LA GELATA

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Il mondo si risveglia oggi, lunedì 26 settembre, un po’ più povero e un po’ più incerto, dopo l’ultimo discorso di Powell, il banchiere centrale di tutti gli altri banchieri centrali, i quali a loro volta sono i banchieri dei banchieri privati. Se esistesse un manuale di come ci si deve comportare quando sta arrivando una recessione globale come quella che si può chiaramente scorgere all’orizzonte degli eventi, l’ultima cosa che quel manuale consiglierebbe sarebbe la promessa di continuare indefinitamente con i rialzi dei tassi per combattere un’inflazione che sarà già messa a dura prova nei prossimi mesi dal calo dei prezzi dell’energia e delle materie prime energetiche (come: petrolio, gas, carbone e uranio).

 

UN SECONDO FINE NON DICHIARATO

È come mostrarsi imperterriti fino alla fine nel combattere la malattia di qualcuno che è già moribondo: l’esito (la morte del malato, magari guarito) è in tal modo del tutto scontato ma evidentemente le motivazioni nel decidere di creare vittime a tavolino sono in realtà altre. Nessuno è infatti autorizzato a pensare che a Washington siano tutti imbecilli. È più probabile che si tratti di banale malafede per celare -dietro la retorica dell’inflazione- l’obiettivo che più di ogni altro è stato negli ultimi mesi sotto gli occhi di tutti: la rivalutazione del biglietto verde, con tutte le conseguenze che ciò comporta, a partire dall’incremento della disoccupazione interna e dalla probabile insolvenza di tutte le repubbliche emergenti che hanno recentemente contratto prestiti in dollari.

D’altra parte lo scenario sarebbe stato grigio in ogni caso: si è accumulato troppo divario tra il tasso d’inflazione (vicino al 10% per entrambe le sponde dell’Atlantico) e i tassi d’interesse, fermi sotto al 4% un po’ ovunque. Le banche centrali del resto d’occidente non dovrebbero mostrare molto coraggio nel decidere di non seguire a ruota, rischiando altrimenti di ritrovarsi comunque il medesimo problema con la svalutazione dei cambi valute contro dollaro.

L’AGGRESSIVITÀ DELLA FED

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La dichiarazione di voler proseguire (quasi) indefinitamente nel rialzo dei tassi e di voler precedere con la stretta monetaria ovviamente crea molte vittime e favorisce qualche illustre vincitore. Le vittime si annoverano soprattutto nell’economia reale, tra le piccole imprese, e fra le startup innovative, che vedranno ulteriormente precluso al loro supporto il mercato dei capitali. Una categoria che poteva uscirne vincitrice come quella del sistema bancario in realtà con quello che potrà succedere viene dato in disfatta anch’esso, salvo ovviamente le grandi istituzioni. La categoria (pur minuscola in numero, ma non in rilevanza) che invece ci guadagna è quella degli speculatori e, tra essi degli “hedge funds”, cioè dei fondi speculativi.

Basterebbero queste considerazioni per individuare un colore politico nel disegno di Powell: il “deep state” come lo chiamano gli americani, cioè la lobby delle lobbies. E, con esso, anche il partito democratico, che ne ha portato a spada tratta le insegne da decenni (o almeno dai tempi di Hillary Clinton, Obama e Biden) e che, di fronte ad una probabilissima sconfitta alle elezioni per il parlamento americano (a Novembre) si gioca la carta della risolutezza della lotta all’inflazione, l’unica che ha messo davvero le mani in tasca al popolo d’oltreoceano.

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LA PREDOMINANZA DEL DOLLARO

Ma la partita è anche un’altra: quella (sinora assolutamente vinta) della predominanza valutaria del Dollaro sul resto del mondo. E di tutte le conseguenze pratiche che ciò comporta per i detentori delle risorse energetiche nonché dei debiti contratti da quasi tutti i paesi emergenti della terra. Per non parlare del mercato finanziario che, a causa dell’attrazione valutaria, richiamerà capitali e risorse umane dalle altre piazze del mondo, esportando viceversa inflazione e quell’eccesso di biglietti verdi che, se fossero rimasti entro i confini degli States, avrebbero contribuito ad alimentare l’inflazione.

Oggi invece i titoli pubblici degli U.S.A. risulteranno ancor più attraenti e, pertanto, aiuteranno l’amministrazione Biden a finanziare gli ulteriori armamenti che verranno inviati nei “focolai di guerra” a suggellare la predominanza geopolitica. Cosa che a sua volta potrebbe alimentare eventuali futuri rincari di petrolio e gas, oggi in decisa controtendenza.

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Ecco, nel citare chi ci guadagna non si può non citare anche la lobby degli armamenti: è evidente che questo per quei signori risulta uno dei maggiori periodi di “vacche grasse” degli ultimi decenni. Manca solo qualche bella nuova variante del virus per allietare i grandi detentori delle aziende farmaceutiche americane, tra le prime a trarre profitto della necessità di un’eventuale ulteriore ondata di contagi, cui seguiranno quasi in automatico copiosi ordini delle nuove versioni dei vaccini. Magari di nuovo coperti dal segreto di stato.

Poco aiuterà la politica economica espansiva di Cina, India e forse anche Russia, poiché il commercio internazionale rischia ugualmente nuove battute d’arresto dovute a problemi geopolitici. E anzi la svolta “a destra” che sta prendendo corpo in Europa potrà esacerbare le tensioni nei rapporti tra governi del vecchio continente, dal momento che risulta ovvio anche ai bambini quale sia stato il mandato che gli elettori hanno conferito ai nuovi eletti: atlantismo sì, ma con giudizio. La Commissione Europea si contorcerà in chissà quali iniziative per frenare l’ondata di malcontento che si è mostrata nelle urne. Ma se lo facesse troppo smaccatamente rischierebbe anche di aggravare la situazione.

L’INFLAZIONE PERÒ RISCHIA DI RIPRENDERSI

Dal punto di vista pratico si prevede perciò un’inflazione solo apparentemente in discesa a causa della caduta libera cui saranno sottoposti i consumi, l’edilizia e molti servizi non essenziali. In realtà le strozzature in termini di offerta rischiano di proseguire e, dopo le prime ondate d’inflazione dei prezzi ce ne potrebbero essere delle altre, dovute all’autoalimentarsi delle aspettative e (almeno in Europa) al caro-Dollaro. Senza contare gli scossoni che potranno facilmente derivare dall’aumento delle rate dei mutui e dei finanziamenti al consumo, vittime tra l’altro di probabili tensioni sui titoli del debito pubblico, che in Italia gioveranno sempre meno della disponibilità della Banca Centrale Europea.

Anzi è quest’ultima la leva che le grandi istituzioni muoveranno contro i governi non troppo allineati: la mancanza di sovranità monetaria azzoppa non poco le aspirazioni di autonomia politica dei paesi dove le elezioni hanno generato un ribaltone. Le borse, per quanto costituiranno un porto (quasi) sicuro dove parcheggiare i risparmi, non potranno non accusare il colpo del repentino cambio di scenario. Ma chi ci rimetterà di più saranno gli innumerevoli detentori di titoli di stato, ai quali non resterà che attendere la loro scadenza, sempre che non li abbiano acquistati tramite fondi di investimento, condannati a rilevarne le perdite di valore in conto capitale ogni mese.

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Il problema più grande resta però l’economia delle piccole e medie imprese, che si beccherà fra i denti l’ennesima recessione, con l’ennesimo “credit crunch” e solo pochi mesi dopo le mazzate subìte con il lockdown e il rincaro dei costi di produzione. Insomma una probabile ecatombe, cui difficilmente i governi potranno porre rimedio dal momento che c’è da attendersi forse anche l’intervento anche della”troika”(banca centrale europea, commissione europea e fondo monetario internazionale) in rappresentanza dei creditori del nostro Paese.

UNA DONNA SOLA AL COMANDO

Chi governerà nei prossimi mesi dovrà gestire un’eredità difficilissima lasciata dal “governo dei migliori”. Lo slalom tra tutti gli ostacoli risulterà quasi impossibile e Giorgia Meloni correrà il serio rischio di ritrovarsi “una donna sola al comando”, dato il distacco che hanno subìto i suoi alleati.

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Dunque nel mondo, ma soprattutto a casa nostra forse non avremo razionamenti di gas ed elettricità ma quasi per certo molte piccole imprese chiuderanno o dichiareranno insolvenza. Altre vedranno crollare le proprie vendite, mentre quelle esportatrici potrebbero beneficiarne (relativamente) nel praticare prezzi più competitivi con la svalutazione monetaria. Sempre però che una domanda ci sia ancora nel resto del mondo con la recessione che rischia di minacciarla non poco e con i problemi finanziari che incontreranno coloro che importano.

Stefano di Tommaso




CI VORREBBE UN MIRACOLO

I contorni di una recessione diventano sempre più nitidi in tutto l’Occidente, nonostante il fatto che l’Europa debba fronteggiare crisi energetiche senza precedenti e l’America no. La Banca Centrale Europea (BCE) stima una decrescita vicina all’1% del prodotto interno lordo per l’anno in corso nel caso di blocco delle importazioni di gas russo, che però è già una realtà, dal momento che la turbina che manca al North Stream 1 il Canada se la tiene stretta e nessuno preme il pulsante per l’utilizzo del North Stream 2, che anzi i media di tutto il mondo fingono di dimenticare.

 


UN DISASTRO ANNUNCIATO

Dunque si tratta di un disastro annunciato, e forse procurato inutilmente. Si calcola che soltanto in Italia nei prossimi 2 trimestri solari mancheranno all’appello ben 11 milioni di metri cubi di gas, con il rischio quindi che molte industrie si fermeranno e che, nell’ inutile tentativo di prolungarne le scorte, si arrivi a razionarlo, con molte famiglie che evidentemente resteranno in casa col cappotto.

C’è poi l’altra faccia della medaglia, e cioè il caro-bolletta, che porterà ugualmente molte imprese (soprattutto quelle artigiane) a fermarsi oppure ad imporre un forte rincaro. Il centro studi di confindustria ha stimato che la sua incidenza sui costi di produzione sia passata dal 4-5% degli anni precedenti al 9-10% di quest’anno (cioè il doppio) e possa arrivare al 14% nel 2023 (cioè a circa il triplo) se il gas russo continuerà a mancare. E questo con un prezzo di 235 euro quest’anno e 298 nel 2023: se dovesse crescere ancora sarebbe ancora peggio.


I guai però non sono confinati all’Europa cui manca il gas perché l’inflazione continua a incombere e, che abbia raggiunto o meno il suo picco, volteggia ben al di sopra dei tassi d’interesse nominali oggi in vigore (intorno al 9% per entrambe le sponde dell’Atlantico), ragion per cui tanto la Federal Reserve Bank of America (FED) quanto la BCE saranno costrette a continuare ancora a lungo ad alzare i tassi d’interesse, oggi ancora al di sotto del 2%, e saranno puntualmente seguite tanto dalla Banca d’Inghilterra quanto da quelle centrali del Canada e dell’Australia.

ASPETTANDO RI RIALZI DEI TASSI

Addirittura si parla di un incremento che potrebbe oscillare tra i tre quarti di punto percentuale e un punto intero per la FED che si riunirà il prossimo Giovedì, con l’ovvia conseguenza che anche le altre banche centrali seguiranno. Già così infatti il Dollaro continua a mostrare i muscoli sfondando tetti che non vedeva da vent’anni e più, figuriamoci se le altre banche centrali non dovessero alzare i tassi anche loro. Ovviamente il caro-gas si riflette in un petrolio più caro, e non soltanto per coloro che devono pagarlo in Dollari ma addirittura anche indipendentemente, visto che c’è il bando delle importazioni anche sul petrolio, se proviene dalla Russia (che però annovera una porzione consistente delle forniture mondiali di greggio). In pratica, scarseggiando anche questo, non è improbabile che le sue quotazioni (già risalite oltre i 90 dollari per barile) superino con l’arrivo dell’autunno di nuovo quota 100.


In pratica in tutta Europa si stima che la frenata indotta da costi e scarsità dell’energia nel prodotto interno lordo arrivi al 3% tra il 2022 e il 2023 con la perdita di ben oltre 1/2 milione di posti di lavoro. E sempre che il resto del mondo non si avviti di nuovo in una recessione feroce, perché sino ad oggi l’export continentale ha mostrato una decisa resilienza, la quale invece verrebbe meno nello scenario peggiore. Per l’America, il Regno Unito, il Canada, l’Australia e i paesi scandinavi la minaccia è meno feroce che per l’Europa continentale, dal momento che sono tutti estrattori in proprio di gas e petrolio e che quindi quantomeno le loro fabbriche più difficilmente si fermeranno. Come si può ben leggere nel grafico qui riportato, il peso dell’energia sul totale del prodotto interno lordo è cresciuto ben di più in Europa che in America.


VALE LA PENA DI INTESTARDIRSI?

  • Fin qui i fatti e i numeri, che risultano immancabilmente testardi anche quando si volesse provare a scompigliarli visto che quasi tutto l’occidente risulta in campagna elettorale. Anzi, questa coincidenza appare terribile, a ben guardarla, perché è la garanzia più forte del fatto che gli attuali governi faranno nel frattempo ben poco per contrastare l’orrenda deriva appena descritta, in attesa di essere sostituiti da quelli in arrivo.

E alla luce di questi fatti ben si comprende la gogna mediatica cui è stato sottoposto negli ultimi giorni il governo ungherese, reo di aver deciso che il carovita dei propri cittadini viene prima delle strategie di pressione internazionali sulla Russia. E scrivo di gogna mediatica perché, a quanto risulta, all’atto pratico la Commissione Europea ha partorito soltanto minacce nei confronti di Victor Orban e dei suoi ministri, che però il gas continuano a riceverlo a buon mercato dalla Russia. Mentre al resto d’Europa gli Stati Uniti (che il gas lo esportano con le navi in grande quantità) hanno fatto sapere che non interverranno con un maggior quantitativo di forniture. Dunque risulta anche piuttosto teorico il dibattito sui nuovi rigassificatori in Italia, dal momento che al momento rimarrebbero parzialmente inutilizzati.

Per non parlare delle politiche di transizione energetiche, delle quali -appunto- non parla proprio più nessuno in questo momento, dopo i grandi sbandieramenti cui abbiamo assistito fino a tutto il 2021. L’incremento della produzione di energia da fonti rinnovabili è sicuramente in corso, ma i suoi tempi non sono compatibili con il taglio repentino degli approvvigionamenti delle materie prime energetiche cui stiamo assistendo, ragione per cui il resto d’Europa continua a tenere accese le centrali nucleari e torna a bruciare il carbon fossile in grande quantità. In questa situazione chi rischia di pagare più salato il conto delle strategie geopolitiche messe in atto a livello atlantico è sicuramente il polo produttivo italiano della pianura padana e del circostante arco alpino, dove le temperature sono più rigide in inverno e dove si concentra la maggior parte delle produzioni industriali energivore.


CI VORREBBE UN MIRACOLO

Ci vorrebbe dunque un miracolo perché l’economia europea (e in particolare quella italiana) non prenda una nuova e più potente sbandata che la induca a subire ulteriori arretramenti nella classifica internazionale dei paesi più industrializzati. Qualcuno ha fatto notare che, in previsione di tutto ciò, è per questo motivo che le elezioni politiche sono state indotte così in fretta. Perché gli attuali governanti non debbano rispondere dei danni all’economia che si manifesteranno in autunno come conseguenza dell’aver accettato supinamente ogni richiesta atlantica, ivi compresi i 12-13 miliardi di euro di debito aggiuntivo per fornire nuove armi al governo di Zelenski.

La nostra borsa però non è destinata a riflettere il dramma che l’economia reale si accinge a subìre nei prossimi mesi. Innanzitutto perché i rialzi dei tassi d’interesse fanno bene ai conti delle banche, il cui peso sul totale del listino italiano non è affatto basso. E poi perché ha già forse subìto più delle altre borse internazionali il problema del caro-energia mentre il numero delle società quotate continua a diminuire per effetto delle migrazioni delle grandi imprese verso le borse più importanti del pianeta. Dunque a parità di domanda mancherà l’offerta.

Per cui è probabile che Piazza Affari si ridimensioni sì ancora un po’ ma non crolli affatto. Casomai il problema dei mercati finanziari al di quà delle alpi sarà quello dell’eccesso di debito pubblico pubblico, che con il rialzo dei tassi tornerà di grande attualità, e condizionerà non poco gli eventuali provvedimenti che il nuovo governo potrà adottare per stimolare la ripresa. Una situazione che non potrà non condizionare il risiko delle compravendite bancarie, desertificando ulteriormente il panorama delle alternative a disposizione delle piccole imprese per reperire credito. E spingendole ancora una volta a chiudere o ad aggregarsi oppure a reperire capitali di rischio.

MA QUEL MIRACOLO, FORSE, STA ARRIVANDO

Ma quel miracolo forse sta arrivando. Ci sono tuttavia dei segnali di distensione tra gli speculatori sui prezzi a termine (i “futures”) del gas i quali potrebbero indicare un’anticipazione di ciò che Russia e Cina potrebbero aver concordato nel vertice di Samarcanda: la riapertura del gasdotto North Stream 1 da parte della Russia. I motivi, politici, strategici o altro non è dato di conoscerli dal momento che non è nemmeno sicuro che succederà, ma il segnale fa il paio con la proposta di Putin di riaprire i negoziati di pace per l’Ucraina, segnale di fatto snobbata tanto da Zelenski quanto dai media nostrani ma che, se portato avanti con insistenza, non potrebbe essere ignorato. Se la Russia mostrasse infatti una forte volontà di ridurre la tensione in corso è piuttosto probabile che lo potrebbe fare accompagnando la strategia diplomatica con un gesto di “amicizia” verso l’Europa, e in particolare verso la Germania, che ha indubbiamente subìto il diktat americano e che rischia di stracciare il proprio tessuto manifatturiero.

Ora è evidente che, qualora la Russia mostrasse di voler fare sul serio, non solo non ci sarebbero i famigerati razionamenti, ma i prezzi dell’energia scenderebbero decisamente così pure come il cambio del Dollaro, che ha sino ad oggi indubbiamente beneficiato dei rischi di guerra. E chi ci guadagnerebbe di più potrebbe essere l’Europa, dal momento che è quella che ha più da perdere nello scenario opposto. Una mossa che indubbiamente scompiglierebbe gli alleati occidentali, alle prese con un’America che vuole vincere sempre e a prescindere e un’Europa continentale che, in preda alla crisi che sta arrivando, rischierebbe soltanto di accelerare le sue divisioni!

Stefano di Tommaso




NELL’OCCHIO DEL CICLONE

Ci sono segnali di ottimismo per i prezzi dell’energia, per l’inflazione e forse anche per i mercati finanziari. Cosa succede? Le tensioni internazionali sono destinate a scemare? Purtroppo l’analisi qui condotta porta in direzione opposta: il miglioramento della situazione sembra del tutto transitorio, come quando ci si trova “nell’occhio del ciclone”!

 

Con la pandemia prima, poi con l’inflazione dei prezzi e infine con lo scoppio della guerra in Ucraina, un vero e proprio ciclone sembra aver colpito l’Occidente e i suoi mercati finanziari, che sembravano inizialmente essersi mirabilmente ripresi fino alla fine del 2021 per poi ripiombare in discesa e, soprattutto, veder innalzare clamorosamente tassi di interesse e costi dei debiti pubblici.

In particolare la zona economica che ha subìto le peggiori conseguenze è senza dubbio l’Eurozona, l’area dei paesi che hanno adottato la moneta unica e la banca centrale europee, rinunciando a quelle nazionali. Non soltanto l’inflazione infatti sta erodendo i consumi privati e l’efficienza delle imprese industriali, ma anche le conseguenze della guerra in Ucraina si sono fatte sentire forte, in termini di scarsità e costo dell’energia, e di conseguenza nell’ondata di rincari che ne conseguiranno ulteriormente. La scarsità di gas naturale ha poi influito non poco sul costo dell’energia e peraltro rischia di limitare la capacità produttiva delle imprese situate nei territori più colpiti: quelli dell’Unione Europea.

QUALCOSA SEMBRA ESSERE CAMBIATO

Da metà estate però qualcosa sembrava essere cambiato: le borse erano tornate a salire e il costo del petrolio è man mano ridisceso, mentre le tensioni sul gas naturale sembrano in parte rientrate, nonostante il suo flusso di provenienza russa si sia quasi del tutto interrotto. (di seguito il prezzo del petrolio e il surplus di capacità produttiva)

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Da cosa dipende? E’ una conseguenza della recessione che sta colpendo l’Unione? In parte forse, ma essa non basta a spiegare il fenomeno complessivo, che si è accompagnato a stime di minor crescita dell’inflazione. Una moderazione complessiva di quegli elementi dirompenti che avevano fatto gridare all’allarme generale per l’autunno in arrivo, ha preso corpo. Ma quanto a ragione? Quanto ci possiamo contare per i prossimi mesi? (nel grafico qui riportato il prezzo della benzina in America)


Assai poco, a quanto sembra, e non soltanto per via del fatto che in America la crescita economica sembra proseguire e, con essa, la spirale dell’inflazione e degli incrementi dei tassi non può certo dirsi giunta al capolinea. Le banche centrali del resto del mondo infatti non possono non seguire la Federal Reserve Bank of America nell’incremento dei tassi d’interesse, pur rimanendo sostanzialmente impotenti alla prima delle conseguenze di questa situazione : il cambio del Dollaro contro quasi tutte le monete degli scambi internazionali continua a salire.

ALTRI NUVOLONI NERI ALL’ORIZZONTE

All’orizzonte poi si stagliano altri nuvoloni neri. Il rincaro di petrolio e gas infatti è stato senza dubbio una precisa conseguenza delle tensioni geopolitiche e del deciso schieramento pro-americano dell’Unione europea. Purtroppo tuttavia quelle tensioni geopolitiche non si sono mai ridotte negli ultimi tempi, anzi! Negli ultimi giorni il contrattacco dell’Ucraina fa pensare che il conflitto sia destinato a durare assai a lungo.

Non devono trarre in inganno il ribasso (relativo, peraltro) del costo del petrolio e di quello del gas, dal momento che per ottenere il primo ha sicuramente giovato quel milione di barili al giorno in più sul mercato derivanti dall’alleggerimento delle riserve strategiche americane (che però è destinato ad esaurirsi nel giro di un mese e mezzo al massimo, in coincidenza con le elezioni americane). Per il secondo più che altro i governi europei hanno cercato di ridurre gli effetti della speculazione e di controbilanciare la scarsità di gas con l’accumulo di importanti riserve per l’inverno, insieme ad una serie di misure destinate a limitarne i consumi. Ma se le tensioni di guerra risalgono come sembra, sono destinate ad apparire dei meri “pannicelli caldi”.

LE TENSIONI SUI PREZZI INDUCONO LA RECESSIONE

Morale: la tensione sui prezzi delle materie prime non è detto che non riprenda nei prossimi mesi, dal momento che la loro domanda scende piuttosto poco (più che altro scende in Europa, ma non in Oriente né in America) mentre i rischi di una nuova guerra mondiale tra Oriente ed Occidente restano elevati. L’unico vero fattore di moderazione risulta dal fatto che, nel complesso, complice anche la riduzione di scambi tra l’Occidente e la Cina, la crescita economica globale sta continuando a ridursi, (in Europa poi è già al di sotto dello zero).

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Ecco perché riteniamo sia possibile parlare di “occhio del ciclone”, cioè di quel momento di relativa calma che arriva quando ci si trova al centro di una grande perturbazione metereologica in movimento, prima che la violenza della medesima riprenda altrettanto fortemente mentre passa avanti. Anche lo shock energetico che sta subendo l’Europa sembra destinato a non finire tanto presto, e contribuisce a innalzare il costo dell’energia globale e, conseguentemente, anche quello dei prodotti di moltissime industrie che ne consumano abbastanza.

Questo, insieme al fatto che, a un certo punto della storia, l’inflazione inizia ad auto-alimentarsi, spinge a far pensare che le tensioni, sui prezzi e dunque sui mercati, non possano che tornare a crescere perché la spesa pubblica crescerà, tanto a causa dei maggiori interessi sui debiti governativi, quanto (soprattutto) per i sussidi che dovranno essere dispensati e per gli armamenti.

GLI ERRORI DELLE BANCHE CENTRALI E DEI GOVERNI

La politica monetaria è passata dall’essere estremamente espansiva a progressivamente restrittiva, costringendo le imprese a trasferire sui prezzi al dettaglio gli aumenti dei costi subìti e limitando la loro possibilità di investire per efficientare la produzione. Una politica monetaria restrittiva poi incide alla lunga anche sulla riduzione del valore degli investimenti finanziari, e contribuisce a ridurre la fiducia degli imprenditori avvicinando il momento in cui la recessione può allargarsi al resto del mondo.

La politica fiscale dei paesi occidentali viceversa è passata dall’essere prudente e orientata alla generazione di migliori incentivi per la transizione energetica a fortemente espansiva. Ma con la consapevolezza che le forti elargizioni alla popolazione non solo non riescono a lasciare invariati i consumi della popolazione (che continuano a scendere perché scende il reddito medio reale disponibile)ma in più alimentano inevitabilmente la domanda di beni e dunque l’inflazione (soprattutto in America) e spingono anche all’instabilità dei mercati finanziari, perché per molte nazioni occidentali sarà sempre più difficile incrementare l’offerta di titoli pubblici a reddito fisso.

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In una parola, l’inflazione sta divenendo strutturale, (nel grafico sopra riportato il CPI l’indice europeo dei prezzi al consumo per abitazioni e servizi di pubblica utilità) così come era successo a metà degli anni ‘70, solo molto più velocemente che allora. La progressiva monetizzazione del debito pubblico peraltro aggiunge instabilità al mercato dei cambi valuta e alimenta, indirettamente, l’inflazione, generando una corsa verso i beni-rifugio quali gli immobili innanzitutto, che però saranno evidentemente più tartassati che in precedenza. (di seguito un confronto dei tassi d’inflazione al consumo rilevata dagli istituti di statistica, dei principali paesi d’Europa).

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NEL BREVE TERMINE PREVALE L’OTTIMISMO

Come la mettiamo quindi con le previsioni di ripresa dei listini azionari e, addirittura, con le speranze di retromarcia sui tassi d’interesse da parte delle banche centrali? Nel breve termine è possibile che esse siano relativamente fondate anche a causa del fatto che la liquidità in circolazione resta abbondante e l’investimento azionario resta senza dubbio preferibile a quello del reddito fisso. Le borse sono spesso totalmente scollegate dall’economia reale e, oltretutto, l’autunno vede importanti appuntamenti elettorali in occidente che spingono a pensare che il “mainstream” diffonderà soprattutto buone e rassicuranti notizie.

Ma oltre l’orizzonte massimo di due-tre o quattro mesi al massimo lo scenario non appare affatto rassicurante. Deve davvero succedere qualcosa di eclatante perché il mondo non cada di nuovo in recessione nel 2023 e i mercati finanziari non ne risentano. I venti di guerra dovrebbero placarsi davvero e il commercio internazionale tornare a crescere. Prima o poi sicuramente succederà ma, al momento, è difficile vedere uno spiraglio di sereno sopra le nubi che si addensano.

Stefano di Tommaso




CHE FINE HANNO FATTO GLI ”UNICORNI” IN BORSA ?

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Gli unicorni, in gergo cioè le nuove società tecnologiche che possono sperare di raggiungere il miliardo di dollari di capitalizzazione andando a quotarsi in borsa, appaiono animali quasi in via di estinzione tra gli operatori del mercato. Le società tecnologiche iper-valutate per le loro fantastiche prospettive che rientrano nella definizione sopra indicata sembrano essere letteralmente sparite in questa seconda metà dell’anno, soprattutto a Wall Street, che resta non soltanto la piazza finanziaria più liquida del pianeta, ma anche quella che dà il tono a tutte le altre.

 

Se il numero di aziende che hanno chiesto di quotarsi a New York è sceso del 70-80% nel periodo gennaio-agosto 2022 non è soltanto perché le quotazioni espresse dalla borsa delle borse appaiono riflessive rispetto all’anno precedente (l’indice SP500 è sceso dell’18,2% dall’inizio dell’anno, il Nasdaq composite del 26,5%). Sono anche le aspettative degli operatori per il resto dell’anno in corso e per il prossimo che gettano una luce sinistra sulle prospettive per le aziende che hanno il coraggio di affrontare il listino di borsa in questo periodo, per raccogliere capitali e vedere i propri titoli pubblicamente quotati. Sottoscrivere i titoli in fase di quotazione (invece di attendere che siano già quotati) significa infatti indubbiamente scommettere sul futuro.

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I timori di estensione dei conflitti armati già in corso, quelli di eventuale prosecuzione dell’inflazione dei prezzi e quelli di ulteriori rialzi di tassi di interesse oltre le attuali attese vanno a dipingere scenari piuttosto foschi per gli investitori i quali invece, attraverso la sottoscrizione di titoli di nuova emissione, fanno un atto di fede sulla capacità di generare future performances. Sono infatti giù di tono soprattutto le quotazioni dei titoli cosiddetti “tecnologici” di minori dimensioni, per due grandi motivi: da un lato rappresentano scommesse per il futuro in un momento di cui quest’ultimo non appare particolarmente roseo, ma dall’altro subiscono più di altri il cosiddetto “volo verso la qualità” che gli investitori spiccano regolarmente quando le acque del mercato si increspano, soffrendo non poco delle aspettative di scarsa liquidità del mercato azionario, derivanti dalle politiche restrittive delle banche centrali e dalla maggior prudenza degli investitori istituzionali in questo momento.

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Il risultato dei fattori citati sono valutazioni sicuramente non esaltanti per le “matricole” di borsa mentre fino a tutto il 2021 -soprattutto per i titoli più innovativi- i multipli di valore dei redditi attesi erano stati decisamente più generosi, contribuendo a trasformare in ”Unicorni” un certo numero di start-up che andavano a quotarsi. E per molte matricole di borsa che possono vantare ottime prospettive di mercato, quel che risulta essenziale è l’ottimismo degli investitori circa la possibilità di convertire queste ultime in un cospicuo valore di capitalizzazione di borsa. Senza il quale forse conviene rimandare l’avventura a tempi migliori.

La popolazione delle società candidate alla quotazione tra l’altro non vede soltanto illustri start-up che vogliono raccogliere denaro per mettere in pratica i propri programmi, anzi! La maggioranza delle società che decidono di affrontare il percorso del primo collocamento agli investitori di titoli di nuova emissione (il cosiddetto “initial public offering” o “IPO”) sono società che vantano sì delle ottime prospettive, ma che molto spesso sono già arrivate a suggellare il proprio successo nel business e hanno già varcato la soglia dell’ internazionalizzazione. Di seguito l’elenco delle IPOs al segmento Euronext Growth della Borsa Italiana dall’inizio del 2022 ad oggi (cui si aggiunge soltanto il “direct listing” di Iveco):

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La raccolta di capitali dalla borsa per queste ultime spesso rappresenta l’alternativa all’ingresso nel capitale dei fondi di private equity, ovvero il momento in cui questi ultimi riducono la quota di partecipazione precedentemente sottoscritta, lasciando il loro posto al management e ad una platea allargata di investitori istituzionali, in molti casi con una governance che passa dall’essere estremamente concentrata a divenire molto diffusa. La quotazione in borsa cioè spesso rappresenta il momento in cui l’azienda si libera di parte dell’indebitamento o di buona parte della leva finanziaria imposta dagli investitori precedenti e prova a spiccare il volo sul mercato dei capitali.

Se -quando arriva quel momento- capita una congiuntura riflessiva dei corsi azionari o ci sono prospettive di recessione economica, è plausibile che ai vertici aziendali venga una gran voglia di rinviarlo a data da destinarsi. E così pare che stia andando oggi il mercato delle IPOs: molte imprese che avevano precedentemente deciso di affrontare il percorso di quotazione, alla luce delle condizioni generali di instabilità e scarsa liquidità delle borse stanno in realtà soltanto rinviando il momento dello sbarco, scaldando ugualmente i muscoli in attesa di una finestra più favorevole sui mercati finanziari. Molte notizie arrivano in tal senso, facendo pensare dunque ad un certo affollamento quando tale finestra si paleserà.

Lo stesso vale per molte operazioni sul mercato secondario (dove cioè gli investitori che hanno sottoscritto titoli azionari in fase di primo collocamento arrotondano la loro partecipazione alla luce dei risultati aziendali, ovvero la riducono, in favore di un nuovo gruppo di sottoscrittori) nonché per le operazioni di raccolta delle SPAC, vale a dire “special purpose acquisition companies”, cioè quelle società anche denominate “assegni in bianco” (blank check companies) che gli operatori professionali propongono agli investitori con la logica di speculare sul maggior valore prospetttico delle migliori società che essi selezioneranno per realizzare con loro la cosiddetta “business combination” del veicolo vuoto già quotato. Con le SPAC infatti le società che intendono accelerare la propria quotazione in borsa si ritrovano quotate e maggiormente capitalizzate a seguito di una fusione inversa.

Ovviamente il momento non appare particolarmente favorevole nemmeno per creare nuove SPAC, il cui ritorno per gli investitori è esclusivamente dettato dalle aspettative di maggior valore nel tempo delle società con cui esse vanno a fondersi, ma non lo è neanche per le “business combination” (cioè la fusione con l’industria-obiettivo) delle SPAC già esistenti, le quali per prassi dovranno ugualmente affrontare il giudizio dei sottoscrittori (ovvero il loro recesso), prima di perfezionarla. E di questi tempi lo scetticismo e la prudenza degli investitori non sempre premia le scelte fatte dai gestori della SPAC.

Soprattutto non favorisce la nascita di “unicorni”, cioè di società-modello, i cui titoli appaiono particolarmente desiderabili e che di conseguenza possono ottenere valutazioni molto elevate. Il mercato è più orientato casomai a sottoscrivere aumenti di capitale di titoli cosiddetti “value”, ovvero i cui fondamentali sono solidi e con buone prospettive reddituali. Ma questo non è detto che sia un peccato, perché c’è una fondamentale divergenza tra la scala temporale delle imprese che adiscono alla quotazione e quella degli investitori che ne sottoscrivono i titoli in emissione: la prima abbraccia un periodo di almeno un triennio, se non qualche multiplo del medesimo. La scala temporale degli investitori è invece oggettivamente molto più breve: in media è un anno o poco più.

Dunque molte imprese che possono trovare aperta una finestra per la quotazione spesso farebbero bene ad approfittarne, perché l’accesso al mercato dei capitali è solo il primo passo di un percorso di crescita, anche laddove le valutazioni che il mercato può esprimere appaiono poco soddisfacenti: è sufficiente ridurre le dimensioni dell’offerta, anche per riequilibrare l’equilibrio con la relativa domanda, o prevedere l’utilizzo delle cosiddette PAS (price adjustment shares) per garantire agli investitori il rispetto del piano di sviluppo aziendale. Nuove tranches di collocamento sarà possibile farle successivamente e probabilmente a condizioni migliorative. Nel frattempo infatti una serie di barriere psicologiche saranno state abbattute e quando si procederà oltre l’azienda sarà stata conosciuta molto meglio dai suoi sottoscrittori.

Dal punto di vista di chi investe può esserci altrettanta convenienza a sottoscrivere titoli di nuova emissione in momenti come questo: spesso sono in pochi quelli che si mettono a fare di conto per individuare un convenientissimo arbitraggio tra i multipli delle società già quotate e quelli delle quotande in periodi di scarsa liquidità: queste ultime normalmente pagano un elevato pegno nell’affrontare per la prima volta il mercato e, se chi le accompagna al listino avrà lavorato bene, probabilmente , quel “gap” sui multipli verrà ampiamente recuperato nei mesi successivi, con grande beneficio per chi le acquistate in IPO.

D’altra parte anche laddove il mercato dovesse riprendersi molto bene (e avrei qualche timore che ciò avverrà presto) le cose non sarebbero semplicissime per le società – matricole: se da un lato il contesto generale premierà le valutazioni, dall’altro lato il relativo affollamento -che si genererà quasi per certo- porterà le matricole ad essere in forte competizione le une con le altre. C’è il rischio dunque che il beneficio dell’aver scelto l’attesa e il rinvio sia piuttosto limitato. E nessuna certezza che quelle migliori condizioni di mercato che prima o poi dovranno palesarsi saranno davvero migliori…

Stefano di Tommaso