DON’T FIGHT THE FED (2.o di 2 articoli)

La prospettiva di stabile incremento dei tassi di interesse sui mercati finanziari internazionali, che discende dall’orientamento più restrittivo che la banca centrale americana imporrà di fatto anche alle altre banche centrali è di per sé la principale causa di una serie di sconvolgimenti sui mercati, quali a) un calo strutturale delle borse valori, b) la crescita dello spread tra i titoli di stato nostrani e quelli di economie più solide (come la Germania), c) la riduzione dell’indebitamento del sistema finanziario, d) la possibile fuga di capitali dai mercati finanziari più periferici a quelli “core”, percepiti cioè come più capaci di garantire la liquidità. Proviamo ad esaminarli uno ad uno:

 

A) PERCHÉ LE BORSE POTREBBERO SCENDERE ANCORA:

1. IL V.A.N. AZIENDALE SCENDE QUANDO SALGONO I TASSI

Dopo le più recenti e pessime notizie provenienti dall’economia reale (che ovviamente costituiscono un concreto rischio di riduzione dei profitti attesi per buona parte delle aziende quotate) è soprattutto il rialzo dei rendimenti attesi nel lungo termine ciò che comporta un un implicito rialzo del tasso d’interesse al quale andrebbero scontati i flussi di cassa futuri generati dalle aziende quotate. Se l’impostazione della Federal Reserve Bank of America (FED) sarà confermata, le aspettative del mercato rimarranno quelle di un incremento dei tassi destinato a durare le tempo. Così, anche qualora le prospettive di profitto di quelle aziende nel lungo termine dovessero rimanere intatte, il valore attuale netto dei profitti futuri (che costituisce il valore ultimo implicito delle relative aziende) dovrà necessariamente calare. Per questo motivo ogni qualvolta i tassi d’interesse a lungo termine salgono sul mercato finanziario internazionale in modalità percepita come “non transitoria”, il valore implicito delle azioni delle società quotate è destinato a scendere.

2. LA ROTAZIONE DEI PORTAFOGLI

Ovviamente perché i listini calino bisogna che venga rispettata la legge della domanda e dell’offerta dei titoli azionari: qualora infatti sui listini azionari dovesse continuare a prevalere la domanda di titoli azionari rispetto all’offerta, anche se il valore implicito teorico dei titoli sarebbe divenuto più basso per effetto dei tassi, quei titoli resteranno alti di prezzo.

Si, ma in questi giorni sta invece succedendo il contrario: l’avversione al rischio da parte degli investitori è divenuta sempre più un tema centrale: essi tendono ad indirizzare gli investimenti verso una minore rischiosità complessiva alimentando sui mercati azionari una ulteriore rotazione dei portafogli azionari (dai titoli con maggiori prospettive di crescita a titoli più “difensivi”), dismettendo i titoli dal contenuto di valore più speculativo per concentrarsi su quelli anticiclici, o su quelli i cui rendimenti dipendono meno dall’andamento dell’economia reale e dai consumi, o infine sui titoli che promettono ai loro detentori una maggiore quantità di dividendi.

3. LA RICERCA DELLA LIQUIDITÀ

Gli investitori in situazioni di incertezza tendono inoltre a recuperare capacità di manovra incrementando la quota di denaro contante (rispetto al totale delle masse in gestione) e dunque, a parità di denaro gestito, tendono a ridurre gli investimenti azionari in assoluto per incrementare la liquidità disponibile. Il risultato è che probabilmente anche per questa ragione l’offerta di titoli azionari può superare la superare la loro domanda.

Tuttavia esiste anche un secondo meccanismo relativo alla ricerca della liquidità che opera nella medesima direzione della riduzione delle quotazioni azionarie: la riduzione delle masse gestite. L’attesa di inflazione (e di implicita svalutazione monetaria) può spingere i risparmiatori a ridurre la loro quota di investimenti rivolta ai mercati finanziari per incrementare (o semplicemente accelerare) investimenti in beni immobili o nei cosiddetti “beni rifugio”, nel timore che i medesimi possano crescere di prezzo nel tempo. Questo meccanismo tende a ridurre le masse gestite dagli investitori professionali -oppure a limitare la loro crescita- e, di conseguenza, a spingerli a vendere più titoli di quanto avrebbero fatto in altre occasioni.

B) PERCHÉ LO SPREAD (BTP-BUND) POTREBBE CRESCERE:

La percezione da parte del mercato finanziario di una stabile risalita dei tassi d’interesse a lungo termine comporta necessariamente un riallineamento verso l’alto anche dei rendimenti promessi dai titoli di Stato, incrementando dunque per gli emittenti (lo Stato, ad esempio) i costi futuri di remunerazione attesi dagli investitori e riducendo perciò la loro possibilità di pagare gli interessi sul debito a parità di reddito (gettito fiscale atteso).

Ovviamente se le prospettive economiche che ne conseguono sono più probabilmente quelle di una recessione, anche quest’ultimo (il gettito fiscale atteso) tende a restringersi, spingendo verso l’angolo la capacità degli Stati che finanziano i loro debiti pubblici tramite l’emissione dei relativi titoli, di remunerare le loro cedole (in crescita) sulla base del loro gettito fiscale (in decrescita).

E’ per questo motivo che l’inasprimento delle politiche monetarie da parte delle banche centrali spinge notoriamente i gestori di portafogli a ridurre la quantità di titoli di Stato che possono risultare più a rischio nel prossimo futuro, quali quelli emessi dai paesi periferici e più indebitati (come il nostro).

E se ci sono più vendite che acquisti sul mercato dei titoli di Stato di questi ultimi, allora il loro valore scenderà e il rendimento implicito salirà, fino al punto di equilibrio in cui tali titoli risulteranno altrettanto attrattivi per gli investitori perché potranno vantare un rendimento più elevato. Sale dunque il differenziale fra il rendimento (lo “spread” appunto) dei titoli di Stato di paesi come il nostro e quello dei titoli di stato più sicuri (quelli tedeschi, ad esempio) perché ip bilancio dell’emittente pubblico esprime maggior solidità nella capacità di sostenere interessi e capitale.

C) L’ECCESSO DI INDEBITAMENTO DEL SISTEMA

Gli Stati Uniti d’America vantano il mercato finanziario privato più grande del mondo, e sono quindi tra i paesi più esposti a possibili crisi a catena che possono derivare dall’ improvvisa mancanza di fiducia nei confronti degli operatori finanziari. Come si può ben comprendere se si esamina ciò che è accaduto con la crisi dei titoli “sub-prime” del 2008!

Alla luce di quella traumatica esperienza, quando cresce troppo il livello di indebitamento degli investitori e degli intermediari finanziari, è lecito attendersi che la banca centrale americana abbia un motivo in più per intervenire, affinché il mercato dei capitali si riallinei su livelli di indebitamento più fisiologici, andando a scongiurare il rischio di una nuova crisi di fiducia nel sistema.

Ma l’unico modo perché questo possa realmente accadere è far percepire ai mercati finanziari un’aspettativa di stabile e duraturo incremento dei tassi d’interesse, come ciò che si va oggi delineando, anche a costo di provocare una recessione economica globale. Ovviamente anche questo “effetto” è traumatico, perché costringe repentinamente chi ha troppo debito a disinvestire, e il risultato è il medesimo: un calo dei valori dei titoli sottostanti alle operazioni che erano state costruite attraverso il debito.

D) LA FUGA DEI CAPITALI VERSO NEW YORK E LONDRA

L’analisi di quest’ultimo fenomeno è forse anche la meno scontata e la più interessante, perché potrebbe addirittura delineare un implicito interesse degli anglosassoni a provocare nel mondo l’attesa una discesa delle quotazioni delle borse e la possibilità di una recessione economica globale, facendo guadagnare così alle loro piazze finanziarie un vantaggio rispetto al resto del mondo.

La risultante dei meccanismi sopra descritti può infatti provocare un deciso apprezzamento delle valute più “forti” del sistema finanziario globale, che è esattamente ciò che sta già succedendo. Ciò accade perché alla vigilia di recessioni globali e ribassi generalizzati, i gestori di fortune tendono a trasferire i loro capitali finanziari verso le borse internazionali che possono risultare più liquide (notoriamente quelle anglosassoni, quali New York e Londra, appunto) a danno degli altri centri finanziari minori, dai quali i capitali tendono invece a fuggire, mano mano che i tassi d’interesse salgono e le prospettive di recessione incrementano.

Il risultato dell’ “attrazione” dei capitali da parte delle maggiori piazze finanziarie internazionali discende innanzitutto dalla sopra citata necessità -da parte degli investitori- di incrementare il livello di liquidità (e liquidabilità) dei loro investimenti. Ma provoca un implicito apprezzamento delle valute nelle quali sono espressi i valori scambiati in quelle borse: il Dollaro americano e la Sterlina inglese.

La prospettiva di una recessione globale infatti non solo riduce le prospettive di guadagno in conto capitale per i titoli azionari quotati nelle borse più periferiche, perché nelle aree periferiche del mondo finanziario la recessione potrebbe fare più danni. Ma inoltre la fuga di capitali che è ragionevole attendersi da questi mercati tenderà a favorire i livelli dei listini azionari delle piazze finanziarie maggiori, a scapito di quelli delle altre piazze (Shangai, Tokio, Francoforte, Parigi, Milano, eccetera…)

LE CONSEGUENZE DELLA MANOVRA DELLA FED

Ogni qualvolta che si delinea un fenomeno del genere si genera perciò un incremento del vantaggio per le piazze finanziarie più importanti e, in ultima analisi anche un vantaggio per le nazioni che le ospitano. Il riallineamento che ne potrà seguire in futuro porta dunque un implicito vantaggio a tali nazioni a scapito soprattutto delle economie dei paesi meno sviluppati.

Dal punto di vista geopolitico anche questa manovra della Federal Reserve può anche essere letta come una forma implicita di sostegno all’imperialismo anglo-americano, ma tant’è: sintanto che il capitalismo resterà prevalente e globale, le guerre più importanti nel mondo resteranno senza dubbio quelle economiche. E per chi le sferra possono esservi vantaggi concreti, anche a costo di generare temporaneamente qualche danno a casa propria.

USQUE TANDEM ?

Come affermerebbe Cicerone (che se la prendeva con il suo rivale al Senato romano Catilina): fino a quando? Dove possiamo arrivare con il riallineamento verso il basso dei mercati finanziari? Come abbiamo già notato, resta quantomai difficile per le banche centrali delle altre principali economie mondiali contrastare o anche soltanto ignorare questo fenomeno, proprio per il peso specifico dei mercati finanziari anglosassoni. Ed è per questo motivo che il calo delle borse valori è lecito attendersi sarà alla fine dei conti più importante per le piazze europee ed asiatiche che per quelle anglosassoni.

C’è inoltre l’insana prospettiva di una nuova recessione globale, che a sua volta può fornire agli investitori motivi di pessimismo e l’indicazione di investire la parte di risorse che non saranno destinate alla liquidità in titoli “difensivi” quali le società che storicamente si sono dimostrate le migliori pagatrici di dividendi, le società più esposte alla possibilità di estrarre dalla situazione in corso degli extra-profitti, come ad esempio quelle del settore dell’energia (non soltanto da fonti rinnovabili) e i grandi produttori di armamenti, ma anche taluni titoli del settore finanziario, in particolare quelli che più potranno beneficiare del rialzo dei tassi di interesse, quali le banche più solide e talune società del settore parabancario, tra le quali anche alcune “fintech”, soprattutto quelle la cui rischiosità appare più limitata.

Non è un caso che i primi titoli ad essere venduti siano stati quelli più “tecnologici” e quindi con moltiplicatori di valore che rispecchiavano prospettive favolose! Nessuno però è oggi in grado di sapere dove si fermerà l’attuale ciclo di ribasso dei listini azionari. Anche perché la liquidità in circolazione è ancora molto elevata ed è pertanto lecito attendersi maggiore volatilità dei listini, piuttosto che un brusco crollo delle borse. Almeno fino all’estate, entro la quale le sorti della guerra in Ucraina nonché il vero posizionamento politico di Cina ed India potrebbero essere emersi con più chiarezza, in entrambe le possibili direzioni, delineando l’amplificazione o la riduzione delle attuali tensioni.

Stefano di Tommaso




DON’T FIGHT THE FED (1.o di 2 articoli)

Qualcuno nella stanza dei bottoni ha già deciso: recessione sia! E non (soltanto) perché il mondo si avvia verso una lunga fase di tensioni geopolitiche che possono degenerare in vere e proprie guerre regionali o peggio, bensì soprattutto perché gli economisti della Federal Reserve Bank of America (FED) hanno fatto i loro conti e hanno scoperto che devono combattere seriamente l’inflazione (che loro stessi hanno prima scelleratamente generato e poi deliberatamente ignorato lo scorso anno, quando era oramai una certezza). Ma ora ipotizzano una cura da cavallo, basata su due farmaci micidiali: tassi alti per riportare i rendimenti reali in territorio positivo e repressione monetaria, per ridurre il livello di indebitamento complessivo del sistema.

 

ALZARE I TASSI ABBASSA LE QUOTAZIONI DI BORSA

Il che equivale a dire -a meno di avere mal interpretato ciò che essi intendono- che andiamo incontro ad almeno due anni di crescita economica negativa conclamata. E visto che i tassi alti e la decrescita (infelice) comporteranno forti dubbi circa la tenuta degli ingenti debiti pubblici occidentali, magari anche a qualche default di stato! Se non è questa una cura da cavallo è solo perché forse si addice di più ai pachidermi e agli ippopotami..!

Il punto è che, se fino ad oggi si poteva sperare che l’andamento delle borse rimanesse sostanzialmente scollegato da quello dell’economia reale, ora invece, con l’arrivo di una decisa impennata dei tassi d’interesse, non potrà non tenere conto della probabile riduzione delle valutazioni dei titoli azionari. Con il rialzo dei tassi dunque l’intero mercato finanziario potrebbe subire ora un significativo ridimensionamento!

LE CONSEGUENZE

Ma è possibile che la FED abbia deciso a tavolino di agire in maniera così radicale pur sapendo delle possibili conseguenze sulle borse e sui titoli a reddito fisso? Ed è possibile che ciò avvenga senza alcun timore di generare, a sua volta, onde d’urto significative a livello politico, sociale e persino geopolitico? Molti paesi del terzo mondo rischiano infatti di tornare a fare la fame.

Sembra che ciò non sia soltanto possibile, ma addirittura probabile, e ci sono diverse motivazioni che spingono i grandi decisori a delineare le determinanti -e noi osservatori a individuare le conseguenze- di uno scenario così funesto. Proviamo dunque ad esaminarle e a soppesarne la (relativa) verosimiglianza: (nel grafico l’andamento dei prezzi al consumo in USA)


1.L’INFLAZIONE NON È PIÙ UN FENOMENO PASSEGGERO

La prima è più ovvia motivazione è la lotta all’inflazione: siamo oramai anni luce lontani dalla nozione di “fenomeno passeggero” che qualcuno pretende ancora di evocare tirando in ballo teorie ed analisi astruse! È divenuto così ovvio che l’inflazione non si riassorbirà presto in modo consistente che in molti mercati si è preferito centellinare i rialzi dei prezzi per evitare lo shock alla clientela. Nonostante infatti i prezzi di quasi tutti i fattori della produzione siano cresciuti bruscamente tra la fine del 2021 e l’inizio del 2022, per molte imprese industriali è stato all’inizio letteralmente impossibile trasferire a valle i maggiori costi della produzione e lo stanno facendo progressivamente solo oggi, anche perché iniziano a flettere le aspettative iniziali di un loro ritorno a livelli più modici.

Dunque già solo per questo meccanismo i prezzi al consumo in molti casi continueranno ad essere incrementati anche laddove ci fosse un’inversione di tendenza per i costi dei fattori di produzione.

2. IL Q.E. E’ ALLA BASE DELL’INFLAZIONE

La seconda chiave di lettura riguarda le possibili radici dell’inflazione, a partire da quella più ovvia (ce ne sono diverse altre tutte molto difficili da dimostrare con i numeri alla mano): ancora a fine Maggio 2022 il mondo affoga nella grande liquidità creata dalle banche centrali, alcune delle quali non lo hanno fatto per obbedire a chissà quale teoria economico-finanziaria, bensì soprattutto per supportare i corsi dei titoli di stato, che necessitano di continui “aiuti” soprattutto quelli dei paesi periferici come il nostro.

Dunque è chiaro che se la Banca Centrale Europea (BCE) dovesse smettere di fornire liquidità a quei titoli i primi a rimetterci saremmo noi italiani. D’altronde se la BCE non dovesse seguire la FED, soprattutto laddove quest’ultima voglia far seguire i fatti alle dichiarazioni di forte impegno nella lotta all’inflazione, il dollaro americano si rafforzerebbe ulteriormente sull’Euro (siamo già quasi alla parità) e la nostra inflazione supererebbe forse quella americana (mentre sino ad oggi è soltanto rimasta in “arretrato” di un mese o due).

3. SE LA FED SI MUOVE, LA BCE NON PUÒ CHE SEGUIRLA

Una terza chiave di lettura riguarda i tassi d’interesse, che non potrebbero che accelerare la loro risalita (anche in Europa) qualora la FED manovrasse decisamente in tal senso, lasciando semplicemente “troppo indietro” le politiche monetarie della BCE rispetto alla realtà del mercato. Le conseguenze della repressione monetaria americana non mancheranno di farsi sentire anche in tutto il resto del mondo. E saranno probabilmente più devastanti sull’economia reale del vecchio continente, perché qui molte imprese non troveranno sufficiente finanza in quanto le risorse monetarie europee saranno volate via verso i mercati più remunerativi. Gli Stati non potranno sostenere il livello attuale del debito. Persino i cittadini pagheranno più cari i loro mutui, mentre i loro redditi reali (cioè al netto dell’inflazione) non potranno che continuare a ridursi.

Dunque si delinea uno scenario ove si può toccare con mano la consistenza del vecchio adagio: ”non combattere contro le banche centrali” e ancor più “non combattere contro la FED” (la regina delle banche centrali). Vale per gli investitori, che dovranno rifare i conti con cospicui ribassi dei listini azionari, per le imprese, che dovranno rinviare taluni investimenti, ma anche per le altre banche centrali, che non potranno contrastarla!

LA RECESSIONE E’ GARANTITA

Qualora insomma la FED deciderà davvero di “attaccare” l’inflazione e, di conseguenza, di fare guerra anche ai mercati finanziari, il risultato sarebbe un campo di battaglia stracolmo di morti e feriti, sebbene soltanto finanziari e non fisici. Il punto è che a guardare bene cosa potrebbe succedere sembra oramai una decisione assunta a tutti i livelli e dunque lo tsunami che ne conseguirà sembra proprio in arrivo. E se arriverà sui mercati è piuttosto probabile che la recessione che ne conseguirà sarà tanto conclamata quanto duratura.

Questo è il primo di una serie di due articoli. Nel secondo proveremo ad esplorare le conseguenze pratiche di tale potenziale minaccia per i mercati e l’economia.

Stefano di Tommaso




La Realpolitik di Draghi

La notizia della settimana è sicuramente la visita di Draghi a Washington, ed è una notizia non soltanto per il nostro Paese. Ma quali sono le vere ragioni di questa visita? Riaffermare l’amicizia atlantica è probabilmente solo una parte della verità. E qualcosa è trapelato: Draghi deve riuscire a barcamenarsi tra l’adesione alle tesi americane e l’esigenza di evitare disastri a casa propria!

Egli è oggettivamente un bravissimo presidente del consiglio. Ha usato la sua grande credibilità per rassicurare l’Occidente circa la posizione italiana nello scacchiere internazionale, E’ stato capace di concepire una politica estera del nostro paese che non si vedeva dai tempi di Andreotti, ma per molti versi è un personaggio totalmente opposto: lui è chiaramente schierato con il partito della guerra mentre Andreotti coltivava un ragionamento autonomo e rivendicava per il nostro Paese innanzitutto i suoi interessi! Draghi invece coltiva molto l’ “allineamento” all’Europa, alla NATO e all’America.

Ma forse Draghi non è ancora nella posizione di dire pubblicamente ciò che pensa o non lo dice in pubblico. Il detonatore che ha scatenato la guerra è stata dal 2014 in poi l’aggressione dell’esercito ucraino verso i separatisti del Donbass, con abbondanza di crimini di guerra sui civili. Che poi questa sia ricollegabile all’annessione russa della Crimea è un altro dato di fatto. Ma nessuna nazione bombarda parti del proprio territorio (le repubbliche del Donbass e del Donetsk) per ripicca. La pace e gli accordi di Minsk addirittura ne prevedevano l’autonomia, ma Kiev non l’ha mai concessa. La narrazione dei governi e della stampa occidentale dice invece sostanzialmente che Putin -nonostante il genocidio in quei territori- non doveva intervenire.

L’intervento russo tuttavia è stato mirato a bloccare le forze militari che assediavano quelle repubbliche. Molto diverso -per fare un esempio- da quello americano nella Libia di Gheddafi: 7 mesi di bombardamenti della NATO con notevoli perdite civili libiche e addirittura l’eliminazione fisica del suo leader. Oggi la NATO sostiene che l’Ucraina può vincere la guerra contro la Russia, nonostante molti osservatori indicano che quest’ultima abbia sino ad oggi impiegato una frazione minuscola del proprio esercito e che dunque avrebbe fortissimi margini di incremento della propria potenza di fuoco. Anzi è forse questa la domanda più importante: è vero che la Russia ha scelto di impegnarsi soltanto marginalmente in Ucraina? E perché? C’è qualcuno invece che afferma l’esatto opposto: la Russia è a corto di uomini e munizioni.

E’ probabilmente anche la tesi di Svezia e Finlandia che hanno chiesto di entrare nella NATO: se la minaccia russa fosse solo quella nucleare allora trovarsi sotto l’ombrello NATO potrebbe avere un grande senso. Se invece l’esercito di Putin fosse sufficientemente forte da poter tranquillamente sostenere due o più fronti di Paesi troppo avanzati per lasciarla tranquilla, allora la “provocazione” di una NATO che si avvicina troppo potrebbe sfociare in nuovi conflitti.

L’America insiste nell’alimentare il conflitto ucraino con armi, aiuti e provocazioni ma i leaders europei a casa loro, pur allineandosi alla politica NATO, fanno quattro conti e stanno facendo notare, come aveva già fatto Macron e come stavolta ha fatto Draghi alla Casa Bianca, che non è accettabile che a farne le spese siano solo loro (soprattutto che non sarà sostenibile la carenza di gas nel prossimo autunno). La bilancia va riequilibrata per tempo perché in autunno la mancanza di energie potrebbe scatenare una grossa crisi. Draghi a Washington è stato molto diplomatico ma non ha mancato di farlo notare. Che se ne sappia però egli non ha detto a Biden ciò che secondo logica doveva conseguirne: e cioè che quindi bisogna trovare un compromesso e piantarla con la guerra. Perché non lo ha detto?

Putin fino ad oggi sembra aver scelto di non fare come Obama in Libia, bombardando indiscriminatamente anche gli obiettivi civili pur di dare presto una svolta risolutiva alla sua azione militare. Ma nemmeno questo è certo: i giornalisti occidentali oggi affermano il contrario: le vittime civili sono numerose. Resta allora da comprendere quale possa essere allora la reale strategia Russia, perché sicuramente ne ha una. Osservando l’economia se ne può forse trovare una chiave di lettura: se fosse vero che le sanzioni occidentali le hanno fatto poco danno, creando invece contemporaneamente problemi all’Europa e vantaggi a Cina ed India (che si sono viste indirizzare grandi quantità di petrolio e gas a prezzi scontati) allora la politica dei piccoli passi della Russia in Ucraina potrebbe essere spiegata.

Se la Russia fosse ancora forte (economicamente e militarmente) allora le forniture occidentali di armi agli ucraini non faranno che rallentare la conclusione della guerra, ma è improbabile che permettano di rovesciarne le sorti a favore dell’invasore. I molti morti serviranno soltanto ad affermare la tesi che vuole che le responsabilità siano tutte di quest’ultimo. Inoltre le forniture di armi occidentali all’Ucraina sono anche a carico dei paesi europei ma corrispondono ad altrettanti ordinativi di nuove armi, principalmente a vantaggio delle grandi fabbriche di armi americane. Il rischio di questo passo è che la guerra in Ucraina possa durare molto a lungo, almeno sino a quando l’Occidente non avrà svuotato di vecchie armi i suoi arsenali (10-15 anni) e non le abbia rimpiazzate con quelle nuove.

Il problema è che in questo scenario l’Europa potrebbe subire importanti danni economici per i retro-effetti delle sanzioni e per lo sbilancio nelle forniture energetiche. Chi ci guadagnerebbe invece sarebbero le grandi èlites (americane soprattutto) che controllano l’esportazione di gas e petrolio a prezzi maggiorati e che ovviamente preferirebbero andare avanti con questa situazione molto a lungo.

Esiste un altro scenario, in cui la guerra potrebbe durare assai meno: quello in cui in autunno la maggioranza democratica al Congresso potrebbe dissolversi e i repubblicani addirittura arrivare a votare l’impeachment per Biden, o comunque un taglio alle spese di guerra. A quel punto Russia e America potrebbero trovare un soddisfacente incentivo a fare la pace. Il problema però è che l’Europa non sembra potersi permettere di attendere l’autunno per cercare la pace nell’Ucraina. Nella prima parte del 2022 è già caduta in recessione e, in assenza di sufficienti forniture di gas, in autunno la situazione potrebbe peggiorare.

E inoltre c’è sempre il rischio che nel frattempo il conflitto degeneri: ad esempio che le provocazioni americane si moltiplichino spingendo la Russia ad agire direttamente contro le forze alleate, o che si intensifichi la pressione militare per concludere la campagna d’Ucraina più in fretta, o infine che qualche paese europeo ne venga troppo coinvolto divenendo parte belligerante. E’un rischio concreto, dal momento che l’intelligence NATO sta smaccatamente guidando i missili ucraini per affondare le navi russe. La possibilità che scatti l’articolo 5 dello statuto NATO e che venga coinvolta nella guerra l’intera Europa prefigurerebbe per quest’ultima ingenti danni collaterali sul proprio territorio. A quel punto o la Russia preferirà fermarsi perché impossibilitata a sostenere un confronto così importante oppure una parte consistente dell’Europa si ritroverà in guerra.

Forse tuttavia è proprio ciò che Macron, Draghi e altri capi di stato continentali stanno aspettando: la naturale estinzione del conflitto ovvero il casus belli, per arrivare in tal caso a dire “adesso basta” e puntare i piedi per evitare l’escalation. A quel punto cioè essi potrebbero trovare adeguata giustificazione per alzare la voce e imporre alla NATO una politica diversa. Senza attendere che le fortune politiche del presidente americano scemino da sole. Sono capi di stato e hanno al loro servizio importanti studiosi di strategia. Forse lo sanno già benissimo e forse è per questo motivo che oggi non lo fanno ancora. Attendono semplicemente tempi migliori, pur con un occhio a non incrinare mai la linea politica condivisa con gli americani. Forse hanno anche ragione a comportarsi così ed è questa la realpolitik che debbono avere. Sicuramente però insieme a un certo cinismo!

Draghi è stato uno dei più importanti banchieri centrali che la storia ricordi ed è noto quale sia l’arte di governare una banca centrale: quella di attendere che una serie di variabili possano bilanciarsi a tal punto che basti una piccola mossa (talvolta solo una frazione di punto percentuale dei tassi d’interesse, o una dichiarazione ben assestata relativa alle proprie intenzioni) per orientare massicciamente l’economia. La speranza è che Draghi stia applicando allo scacchiere internazionale la medesima tattica: attendere che le variabili si allineino per poterlo orientare con una sua piccola mossa. E’ una speranza, ma non si comprende quale potrebbe essere l’alternativa perché appare oggi impossibile che la guerra in Ucraina e il conseguente progressivo blocco delle risorse naturali della Federazione Russa non creino una sconvolgente devastazione economica in Europa. E nessun capo di stato europeo sembra davvero poterselo permettere!

Stefano di Tommaso




NEL MONDO PREVALGONO I TIMORI

LA COMPAGNIA HOLDING
La congiuntura internazionale non promette bene. Non sono soltanto i timori relativi all’inflazione e al conseguente rialzo dei tassi d’interesse a spaventare gli operatori. È soprattutto la prospettiva di recessione globale a generare aspettative riflessive e a frenare le borse. E il gioco delle aspettative spesso conta più di ogni altra cosa. Proviamo a osservare i fenomeni inizialmente a livello internazionale, per poi scendere in maggior dettaglio relativamente al nostro paese e alle conseguenze sui mercati finanziari.

 

A livello internazionale la prima cosa che possiamo notare è il rallentamento generalizzato dell’attività economica: una serie di fattori stanno infatti congiurando per una brusca frenata della crescita. La guerra in Ucraina, nonostante il forte impegno finanziario per molti paesi che la sostengono, è soltanto uno dei fattori che portano nella direzione della recessione: ce ne sono ancora molti altri! Così come la pandemia, pur avendo costretto mezzo mondo a stare a casa per mesi non è stata da sola capace di generare una grande recessione globale, oggi invece il quadro è più complesso per l’effetto congiunto di molti elementi negativi e tale possibilità si fa più concreta.

I MEGATRENDS CHE FRENANO

La società di consulenza di Washington Mehlman Castagnetti Rosen & Thomas per esprimere questo concetto ha elaborato il seguente grafico, dove si possono leggere i principali che oggi stanno rallentando la crescita economica:

LA COMPAGNIA HOLDING
Come si può leggere nell’immagine, uno dei fattori che più hanno inciso sui “venti a favore” della crescita fino a un paio d’anni fa e che oggi generano invece “venti frontali” che ostacolano la crescita è quello della geopolitica. Siamo passati dalla cooperazione alla competizione tra America e Cina. Dalla globalizzazione selvaggia al confronto tra crescenti nazionalismi, dalla ricerca dell’efficienza globale delle filiere produttive alla ri-nazionalizzazione delle fabbriche in ottica di “resilienza” strategica.

DALL’INCREMENTO DEI COSTI INDUSTRIALI…

Dalla prevalenza di meccanismi deflattivi quali l’investimento in nuove tecnologie e la diversificazione delle fonti energetiche, siamo arrivati oggi alla restrizione della capacità produttiva delle filiere di approvvigionamento di minerali, materie prime e derrate alimentari, proprio mentre la ripresa post-pandemica ne incrementava la domanda.

LA COMPAGNIA HOLDING
Ovviamente tutto ciò ha provocato un deciso incremento dei costi dei fattori produttivi, a partire da quelli dell’energia e dei trasporti, ostacolando il commercio internazionale. Quelle sopra citate sono inoltre delle tendenze generali di lungo termine che sono state innescate nel corso di diversi anni e che di conseguenza potranno andare avanti ancora molto a lungo. La cosa che più impressiona però è il fatto che nel complesso il mondo è passato da uno scenario di crescita economica e bassa inflazione (o addirittura di de-flazione) ad uno completamente inverso: di stagnazione e inflazione al tempo stesso!

…AL RIALZO DEI TASSI D’INTERESSE

Contestualmente al radicale cambio di scenario si inseriscono poi gli interventi (o sarebbe meglio dire: le tirate di freni) delle banche centrali. Correttamente ma tardivamente preoccupate per l’inflazione galoppante, esse rischiano, nella loro miopia, di fare ora altri danni, generando un rialzo dei tassi e riducendo la liquidità disponibile con la cancellazione delle facilitazioni monetarie. E questo avviene proprio quando i debiti pubblici dei paesi occidentali sono arrivati ad eccessi pericolosi e quando sarebbero potuti finalmente decollare importanti investimenti infrastrutturali (di cui ora si è smesso di parlare).

LA COMPAGNIA HOLDING
Si tratta di politiche monetarie che comportano indubbie tensioni sulla tenuta dei giganteschi debiti accumulati negli anni “facili” della crescita economica (non a caso in Italia lo spread con la Germania sale), e che riducono le risorse disponibili anche per il settore privato, limitando di fatto l’incentivo a proseguire gli investimenti tecnologici e produttivi. Il maggior rialzo dei tassi è stato operato inoltre negli Stati Uniti d’ America, generando grande forza del Dollaro americano e un conseguente enorme danno per i paesi emergenti e le fasce più povere della popolazione mondiale, che pagano in Dollari tanto gli interessi sul debito con il resto del mondo quanto gli approvvigionamenti alimentari.

GLI EFFETTI NEGATIVI DELLE SANZIONI SULL’U.E.

A livello europeo poi c’è un problema in più: la spesa di diverse decine di miliardi di euro per il sostegno della resistenza ucraina e per l’accoglienza dei relativi profughi e, soprattutto, le sanzioni economiche imposte alla Russia, stanno comportando una brusca frenata per le esportazioni di moltissime imprese europee, nonché un calo dei flussi turistici. La guerra ha inoltre generato un problema che per sua natura è globale ma è molto più tangibile in Europa che altrove: esso riguarda il prezzo e la disponibilità di energia, balzato alle stelle il primo, scesa ai minimi storici la seconda. Anche grazie alle sanzioni alla Federazione Russa e ai suoi alleati, il rischio è concreto che l’Europa possa vedere fortemente compromessa la propria capacità di approvvigionamento di gas e petrolio.

LA COMPAGNIA HOLDING
In Italia ad esempio il Centro Studi Confindustria (CSC) fa notare che il prezzo medio del gas naturale è salito di quasi 7 volte (+698%) in due anni (cioè da prima dello scoppio della pandemia). Il costo del petrolio in confronto è salito ben poco: ”soltanto” del 56%. Ora non si può ragionevolmente ritenere che questi aumenti potranno provocare per l’anno in corso un’inflazione limitata a quella oggi riportata dalle statistiche ufficiali (intorno al 7%).

E CHI CI RIMETTE DI PIÙ E’ L’EUROPA

Non a caso le principali economie europee nella prima parte del 2022 ristagnano, mentre Italia e Germania addirittura arretrano. Ha fatto scalpore nelle ultime ore la notizia che nello scorso mese di Marzo la produzione industriale in Germania (la principale economia europea e il principale paese esportatore nel resto del mondo) è discesa di quasi il 4% (del 4,6% se si escludono energia e edilizia). Sempre in Germania a Marzo si è registrato un incremento dei prezzi alla produzione di quasi il 31% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, con una prima rilevazione dell’inflazione dei prezzi sui beni di consumo giunta in Aprile quasi ai livelli americani: 7,4%!

Nel dettaglio, la produzione tedesca di beni strumentali è calata del 6,6%, quella dei beni intermedi del 3,8% e quella dei prodotti energetici dell’11,4% e addirittura la produzione delle auto è scesa del 14%. In Italia la produzione industriale sembra essere scesa a Marzo “solo” del 2,5%, ma molte altre delle dinamiche appena evidenziate per la Germania assomigliano parecchio a quelle nostrane, solo con qualche limitazione a causa della minor dipendenza dell’economia italiana dalla produzione automobilistica.

E IL RE-SHORING COSTA CARO!

Abbiamo già osservato come, dopo la fase delle delocalizzazioni produttive in Asia, il nuovo scenario geopolitico sta spingendo gran parte delle imprese che se lo possono permettere a investire sul “re-reshoring” delle produzioni industriali, spostandole a località e mercati con minore rischio geopolitico. Ma il “tornare indietro” per molte imprese europee sarà un processo costoso, difficile, doloroso e lento, con complicazioni che si aggiungeranno a quelle appena evidenziate!

Molti commentatori fanno poi notare che mentre oggi i principali fattori che rallentano l’economia sono le strozzature e i rialzi dei costi all’offerta di beni e servizi, a breve potrà intervenire a frenare ulteriormente l’economia un fattore che sino ad oggi era parso relativamente stabile: la domanda dei medesimi. L’inflazione dei prezzi ha infatti depauperato buona parte dei consumatori, privandoli sostanzialmente di una quota del loro reddito disponibile. E questo vale per buona parte della popolazione europea, sottoposta a contratti di lavoro più rigidi di quelli dei paesi anglosassoni e dunque meno capaci di reagire con un rialzo repentino delle retribuzioni.

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Ci sono paesi però come la Francia dove il 27% della produzione energetica arriva a costi bassissimi dalla fonte nucleare. Altri come molti paesi nordici che sono esportatori netti di petrolio e gas. Mentre in Italia e in Germania l’emergenza energetica ha spinto i governi a riattivare le centrali elettriche alimentate a carbone, ma con il rischio di un pesante incremento delle emissioni nocive!

LA FIDUCIA SCENDE IN ITALIA

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Tutto ciò non può non influire (negativamente) sul clima di fiducia che si respira nell’industria e che risulta essenziale per sostenere gli investimenti strumentali, a loro volta essenziali per sostenere l’occupazione. A casa nostra siamo inoltre più penalizzati di qualunque altro paese europeo dalla maggior tassazione rispetto a tutto il resto del mondo. Nel corso del 2021 l’Italia ha infatti battuto il record mondiale (nonché storico) di tassazione media dei redditi, arrivando al 43,5% del Prodotti Interno Lordo.

Non a caso l’indice delle attese sull’economia italiana ha registrato un crollo dal +0,6% a inizio anno fino a – 34,8% di aprile, valore comparabile a quello di dicembre 2020 (dopo la seconda ondata pandemica). Il peggioramento dell’indice di incertezza della politica economica che per l’Italia è salito a 139,1 punti a marzo per poi attestarsi su un valore poco inferiore in aprile (129,2 punti, +28,5% rispetto al 4° trimestre del 2021), accresce i rischi di un ulteriore indebolimento.

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I MERCATI FINANZIARI NE RIMANGONO DANNEGGIATI…

Ecco spiegati i contorsionismi delle Borse valori di tutto il mondo. Almeno sino a quando non arriverà qualche segnale positivo. Nonostante si potesse iniziare a sperare che il programma di rialzi dei tassi d’interesse fosse già stato assorbito dai mercati finanziari e che di conseguenza ogni futura flessione del picco inflazionistico attuale potesse tradursi in un rialzo delle Borse, assistiamo invece a un progressivo deterioramento del contesto economico globale, al perdurare di elementi inflattivi che non potranno essere disinnescati tanto presto, allo scemare delle speranze di fine della guerra con la Russia e alla conseguente caduta dell’ottimismo da parte degli operatori economici.

I mercati finanziari vorrebbero riuscire a vedere per primi la luce in fondo al tunnel, ma non la scorgono nemmeno con il più potente dei telescopi. È questo che dunque spinge gli investitori di tutto il mondo a cercare di liquidare buona parte dei propri asset per accumulare ciò che oramai sembra l’elemento che presto potrebbe scarseggiare: la liquidità.

Se le banche centrali non cambieranno presto la loro impostazione infatti l’unico modo di poter un giorno tornare a beneficiare della risalita delle quotazioni è quello di vendere oggi ogni genere di asset finanziario per tornare a disporre di quella liquidità che potrebbe consentire domani di comperare a prezzi più bassi.

…E GLI INVESTIMENTI IN INNOVAZIONE TECNOLOGICA RINVIATI

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Un meccanismo perverso che non può che rallentare gli investimenti di cui avremmo più bisogno: quelli in innovazione e tecnologia, penalizzando al tempo stesso tutte le attività economiche che non risultino strettamente legate all’energia, alla produzione alimentare e alle tecnologie per gli armamenti. E che rischia di provocare una recessione globale peggiore di quella post-pandemica!

Stefano di Tommaso