STRATEGIE D’AUTUNNO

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La radicalizzazione degli eventi globali che impattano sulla salute delle imprese (riduzione delle vendite, scarsità di manodopera, difficoltà negli approvvigionamenti, rincari dei costi, necessità di reshoring delle produzioni e di revisione dei listini prezzi…) impone un profondo ripensamento strategico a chiunque si trovi a gestire un’attività economica. Non basta riuscire ad assorbire gli incrementi dei costi e/o ribaltarli sui prezzi di vendita, ma occorre anticipare e cavalcare i cambiamenti epocali che tali eventi stanno generando per l’ambiente in cui le imprese sono inserite, costringendole ad adeguare in fretta il proprio modello di business invece di esserne travolte. Cosa ovviamente difficilissima, ma anche imprescindibile!

 

L’IPERINFLAZIONE E LE CONSEGUENZE PER LE IMPRESE

Partiamo dalla prima delle ovvietà: l’iperinflazione dei prezzi che è in arrivo in autunno per i consumatori, è già arrivata da tempo per molte imprese industriali. I costi di molti fattori di produzione sono letteralmente volati alle stelle fino a decuplicare o peggio in alcuni casi, e non soltanto per le bollette energetiche. Quegli incrementi a doppia o tripla cifra hanno iniziato a manifestarsi già un anno fa, inizialmente solo in taluni comparti, poi mano mano estendendosi sino ai servizi e alla manodopera qualificata. E’ stato cioè il fattore scarsità che nella maggior parte dei casi ha spinto al rialzo i costi. E la medesima scarsità negli approvvigionamenti ha già determinato o sta determinando una serie importante di conseguenze, anche a prescindere dal loro impatto sui conti economici delle imprese.

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Ad esempio la difficoltà di ottenere delle forniture ha costretto le imprese a fare più magazzino, con un ovvio appesantimento del capitale circolante. In altri casi le ha costrette a pagarle prima del solito o addirittura in anticipo, con la stessa conseguenza, per non parlare della garanzia di pagamento che oggi spesso viene richiesta all’ordine e che in precedenza non era invece usuale, la quale va inevitabilmente ad appesantire la dinamica finanziaria. In molti comparti il credito di fornitura era infatti altrettanto importante quanto quello bancario.

Anche le filiere di fornitura delle imprese -soprattutto quando sono internazionali- hanno subito o rischiano di subire a breve termine degli importanti cambiamenti che impongono altrettanto importanti ripensamenti strategici. Senza i quali probabilmente molte imprese sono destinate a non riuscire a restare vive.

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LA PRESA D’ATTO DEI CAMBIAMENTI EPOCALI

In realtà anzi sono numerosissimi e spesso poco visibili gli impatti non solo monetari che conseguono alla sferzata dei rincari dei costi che hanno investito le imprese. Sarebbe impossibile -nonché inutile- elencarli tutti. Quello che è invece molto utile osservare è ciò che ne sta conseguendo per quasi tutte le attività economiche: la necessità cioè per la maggior parte di imprese e imprenditori di riuscire a ripensare radicalmente e rapidamente la loro ragion d’essere.

Non soltanto per arrivare a trovare nuovi e non scontati equilibri al proprio bilancio aziendale, ma anche e soprattutto per evitare di rimanere vittima dei cambiamenti in corso, perdendo per strada parte della clientela (e dunque anche valore d’azienda) o per dover rinunciare a fattori di produzione che fino a ieri erano considerati strategici e che oggi possono risultare troppo cari o non più disponibili.

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A questo riguardo risulta ovvio per molte aziende fare (o rivedere profondamente) il proprio Piano Industriale per tener conto dei cambiamenti. Ma, come vedremo qui di seguito, ciò non è sufficiente. Il Piano Industriale è come il pesce: “puzza dalla testa”! La sua concretezza dipende cioè dalla qualità di chi è a capo dell’impresa. E per riuscire a reagire ai cambiamenti che si stanno sviluppando a seguito di inflazione, recessione e riassetto degli equilibri geopolitici non occorre soltanto una profonda revisione della piano aziendale, ma anche un’attenta disamina delle numerose ipotesi alla sua base.

QUATTRO ELEMENTI PER REAGIRE

Per orientarsi perciò nella tempesta di rincari e cambiamenti che le imprese -da molto tempo prima dei consumatori- stanno subendo, occorre per chi le gestisce riuscire a trovare: una bussola per orientarsi, un metodo per agire, la determinazione di riuscire ad agire radicalmente e tempestivamente e, molto spesso, le risorse finanziarie per poterselo permettere. Nessuno di questi quattro elementi risulta semplice da mettere in pratica, non foss’altro che per le terribili conseguenze che può determinare il commettere degli errori al riguardo. Se però l’alternativa rischia di essere la stessa sopravvivenza dell’azienda, ecco allora che può valere assolutamente la pena di correre qualche rischio e affrontare le riflessioni che ciò necessita.

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LA BUSSOLA

Mentre i costi di produzione crescono e impongono vari ripensamenti in ordine alla loro gestibilità, molte imprese sono costrette a chiedersi se gli obiettivi precedentemente definiti sono ancora validi, se il proprio posizionamento nell’ambito della concorrenza è ancora sostenibile, se il proprio mercato di sbocco è ancora il medesimo (talvolta, soprattutto per le attività “business to business”, la clientela decide di orientarsi in fretta in maniera del tutto differente, pur di riuscire a mantenere un equilibrio economico: il risultato può essere che una determinata fascia di clientela può arrivare letteralmente a vaporizzarsi).

Trovare un orientamento per comprendere verso quale direzione l’impresa deve dirigersi a seguito dei cambiamenti epocali in corso, non è mai scontato e presuppone, per coloro che riescono a farlo, la necessità di cominciare dall’aggiornamento dell’analisi di mercato e, di conseguenza, del posizionamento strategico dell’impresa. Cosa più facile a dirsi che a farsi.

Spesso queste cose infatti richiedono tempo e comportano costi. Anche le competenze per riuscirvi non sono necessariamente già presenti all’interno dell’impresa. Ciò può spingere a considerarle non urgenti, ma spesso è vero il contrario: nessuna impresa è al sicuro se non riesce a individuare come cambia la domanda dei propri prodotti e servizi e di conseguenza come può cambiare il proprio contesto competitivo, e come può mutare di conseguenza il proprio vantaggio strategico. E si può scommettere sul fatto che la tempesta perfetta oggi in corso sui mercati finirà per cambiare quasi tutto!

Ogni preferenza sta cambiando con l’inflazione in arrivo e con la revisione dei budget di spesa che ne consegue. Ogni abitudine e ogni convenienza saranno riviste. Addirittura in molti casi la carenza di forniture sta impedendo il normale equilibrio economico delle imprese perché ne riduce forzosamente il giro d’affari rendendo non più sostenibili i precedenti costi fissi. Ovvero la situazione impone nuovi importanti investimenti, che si giustificano però soltanto con una crescita -mai scontata- del giro d’affari.

IL METODO

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Le precedenti considerazioni introducono il secondo dilemma -in termini di priorità- che gli imprenditori devono riuscire ad affrontare: come agire? Da dove iniziare? A chi rivolgersi? E come coinvolgere i propri collaboratori?

Di solito un buon modo per iniziare a ragionare sullo scenario che cambia per l’impresa, dopo l’analisi di mercato, della posizionamento competitivo e, di conseguenza, della strategia, è quello di riuscire a fare davvero di conto. Non basta infatti prendere atto dei rincari e delle loro conseguenze sull’equilibrio economico: bisogna rivedere profondamente il Piano Aziendale, ivi compresi lo stato patrimoniale prospettico e il rendiconto finanziario che si può immaginare, almeno per l’esercizio in corso e per quello successivo. Ma per farlo occorre lavorare sulla contabilità industriale, ovvero sull’attenta revisione delle risultanze del controllo di gestione.

Spesso infatti il diavolo sta nei dettagli e, molto più spesso di quanto si possa immaginare, il primo problema delle imprese non sta nella capacità di pianificare il proprio futuro quanto nel cosiddetto “mispricing” (ovvero nella definizione non ottimale dei prezzi di vendita). Al di là dunque del Piano Industriale (la cui validità risiede sicuramente nell’accurata definizione delle ipotesi alla sua base e di come le stesse stanno cambiando nel prossimo futuro), ciò che manca molto spesso alle imprese è la capacità di ottenere validi risultati dal controllo di gestione nonché la capacità di utilizzare le sue risultanze per svolgere i ragionamenti strategici che ne conseguono.

Forse è quest’ultima la capacità più rara: quella di riuscire a tradurre in pratica i suggerimenti che discendono dalla pianificazione. E quando le cose cambiano occorre riuscire ad agire in maniera molto diversa da quanto fatto in precedenza. Pianificare il futuro prossimo è già molto complesso. Quasi impossibile farlo quando si vuole guardare ancora più in avanti. Ma è altrettanto vero che risulta quasi imprescindibile. Da questo punto di vista l‘accurata formalizzazione del Piano Industriale che ne consegue può aiutare l’imprenditore nel ragionamento.

Tradurre in pratica i suggerimenti che derivano dal controllo di gestione tuttavia non può non comportare la diffusione ad un certo numero di collaboratori di informazioni strategiche, al fine di coinvolgerli e motivarli. Senza disporre di un gruppo di persone molto coese e motivate è difficile per le imprese riuscire a reagire velocemente e bene. Per questo motivo occorre riflettere innanzitutto sulla qualità delle risorse umane che dovranno mettere in pratica i cambiamenti. E una volta fatto ciò può valer la pena di correre qualche rischio nell’affidarsi ad un certo numero di collaboratori condividendo con essi informazioni delicate! Nessuna azienda può dipendere dal solo vertice.

LA DETERMINAZIONE

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Pur riconoscendo la vastità e la difficoltà che comporta -per qualsiasi impresa, anche piccolissima- effettuare la revisione dell’analisi di mercato e della strategia aziendale, nonché la revisione conseguente del Piano Industriale e delle ipotesi alla sua base, e infine l’aggiornamento del controllo di gestione per tenere conto dei nuovi numeri che discendono dall’iperinflazione, ciò nonostante il punto non è mai la teoria, bensì la pratica.

Un’impresa infatti può dotarsi di ottimi consulenti e/o di personale interno estremamente capace di rivedere rapidamente ogni elemento della strategia aziendale, ma può ciò nonostante non riuscire affatto nel vincere le resistenze che immancabilmente si presentano quando si tratta di tradurre in realtà le indicazioni che emergono da tale revisione.

Se vogliamo insomma, per quanto siano chiare e importanti le indicazioni che discendono dalle analisi e pianificazioni che l’attento imprenditore deve riuscire a tradurre in realtà, il vero problema è il tracciare la cosiddetta “road map”, cioè il percorso di graduale progressività dei cambiamenti da effettuare, nonché la tempistica che ne consegue, mai facile da rispettare. Anzi! Normalmente ogni variazione delle procedure aziendali risulta traumatica, costosa e lunga da attuare. E l’alternativa alla capacità di tenere conto delle istanze dei dipendenti che vi si oppongono (a volte anche a ragione) è quella di scombussolare l’organizzazione, arrivando a perdere l’equilibrio acquisito in precedenza.

Ma ciò che accade “là fuori” sul mercato rischia di essere altrettanto traumatico, e non consente all’impresa di concedersi tempi lunghi per reagire. Le cose nel frattempo potrebbero cambiare ancora. Un attento imprenditore (o capo azienda) deve perciò contemperare la necessità di analizzare i mercati e i concorrenti arrivando a rivedere intelligentemente la strategia, con quella, altrettanto importante, di declinare -gradualmente ma con decisione e rapidità- i cambiamenti strategici e organizzativi che ne conseguono. Di nuovo: è molto piu facile a dirsi che a farsi.

LE RISORSE FINANZIARIE

Si è parlato più volte sino a qui della revisione strategica necessaria a seguito dei mutamenti oggi in corso sui mercati e delle conseguenti manovre che le imprese devono mettere a fuoco. Piani e manovre che devono essere condivisi, accettati e gradualizzati, prima che attuati. Ma non si può fare “i conti senza l’oste”. Fuor di metafora: la dimensione finanziaria dell’azienda rischia di risultare particolarmente strategica di fronte alle sfide che recessione, inflazione e revisione delle filiere produttive stanno imponendo alle imprese. Quasi sempre potervi reagire significa investire, e per farlo bisogna potertelo permettere.

Una prima osservazione riguarda la disponibilità di credito per le imprese, non soltanto bancario ma anche quello di fornitura. Che, con l’arrivo della recessione, rischia di prosciugarsi. Contrastare questo fenomeno generalizzato significa dunque vincere la concorrenza di altre imprese che vorrebbero ottenerlo (o mantenerlo) in presenza di una disponibilità complessiva del sistema finanziario che necessariamente arriverà a ridursi. Significa cioè risultare particolarmente resilienti alle difficoltà poste dalla congiuntura sfavorevole ovvero particolarmente capaci di cavalcare i cambiamenti in corso.

Una seconda e già meno scontata considerazione riguarda il capitale di rischio: teoricamente a seguito dell’incremento di numerosi rischi aziendali la dotazione di capitale sociale dovrebbe accrescersi, non diminuirsi a causa di perdite o minusvalenze cui facilmente -magari anche solo per pochi mesi- sono incorse le imprese prima di potersi adeguare ai rialzi dei costi di produzione. Inoltre per riuscire a mantenere il medesimo perimetro aziendale è piuttosto probabile che le imprese debbano effettuare investimenti, vuoi nell’efficienza di produzione e vuoi nella capacità di adeguare la propria struttura ai cambiamenti di mercato. Per i quali occorre altro capitale.

Quand’anche gli investimenti suddetti siano tutti sacrosanti e -nel medio termine- anche redditizi, ci sono soltanto due modalità per poterli sostenere: raccogliere altro capitale di rischio o dismettere delle attività non strategiche. Una terza modalità potrebbe sempre essere il ricorso ad ulteriori linee di credito ma non è affatto semplice riuscirvi, e presuppone un’insolita capacità dell’impresa di contrastare la tendenza di fondo degli istituti di credito a ridurre le erogazioni con l’arrivo di una recessione.

A meno perciò di importanti disinvestimenti (più difficili a realizzarsi e anche meno convenienti in tempi di recessione) le imprese che vogliono fare correttamente fronte all’attuale congiuntura e all’aumento generalizzato dei rischi aziendali (nonché agli ulteriori investimenti necessari) dovranno trovare il modo di raccogliere capitali, ovvero dovranno accettare di subire i cambiamenti di mercato senza potervi reagire e probabilmente accusando contemporaneamente una riduzione della disponibilità di credito.

Di solito si può sperare di ottenere capitale di rischio da terzi investitori a fronte di due condizioni: dell’aspettativa di tradurre in profitti incrementali tale capitale (cosa mai sicura) e della possibilità per chi investe di riuscire agevolmente a disinvestire in futuro (cosa altrettanto complessa quando l’impresa non è quotata in borsa). Per riuscire dunque nell’intento occorre disporre di un Piano Industriale molto affascinante e dove si mostra la capacità dell’impresa di riuscire addirittura a incrementare i propri profitti nonostante le difficoltà sopraggiunte.

LE ALTERNATIVE

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Da quanto sopra appare particolarmente evidente a quali difficoltà stanno andando incontro le imprese al sopraggiungere dell’attuale crisi: non soltanto dovranno riuscire a ribaltare gli incrementi dei costi e a mantenere i propri mercati di sbocco ma dovranno anche ripensare il proprio modello di business arrivando a trovare nuove filiere di fornitura, delle risorse umane qualificate per reagire ai cambiamenti, ed effettuare cospicui investimenti senza incrementare l’indebitamento ma anzi raccogliendo nuovo capitale di rischio.

E’ chiaro perciò che molte imprese non riusciranno a fare in tempo tutto ciò, se non dismettendo per tempo attività e cespiti non strategici per raccoglierne cospicue risorse finanziarie e/o per focalizzare i propri sforzi nelle direzioni più strategiche. All’arrivo di una recessione economica unita a una forte ventata di inflazione e con il conseguente rialzo dei tassi d’interesse, può dunque risultare particolarmente urgente effettuare dismissioni e incassare del denaro contante.

L’ultima alternativa possibile è quella di affrontare un importante “turnaround aziendale” accompagnato ad una o più aggregazioni con altre imprese, con lo scopo di ampliare la base dei ricavi e apportare tagli alle spese comuni. Spesso questa alternativa consente anche di sopperire all’impossibilità di effettuare direttamente degli investimenti strategici, che in caso di aggregazioni potrebbero non essere più necessari.

Dal momento che le crisi comportano non soltanto cambiamenti ma anche riduzioni del giro d’affari e/o fallimenti, contrastare un periodo del genere attraverso un programma di aggregazioni aziendali può risultare la più economica e la più veloce delle strategie possibili, soprattutto quando mettere in pratica le alternative risulta poco agevole o è poco probabile superare indenni le difficoltà.

Se vogliamo è questa l’indicazione più forte che discende dall’analisi qui effettuata: resistere e reagire alle mutate condizioni di contesto economico si può, magari anche con successo. Ma è piuttosto improbabile riuscirvi rimanendo immobili o aspettando troppo!

Stefano di Tommaso




PER CITIBANK L’INFLAZIONE ARRIVERÀ AL 18%

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Quello che sta succedendo negli ultimi giorni rischia di passare agli annali della storia come il momento di svolta (in peggio) dell’economia globale: quando cioè la deriva inflazionistica, vissuta per circa un anno in maniera tutto sommato moderata, inizia invece ad avvitarsi e rischia di far inceppare la crescita economica globale e di arrivare ad autoalimentarsi. Sono espressioni pesanti, ma vediamone il perché.

 

DUE “GAME CHANGERS”

I fatti oggettivi di cui tenere conto per analizzare il cambio di passo che rischia di intervenire da qui a fine 2022 sono sostanzialmente due :

  • la recentissima pubblicazione delle previsioni di Citibank Londra per l’inflazione possibile in Gran Bretagna a Gennaio 2023 (cioè tra soli 5 mesi) al 18,6% (si, avete letto bene!) a causa principalmente dell’aumento delle bollette, e
  • al tempo stesso lo “sfondamento” della soglia psicologica della parità con l’Euro del cambio del Dollaro americano.

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Se poi vogliamo essere più precisi dobbiamo necessariamente aggiungere al “cahier de doleances” (che neanche a farlo apposta era un termine coniato per raccogliere le lamentazioni del popolo agli Stati Generali della Francia di Luigi XVI, monarca finito sotto la ghigliottina per la sommossa popolare che derivò dalla fame del popolo) anche il contemporaneo raggiungimento dei 300 euro a megawattora del costo del gas (+250% circa in 3 mesi) nonché quello di 600 euro a megawattora del costo industriale dell’energia elettrica. (Il grafico qui riportato risale a qualche giorno prima ma evidenza la tendenza di fondo, fortemente crescente da un anno a questa parte).

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Ovviamente le suddette vicende sono concatenate tra di loro: il balzo del costo dell’energia tende a trascinarsi nei costi della maggior parte dei beni e servizi nel giro di qualche mese e al tempo stesso ciò non può non avere effetti positivi sulle divise monetarie di chi ha le maggiori chances di sopravvivere meglio ai rincari perché dotato di risorse naturali (e dunque può essere in grado di calmierarne il prezzo). Con la rivalutazione del Dollaro tra l’altro l’America sostanzialmente “esporta” inflazione nei confronti del resto del mondo, facendo contemporaneamente calare il proprio costo delle merci importate e moderando così gli effetti dell’inflazione in casa propria. Motivo per cui è lecito attendersi che essa proseguirà.

IN UK L’INFLAZIONE È RILEVATA PIÙ TEMPESTIVAMENTE

Per precisare meglio le circostanze sulle quali poggia la previsione di Citibank bisogna ricordare che in Gran Bretagna il tasso annuo di inflazione dei prezzi al dettaglio (prezzi luglio 2022 su luglio 2021) è già schizzato alle stelle raggiungendo il 12,3%, il livello più alto da marzo 1981, e che la Banca centrale inglese aveva già stimato in precedenza che l’inflazione dei prezzi al consumo avrebbe raggiunto il picco del 13,3% a ottobre e che quindi il Paese potrebbe sperimentare quello che potrebbe essere il più lungo periodo di contrazione economica dalla grande crisi finanziaria del 2008. Le previsione del 18,6% di Citibank supera quelle citate principalmente a causa degli ulteriori rincari di energia e prodotti alimentari.

Peraltro le sanzioni alla Russia, il principale esportatore globale di materie prime energetiche, fanno sì che quest’ultima indirizzi di conseguenza il grosso delle sue forniture verso l’Asia, ed in particolare verso gli altri due giganti economici e demografici del pianeta: Cina e India, le quali in contropartita ottengono un‘interessante sconto su tali forniture. Dunque l’Occidente sta pagando più cara l’energia.

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E chi ci rimette di più (escludendo la maggior parte dei paesi emergenti, afflitti prima ancora da ben altri problemi, quali la fame e i rischi di default di stato) è proprio l’Europa, e in particolare l’Eurozona, i cui Paesi membri sono condannati ad acquisire fuori dai propri confini (ma con il divieto di farlo dalla vicina Russia) la maggior parte delle risorse energetiche di cui necessitano. E, nell’ambito dell’Europa, chi ci rimette di più è l’Italia, Paese che appare come il fanalino di coda dell’Unione in termini di risorse energetiche anche perché sostanzialmente sprovvisto di quelle proprie e recentemente autoprivatosi per scelta anche delle centrali nucleari e dell’estrazione di risorse naturali.

LA RETORICA ELETTORALE NON AIUTA

Ma all’inizio di queste righe abbiamo citato un principio fondamentale dell’economia: l’inflazione dei prezzi si trasmette velocemente da un Paese all’altro innanzitutto attraverso il maggior costo dell’energia. Dunque a rigor di logica l’Italia dovrebbe registrare il più elevato tasso di inflazione d’Europa e quest’ultima dovrebbe registrare uno dei più elevati tassi d’inflazione del mondo. E così probabilmente sarà, ma non subito, dal momento che gli uffici di statistica tendono a rilevare determinati panieri dei prezzi, spesso superati e dunque inadeguati a descrivere correttamente ciò che accade davvero. Cosa che peraltro fa comodo a chi governa per riuscire a somministrare solo gradualmente le brutte notizie. Lo stesso probabilmente può valere per gli USA, dove il partito democratico non è sicuramente frettoloso di far conoscere gli incrementi dell’inflazione a tre mesi dalle elezioni parlamentari.

Dunque possiamo facilmente immaginare che le stime statistiche relative all’inflazione dei prezzi ”appaiano” più elevate nel Regno Unito (che peraltro è esportatore netto di petrolio, dunque in posizione migliore rispetto al resto dell’Eurozona) più per motivi legati alla tempestività del trasferimento degli aumenti dei costi aziendali sui prezzi al consumo (e alla tempestività della loro rilevazione statistica) che non perché a casa nostra i prezzi al consumo stiano crescendo effettivamente di meno.

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Ma se fino a ieri si riteneva l’inflazione in corso come un evento temporaneo e limitato nella sua portata, oggi le cose rischiano di cambiare bruscamente: la tensione geopolitica (che riguarda peraltro soprattutto l’Europa) sta comportando ulteriori rincari energetici che -pur nella vischiosità della loro trasmissione a valle sui beni di consumo- stanno innalzando l’inflazione a valori che potremmo definire sudamericani, simili a quelli visti solo al culmine delle tensioni degli anni ‘70 del secolo scorso (quasi cinquant’anni fa).

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E, così come successe allora, oggi la spirale inflazionistica inizia ad autoalimentarsi e a creare sconquassi politici e sociali (si pensi alla crescente difficoltà per le famiglie più povere di sbarcare il lunario, e in Italia ce ne sono davvero molte!), dal momento che la rincorsa ai maggiori dei salari e dei costi dei servizi sarà inevitabile, così come sarà inevitabile una più severa recessione che non potrà non svilupparsi a causa dell’altrettanto inevitabile incremento vertiginoso dei tassi di interesse e dell’impossibilità per le imprese di trasferire adeguatamente e tempestivamente gli aumenti dei costi di produzione sui prezzi di vendita.

La recessione in arrivo peraltro non potrà non esasperare le ulteriori tensioni relative alla sostenibilità dei debiti, pubblici e privati, oggi tra l’altro giunti a livelli ben più elevati che non mezzo secolo fa. Qualche mese fa si parlava della “tempesta perfetta” in modo quasi pittoresco ma con un certo distacco. Oggi quello che sta arrivando appare piuttosto come un uragano di proporzioni epocali! Uno scenario orrendo che però il nostro Paese sembra voler ignorare!

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IN ATTESA DELL’AUTUNNO (MA POTREBBE ESSERE TARDI)

L’Italia infatti appare oggi amabilmente addormentata, sotto una coltre di dichiarazioni demagogiche dei principali partiti che potremmo considerare relativamente normali in tempo di campagna elettorale, se non fosse che però rischiano di far perdere di vista in quali disastri possiamo incorrere se il governo Draghi, in amena “prorogatio” di fatto fino ad Ottobre, non agirà in fretta per arginare il fenomeno di questi giorni dell’ulteriore rilancio dell’inflazione. Qualcuno infatti dovrebbe occuparsi di non lasciare il Paese a corto di risorse energetiche proprio intorno a fine anno, quando -sì, ci sarà un probabile ricambio al governo, ma quando i due problemi (dell’inflazione e del costo dell’energia) potrebbero raggiungere il loro apice.

Alla drammatica svolta dell’economia dovrebbe contrapporsi cioè una coraggiosa serie di scelte di ogni genere, cui stanno evidentemente attribuendo molta più importanza di noi non soltanto gli Inglesi, ma anche Tedeschi, Francesi, Olandesi e persino Spagnoli, per cercare di prepararsi al peggio, seppure soltanto in ordine sparso (e la Commissione Europea, su problemi come questi, dov’è invece?).

GLI INDICI “PMI”

Gli indici PMI di Markit (che rilevano la fiducia economica degli imprenditori) sono giustamente scesi parecchio negli ultimi giorni, ma forse non così tanto quanto sarebbe stato corretto. La psicologia umana fa oggettivamente fatica a elaborare ogni lutto e in particolare a rendersi conto di quanto potrebbe cambiare lo scenario economico da qui a pochi mesi a seguito di quel che sta succedendo. E così gli imprenditori, per loro natura, restano sostanzialmente ottimisti. Sanno in cuor loro che c’è sempre una via d’uscita. E spesso hanno ragione, ma di fronte al ”cambio di passo” che rischia di arrivare, potrebbero forse mostrarsi ancora più cauti.

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L’OTTIMISMO DELLE BORSE E’ INGIUSTIFICATO

Così peraltro come le Borse, i cui principali operatori inizialmente avevano cinicamente salutato il possibile arrivo della recessione con relativo ottimismo, sperando che essa avrebbe comportato una minore pressione della domanda di beni e servizi a contrapporsi alla scarsità dell’offerta dei medesimi, e dunque una riduzione dell’inflazione dei relativi prezzi, che nel tempo avrebbe consentito ai tassi d’interesse di tornare a scendere (elemento fondamentale per rilanciare le valutazioni implicite delle imprese le cui azioni sono quotate in borsa). Su questa serie di considerazioni si era avviato il “rally d’estate” delle borse mondiali, durato in tutto quasi due mesi. Oggi invece nessuno è più in grado di prevedere cosa potrebbe succedere.

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La minaccia della prosecuzione della guerra e della radicalizzazione dell’inflazione oggi sta infatti mutando in una triste realtà, e con essa quella di un’inflazione selvaggia, che comporterà, al contrario di ciò che si sperava, un quasi pari incremento dei tassi d’interesse. Fattore che inevitabilmente spingerà in direzione opposta in termini borsistici, quella cioè di una brusca riduzione delle valutazioni d’azienda. Non soltanto a causa del fatto che il valore attuale dei flussi di cassa prospettici andrà scontato ad un tasso più elevato, ma anche perché peggiore sarà la recessione e più limitate saranno le opportunità di profitto per le aziende quotate. Due fattori con i quali dovrà confrontarsi qualsiasi ottimismo di fondo…

ECONOMIA DI GUERRA

Qualche tempo fa (14 Marzo) avevo scritto un articolo denominato “economia di guerra” nel quale provavo a delineare le conseguenze che il nostro Paese avrebbe dovuto fronteggiare a seguito delle proprie scelte in termini di politica estera nonché a seguito della propria situazione di precarietà del proprio sistema industriale. In quell’articolo stimavo nel 20% il tasso d’inflazione probabile del 2022 e molti lettori mi davano apertamente del matto. Temevo il peggio ma in cuor mio speravo di avere torto, di non dover mai vedere una congiuntura che si sarebbe avvitata così tanto!

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Oggi è relativamente più visibile di quanto lo fosse cinque mesi fa il disastro economico che potrà abbattersi sull’Europa e ancor più sull’Italia intorno alla fine dell’anno solare, ed è dunque lecito allarmarsene, tanto per l’economia reale quanto per i mercati finanziari, quantomeno al fine di riflettere sulle possibili conseguenze delle dinamiche in corso e per riuscire a prevenire il peggio…

Stefano di Tommaso




LA STAGFLAZIONE È GIÀ ARRIVATA

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Se fino a una settimana fa ci potevano essere dei tentennamenti, con le brutte notizie fioccate negli ultimi giorni ogni dubbio sembra essere caduto: il mondo si avvia a digerire l’ennesima escalation di tensioni geopolitiche globali, con la conseguenza pressoché certa di un periodo di stagnazione economica, peraltro in arrivo insieme a una piccantissima e crescente inflazione dei prezzi (dunque si prospetta una vera e propria “stagflazione”).

 

LE BANCHE CENTRALI SONO AL LAVORO, MA INUTILMENTE

Guerra e tensioni rilanciano dollaro, gas e petrolio. Sembra pure in arrivo l’ennesima recrudescenza della pandemia. E chi investe non può tenerne conto. Ma non è detto che le borse andranno a picco, né che quella in arrivo sia una vera e propria recessione. Certo, la situazione di Agosto 2022 non è quella di Marzo 2020. Oggi i debiti pubblici sono molto più alti e i tassi d’interesse sono cresciuti, arrivando per molte nazioni al limite dell’insostenibilità. Questo fatto comporta ulteriore incertezza per il futuro che a sua volta alimenta la mancata crescita.

Le banche centrali poi stanno procedendo nella logica della “stretta monetaria” e di conseguenza non somministrano nuovi stimoli per scongiurare la recessione. Per di più sanno di avere le armi spuntate nei confronti di un’inflazione che dipende quasi solo dalla scarsità dell’offerta e che quindi i rialzi dei tassi serviranno a ben poco. Insomma l’economia non “tira” anche a causa di svalutazione e rincari, ma l’inflazione potrebbe addirittura aumentare ancora…

LA RISALITA DELLE BORSE È FINITA LA SCORSA SETTIMANA

Sebbene la stagione dei dividendi sia andata benissimo fino alla prima metà dell’anno in corso, per il prossimo futuro le aspettative di profitti aziendali si riducono si riducono (come mostra il grafico qui riportato per le 500 maggiori imprese quotate a Wall Street) e di conseguenza il “rally d’estate” delle borse rischia di essere proprio terminato.

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Dopo quasi due mesi di rialzi di borsa (da luglio) in cui Milano era ri-cresciuta dell’11% (sebbene crollata del 24% prima del rimbalzo) Wall Street era salita addirittura del 16% (ma era crollata fino al 30% da inizio d’anno) e il Nasdaq aveva fatto addirittura il doppio: +35% dai minimi di giugno (sebbene fosse scesa prima del 42% da inizio d’anno), sembrava che la tendenza al rialzo fosse consolidata e fondata sulla convinzione che l’inflazione aveva oramai raggiunto il suo picco, come dimostrato dalla rilevazione di Luglio negli USA, sebbene ciò accadesse per la debolezza della domanda di beni e servizi.

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LA CONGIUNTURA ARRANCA IN TUTTO IL MONDO

E invece la congiuntura economica in giro per il mondo sembra aver di nuovo imboccato una brutta piega (si guardi il declino della produzione industriale cinese, nel grafico qui riportato) e le borse hanno di nuovo ripreso a scendere: in circa due mesi il recupero dei listini è stato soltanto pari o poco superiore alla metà dei ribassi dei listini da inizio anno (cioè nulla più che il tipico rimbalzo a metà della discesa) mentre giungevano gli ultimi dati sull’inflazione anglosassone (oltre il 10%) ma soprattutto si rafforzavano i timori che i rialzi dei tassi d’interesse siano ancora ben lontani dall’essere arrivati a concludersi. E se così sarà allora è lecito prevedere che le borse si imbarchino ancora di un 10-20% del valore dei listini, da qui all’autunno inoltrato.

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Ciò non significa che non assisteremo ad nuovi rimbalzi dei listini azionari, ma la volatilità delle borse è scesa intorno ai minimi storici (si veda l’indice VIX nel grafico qui riportato) e la tendenza sembra male orientata.

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La storia poi non si ripete mai nello stesso modo e, quando le borse torneranno a crescere, non è detto che saranno nemmeno gli stessi comparti industriali del passato (i tecnologici soprattutto) a beneficiarne.

I SETTORI FAVORITI DAGLI INVESTITORI

Oggi gli investitori puntano ad incrementare la loro quota di denaro liquido non investito (cassa dunque) e tornano a guardare con interesse le imprese impegnate sul settore salute nonché gli investimenti immobiliari a reddito.

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Per fare altri esempi, se la transizione “verde” non potrà non continuare e le grandi tendenze di fondo dell’economia indicano la necessità di produrre sempre più energia da fonti rinnovabili (generazione e accumulo di energia dal sole, dal vento e forse anche dal mare), il nuovo mantra sembra essere quello della riscoperta delle tecnologie per ottenere energia a basso prezzo.

E’ IL MOMENTO DELL’AGRICOLTURA

Uno dei fattori più preoccupanti per la sostenibilità dello sviluppo economico è poi la disponibilità di acqua dolce. Ebbene un business tra i più interessanti potrebbe essere la produzione agricola. In particolare quella dove c’è abbondanza d’acqua e trasportata dove c’è n’è di meno. In effetti nel lungo termine questo settore ha dato ottime performances soprattutto in situazioni di emergenza, come si può vedere da questo grafico che abbraccia un intero trentennio.

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Questo ragionamento porta in generale non tanto all’andamento degli indici di borsa bensì a quali settori economici andranno meglio e di conseguenza quali “asset class” converranno di più. Per comprendere dove orientarsi dunque nel selezionarli uno sguardo al passato può sicuramente aiutare: il grafico che segue riporta il tasso di correlazione tra l’inflazione registrata e le principali asset class da settant’anni a questa parte.

I DIVIDENDI “COSTANO” POCO!

Sebbene infatti si possa essere moderatamente ottimisti sul futuro degli investimenti in Borsa, è impossibile disconoscere le prospettive per lo sviluppo economico globale -almeno a breve termine- ed è interessante notare che ci sono diversi titoli storicamente meno “sexy” per gli investitori (tipicamente classificati “value”) che però hanno sempre fornito interessanti dividendi, e ora appaiono decisamente sottovalutati, come dimostra questo grafico, che mostra il loro rapporto Prezzo/Utile sceso parecchio al di sotto della media ventennale:

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Come abbiamo visto in precedenza però la volatilità delle borse è scesa moltissimo e il prezzo del petrolio viaggia più o meno stabilmente poco sopra i 90 dollari, mentre il dollaro americano potrebbe mostrare segni di stabilità non proseguendo la sua risalita oltre la parità con l’euro. Questo potrebbe anche significare che, dopo la rotazione dei portafogli verso investimenti più “tranquilli” e redditizi, ci si possa attendere una pausa di riflessione.

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Una trentina d’anni fa per i governi italiani si parlava di San Dollaro e San Petrolio. E magari nelle prossime settimane questi due beati potrebbero concederci ancora qualche grazia, allentando una tensione che al momento è ancora molto forte a causa dell’inasprimento del conflitto tra Russia e America (pardon: si dovrebbe scrivere Ucraina, ma poi si legge U.S.A.).

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MA LA CRESCITA DEL PIL ITALIANO È TRUCCATA

Ma non c’è troppo da illudersi: Moody’s ha appena tagliato l’Outlook (la prospettiva) per l’Italia da neutrale a negativa nonostante il MEF continui a prevedere per l’Italia una crescita del del 3.4% per quest’anno e nonostante il fatto che l’indebitamento netto, come proporzione del prodotto interno lordo, possa scendere sotto le attese a causa di un mero effetto contabile, dal momento che il debito si esprime a valori nominali, mentre la crescita del prodotto interno lordo si evidenzia in termini reali. Se l’Italia perciò registra un’inflazione dell’8%, la Germania del 9% e la Gran Bretagna del 10% ecco che -con un ISTAT compiacente- abbiamo “rubato” uno o due punti % di crescita apparente.

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La crescita del PIL italiano al 3,4% per il 2022 è in effetti un sogno destinato a rimanere nel cassetto, nel contesto generale di stagnazione che affligge l’Europa e in particolare la Germania (paese che traina molti ordinativi per l’industria italiana del terzismo).

Poi la spinta alla crescita del PIL proveniente dal 110% è stata quasi certamente sovrastimata: i soldi del PNRR per il Superbonus sono già finiti e addirittura rischiamo di non incassare neanche quelli già spesi a causa della mancata conclusione di talune riforme. Quello di Moody’s appare perciò come un “simpatico avvertimento” ai futuri governanti.

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L’effettiva esigibilità dell’enorme carico fiscale italiano è infatti molto discutibile ma siamo in campagna elettorale e si continua a far finta di incassare tutte le imposte. L’Erario nazionale infine paga molto in ritardo le imprese sue fornitrici mettendone in qualche caso a rischio la sopravvivenza, e minando lo sviluppo economico generale. D’altro canto però in Italia l’occupazione è cresciuta (+1.8%) a Giugno e lo stoccaggio del gas ha raggiunto ormai il 74% a poca distanza dalla soglia di sicurezza energetica.

LA RECESSIONE COLPIRÀ LE IMPRESE MENO CAPITALIZZATE

Tuttavia le imprese italiane dovranno affrontare un autunno durissimo, nonostante lo stoccaggio del gas protegga il Paese da eventuali shock di sistema (a carissimo prezzo), il suo costo altissimo e ancora crescente impatta inesorabilmente sui conti aziendali e, di conseguenza, ipoteca una pressoché certa prosecuzione della crescita dei prezzi al consumo.


Dunque se l’Italia chiuderà l’anno con uno zero percento di crescita del PIL (al netto dell’inflazione vera e non di quella rilevata ancora con il prezzo delle sigarette “nazionali”) sarà già un bel successo. E a livello globale la possibilità di un 2022 che si concluda con una bella stagnazione economica globale è sempre più concreta al traino di ciò che sta accadendo in America (una inversione oramai conclamata della curva dei rendimenti), come mostra il grafico che segue:

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Stefano di Tommaso




LE BORSE SONO SOPRAVVALUTATE?

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15La notizia più importante l’ha voluta dare in diretta Joe Biden: a Luglio l’inflazione americana si è arrestata. Zero percento nel mese di Luglio, sebbene in precedenza fosse salita così tanto da rassomigliare soltanto a quella di quasi 50 anni fa. Ovviamente le borse hanno brindato al ritorno dell’ottimismo (o forse sarebbe meglio dire: alla fine del pessimismo), e non soltanto quelle americane, ma anche quelle asiatiche ed europee. La prospettiva di una ripresa dei listini sulla scia del lieve ribasso dei tassi d’interesse impliciti nel mercato monetario però è dovuta alla recessione in corso, che ha abbassato le aspettative di incremento dei prezzi.

 

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Sorgono pertanto diverse questioni: i tassi d’interesse hanno iniziato a flettere? Ovvero ci sono buoni motivi per ritenere che quella attuale sia soltanto una pausa tecnica? Sì, perché l’inflazione rilevata dai principali istituti di statistica è esplosa negli ultimi mesi ma il fuoco aveva covato a lungo sotto la cenere della fine della precedente recessione: quella procurata dalla pandemia e dalle conseguenti restrizioni alla circolazione di uomini e merci. I prezzi al consumo sono cresciuti per il formidabile rincaro dei fattori di produzione. Ora frenano soprattutto per la domanda debole, ma i costi delle materie prime hanno imboccato una strada in stabile discesa oppure hanno solo preso una boccata d’aria?

Il dato statistico attuale dell’inflazione (si misura ufficialmente solo quella dei prezzi al consumo) sembra dipendere quasi esclusivamente dalla differenza tra domanda e offerta di energia, materie prime, semilavorati e beni di prima necessità. Siamo sicuri che ciò non rappresenti un contesto sfavorevole per l’industria e il commercio? In fin dei conti infatti le valutazioni d’azienda – implicite nelle quotazioni di borsa- dipendono da due fattori primi: i margini industriali prospettici e i tassi di interesse ai quali attualizzarli.

Se le valutazioni d’azienda tornano a crescere è lecito attendersi una loro concordanza con prospettive migliori delle aziende quotate in borsa e/o con tassi d’interesse che tornino a scendere. Se tali prospettive invece non sono fondate, allora è lecito ritenere che la ripresa dei listini azionari non possa continuare a lungo, al di là delle oscillazioni di breve periodo. E in effetti sino ad oggi non sono affatto calati i profitti aziendali della maggioranza delle imprese che orientano i listini azionari. Né sembrano volte al ribasso le previsioni per i margini dei prossimi trimestri. Ma è lecito attendersi margini ancora in crescita se il contesto resta sfavorevole?

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Per quanto riguarda l’altro fattore che orienta le valutazioni d’azienda (i tassi d’interesse) quali sono le prospettive? Le banche centrali promettono ancora tempesta. Spiazzate dalla prosecuzione della fiammata dei prezzi, oppure colpevolmente negligenti, esse rischiano di agire nel medesimo ritardo accumulato mentre i prezzi andavano alle stelle. Ma stavolta all’opposto: nonostante infatti i mercati finanziari esprimano nell’ultimo mese tassi d’interesse in lieve ribasso, esse mantengono il programma di rialzo del solo tasso che esse riescono a controllare: quello di sconto, che a sua volta orienta il costo del denaro.

Il “manuale di istruzione” del banchiere centrale dice che dovrebbero farlo crescere se intendono stroncare sul nascere l’aspettativa d’inflazione (ma come abbiamo visto adesso non avrebbe senso, perché ora sembra essere al rientro) oppure per colmare il “gap” tra i tassi nominali e l’inflazione, che si traduce attualmente in tassi reali negativi (ma i mercati finanziari le hanno precedute, facendo salire le quotazioni dei titoli a reddito fisso, che esprimono oggi rendimenti impliciti minori). Perciò se dovessero attenersi al loro “manuale di istruzioni” ora le banche centrali dovrebbero invertire la rotta. Ma le autorità monetarie devono evitare di inseguire le oscillazioni di brevissimo periodo e dunque rischiano di farlo tra qualche mese quando sarà troppo tardi. Probabilmente perciò esse torneranno ad abbassare i tassi soltanto dopo che si sarà visto cosa succederà in autunno e quale evoluzione avranno le tensioni geopolitiche.

Nel frattempo esse hanno programmato altri “gradini” di risalita dei tassi d’interesse a breve termine, e conseguentemente procederanno tutte ad altri rialzi del costo dei finanziamenti, fattore recessivo per eccellenza! In un mondo ultra-indebitato e con tendenze al ribasso della crescita economica come quello attuale ciò potrebbe essere considerata una follia, e forse lo è davvero. Ma soprattutto questo non aiuterà i margini industriali con i quali le imprese generano profitti, e nemmeno ridurrà i tassi ai quali vengono scontati i flussi di cassa futuri. Dunque non aiuterà le valutazioni d’azienda che oggi invece sembrano riprendere quota.

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Addirittura la Banca d’Inghilterra (si legga il grafico sopra riportato, pubblicato dall’ Economist di qs settimana) -tra le poche governate davvero in autonomia- ha pubblicato ufficialmente le sue previsioni di crescita dell’inflazione: attorno ad un picco del 13% a fine anno, prima di tornare (forse) a flettere, cioè il 40% in più di quella misurata oggi su base annua. Questo può giustificare la prosecuzione degli incrementi del tasso di sconto britannico, ma getta molte ombre sull’ottimismo che invece sembra prevalere al di là dell’Oceano Atlantico.

In effetti i timori per l’autunno che incombe sono molti, e piuttosto ben giustificati: se il costo dell’energia (già cresciuto in media del 40% nell’ultimo anno) dovesse tornare a crescere allora anche i costi dei fattori di produzione dovrebbero riprendere a impennarsi. Si dice che ciò dipenderà molto dalle tensioni internazionali, ma nemmeno queste sembrano aver imboccato la strada dell’allentamento. Dunque la guerra all’inflazione non è necessariamente già stata vinta e questa ha innegabili effetti su tassi d’interesse e profitti aziendali.

Le ultime considerazioni fanno perciò ritenere che l’attuale risalita nelle valutazioni d’azienda sia assai poco giustificata. Anche per un secondo motivo: quello della liquidità in circolazione: l’altra leva che le banche centrali stanno usando per combattere l’inflazione è infatti quella della riduzione della liquidità sui mercati, attraverso la cessione dei titoli precedentemente acquistati. Se la liquidità degli operatori tornerà a scendere allora è lecito attendersi non soltanto una serie di vendite in borsa a causa della necessità di detenere maggior cassa liquida nei portafogli degli investitori, ma anche una più difficile liquidabilità (attraverso più difficoltose IPO o M&A) delle azioni acquisite dai fondi di private equity e venture capital, che fino a ieri sono stati gli attori più dinamici e performanti nel mercato dei capitali.

Le banche centrali insomma stanno ancora usando i loro attrezzi del mestiere in direzione di una decrescita delle borse, non di un loro apprezzamento. Mentre il mercato dei capitali -da oramai quattro settimane- si sta orientando in direzione letteralmente opposta. E qui sorge una domanda, la cui risposta è al momento impossibile: chi ha ragione e chi ha torto? Come diceva Winston Churchill: è l’inizio della fine (dell’inflazione) o solamente la fine dell’inizio?

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Oggi il Nasdaq 100 (principale indice del mercato americano delle imprese tecnologiche) è cresciuto del 24% nell’ultimo mese, ed esprime un rapporto tra prezzo delle azioni e utili attesi (il c.d. P/E tracking) di oltre 24,3 volte, il cui reciproco in termini di tasso implicito di rendimento delle azioni è il 4,1%, mentre il P/E dell’SP500 (principale indice del mercato americano delle imprese maggiori) è a 18,7 volte gli utili attesi (circa il 5,35% di rendimento implicito).

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Il medesimo rapporto per il FTSE Mib (l’indice dei principali titoli della borsa italiana, cresciuto nell’ultimo mese soltanto del 6,5%) è invece a 11,3 volte gli utili: vale a dire meno della metà del Nasdaq, con un rendimento atteso dell’8,85%. Si potrebbe perciò dedurre che le valutazioni che “girano” sulla borsa di Milano appaiono molto più in linea con le attese di crescita dei tassi di interesse (posto che i titoli azionari assicurano comunque una discreta protezione dall’inflazione) rispetto a quelle americane. Ma la verità è che le borse europee sono meno liquide e di conseguenza state molto più lente al rialzo e che almeno una parte della differenza dipende da questo.

Insomma la speculazione ha messo a segno un bel “rally” di borsa estivo, ma il rischio che questo non prosegua anche in autunno è piuttosto elevato. Quanto al dopo Ferragosto, tutte le ipotesi sono credibili, data l’elevatissima volatilità, che viene esacerbata proprio dalla riduzione della liquidità che è in corso!

Stefano di Tommaso