LA GUERRA DI NERVI E DEL PETROLIO

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Il confronto tra Russia e Occidente è a un punto di svolta: ulteriori iniziative belliche rischiano di trascinare il mondo verso una nuova guerra mondiale e i mercati finanziari verso il baratro. E il rischio più prossimo che può derivare dalla strategia di tensione geopolitica attuale è quello che il prezzo dell’energia vada alle stelle e, con esso, anche l’inflazione, alla quale non potrebbe che seguire una profonda recessione economica. E’ questa l’analisi pubblicata recentemente da JP Morgan Chase. I mercati finanziari ovviamente stanno alla finestra, pronti a scendere ulteriormente qualora se ne vedano le avvisaglie. Ma sono anche pronti a riprendersi, qualora tornino a spirare nuovi venti di pace.

 

L’INFLAZIONE ATTUALE È IL RISULTATO DEI RINCARI DEI MESI SCORSI

Gli operatori economici sono spaventati dai dati sull’inflazione dei prezzi al dettaglio, che continua ad aumentare sia in America che in Europa, ma in realtà non ci sono per il momento grandi novità sulle determinanti dell’inflazione dei prezzi che stiamo registrando oggi: se i costi di produzione erano cresciuti intorno a inizio anno mediamente dal 10% al 20% o più, era ovvio che quei rincari si sarebbero prima o poi trasferiti -lentamente ma inesorabilmente- ai prezzi al consumo. Ci voleva soltanto del tempo e questo sta succedendo ora. In realtà negli ultimi giorni i prezzi delle materie prime hanno leggermente ritracciato e ciò farebbe ben sperare.

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Non ci sarebbe dunque da spaventarsi nel veder registrare ancora per qualche mese nuovi rincari alla cassa del supermercato o nei servizi perché le cause a monte dei rincari si erano sviluppate tempo fa e, apparentemente, adesso stanno tornando indietro. Ovviamente non è tutto così semplice: poiché il potere d’acquisto dei salari si è ridotto almeno della misura dell’inflazione, non ci sarà da stupirsi se anche il costo della manodopera nei prossimi mesi salirà inevitabilmente, alimentando una pericolosa spirale dei prezzi che rischia di procedere ancora per diversi mesi, fino a toccare la soglia -non soltanto psicologica- del 10% rispetto a inizio anno. Quando un meccanismo come quello dell’inflazione si mette in moto, non lo si ferma dall’oggi al domani.

LO SHOCK DA OFFERTA SI È SOMMATO AL Q.E.

L’inflazione che stiamo vivendo da molti mesi a questa parte però ha una matrice simile a quella che ha caratterizzato gli anni di iper inflazione di mezzo secolo fa, ai tempi della ”guerra del Kippur”: è originata dall’aumento dei prezzi di quasi tutti i fattori di produzione, causata principalmente da uno shock da offerta. Cioè dalla scarsa disponibilità di materie prime, semilavorati, idrocarburi ed energia. Questa è calata strutturalmente (anche per problemi legati alla pandemia) e, -diciamo la verità- anche opportunisticamente, proprio quando l’economia globale provava a riprendere fiato all’uscita da due lunghi anni di “lockdown”. Molti grandi gruppi hanno indubbiamente fatto grandi profitti con i rincari che ne sono conseguiti.

E’ poi altrettanto vero che allo shock da offerta di beni e servizi si è aggiunta anche -come concausa dell’inflazione- la grande liquidità in circolazione pompata per anni dalle banche centrali di tutto il mondo. Ma questa affluiva già da anni e fino all’arrivo della pandemia globale, per una serie di motivi non era successo nulla di simile. Quando invece le due cause si sono sommate la fiammata dei prezzi è stata molto simile a quella del 1973. Ma le similitudini con quel periodo storico rischiano di non finire qui.

Anche allora il mondo viveva una serie di tensioni geopolitiche e anche allora le principali divise valutarie erano state inflazionate dalla perdita del riferimento del valore del Dollaro americano al valore dell’oro. E anche allora l’inflazione dei prezzi generò molta volatilità sui mercati finanziari e rialzi a raffica dei tassi di interesse, i quali a loro volta alimentarono una spirale che produsse diverse ondate di aumento dei prezzi, non soltanto una. Ecco dunque qual è il rischio che corre oggi l’America (e con essa quantomeno tutto l’Occidente): la possibilità che alla prima ondata inflattiva ne seguano altre.

LA TENSIONE INTERNAZIONALE FRENA I MERCATI FINANZIARI

Il problema è che la guerra in Ucraina non accenna a fermarsi e anzi la Russia ha quasi concluso il suo piano militare di porre sotto l’egida della Federazione le due repubbliche ucraine orientali, ove la quota di popolazione russofona era molto elevata e che erano teatro della guerra civile da anni. Ovviamente per consolidare questo risultato -costato molti morti- la Russia deve impedire che l’Ucraina torni alla carica, e per questo continua a prendere di mira le installazioni militari nel resto del paese e i depositi di armi che arrivano copiose dalla NATO. Una situazione che non piace alla NATO, la quale intende pertanto proseguire a fornire armi e consulenza militare al governo di Kiev, con il forte rischio che il conflitto si allarghi ai paesi che confinano con la Russia (ad esempio la Bielorussia). La NATO ha inoltre spinto i governi dei paesi aderenti a imporre numerose e pesantissime sanzioni economiche alla Federazione Russa, elevando la tensione nei rapporti internazionali a livelli mai visti dopo la seconda guerra mondiale.

E’ perciò molto probabile che la strategia di tensione che l’Occidente sta orchestrando nei confronti della Russia (e, meno platealmente, anche nei confronti di tutte le nazioni che non vi si sono pedissequamente allineate, a partire da Cina e India) rischi di fare altri danni, soprattutto all’Eurozona, tra le grandi economie del mondo quella più dipendente dagli approvvigionamenti esterni di risorse naturali. Non soltanto infatti le sanzioni hanno creato ovvi e pesanti ”ritorni di fiamma” azzoppando le economie dei paesi europei che le hanno applicate, ma c’è il rischio che la loro estensione in tutte le direzioni possa provocare una pesantissima rappresaglia russa: quella di ridurre o azzerare le forniture di gas e petrolio ai paesi NATO, cosa che rischia di creare dei disastri epocali ben più efficaci delle sanzioni.

LA POSSIBILE “MOSSA DEL CAVALLO” DI PUTIN

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In una situazione come quella attuale in cui la domanda di gas e petrolio supera la relativa offerta infatti, se la Russia dovesse decidere di ridurre ancora le proprie esportazioni verso l’Occidente si creerebbe un ulteriore shock da offerta sul costo dell’energia che potrebbe avere immediate ripercussioni sull’inflazione dei prezzi che ne conseguirebbe e sui tassi di interesse. E’ questo il senso dell’allarme, lanciato lo scorso Venerdì, dalla grande banca d’affari JP Morgan, alla quale tutto si può imputare tranne che possa muoversi nell’interesse di Putin.

In uno studio infatti della medesima viene stimato con una certa precisione l’effetto che una riduzione di offerta di 5 milioni di barili di petrolio al giorno -che la Russia potrebbe tranquillamente permettersi senza intaccare troppo la sua salute economica- potrebbe far più che triplicare le attuali quotazioni del greggio, con tanti saluti per le speranze di ripresa economica e riduzione dell’inflazione. Un’ipotesi tanto disastrosa quanto realistica, soprattutto se la NATO proseguirà nel suo intento di cercare di danneggiare la Federazione Russa con altre iniziative belligeranti.

Per ironia della sorte ciò accade proprio quando Joe Biden, conscio del fatto che l’inflazione (già vicina al 9% in America) non aiuterà il suo partito nelle elezioni americane di medio termine, ha deciso (con buona pace per la transizione ecologica e la sostenibilità ambientale precedentemente sbandierate come grandi urgenze) di far pressione su tutti gli altri paesi grandi estrattori di petrolio perché portassero ai massimi la loro capacità di immetterlo sul mercato e farne sgonfiare così i relativi prezzi. Da fonti bene informate infatti la presidenza americana non si era affatto risparmiata in tali sforzi, ad esempio con l’Arabia Saudita e gli Emirati del Golfo, pur di spingerli ad incrementare fino ai massimi possibili le quantità estratte.

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E in effetti prezzo del petrolio negli ultimi giorni è arretrato, ma non di molto, dati i rischi elevati che il conflitto bellico possa addirittura estendersi a Moldavia, Polonia e Paesi Baltici. C’è infatti una componente speculativa che punta in direzione esattamente opposta forte del fatto che la fornitura alle forze armate ucraine di missili a lungo raggio effettuata dagli Inglesi rischia di generare altre tensioni, dal momento che per lungo raggio si può intendere soltanto il raggiungimento di obiettivi militari all’interno del territorio russo. Con il rischio a quel punto di rappresaglie di Mosca rivolte non più soltanto all’Ucraina, ma anche ai suoi “mandanti”.

Ecco perché non è così probabile, in una situazione surriscaldata come quella attuale, che il prezzo del petrolio scenda davvero, pur in presenza di un incremento della sua offerta sul mercato spot. Così come non è possibile limitare artificialmente o segmentare geograficamente le sue quotazioni: quando il prezzo del petrolio sale, lo fa in tutto il mondo e istantaneamente. Dunque anche in America.

I MERCATI SONO A UN BIVIO

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Questo rischio, ben più che quello dei rialzi di alcuni ulteriori quarti di punto percentuale nei tassi di interesse, paventati dalle banche centrali, è il medesimo che spinge oggi gli investitori ad avere molta cautela nel tornare ad investire in Borsa, i risparmiatori ad aumentare la quota di liquidità, e gli industriali a rialzare i prezzi di vendita. Il rischio di un allargamento del conflitto bellico e quello di possibili rappresaglie da parte della Russia o sinanco dei paesi “non allineati”, vittime anch’essi di pressioni e minacce americane.

E se la tensione internazionale tornerà a salire, allora probabilmente partirà una nuova ondata di rincari nei prezzi delle materie prime e dell’energia e si ripeterà pedissequamente ciò che era successo a partire dai primi anni ‘70: che l’inflazione era montata “a ondate successive”, non una sola volta cioè, bensì in più riprese. Potrebbe succedere cioè che ulteriori rincari del costo dell’energia possano contribuire a nuovi rialzi dei prezzi al consumo, alimentando però in tal caso una più potente spirale inflazionistica dalla quale non sarebbe facile uscire indenni, nemmeno per le più poderose economie di mercato.

Nemmeno a dirlo, questo sì che alimenterebbe ulteriori aspettative di una recessione economica globalizzata e più profonda, generando tagli e rinvii ai programmi di investimento industriali e infrastrutturali, la quale recessione a sua volta dovrebbe necessariamente convivere con i rialzi dei prezzi di qualsiasi cosa. Una situazione potenzialmente disastrosa che, va da se, danneggerebbe molto di più i paesi le cui economie sono più aperte al mercato libero di quelle con pianificazione più centralizzata, e genererebbe il taglio di numerosi posti di lavoro!

Persino l’America diverrebbe ingovernabile in una tale situazione, posto che alle elezioni autunnali il partito di Biden porterebbe a casa una sonora sconfitta. Ma soprattutto la vicenda porterebbe allo scoperto le tensioni tra gli stati membri della nostra “unione europea incompiuta”, con il rischio di un ritorno indietro nel tempo che non gioverebbe a nessuno, salvo forse ai paesi asiatici, per guadagnare sull’Occidente ulteriori vantaggi strategici.

LO SCENARIO BELLICO ORIENTERÀ I MERCATI

D’altra parte è il destino che consegue a tutte le guerre della storia: è impossibile portarle avanti senza che facciano danni persino a chi le muove a distanza. Solo che stavolta rischiamo il paradosso di portare indietro le lancette dell’orologio all’epoca della guerra fredda e rischiamo la minaccia dell’inverno nucleare. Quello che conseguirebbe allo scambio di testate atomiche tra superpotenze militari. I russi utilizzano questa minaccia -così come quella del petrolio- con intento dissuasivo: si sono detti pronti al conflitto globale, qualora il loro territorio venisse attaccato, e non si illudono troppo sulla possibilità di riprendere trattative di pace con l’Occidente, ragione per cui potrebbero indurlo a più miti consigli attraverso ritorsioni come quella del petrolio.

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Le borse ovviamente staranno a guardare, atterrite (ma lo sono già, a questi livelli di prezzo) o forse anche euforiche, perché se qualche spiraglio di luce si potrà intravvedere sarebbero pronte a tornare a crescere. Certo con una volatilità che sarà difficile da veder scendere nel resto di quest’anno ogni buona notizia rischierebbe di vedere effetti molto limitati nel tempo. Anzi: c’è il rischio che persino l’auspicato rialzo dei titoli a reddito fisso possa venire rimandato sine die, ucciso dall’eccesso di volatilità. Basterebbe invece che la tensione internazionale tornasse leggermente indietro, che probabilmente i mercati finanziari tornerebbero a ravvivarsi non poco.

Invece oggi, sino a che durerà il rischio che il conflitto bellico venga esteso al resto del mondo, i grandi decisori sono costretti a restare liquidi e a fare ulteriori “voli verso la qualità” tornando a selezionare selvaggiamente i loro investimenti tra le sole imprese che promettono migliori risultati o che mostrano tecnologie capaci di fare la differenza, gettando alle ortiche le altre, senza troppi complimenti. Pronti peraltro a fare esattamente l’opposto qualora la situazione geopolitica migliori. E come dargli torto?

Stefano di Tommaso




LE BORSE SCENDERANNO ANCORA?

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I mercati finanziari sono noti per precedere vistosamente gli eventi attesi nell’economia reale, fino addirittura ad andare quasi in direzione opposta per via del gioco delle aspettative. E anche stavolta rischia di andare così: dopo una lunga discesa delle borse mondiali abbiamo assistito finalmente, la settimana scorsa, ad una piccola risalita del listini, dopo che dall’inizio dell’anno le borse erano scese quasi del 20% in totale (si veda il grafico relativo all’indice globale MSCI), anticipando una possibile recessione che si materializzerà forse soltanto nella seconda parte dell’anno. Ma proprio per questo non è detto che, all’arrivo effettivo della recessione, le borse scenderanno ancora.

 

UN CALO DEL 22%, POI UN RIMBALZO DEL 4%

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Come si può leggere dal grafico non soltanto le borse di tutto il mondo sono scese parecchio dall’inizio dello scorso Aprile, ma peraltro ci sono stati anche diversi tentativi di risalita delle borse, tutti terminati con altre discese. Come dobbiamo interpretare allora l’ennesimo rimbalzo delle borse dell’ultima settimana? E cosa succederà dopo?

IL RIMBALZO DEL GATTO MORTO

Un vecchio detto a Wall Street recita che persino un gatto morto, dopo essere precipitato dal piano superiore, rimbalza quando tocca terra. Il rimbalzo delle borse degli ultimi giorni dobbiamo dunque paragonarlo a un gatto morto (e dunque avrà brevi effetti) oppure potrebbe anticipare qualcosa di diverso?

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Sebbene non sia quasi mai possibile predire con certezza ciò che avverrà sui mercati nel futuro, possiamo ugualmente provare a prendere atto di alcuni fatti e talune convinzioni collettive, i quali potrebbero influire non poco sui corsi delle borse valori.

-20% : UNA NUOVA NORMALITÀ?

Innanzitutto alcune certezze:

  • il rialzo dei tassi d’interesse deciso dalle banche centrali per combattere l’inflazione influisce negativamente sulle valutazioni azionarie delle imprese, abbassando il valore attuale netto dei flussi di cassa futuri attesi che esse si presuppone potranno generare. Fino all’inizio di Aprile la volatilità delle borse era stata alta ma i livelli delle borse da inizio anno erano scesi solo marginalmente (-2,5%). Poi il quadro è molto peggiorato e la discesa dei corsi azionari è divenuta una voragine che ha superato il 20% (sempre da inizio anno).
  • un’altra quasi-certezza è che la recessione in arrivo (piuttosto probabile) ridurrà i profitti delle imprese quotate, con pochissime eccezioni, come ad esempio per le società che operano sui mercati di petrolio, gas, energie in generale e rinnovabili in particolare che, pur essendo più che raddoppiate di valore in media da inizio anno per aver beneficiato dei maggiori prezzi dell’energia, nell’ultima settimana hanno invece subìto un ribasso (qui sotto il grafico).

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Le suddette certezze (rialzo dei tassi, riduzione dei profitti) rendono estremamente plausibile il fatto che i ribassi accumulati dai listini azionari rispetto a fine d’anno (circa il 20%), abbiano portato i corsi delle borse ad una “nuova normalità” basata sui livelli attuali del listino, derivante dalle mutate condizioni economiche generali. Ma è altrettanto vero che, se questo è il quadro, allora i mercati finanziari potrebbero aver già “fattorizzato” tutti gli elementi negativi che dovranno manifestarsi nei prossimi mesi. E in tal caso da adesso in avanti potrebbero guardare al futuro con nuovo ottimismo.

LE BORSE SONO IN “IPERVENDUTO”

Non per niente possiamo notare che l’umore degli investitori è ai livelli peggiori da un paio d’anni a questa parte. Dunque le aspettative appaiono sì ancora così negative da far pensare che esse in parte si autorealizzeranno lasciando spazio ad ulteriori ribassi, ma è altrettanto vero che, se le aspettative generali appaiono (come anche questa volta)eccessivamente negative, allora i mercati borsistici potrebbero aver maturato una fase di iper-venduto dalla quale potrebbero riemergere, come si può peraltro vedere dal grafico qui riportato (relativo al Nasdaq):

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Dunque anche quest’ultima considerazione porterebbe a pensare che le cose, per il futuro, potrebbero forse andare meglio di quello che tutti oggi stanno pensando.

NON È DETTO CHE I TECNOLOGICI ABBIANO FINITO DI SCENDERE

Il ragionamento però non può essere fatto troppo in generale, anche perché quasi tutte le borse valori del mondo hanno i loro listini affollati di titoli “tecnologici” (cioè azioni di imprese in media estremamente sopravvalutate rispetto alle loro performances reddituali attuali, in funzione della promessa di risultati futuri ben superiori alla media). La sensazione pertanto è che quelle iper-valutazioni non potranno essere mantenute a lungo e che i prezzi di questi titoli dovranno sgonfiarsi ancora un po’.

A Wall Street ad esempio il peso dei soli titoli FAANG (Facebook, Apple, Amazon Netflix e Google) è pari a circa 1/5 del totale dell’intero listino. Pur essendo scesi di valore più che proporzionalmente rispetto all’indice generale americano SP500 (mediamente del 30% da inizio anno, come si può vedere dal grafico qui sotto riportato), esprimono ancora una valutazione d’azienda pari a circa 23 volte gli utili, cioè di oltre il 40% superiore alla valutazione media (di 16 volte gli utili) dell’indice generale SP500.

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Con l’arrivo delle aspettative di inflazione, recessione e crescita dei tassi d’interesse reali questi titoli “tech” sono stati pesantemente penalizzati dagli investitori che li hanno scaricati, in funzione di una decisa riduzione di quelle aspettative di crescita che ancora oggi contribuiscono a lasciarli decisamente sopravvalutati rispetto alla media del listino. A nessuno è però dato conoscere l’esatta misura di queste aspettative e dunque nessuno è in grado di formulare previsioni corrette circa il fatto che la loro svalutazione proseguirà e quanto essa influirà sui listini azionari complessivamente

I MOTIVI DI UN CAUTO OTTIMISMO

I mercati borsistici, dopo la doccia fredda che hanno vissuto dall’inizio dell’anno, abbiamo visto che nell’ultima settimana hanno provato a sviluppare ancora una volta un rimbalzo. Cioè stanno interrogandosi, dopo aver preso atto del fatto che è arrivata l’inflazione e che questa sta generando una nuova recessione, su quanto durerà e cosa potrà succedere dopo la recessione.

Se infatti l’arrivo della recessione arrivasse a spingere le banche centrali a invertire la rotta dei rialzi dei tassi e tornare a intervenire sulla liquidità disponibile, allora i tassi potrebbero smettere anticipatamente di salire e l’allarme relativo al possibile default per i paesi più indebitati potrebbe rientrare. È altresì possibile che il concretizzarsi della recessione (quantomeno per l’Occidente, che mostra una crescita demografica meno consistente di Asia e Africa) aiuti a far ridiscendere ancora il prezzo del petrolio (e quelli di tutte le materie prime ad esso collegate) e, con esso, l’inflazione attesa.

Tutti fattori che gioverebbero non poco all’umore dei listini azionari, scesi ad esempio in America ben più di quanto sia accaduto in Cina, come si può leggere dal grafico qui riportato (aggiornato alla settimana precedente). Dunque non in tutto il mondo le borse sono andate nello stesso modo!

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IL POSSIBILE RITORNO ALL’INVESTIMENTO OBBLIGAZIONARIO

Ma soprattutto potrebbe verificarsi un ritorno degli investitori dal listino azionario a quello obbligazionario, cosa che allenterebbe le tensioni (e la volatilità) delle borse ma che contribuirebbe a far terminare la lunga fase vissuta sino ad oggi di “bondification” degli investimenti, attraverso la sostituzione delle cedole del reddito fisso (che erano arrivate a zero) con titoli azionari capaci di generare i migliori dividendi. Se dunque gli investitori torneranno a comperare reddito fisso allora compreranno un po’ meno azioni, attenuando le speranze di risalita dei listini azionari.

Insomma se si segue questo ragionamento è piuttosto probabile che la fase che si apre a partire dall’estate 2022 potrà vedere una leggera ripresa delle borse valori che però non sarà necessariamente corroborata dal ritorno alle stelle dei maggiori titoli tecnologici e che sarà anche moderata da un ritorno alla diversificazione dei portafogli verso una maggior quota di titoli a reddito fisso. Se così fosse probabilmente dunque la forte volatilità media, vissuta dalle borse sino ad oggi, potrebbe finalmente scendere e, forse, una maggior liquidità potrebbe tornare a circolare sui mercati azionari a causa della progressiva ripresa di fiducia degli investitori professionali e istituzionali.

È chiaro infine che un allentamento della stretta attualmente promessa dalle banche centrali potrebbe ulteriormente corroborare le aspettative degli investitori, ma è anche piuttosto probabile che l’eventuale ritorno all’intervento da parte delle banche centrali potrà risultare più moderato che in passato, stemperando le aspettative al rialzo delle borse ma anche contribuendo a stabilizzarle.

MA GUERRA E PANDEMIA POSSONO ANCORA GUASTARE LA FESTA

C’è però all’orizzonte dell’altra nuvolaglia che potrebbe guastare le feste a chi si aspetta un rialzo delle borse: quella relativa al diffondersi delle nuove varianti dei virus che hanno provocato le precedenti cinque ondate pandemiche (e che recentemente hanno spinto la Cina ad un deciso nuovo “lockdown” della popolazione interessata), e quella relativa alle incerte sorti della guerra in Ucraina, dove tutti i contendenti sembrano fortemente propensi a proseguire o intensificare gli scontri.

Una nuova pandemia e/o un eventuale accanimento del conflitto ucraino (o una sua estensione a zone europee limitrofe) potrebbe infatti gettare nuova incertezza sui mercati, riducendone le possibilità di ripresa. Bisogna però ricordare che i mercati “prezzano” già l’incertezza bellica nelle attuali quotazioni e che tendono a limitare le loro aspettative di rialzo anche in funzione del fatto che il conflitto non accenna a risolversi. Dunque non solo guerra e pandemia potrebbero generare nuove sorprese negative, ma la loro “endemicità” introduce sicuramente un fattore di attenzione che spinge gli investitori a mantenere una maggior quota di liquidità tra i propri asset anche qualora l’inflazione facesse un po’ di marcia indietro e la recessione fosse soltanto parziale o avesse effetti molto limitati sulla riduzione dei profitti aziendali.

DUE “DRIVER” CONTRAPPOSTI

Ricapitolando perciò possiamo individuare per il prossimo futuro due possibili tendenze contrapposte:

  • da un lato infatti l’arrivo della recessione non appare destinato a generare nuovi importanti cadute dei listini azionari bensì addirittura forse a presagire un loro lieve rafforzamento. In contropartita eventuali interventi delle banche centrali a favore dei mercati potrebbero risultare in rialzi dei corsi molto moderati, a favore invece di una discesa probabilmente generalizzata del livello di volatilità dei mercati, sino ad oggi restata molto vicina ai massimi storici. Si tratta dunque di fattori moderatamente positivi che porterebbero maggior serenità all’investimento azionario e in definitiva ad una sua lenta ripresa;
  • dall’altro lato però lo scenario sopra descritto tende a ignorare i rischi di nuove ondate pandemiche e della possibile acutizzazione dei conflitti bellici in corso. Due fattori che potrebbero tranquillamente riportare indietro di un paio d’anni le lancette dell’orologio dei mercati. Con l’aggravante che oggi l’economia occidentale è sicuramente più provata di un paio d’anni fa a causa delle crisi già vissute e dell’accresciuto debito complessivo globale. In tal caso le borse non potrebbero che scendere ancora, fattorizzando non soltanto la recessione in arrivo ma anche un nuovo possibile picco dei prezzi delle materie prime.

LA STAGIONALITÀ DELLE BORSE

Nessuno conosce l’entità delle probabilità collegate all’uno o all’altro scenario e, in questi casi, la moderazione è d’obbligo. Ma la possibilità di una lieve ripresa dei listini azionari -almeno durante l’estate- potrebbe tutto sommato non essere del tutto da escludere, come ben indicato da questo grafico, che mostra con la linea rossa il tipico andamento borsistico (sintetizzato con l’indice Dow Jones) in ragione della stagionalità degli ultimi 30 anni: nella prima metà dell’anno le borse tendono a scendere, mentre dall’estate in poi tendono a a tornare a salire. Ci auguriamo che il buon auspicio possa valere anche per quest’anno.

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ALLARME IMPRESE ! (1^ PARTE: LA CONGIUNTURA ECONOMICA)

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Confindustria lancia l’allarme: la fiducia delle imprese sta rapidamente deteriorandosi e la congiuntura è estremamente sfavorevole. Hanno ragione gli imprenditori a lanciare il grido di allarme? Probabilmente sì, ma il loro non è terrorismo interessato, bensì puro realismo, al di fuori della campagna mediatica a supporto del “governo dei migliori” del mainstream. Le cause delle numerose penalizzazioni in arrivo per le imprese italiane dipendono tanto dalla politica interna quanto da fattori di matrice straniera, anche se i medesimi possono comunque essere ricondotti alle alleanze internazionali dell’Italia. Elementi (come vedremo qui di seguito) che congiurano tutti perché le imprese del nostro Paese rischino di subire una vera e propria batosta:

 

1) IL P.I.L. SI RIDUCE

Innanzitutto il Prodotto Interno Lordo (P.I.L.): se nei primi mesi dell’anno non è cresciuto, questo dipende anche dalla stagnazione dei consumi, in Italia più che altrove a causa della concomitanza della “deflazione salariale” (cioè del ribasso dei salari, compressi dalla disoccupazione ancora elevata) e dell’aumento di una serie di costi delle bollette e poi, ultimamente, anche del costo della vita (a causa dell’inflazione galoppante). Il diminuito potere d’acquisto dei salari ha sicuramente un effetto sulla contrazione della spesa per consumi e, in definitiva, anche sull’andamento dell’economia nazionale.

Nel grafico qui riportato l’impietoso raffronto tra l’andamento della fiducia delle imprese insieme con quello dell’ottimismo dei responsabili acquisti delle imprese (il cosiddetto indice “PMI manifatturiero”) con l’andamento (in valore) della produzione industriale.

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2) IL CREDITO SCARSEGGIA

Ma l’altro fattore che non sospinge al rialzo il P.I.L. sono gli investimenti che si riducono a causa della ridotta capacità finanziaria delle imprese italiane: non soltanto i finanziamenti costano più cari da qualche mese a questa parte, ma soprattutto iniziano seriamente a scarseggiare, mettendo in difficoltà persino gli investimenti “di ripristino” delle piccole e medie imprese, che consentono all’apparato produttivo nazionale di restare efficiente nel tempo. A questo dalla fine di giugno si somma anche l’indisponibilità (o il maggior costo) delle garanzie sino ad oggi offerte in forma non onerosa dal Mediocredito Centrale in ottemperanza al ”decreto salva-Italia”. Il mercato dei capitali peraltro potrebbe sì sopperire alla riduzione della disponibilità del sistema creditizio, ma quella della raccolta di capitali di rischio resta comunque un’opzione di limitatissima entità, soprattutto disponibile soltanto per le imprese di maggiori dimensioni, mentre è quasi del tutto assente per quelle più piccole.

3) INFLAZIONE E CARENZA ENERGETICA

Per completare il quadro generale serve poi elencare due fenomeni decisamente macroscopici, quali il rincaro delle materie prime (si veda il grafico qui riportato) e il rischio di carenza dell’energia (si prevedono forti razionamenti per l’autunno della disponibilità di gas e combustibili in genere). Si tratta dei due principali fattori di sofferenza delle imprese europee: le filiere di approvvigionamento tradizionali zoppicano e impongono costi crescenti dei fattori della produzione mentre l’energia non soltanto ha raggiunto costi esorbitanti ma soprattutto rischia di essere disponibile soltanto a singhiozzo, con il rischio di forti d’anni per i processi produttivi.

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4) I TASSI D’INTERESSE AUMENTANO

Fanno seguito ai rincari di qualsiasi cosa anche le banche centrali che, con pessimo tempismo, intervengono a rialzare il costo del denaro a causa della forte divaricazione che si è creata tra il tasso d’inflazione e i rendimenti nominali offerti dal mercato finanziario che hanno fatto sì che per qualche mese i rendimenti reali (cioè al netto dell’inflazione) siano risultati negativi. Il rialzo del costo del denaro ha peraltro una doppia valenza negativa per le imprese: da un lato rialza l’esborso per interessi (e di conseguenza comprime anche le valutazioni d’azienda) e dall’altro lato tende a deprimere l’economia, contribuendo a frenarne la crescita o ad ampliarne la recessione.

5) IL COSTO DEL LAVORO SALE

Un ulteriore fattore di produzione il cui costo è sembrato sino ad oggi stabile se non addirittura in discesa rischia invece di esplodere nei prossimi mesi: quello delle risorse umane! Non soltanto la disponibilità di manodopera (soprattutto quella qualificata) è in deciso ribasso (non dimentichiamoci del fatto che dal nostro Paese espelliamo ogni anno una grande quantità di talenti che si trasferiscono nei paesi più ricchi o con minor tassazione) ma sembrano anche in più in arrivo forti rivendicazioni salariali a seguito del caro-vita!

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6) I MARGINI DI PROFITTO RISULTANO A RISCHIO

E se praticamente ogni costo dei fattori produttivi è in crescita per le imprese italiane, è facile desumere che non soltanto i margini di profitto sono seriamente a rischio (poiché non è mai così scontato riuscire a trasferire “a valle” i rincari dei costi), ma addirittura è il capitale economico delle imprese che può ridursi in maniera significativa sé non interverrà qualche importante supporto di politica industriale!

7) SI RISCHIANO NUOVE TASSE

Come non bastasse questo coagulo di problematiche per le imprese il governo italiano sta impegnando ingenti mezzi economici per le spese militari e di riarmo proprio mentre stava cercando di destreggiarsi con un deficit consistente del bilancio pubblico. Di conseguenza minaccia nuove tasse a carico degli imprenditori, anche a causa dell’eccellenza di debito pubblico il quale a sua volta fa sì che il costo del denaro cresca in Italia più che proporzionalmente rispetto al resto del mondo. Dal momento che già esprimiamo un livello di tassazione record, è chiaro il possibile impatto recessivo di eventuali ulteriori prelievi.

8) LE SANZIONI FANNO MALE ALLE IMPRESE

Il governo si è infine anche impegnato nel far rispettare alle imprese italiane pesanti sanzioni relative a due guerre (quella “calda” contro la Russia e quella “fredda” contro la Cina). Sanzioni che certo non contribuiscono alla salvaguardia dell’operato industriale nazionale! Interi mercati di sbocco sono letteralmente svaniti per molte imprese italiane e molte filiere d’approvvigionamento sono da rimpiazzare (con aggravi di costi e investimenti). Siamo giunti all’elaborazione del settimo pacchetto di sanzioni che rischia di fare veramente male alle imprese europee!

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Nella prima delle tabelle sopra riportate le previsioni dello scorso Aprile di Cerved, circa le quali possiamo tranquillamente affermare che oggi siamo piombati nello scenario peggiore. E nella seconda tabella quello che si può leggere sono i potenziali risultati di tale scenario.

SPERIAMO DI CAVARCELA

Qualcuno (e immagino già chi, tra i miei amatissimi lettori) a questo punto della narrazione potrebbe obiettare che chi scrive possa nutrire convinzioni politiche contrarie alla maggioranza che sostiene il governo, ma non è così: l’elencazione dei suddetti fattori di penalizzazione dell’industria italiana sono sotto gli occhi di tutti ed è difficile obiettarli. Si tratta di fatti e numeri i quali (come scriveva John Adams, sesto presidente degli Stati Uniti d’America, all’inizio del XIX secolo) sono terribilmente testardi, qualsiasi siano le nostre volontà o inclinazioni politiche.

Il popolo italiano ha attraversato crisi anche peggiori, ad esempio nell’immediato dopoguerra, e anche stavolta troverà il modo di cavarsela. La congiuntura economica è tuttavia estremamente sfavorevole e quantomeno bisogna farsene una ragione o, meglio, trovare il modo di confrontarvisi. Ed è proprio su quest’ultimo argomento che si incentrerà la seconda parte di questo articolo.

Stefano di Tommaso




ALLARME IMPRESE ! (2^ PARTE: COME REAGIRE)

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Se da un lato è difficile obiettare all’elencazione -riportata nel precedente articolo- dei venti contrari che congiurano per rendere assai difficile la vita degli imprenditori italiani, dall’altro lato è pur vero che alle sfide ambientali e sistemiche i governi e le imprese possono tentare di rispondere. Mentre però risulta difficile in questa sede parlare di politiche industriali e delle grandi alleanze internazionali che hanno portato nell’angolo l’imprenditoria del nostro Paese, è invece molto più interessante provare a riflettere su quello che le imprese possono fare per reagire alle straordinarie condizioni avverse che abbiamo elencato nel precedente articolo.

 

ALLA RISCOSSA

Cominciamo con la parola “allarme”. Essa viene dal grido: “all’arme!” Cioè alle armi, alla riscossa. Grido che si lanciava quando il nemico era alle porte, invitando soldati o popolazione a impugnare le armi e a reagire.

Proviamo dunque a chiederci come possono combattere la situazione esistente le imprese italiane, mettendo insieme qualche prima considerazione al riguardo:

IL COSTO DELLE MATERIE PRIME

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Il problema principale relativo all’inflazione dei prezzi dei fattori di produzione sembra essere il grado di dipendenza dell’industria dalle fonti primarie di materie prime e semilavorati: più le imprese che sono sottoposte a rialzi dei costi riescono a controllare le loro fonti di approvvigionamento (cioè a integrarsi verticalmente) e meno possono subirne pressioni.

È chiaro che il modo migliore per integrarsi verticalmente sarebbe quello di poter controllare le miniere e i produttori di semilavorati in giro per il mondo, ma per farlo bisognerebbe raggiungere dimensioni aziendali tali che ciò possa risultare conveniente. Le imprese italiane sono al contrario affette da nanismo endemico e pertanto spesso questa strada è da escludere.

Restano le grandi alleanze, i network di filiera e di sistema, i distretti produttivi e le joint ventures internazionali, che invece hanno un solo limite: le capacità manageriali a disposizione. In molti casi le imprese italiane hanno seguito questa strada ma si tratta per lo più di quelle più grandi e magari quotate in Borsa. Le piccole spesso non ci riescono. Solo che in tal caso occorre chiedersi se non conviene aggregarsi a gruppi più grandi piuttosto che subìre costi maggiori e poca capacità di reggere la concorrenza.

IL COSTO DELL’ENERGIA

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L’altro grande fattore che sarebbe molto utile poter controllare è il costo dell’energia, la cui inarrestabile escalation ha portato spesso le imprese a lavorare con margini ridottissimi. La più bella di tutte le risposte sarebbe quella di ridurre il più possibile i consumi di energia e in tal modo economizzare il costo, ma spesso per farlo occorre investire pesantemente.

In altri casi risulta perciò più pratico decentrare altrove nel mondo quella parte di produzione industriale che ha più bisogno di consumare energia, onde sfruttare la capacità di altre imprese o altri paesi nel tenerne sotto controllo il costo.

In ogni caso l’opzione migliore resta sempre quella di lavorare per trasformare la propria azienda nella più ecologica di quelle possibili, ad esempio soddisfacendo i famosi criteri di sostenibilità “Environment, Social, Governance (ESG)” in modo da risultare attraenti per finanziatori e investitori a caccia di opportunità “verdi” e in tal modo mettere in cantiere investimenti di contenimento dei costi.

IL MARKETING STRATEGICO E I CANALI COMMERCIALI

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Se la domanda da parte dei consumatori scarseggia, occorre probabilmente anche riuscire a risvegliarla raggiungendo più direttamente possibile la clientela e dialogandoci, allo scopo di trarne utili indicazioni relative alla domanda potenziale di mercato e alle azioni necessarie dal punto di vista del marketing.

Spesso le imprese di minori dimensioni non effettuano nemmeno ricerche di mercato, del loro posizionamento competitivo, indagini sull’andamento dei consumi e analisi sull’efficienza dei propri canali commerciali. Sono spesso attività che hanno ciascuna un costo elevato e che pertanto sono spesso fuori della portata dei piccoli imprenditori, ma non tutte.

In molti altri casi è il “focus” manageriale che manca davvero, la cultura d’impresa, la pianificazione strategica e la presa di coscienza della propria situazione di mercato relativamente agli attuali canali distributivi. A volte basta esaminare i bilanci delle imprese concorrenti per farsi domande utili a mettere a fuoco idee di efficientamento dello sforzo commerciale. L’unico limite è la capacità di chi gestisce, che deve poter reggere la sfida aziendale.

Anche dal punto di vista del prodotto occorre probabilmente trovare nuove modalità di vincere la concorrenza e di adattarsi alle nuove esigenze del mercato (ad esempio: quella del contenimento del prezzo di vendita) modificando la propria offerta, migliorando la competitività nei costi e trovando nuove e ulteriori valenze per l’utilità del prodotto nei confronti degli acquirenti finali. Non c’è limite da questo punto di vista alla possibilità di rinnovamento, se non quello strettamente finanziario!

MA OCCORRE AVER VOGLIA DI CRESCERE

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Di nuovo però: anche per lavorare attivamente allo sviluppo commerciale e al marketing strategico e di prodotto occorre disporre di capitali sufficienti ad investire nelle strutture, e più ancora nelle competenze. Servono ottime risorse umane, fresche, indipendenti e creative, con capacità di gestione dei costi aggiuntive, nonché forte propensione al cambiamento.

Quando lo scenario esterno peggiora e cominciano a soffiare forti venti contrari bisogna infatti correre ai ripari. Chi si ferma è perduto!

Le iniziative sopra descritte per contrastare la congiuntura sfavorevole che si prospetta sono ovviamente state sino ad oggi appannaggio quasi soltanto delle imprese maggiori, e di quelle con una più spiccata diversificazione internazionale. Mentre le più piccole devono chiedersi se è ancora possibile restare piccole. Oppure se devono riuscire ad allacciare rapporti con reti d’impresa di appoggio, tanto per i fornitori quanto per i distributori, ovvero a costruire partnership strategiche in giro per il mondo, o infine se riescono a trovare la capacità finanziaria di investire in maniera significativa nelle direzioni sopra descritte per poter crescere internamente.

E OCCORRONO CAPITALI

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Se la concorrenza è globale, anche le dimensioni aziendali devono adeguarsi. Solo attraverso il raggiungimento di quel “ticket minimo” delle dimensioni aziendali diviene possibile raccogliere abbastanza capitali e finanziamenti per investire nell’innovazione, nell’efficienza (anche energetica) e, più di ogni altra cosa, nei canali distributivi e nel consolidamento del proprio marchio di fabbrica (il cosiddetto “brand”).

Molte imprese si troverebbero nella condizione di affrontare le loro sfide investendo e assumendo, ma spesso non lo fanno perché non vogliono aprire la compagine azionaria a terzi investitori, o non vogliono quotarsi in Borsa, o non vogliono aggregarsi a grandi gruppi. È anche il motivo per il quale un certo numero di imprese a un certo punto getta la spugna…

I SETTORI INDUSTRIALI FAVORITI

Ovviamente non tutte le imprese dei vari settori industriali saranno ugualmente capaci di cogliere le opportunità offerte dalla situazione di stallo che si sta prospettando: senza dubbio l’appartenenza ai settori che sembrano più favoriti dalla situazione di scarsità energetica potrebbe favorire la loro reazione.

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La crescente fame di energia e lo scenario di fondo che non riguarda soltanto il razionamento energetico ma anche la necessità di una seria transizione ecologica porranno per molti anni a venire l’accento sull’intelligenza di macchine uomini e sistemi nell’utilizzo efficiente delle energie.

Non soltanto dunque la produzione da fonti (davvero) rinnovabili, ma anche l’efficienza nell’utilizzo, lo stoccaggio e l’intelligenza nella gestione energetica sono destinati a diventare sempre più importanti in un mondo a venire che sembra da un lato condannato ad una fame compulsiva di sempre maggiori capacità energetiche e dall’altro a doverne sopportare un costo sempre più elevato.

Ovviamente questa situazione favorirà non soltanto il mondo della produzione di energie da fonti rinnovabili bensì anche le nuove tecnologie nucleari, l’efficientamento delle vecchie centrali idroelettriche, lo sviluppo di nuove tecnologie solari e, finalmente, lo sfruttamento delle immense energie sottomarine, oggi quasi del tutto trascurate.

LE GRANDI INFRASTRUTTURE DEVONO ESSERE TUTTE RINNOVATE

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Non soltanto la transizione ecologica (come ad esempio il passaggio a veicoli elettrici e a sistemi di caldo/freddo basati sull’elettricità), bensì anche l’efficienza nei costi determineranno una domanda indotta di fortissimi investimenti nelle infrastrutture di base, quali la produzione e il trasporto di energia, i nuovi sistemi di trasporto pubblico, le comunità energetiche, i sistemi di telepresenza (il futuro delle videochiamate) e, con essi, i nuovi sistemi di trasporto dati ad altissima velocità, eccetera…

Gli anni a venire vedranno probabilmente concentrarsi sulle infrastrutture tanto la spesa pubblica quanto nuovi giganteschi investimenti privati. Entrambi peraltro avranno bisogno, per essere alimentati, di un ottimo funzionamento dei mercati finanziari regolamentati e, con essi, di nuove categorie di intermediari in grado di “fare mercato” nel mondo delle grandi opere infrastrutturali. Anche per questi ultimi ci saranno perciò opportunità di guadagno, anche se probabilmente saranno più polarizzate verso le grandi dimensioni.

SEMPRE MAGGIORI DIMENSIONI AZIENDALI

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È dunque facile profezia che la crisi in arrivo possa accelerare numerose transizioni tecnologiche e energetiche. Ad esse si accompagnerà però -probabilmente- anche lla necessità di nuove, gigantesche, dimensioni aziendali. E che dunque le piccole e piccolissime imprese saranno sempre più fuori gioco. Così come saranno in maggiori difficoltà le imprese che avranno avuto poca capacità di raccogliere la sfida della diversificazione internazionale, nonché la capacità di organizzare importanti partnership con governi ed organizzazioni pubbliche di ogni genere.

Molte imprese italiane rischiano seriamente di soccombere ai nuovi scenari economici e devono fare di tutto per preparare la propria organizzazione ai cambiamenti in corso. A partire dalla loro dimensione aziendale e dal loro “sdoganamento” sul mercato dei capitali (attraverso la trasparenza di bilancio e la capacità di rispondere ai criteri ESG), fino alla diversificazione interculturale e internazionale del management e alla capacità di realizzare partnership globali.

Se la situazione generale non potrà che peggiorare, soprattutto per le imprese italiane, bisogna anche riuscire a riconoscere che le grandi trasformazioni in corso non portano con loro solo minacce, bensì anche grandi opportunità. E chi riesce a coglierle può non soltanto sopravvivere, ma anche prosperare, accelerando l’evoluzione del proprio business e investendo pesantemente nel cambiamento.

Stefano di Tommaso