HOLDING
Il conflitto in corso sta dunque aggiungendo molta tensione sui prezzi dell’energia, cosa che non soltanto significa dover rialzare il prezzo di moltissimi altri beni, ma anche e soprattutto il rischio di dover riconvertire buona parte dell’apparato industriale della Germania, oggi ancora basato sull’utilizzo intensivo di carburanti fossili. Tagliare le forniture di gas e petrolio russo sulle quali ha sempre contato, comporterebbe una carenza di gas in Germania tra 23,8 TWh (terawattora) e 160 TWh. Alcuni istituti di ricerca economica hanno stimato che la riduzione della produzione industriale ad alta intensità di consumo di energia si tradurrebbe in una perdita di valore aggiunto tra i 46 e i 283 miliardi di euro per le industrie tedesche, cioè tra il 2% ed il 9% circa del totale della produzione industriale del 2021. Questo rischio ha tra l’altro determinato la necessità -da parte dei governi- di innalzare al massimo possibile il livello delle scorte strategiche e di limitarne i consumi privati, nella prospettiva che quelle forniture possano presto terminare.

IL GAS NON È LA SOLA ARMA DELLA RUSSIA

Oggi quel momento sembra essere arrivato, anche se non è detto che la Russia deciderà di procedere con la sospensione immediata delle forniture di gas, perché -contro le sanzioni che le sono state comminate da America e Unione Europea- potrebbe avere un più sofisticato potere dissuasivo, attraverso la riduzione delle esportazioni di petrolio. Qualora infatti Mosca decidesse di procedere in tal direzione il prezzo dell’oro nero sarebbe inevitabilmente destinato a crescere parecchio, dal momento che già oggi la sua domanda supera l’offerta e l’attuale equilibrio tra l’una e l’altra è -per il momento- garantito dall’aver portato al massimo l’estrazione da parte dei paesi del golfo arabico.

Ma ora siamo in piena estate e impatterebbe di meno. Il problema potrebbe invece aggravarsi con il sopraggiungere della stagione fredda e l’inevitabile maggior costo del petrolio potrebbe mettere in ginocchio l’intera industria occidentale, provocando di fatto una recessione. Il rimpiazzo di quelle minori forniture di petrolio non è impossibile, ma non potrebbe essere immediato, e comporterebbe ingenti investimenti da parte dei grandi produttori, con un’attesa di almeno sei mesi fino al momento in cui potesse essere installata nuova capacità produttiva.

L’ECONOMIA OCCIDENTALE A UN BIVIO

Il problema è che la crescita economica dei paesi occidentali è attualmente ad un bivio, tra la prosecuzione dell’attuale ciclo post-covid (di ripresa) e una possibile nuova pesante recessione, potenzialmente peggiore di quella scatenata dalla pandemia. Le banche centrali (prima fra tutte la Federal Reserve) tra l’altro hanno agito da cassa di risonanza per la situazione, riducendo la liquidità disponibile sul mercato finanziario e innalzando il costo del denaro. In particolare ha agito prima e più di tutte le altre quella americana, cosa che ha di conseguenza artificialmente innalzato il cambio del Dollaro.

Di conseguenza molti investimenti, pubblici e privati, oggi vengono rinviati a data da destinarsi, soprattutto nei paesi emergenti dove il caro-Dollaro e il rialzo dei tassi di interesse stanno colpendo più duramente. Chi ci rimette di più in questa situazione sono soprattutto le esportazioni dell’industria tedesca, e insieme a quest’ultima anche buona parte di quella europea, che molto spesso agisce in regime di sub-fornitura di quella teutonica.

Se infatti per l’industria italiana l’aver dovuto rinunciare alle esportazioni verso la Federazione Russa è stato un colpo duro, ma limitato a taluni comparti e tutto sommato “gestibile”, cosa diversa sarebbe dover rinunciare ad una quota consistente delle esportazioni verso la Germania qualora le grandi imprese tedesche dovessero ridurre i loro ritmi produttivi, e tra l’altro l’effetto -più grave- si sommerebbe a quello già registrato, mettendo in ginocchio molti distretti industriali del Bel Paese e contribuendo a far dilagare una recessione economica che -oramai- appare quasi certa anche per i prossimi due trimestri dell’anno in corso.

E ORA ARRIVA L’AUTUNNO “CALDO”

Tra l’altro l’Europa non ha ancora affrontato, a causa della rigidità del mercato del lavoro rispetto all’economia americana, il problema della perdita di potere d’acquisto dei salari e stipendi delle classi sociali più basse, cosa che invece nei paesi anglofoni, con un mercato del lavoro molto più vivace, non p stato un problema, dal momento che si è riallineato verso l’alto quasi automaticamente. Nei paesi invece dove vige la contrattazione collettiva e dove il mercato del lavoro subisce molte più rigidità (con situazioni non non proprio identiche parliamo in particolare di Italia, Spagna, Francia e Germania), al momento i salari sono rimasti quelli di prima dei rincari a raffica, con una significativa perdita del potere d’acquisto da parte delle famiglie appartenenti ai ceti più bassi.

Il rischio di forti tensioni sociali e altrettanto aspre rivendicazioni salariali è dunque evidente. Non è probabile che esso vada in testa alle priorità politiche e sindacali durante la pausa ferragostana, ma è molto concreto il rischio che si sviluppino vivacemente subito dopo, alla ripresa autunnale, contribuendo a far si che la recessione si “avviti” e che l’inflazione giunga ad auto-alimentarsi, esattamente come era già successo negli anni ‘70. L’autunno sembra proprio prefigurare una “tempesta perfetta” sull’economia dell’Eurozona, e i governi europei sembrano assai poco in grado di prevenirla!

Stefano di Tommaso