”CUI PRODEST SCELUS, IS FECIT”

LA COMPAGNIA HOLDING SPA
Il mondo è sull’orlo di una crisi di nervi: la minaccia di una recessione globale avanza (anche la Cina segna il passo nella crescita economica), l’inflazione avanza e spinge le banche centrali a rialzare i tassi, cosa che accentua i rischi di recessione e mette pressione ai mercati finanziari. La tensione geopolitica tra Occidente e Russia, con Iran e Cina) non accenna a diminuire (siamo all’ottavo pacchetto di sanzioni) e, giusto per non farci mancare nulla, la recrudescenza della pandemia aggiunge suspense allo scenario economico, mentre molti capi di governo incontrano problemi inaspettati e si dimettono o vengono ridimensionati (da Johnson a Macron, da Draghi a Biden e a Sholz, passando per l’omicidio di Shinzo Abe). È la tempesta perfetta?

 

UN METODO: A CHI GIOVA?

Gli scenari geopolitici sono sempre incerti, sia perché dipendono dalle scelte di pochi grandi decisori, i quali non sempre seguono percorsi razionali. Ma soprattutto perché quando lo fanno non sempre perseguono obiettivi palesi. E così i risultati macroeconomici delle scelte di politica internazionale possono dipendere da atteggiamenti politici in apparenza ondivaghi o improvvisati, o possono rispondere a mire inconfessabili. Ma in tal caso possiamo stare certi che il mainstream dei media globali farà di tutto per non farle trasparire.

C’è allora un metodo per evitare di girare a vuoto nel cercare di interpretare gli eventi accaduti e predire quelli in fieri? Di solito c’è, anche se non può costituire una vera e propria certezza: è quello di verificare il famoso “cui prodest scelus is fecit” (in latino: ”il delitto l’ha commesso colui al quale giova”) che proponeva Lucio Anneo Seneca nella “Medea”. Gli inglesi dicono “follow the money” per intendere sostanzialmente la stessa cosa: se cerchi di comprendere a chi convengono le cose che succedono, magari riesci anche a coglierne le ragioni. E’ un metodo decisamente cinico ma spesso più oggettivo delle numerose fantasticherie che giornalisti, intellettuali e politici si sperticano a volerci propinare. E quasi sempre funziona, appunto!

Per esempio: dopo oltre due anni da quando si è scatenata la pandemia da Covid (sulle cui origini non si è mai fatta chiarezza), si è potuto vedere abbastanza chiaramente chi ci ha guadagnato: la Cina, innanzitutto, colpita in anticipo ma soltanto in una piccola frazione dei suoi territori, così come le grandi multinazionali del farmaco e delle tecnologie digitali. Insomma: non il fabbro ferraio o il ciabattino di periferia, bensì taluni governi e pochi grandissimi operatori economici. Anche dal punto di vista politico si è visto chi ci ha guadagnato: il partito democratico americani è riuscito a riprendersi la Casa Bianca sconfiggendo Trump. Anche in Europa, la cupola dei governi di centro-sinistra ha consolidato le sue posizioni. E le borse, dopo un primo scoramento, hanno finito col trarre grandissimi benefici dal vortice che si è creato, tornando a crescere oltre i livelli precedenti al virus.

QUALCUNO CI GUADAGNA

La morale sembra essere che ”a pensar male si fa peccato” come diceva il grande gobbo della politica italiana, ”ma spesso ci si coglie”! E anche stavolta che il mondo sembra essere davvero a ferro e fuoco (e non soltanto in Ucraina) probabilmente c’è qualcuno che ne sta approfittando a mani basse: possiamo iniziare ad elencare ad esempio coloro che controllano il mercato del petrolio, schizzato alle stelle con la guerra. Ma anche i grandi esportatori di gas americano (spesso sono i medesimi), pronti a rimpiazzare -a carissimo prezzo- il gas che non compreremo più da Mosca. Non a caso il Dollaro americano si è apprezzato contro praticamente tutte le altre valute.

E poi ci stanno sicuramente guadagnando i grandi produttori di armamenti, sommersi da nuovi ordinativi persino da parte di stati costretti al pacificismo più assoluto, come la Svizzera o il Giappone. Nonché quasi tutte le grandi lobbies che controllano le principali risorse naturali. Così stiamo anche vedendo chi ci rimette: sicuramente l’Europa, che guarda caso stava rialzando la testa rispetto all’ “alleato” americano, come pure ci rimette la Gran Bretagna, che sembrava essere uscita più che indenne dal divorzio con l’Unione, ma anche un po’ la Cina, rea di essersi schierata a supporto della Federazione Russa. Il turismo ha subìto un nuovo duro colpo. E le economie emergenti sono in ginocchio.

LA GRANDE FINANZA HA SCOMMESSO AL RIBASSO

Anche stavolta poi l’altra vittima potrebbero sembrare i grandi operatori finanziari, dal momento che i loro asset, con l’inflazione e i timori di recessione, sono scesi di prezzo. Ma siamo sicuri sia davvero così? O invece qualcuno di loro magari lo sapeva già prima, come ad esempio il più grande “hedge fund” del pianeta, denominato Bridgewater e gestito da Ray Dalio (il 58.mo uomo più ricco del mondo), che da tempo dichiara pubblicamente di aver speculato al ribasso contro i mercati finanziari europei. E se anche nessuno ne avesse certezza, siamo sicuri che il mercato finanziario seguirà pedissequamente al ribasso l’economia reale anche in futuro? Già tre mesi dopo la pandemia era successo l’opposto. E anche stavolta rischia di andare allo stesso modo.

In effetti le bombe di profondità del rialzo dei tassi d’interesse, sganciate tardivamente dalle principali banche centrali occidentali contro l’inflazione, potrebbero finire per non proseguire molto a lungo. E dopo aver spaventato tutti i pesci piccoli potrebbero -a recessione conclamata- arrivare a decidere di cambiare rotta, aiutando le borse a ritrovare nuovi massimi. Cosi come era successo all’inizio dell’estate del 2020. Dunque non subito, ma soltanto dopo che le statistiche avranno iniziato ad intonare il “de profundis” per l’economia globale.

INFLAZIONE E RECESSIONE

L’inflazione peraltro non è solo un tema di scontro politico a proposito della tutela del potere d’acquisto delle classi più disagiate. E’ anche il risultato di molte variabili “primarie” che si sommano e si intrecciano generando rialzi dei prezzi al consumo con notevole ritardo rispetto alle principali determinanti di quei rincari. Dunque se gl’indici dell’inflazione arriveranno a flettere nei prossimi mesi, questo lo si dovrà più alle incertezze nella domanda di energia e materie prime che deriverà dalla recessione economica, che non al venire meno delle cause strutturali. E non possiamo escludere che già la notizia della tendenza al ribasso dell’inflazione potrebbe farsi accompagnare da un bel rialzo degli indici di borsa, i quali di solito tendono ad anticipare così tanto gli eventi che quasi li contraddicono.

Le statistiche ufficiali sull’andamento dell’economia reale infatti non confermeranno presto l’entrata in recessione, nemmeno in Europa, se non forse alla fine dell’estate, nonostante ve ne sia già sufficiente evidenza. Ma nel frattempo la domanda di petrolio, gas, metalli e minerali vari potrebbe essere discesa abbastanza da farne calare le quotazioni, anticipando quel che potrebbe succedere entro pochi mesi successivi all’inflazione “ufficiale”. E a quel punto le borse potrebbero aver abbondantemente superato il loro punto di minima, anche se ciò dovesse coincidere con l’ufficializzazione della recessione economica globale e con una corrispondente riduzione dei posti di lavoro.

COME EVOLVERÀ LA GUERRA IN CORSO?

Ovviamente ciò potrebbe materializzarsi solo qualora le tensioni geopolitiche non dovessero invece esplodere e magari estendersi alle zone limitrofe al conflitto bellico, che è oramai una guerra santa dell’Occidente contro la Russia, se non addirittura contro tutto l’Oriente del mondo. Se infatti i signori della guerra dovessero decidere di rincarare la dose di vittime quotidiane delle bombe, allora per le Borse sarebbe tutto rinviato a data da destinarsi. Ma come scrivevamo all’inizio, forse c’è un modo di prevederlo: quello di chiedersi se e a chi converrebbe.

Sino ad oggi infatti la guerra sembra aver favorito i grandi detentori di risorse naturali, i leader di determinate fazioni politiche e i grandi costruttori di opere infrastrutturali. Ha invece apparentemente spiazzato i mercati finanziari e i loro protagonisti. Ma se la guerra dovesse andare ancora avanti a lungo a chi potrebbe convenire? Forse non più ai medesimi soggetti che ci hanno guadagnato sino ad oggi. I governi dovranno sostenere il confronto con le popolazioni colpite da inflazione e disoccupazione. L’instabilità che ne conseguirebbe non aiuterebbe necessariamente i grandi detentori di interessi economici. Inoltre se la “stagflazione” (stagnazione + inflazione) persisterà, allora anche gli investimenti produttivi si ridurranno e i debiti pubblici vacilleranno pericolosamente. E a chi potrebbe convenire? Non ai banchieri e nemmeno alle grandi industrie.

Non è detto perciò che si lasci accadere che la guerra proceda troppo a lungo: alcuni importanti operatori finanziari (che sino ad oggi hanno potuto guadagnare dalle posizioni ribassiste) potrebbero rimanerne vittima. I grandi produttori di materie prime ed energia troverebbero poco conveniente vedere scemare troppo la domanda. E molti altri soggetti potrebbero avere poca convenienza a veder proseguire indefinitamente il conflitto ucraino, e con esso anche l’inflazione e la recessione.

SONO SOLO CONGETTURE

Se dunque il metodo del “cui prodest” potesse rivelarsi valido, allora è possibile ipotizzare che la guerra in Ucraina non continuerà ad oltranza, che l’inflazione possa arrivare a rallentare in coincidenza con le elezioni di medio termine americane, e che le borse occidentali possano rimbalzare. Ovviamente sono solo congetture. Ma in un mondo che oscilla pericolosamente forse sono meglio che niente.

Resterebbe poi un punto interrogativo su ciò che accadrà alla martoriata Ucraina: si dividerà in due? O resterà neutrale? Le grandi risorse naturali che custodisce fa pensare che sia piuttosto probabile che la si voglia far entrare nell’Unione Europea, dove le multinazionali avrebbero gioco facile. Anche se questo dovesse comportare l’ altissimo costo della ricostruzione. Non sarebbero loro a doverla pagare, anzi! E la Cina potrà ritenersi soddisfatta della propria alleanza tattica con Mosca oppure alzerà la sua posta arrivando giocando su entrambi i tavoli?

Difficile riuscire a fare previsioni anche in questo. Così come è difficile indovinare la scansione temporale degli eventi. E la tempistica spesso è assolutamente predominante nelle decisioni finanziarie. Meglio tenere alta la prudenza, dunque. E al tempo stesso anche la liquidità. All’autunno e ai suoi appuntamenti elettorali mancano ancora diversi mesi, nei quali può ancora succedere di tutto…

Stefano di Tommaso




SE MANCA IL GAS ALL’EUROPA

LA COMPAGNIA HOLDING
Lunedi 11 Luglio 2022 potrebbe essere ricordato nella storia come il giorno in cui le forniture di gas dalla Russia si arrestarono quasi del tutto per l’Europa occidentale. E’ previsto infatti dall’11 al 21 Luglio il fermo tecnico del gasdotto North Stream, che attraversa il mar baltico per finire sulle coste della Germania. Si tratta in realtà del primo di due gasdotti con il medesimo nome e il medesimo percorso (North Stream 1 e 2) ma il secondo, da tempo pronto all’uso, non è mai stato utilizzato per pressioni americane. Molti analisti concordano sul fatto che, probabilmente, non riaprirà mai più, a causa delle tensioni geopolitiche in corso.

 

L’INCIDENTE DIPLOMATICO

La Germania già doveva fare i conti con una riduzione di circa il 40% del gas in arrivo tramite il North Stream 1. Ora per 10 giorni il gasdotto si fermerà del tutto. Secondo Mosca, questo è dovuto a problemi tecnici: Gazprom spiega che il gasdotto funziona al 60% per la mancanza di una gigantesca turbina della Siemens fabbricata però in Canada, che però in base al regime delle sanzioni in vigore non può essere inviata in Russia. Ora il Canada ha finalmente sbloccato l’invio della turbina, ma toccherebbe alla Germania infrangere le sanzioni alla Russia. Dal canto suo quest’ultima potrebbe approfittarne per segnalare l’evidenza che le sanzioni colpiscono innanzitutto chi le ordina. E potrebbe decidere di non riceverla nei suoi porti.

L’EUROPA È QUELLA CHE CI RIMETTE DI PIÙ

Se il flusso del gas russo dovesse interrompersi però, l’industria tedesca (e non soltanto quella tedesca) potrebbe essere messa a dura prova, a corto di energia e senza valide alternative. L’evento è tutt’altro che certo, ma il solo rischio che possa accadere è fortemente esemplificativo della situazione che L’Europa sta vivendo in questi mesi, cioè da quando è partita la guerra in Ucraina: è senza dubbio l’area economica che ci sta rimettendo di più dallo scorso Febbraio, quando al termine di un crescendo di bombardamenti e pressioni di ogni genere del governo centrale di Kiev nei confronti delle due repubbliche separatiste de nord-est, ucraine ma filo-russe, l’esercito di Mosca si è deciso ad intervenire militarmente per disarmare il paese ed impedire il suo ingresso nella NATO, cosa che gli avrebbe impedito di farlo in futuro.

Non rientra nell’oggetto di questo articolo comprendere chi possa aver ragione e chi torno (sappiamo che i nostri media sono tutti pesantemente schierati sulla narrativa anglo-americana della vicenda) bensì è importante il fatto che, da quel momento, l’economia europea è stata sottoposta ad una serie di eventi che ne hanno limitato la prosperità e che rischiano oggi di metterla del tutto in ginocchio. La Germania peraltro può ancora decidere di non fermare le proprie centrali elettriche basate sul nucleare, il cui stop è programmato per il 2023, e sta riaprendo le proprie centrali elettriche a carbone. La Francia può decidere di incrementare la produzione elettrica da energia nucleare. E’ casomai l’Italia quella che può attivare ben poche opzioni strategiche.

IL RISCHIO CHE CROLLI L’INDUSTRIA TEDESCA

Tuttavia il solo rischio che l’arrivo del gas russo si interrompa sta provocando una serie di problemi all’economia tedesca. Problemi che evidentemente rischiano di ripercuotersi in tutti gli altri paesi dell’Unione. Il gigante tedesco del gas Uniper -ad esempio- ha chiesto al governo un salvataggio pubblico acquisendo una partecipazione azionaria «rilevante». Ha anche chiesto un ulteriore finanziamento del debito attraverso un aumento della linea di credito garantita dallo Stato: si stima che la compagnia, controllata dal gruppo finlandese Fortum, potrebbe aver bisogno di circa 9 miliardi di euro, più del doppio del suo valore di mercato. Uniper ha dovuto comprare gas sui mercati spot a prezzi molto elevati pur in presenza di prezzi di vendita “rigidi”, il che ha messo a dura prova le sue finanze. Il capo di Uniper ha anche preannunciato un «enorme aumento delle bollette del gas il prossimo anno» a carico di imprenditori e consumatori tedeschi.

L’azienda energetica tedesca rischia perdite fino a 10 miliardi di euro quest’anno. Il governo ha approvato una legge per l’acquisizione di partecipazioni in aziende energetiche in crisi. Il ministro dell’Economia Habeck ha messo in guardia circa la possibilità che il fallimento delle imprese energetiche possa comportare fallimenti a catena, con un meccanismo simile a quello di Lehman Brothers sulle altre banche. Non soltanto: con il rialzo oltre misura dei prezzi dell’energia, alcune città tedesche stanno già organizzando spazi pubblici riscaldati per il prossimo inverno, in maniera da poter ospitare gratuitamente quanti, all’arrivo della stagione fredda, non potranno permettersi di pagare le bollette rincarate dall’aumento del costo del gas. Il fatto che altri paesi europei, meno previdenti, non ne stiano ancora parlando, non significa che il rischio di un inverno “freddo” non sia reale.

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Il conflitto in corso sta dunque aggiungendo molta tensione sui prezzi dell’energia, cosa che non soltanto significa dover rialzare il prezzo di moltissimi altri beni, ma anche e soprattutto il rischio di dover riconvertire buona parte dell’apparato industriale della Germania, oggi ancora basato sull’utilizzo intensivo di carburanti fossili. Tagliare le forniture di gas e petrolio russo sulle quali ha sempre contato, comporterebbe una carenza di gas in Germania tra 23,8 TWh (terawattora) e 160 TWh. Alcuni istituti di ricerca economica hanno stimato che la riduzione della produzione industriale ad alta intensità di consumo di energia si tradurrebbe in una perdita di valore aggiunto tra i 46 e i 283 miliardi di euro per le industrie tedesche, cioè tra il 2% ed il 9% circa del totale della produzione industriale del 2021. Questo rischio ha tra l’altro determinato la necessità -da parte dei governi- di innalzare al massimo possibile il livello delle scorte strategiche e di limitarne i consumi privati, nella prospettiva che quelle forniture possano presto terminare.

IL GAS NON È LA SOLA ARMA DELLA RUSSIA

Oggi quel momento sembra essere arrivato, anche se non è detto che la Russia deciderà di procedere con la sospensione immediata delle forniture di gas, perché -contro le sanzioni che le sono state comminate da America e Unione Europea- potrebbe avere un più sofisticato potere dissuasivo, attraverso la riduzione delle esportazioni di petrolio. Qualora infatti Mosca decidesse di procedere in tal direzione il prezzo dell’oro nero sarebbe inevitabilmente destinato a crescere parecchio, dal momento che già oggi la sua domanda supera l’offerta e l’attuale equilibrio tra l’una e l’altra è -per il momento- garantito dall’aver portato al massimo l’estrazione da parte dei paesi del golfo arabico.

Ma ora siamo in piena estate e impatterebbe di meno. Il problema potrebbe invece aggravarsi con il sopraggiungere della stagione fredda e l’inevitabile maggior costo del petrolio potrebbe mettere in ginocchio l’intera industria occidentale, provocando di fatto una recessione. Il rimpiazzo di quelle minori forniture di petrolio non è impossibile, ma non potrebbe essere immediato, e comporterebbe ingenti investimenti da parte dei grandi produttori, con un’attesa di almeno sei mesi fino al momento in cui potesse essere installata nuova capacità produttiva.

L’ECONOMIA OCCIDENTALE A UN BIVIO

Il problema è che la crescita economica dei paesi occidentali è attualmente ad un bivio, tra la prosecuzione dell’attuale ciclo post-covid (di ripresa) e una possibile nuova pesante recessione, potenzialmente peggiore di quella scatenata dalla pandemia. Le banche centrali (prima fra tutte la Federal Reserve) tra l’altro hanno agito da cassa di risonanza per la situazione, riducendo la liquidità disponibile sul mercato finanziario e innalzando il costo del denaro. In particolare ha agito prima e più di tutte le altre quella americana, cosa che ha di conseguenza artificialmente innalzato il cambio del Dollaro.

Di conseguenza molti investimenti, pubblici e privati, oggi vengono rinviati a data da destinarsi, soprattutto nei paesi emergenti dove il caro-Dollaro e il rialzo dei tassi di interesse stanno colpendo più duramente. Chi ci rimette di più in questa situazione sono soprattutto le esportazioni dell’industria tedesca, e insieme a quest’ultima anche buona parte di quella europea, che molto spesso agisce in regime di sub-fornitura di quella teutonica.

Se infatti per l’industria italiana l’aver dovuto rinunciare alle esportazioni verso la Federazione Russa è stato un colpo duro, ma limitato a taluni comparti e tutto sommato “gestibile”, cosa diversa sarebbe dover rinunciare ad una quota consistente delle esportazioni verso la Germania qualora le grandi imprese tedesche dovessero ridurre i loro ritmi produttivi, e tra l’altro l’effetto -più grave- si sommerebbe a quello già registrato, mettendo in ginocchio molti distretti industriali del Bel Paese e contribuendo a far dilagare una recessione economica che -oramai- appare quasi certa anche per i prossimi due trimestri dell’anno in corso.

E ORA ARRIVA L’AUTUNNO “CALDO”

Tra l’altro l’Europa non ha ancora affrontato, a causa della rigidità del mercato del lavoro rispetto all’economia americana, il problema della perdita di potere d’acquisto dei salari e stipendi delle classi sociali più basse, cosa che invece nei paesi anglofoni, con un mercato del lavoro molto più vivace, non p stato un problema, dal momento che si è riallineato verso l’alto quasi automaticamente. Nei paesi invece dove vige la contrattazione collettiva e dove il mercato del lavoro subisce molte più rigidità (con situazioni non non proprio identiche parliamo in particolare di Italia, Spagna, Francia e Germania), al momento i salari sono rimasti quelli di prima dei rincari a raffica, con una significativa perdita del potere d’acquisto da parte delle famiglie appartenenti ai ceti più bassi.

Il rischio di forti tensioni sociali e altrettanto aspre rivendicazioni salariali è dunque evidente. Non è probabile che esso vada in testa alle priorità politiche e sindacali durante la pausa ferragostana, ma è molto concreto il rischio che si sviluppino vivacemente subito dopo, alla ripresa autunnale, contribuendo a far si che la recessione si “avviti” e che l’inflazione giunga ad auto-alimentarsi, esattamente come era già successo negli anni ‘70. L’autunno sembra proprio prefigurare una “tempesta perfetta” sull’economia dell’Eurozona, e i governi europei sembrano assai poco in grado di prevenirla!

Stefano di Tommaso




LA GUERRA DI NERVI E DEL PETROLIO

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Il confronto tra Russia e Occidente è a un punto di svolta: ulteriori iniziative belliche rischiano di trascinare il mondo verso una nuova guerra mondiale e i mercati finanziari verso il baratro. E il rischio più prossimo che può derivare dalla strategia di tensione geopolitica attuale è quello che il prezzo dell’energia vada alle stelle e, con esso, anche l’inflazione, alla quale non potrebbe che seguire una profonda recessione economica. E’ questa l’analisi pubblicata recentemente da JP Morgan Chase. I mercati finanziari ovviamente stanno alla finestra, pronti a scendere ulteriormente qualora se ne vedano le avvisaglie. Ma sono anche pronti a riprendersi, qualora tornino a spirare nuovi venti di pace.

 

L’INFLAZIONE ATTUALE È IL RISULTATO DEI RINCARI DEI MESI SCORSI

Gli operatori economici sono spaventati dai dati sull’inflazione dei prezzi al dettaglio, che continua ad aumentare sia in America che in Europa, ma in realtà non ci sono per il momento grandi novità sulle determinanti dell’inflazione dei prezzi che stiamo registrando oggi: se i costi di produzione erano cresciuti intorno a inizio anno mediamente dal 10% al 20% o più, era ovvio che quei rincari si sarebbero prima o poi trasferiti -lentamente ma inesorabilmente- ai prezzi al consumo. Ci voleva soltanto del tempo e questo sta succedendo ora. In realtà negli ultimi giorni i prezzi delle materie prime hanno leggermente ritracciato e ciò farebbe ben sperare.

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Non ci sarebbe dunque da spaventarsi nel veder registrare ancora per qualche mese nuovi rincari alla cassa del supermercato o nei servizi perché le cause a monte dei rincari si erano sviluppate tempo fa e, apparentemente, adesso stanno tornando indietro. Ovviamente non è tutto così semplice: poiché il potere d’acquisto dei salari si è ridotto almeno della misura dell’inflazione, non ci sarà da stupirsi se anche il costo della manodopera nei prossimi mesi salirà inevitabilmente, alimentando una pericolosa spirale dei prezzi che rischia di procedere ancora per diversi mesi, fino a toccare la soglia -non soltanto psicologica- del 10% rispetto a inizio anno. Quando un meccanismo come quello dell’inflazione si mette in moto, non lo si ferma dall’oggi al domani.

LO SHOCK DA OFFERTA SI È SOMMATO AL Q.E.

L’inflazione che stiamo vivendo da molti mesi a questa parte però ha una matrice simile a quella che ha caratterizzato gli anni di iper inflazione di mezzo secolo fa, ai tempi della ”guerra del Kippur”: è originata dall’aumento dei prezzi di quasi tutti i fattori di produzione, causata principalmente da uno shock da offerta. Cioè dalla scarsa disponibilità di materie prime, semilavorati, idrocarburi ed energia. Questa è calata strutturalmente (anche per problemi legati alla pandemia) e, -diciamo la verità- anche opportunisticamente, proprio quando l’economia globale provava a riprendere fiato all’uscita da due lunghi anni di “lockdown”. Molti grandi gruppi hanno indubbiamente fatto grandi profitti con i rincari che ne sono conseguiti.

E’ poi altrettanto vero che allo shock da offerta di beni e servizi si è aggiunta anche -come concausa dell’inflazione- la grande liquidità in circolazione pompata per anni dalle banche centrali di tutto il mondo. Ma questa affluiva già da anni e fino all’arrivo della pandemia globale, per una serie di motivi non era successo nulla di simile. Quando invece le due cause si sono sommate la fiammata dei prezzi è stata molto simile a quella del 1973. Ma le similitudini con quel periodo storico rischiano di non finire qui.

Anche allora il mondo viveva una serie di tensioni geopolitiche e anche allora le principali divise valutarie erano state inflazionate dalla perdita del riferimento del valore del Dollaro americano al valore dell’oro. E anche allora l’inflazione dei prezzi generò molta volatilità sui mercati finanziari e rialzi a raffica dei tassi di interesse, i quali a loro volta alimentarono una spirale che produsse diverse ondate di aumento dei prezzi, non soltanto una. Ecco dunque qual è il rischio che corre oggi l’America (e con essa quantomeno tutto l’Occidente): la possibilità che alla prima ondata inflattiva ne seguano altre.

LA TENSIONE INTERNAZIONALE FRENA I MERCATI FINANZIARI

Il problema è che la guerra in Ucraina non accenna a fermarsi e anzi la Russia ha quasi concluso il suo piano militare di porre sotto l’egida della Federazione le due repubbliche ucraine orientali, ove la quota di popolazione russofona era molto elevata e che erano teatro della guerra civile da anni. Ovviamente per consolidare questo risultato -costato molti morti- la Russia deve impedire che l’Ucraina torni alla carica, e per questo continua a prendere di mira le installazioni militari nel resto del paese e i depositi di armi che arrivano copiose dalla NATO. Una situazione che non piace alla NATO, la quale intende pertanto proseguire a fornire armi e consulenza militare al governo di Kiev, con il forte rischio che il conflitto si allarghi ai paesi che confinano con la Russia (ad esempio la Bielorussia). La NATO ha inoltre spinto i governi dei paesi aderenti a imporre numerose e pesantissime sanzioni economiche alla Federazione Russa, elevando la tensione nei rapporti internazionali a livelli mai visti dopo la seconda guerra mondiale.

E’ perciò molto probabile che la strategia di tensione che l’Occidente sta orchestrando nei confronti della Russia (e, meno platealmente, anche nei confronti di tutte le nazioni che non vi si sono pedissequamente allineate, a partire da Cina e India) rischi di fare altri danni, soprattutto all’Eurozona, tra le grandi economie del mondo quella più dipendente dagli approvvigionamenti esterni di risorse naturali. Non soltanto infatti le sanzioni hanno creato ovvi e pesanti ”ritorni di fiamma” azzoppando le economie dei paesi europei che le hanno applicate, ma c’è il rischio che la loro estensione in tutte le direzioni possa provocare una pesantissima rappresaglia russa: quella di ridurre o azzerare le forniture di gas e petrolio ai paesi NATO, cosa che rischia di creare dei disastri epocali ben più efficaci delle sanzioni.

LA POSSIBILE “MOSSA DEL CAVALLO” DI PUTIN

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In una situazione come quella attuale in cui la domanda di gas e petrolio supera la relativa offerta infatti, se la Russia dovesse decidere di ridurre ancora le proprie esportazioni verso l’Occidente si creerebbe un ulteriore shock da offerta sul costo dell’energia che potrebbe avere immediate ripercussioni sull’inflazione dei prezzi che ne conseguirebbe e sui tassi di interesse. E’ questo il senso dell’allarme, lanciato lo scorso Venerdì, dalla grande banca d’affari JP Morgan, alla quale tutto si può imputare tranne che possa muoversi nell’interesse di Putin.

In uno studio infatti della medesima viene stimato con una certa precisione l’effetto che una riduzione di offerta di 5 milioni di barili di petrolio al giorno -che la Russia potrebbe tranquillamente permettersi senza intaccare troppo la sua salute economica- potrebbe far più che triplicare le attuali quotazioni del greggio, con tanti saluti per le speranze di ripresa economica e riduzione dell’inflazione. Un’ipotesi tanto disastrosa quanto realistica, soprattutto se la NATO proseguirà nel suo intento di cercare di danneggiare la Federazione Russa con altre iniziative belligeranti.

Per ironia della sorte ciò accade proprio quando Joe Biden, conscio del fatto che l’inflazione (già vicina al 9% in America) non aiuterà il suo partito nelle elezioni americane di medio termine, ha deciso (con buona pace per la transizione ecologica e la sostenibilità ambientale precedentemente sbandierate come grandi urgenze) di far pressione su tutti gli altri paesi grandi estrattori di petrolio perché portassero ai massimi la loro capacità di immetterlo sul mercato e farne sgonfiare così i relativi prezzi. Da fonti bene informate infatti la presidenza americana non si era affatto risparmiata in tali sforzi, ad esempio con l’Arabia Saudita e gli Emirati del Golfo, pur di spingerli ad incrementare fino ai massimi possibili le quantità estratte.

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E in effetti prezzo del petrolio negli ultimi giorni è arretrato, ma non di molto, dati i rischi elevati che il conflitto bellico possa addirittura estendersi a Moldavia, Polonia e Paesi Baltici. C’è infatti una componente speculativa che punta in direzione esattamente opposta forte del fatto che la fornitura alle forze armate ucraine di missili a lungo raggio effettuata dagli Inglesi rischia di generare altre tensioni, dal momento che per lungo raggio si può intendere soltanto il raggiungimento di obiettivi militari all’interno del territorio russo. Con il rischio a quel punto di rappresaglie di Mosca rivolte non più soltanto all’Ucraina, ma anche ai suoi “mandanti”.

Ecco perché non è così probabile, in una situazione surriscaldata come quella attuale, che il prezzo del petrolio scenda davvero, pur in presenza di un incremento della sua offerta sul mercato spot. Così come non è possibile limitare artificialmente o segmentare geograficamente le sue quotazioni: quando il prezzo del petrolio sale, lo fa in tutto il mondo e istantaneamente. Dunque anche in America.

I MERCATI SONO A UN BIVIO

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Questo rischio, ben più che quello dei rialzi di alcuni ulteriori quarti di punto percentuale nei tassi di interesse, paventati dalle banche centrali, è il medesimo che spinge oggi gli investitori ad avere molta cautela nel tornare ad investire in Borsa, i risparmiatori ad aumentare la quota di liquidità, e gli industriali a rialzare i prezzi di vendita. Il rischio di un allargamento del conflitto bellico e quello di possibili rappresaglie da parte della Russia o sinanco dei paesi “non allineati”, vittime anch’essi di pressioni e minacce americane.

E se la tensione internazionale tornerà a salire, allora probabilmente partirà una nuova ondata di rincari nei prezzi delle materie prime e dell’energia e si ripeterà pedissequamente ciò che era successo a partire dai primi anni ‘70: che l’inflazione era montata “a ondate successive”, non una sola volta cioè, bensì in più riprese. Potrebbe succedere cioè che ulteriori rincari del costo dell’energia possano contribuire a nuovi rialzi dei prezzi al consumo, alimentando però in tal caso una più potente spirale inflazionistica dalla quale non sarebbe facile uscire indenni, nemmeno per le più poderose economie di mercato.

Nemmeno a dirlo, questo sì che alimenterebbe ulteriori aspettative di una recessione economica globalizzata e più profonda, generando tagli e rinvii ai programmi di investimento industriali e infrastrutturali, la quale recessione a sua volta dovrebbe necessariamente convivere con i rialzi dei prezzi di qualsiasi cosa. Una situazione potenzialmente disastrosa che, va da se, danneggerebbe molto di più i paesi le cui economie sono più aperte al mercato libero di quelle con pianificazione più centralizzata, e genererebbe il taglio di numerosi posti di lavoro!

Persino l’America diverrebbe ingovernabile in una tale situazione, posto che alle elezioni autunnali il partito di Biden porterebbe a casa una sonora sconfitta. Ma soprattutto la vicenda porterebbe allo scoperto le tensioni tra gli stati membri della nostra “unione europea incompiuta”, con il rischio di un ritorno indietro nel tempo che non gioverebbe a nessuno, salvo forse ai paesi asiatici, per guadagnare sull’Occidente ulteriori vantaggi strategici.

LO SCENARIO BELLICO ORIENTERÀ I MERCATI

D’altra parte è il destino che consegue a tutte le guerre della storia: è impossibile portarle avanti senza che facciano danni persino a chi le muove a distanza. Solo che stavolta rischiamo il paradosso di portare indietro le lancette dell’orologio all’epoca della guerra fredda e rischiamo la minaccia dell’inverno nucleare. Quello che conseguirebbe allo scambio di testate atomiche tra superpotenze militari. I russi utilizzano questa minaccia -così come quella del petrolio- con intento dissuasivo: si sono detti pronti al conflitto globale, qualora il loro territorio venisse attaccato, e non si illudono troppo sulla possibilità di riprendere trattative di pace con l’Occidente, ragione per cui potrebbero indurlo a più miti consigli attraverso ritorsioni come quella del petrolio.

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Le borse ovviamente staranno a guardare, atterrite (ma lo sono già, a questi livelli di prezzo) o forse anche euforiche, perché se qualche spiraglio di luce si potrà intravvedere sarebbero pronte a tornare a crescere. Certo con una volatilità che sarà difficile da veder scendere nel resto di quest’anno ogni buona notizia rischierebbe di vedere effetti molto limitati nel tempo. Anzi: c’è il rischio che persino l’auspicato rialzo dei titoli a reddito fisso possa venire rimandato sine die, ucciso dall’eccesso di volatilità. Basterebbe invece che la tensione internazionale tornasse leggermente indietro, che probabilmente i mercati finanziari tornerebbero a ravvivarsi non poco.

Invece oggi, sino a che durerà il rischio che il conflitto bellico venga esteso al resto del mondo, i grandi decisori sono costretti a restare liquidi e a fare ulteriori “voli verso la qualità” tornando a selezionare selvaggiamente i loro investimenti tra le sole imprese che promettono migliori risultati o che mostrano tecnologie capaci di fare la differenza, gettando alle ortiche le altre, senza troppi complimenti. Pronti peraltro a fare esattamente l’opposto qualora la situazione geopolitica migliori. E come dargli torto?

Stefano di Tommaso




LE BORSE SCENDERANNO ANCORA?

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I mercati finanziari sono noti per precedere vistosamente gli eventi attesi nell’economia reale, fino addirittura ad andare quasi in direzione opposta per via del gioco delle aspettative. E anche stavolta rischia di andare così: dopo una lunga discesa delle borse mondiali abbiamo assistito finalmente, la settimana scorsa, ad una piccola risalita del listini, dopo che dall’inizio dell’anno le borse erano scese quasi del 20% in totale (si veda il grafico relativo all’indice globale MSCI), anticipando una possibile recessione che si materializzerà forse soltanto nella seconda parte dell’anno. Ma proprio per questo non è detto che, all’arrivo effettivo della recessione, le borse scenderanno ancora.

 

UN CALO DEL 22%, POI UN RIMBALZO DEL 4%

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Come si può leggere dal grafico non soltanto le borse di tutto il mondo sono scese parecchio dall’inizio dello scorso Aprile, ma peraltro ci sono stati anche diversi tentativi di risalita delle borse, tutti terminati con altre discese. Come dobbiamo interpretare allora l’ennesimo rimbalzo delle borse dell’ultima settimana? E cosa succederà dopo?

IL RIMBALZO DEL GATTO MORTO

Un vecchio detto a Wall Street recita che persino un gatto morto, dopo essere precipitato dal piano superiore, rimbalza quando tocca terra. Il rimbalzo delle borse degli ultimi giorni dobbiamo dunque paragonarlo a un gatto morto (e dunque avrà brevi effetti) oppure potrebbe anticipare qualcosa di diverso?

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Sebbene non sia quasi mai possibile predire con certezza ciò che avverrà sui mercati nel futuro, possiamo ugualmente provare a prendere atto di alcuni fatti e talune convinzioni collettive, i quali potrebbero influire non poco sui corsi delle borse valori.

-20% : UNA NUOVA NORMALITÀ?

Innanzitutto alcune certezze:

  • il rialzo dei tassi d’interesse deciso dalle banche centrali per combattere l’inflazione influisce negativamente sulle valutazioni azionarie delle imprese, abbassando il valore attuale netto dei flussi di cassa futuri attesi che esse si presuppone potranno generare. Fino all’inizio di Aprile la volatilità delle borse era stata alta ma i livelli delle borse da inizio anno erano scesi solo marginalmente (-2,5%). Poi il quadro è molto peggiorato e la discesa dei corsi azionari è divenuta una voragine che ha superato il 20% (sempre da inizio anno).
  • un’altra quasi-certezza è che la recessione in arrivo (piuttosto probabile) ridurrà i profitti delle imprese quotate, con pochissime eccezioni, come ad esempio per le società che operano sui mercati di petrolio, gas, energie in generale e rinnovabili in particolare che, pur essendo più che raddoppiate di valore in media da inizio anno per aver beneficiato dei maggiori prezzi dell’energia, nell’ultima settimana hanno invece subìto un ribasso (qui sotto il grafico).

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Le suddette certezze (rialzo dei tassi, riduzione dei profitti) rendono estremamente plausibile il fatto che i ribassi accumulati dai listini azionari rispetto a fine d’anno (circa il 20%), abbiano portato i corsi delle borse ad una “nuova normalità” basata sui livelli attuali del listino, derivante dalle mutate condizioni economiche generali. Ma è altrettanto vero che, se questo è il quadro, allora i mercati finanziari potrebbero aver già “fattorizzato” tutti gli elementi negativi che dovranno manifestarsi nei prossimi mesi. E in tal caso da adesso in avanti potrebbero guardare al futuro con nuovo ottimismo.

LE BORSE SONO IN “IPERVENDUTO”

Non per niente possiamo notare che l’umore degli investitori è ai livelli peggiori da un paio d’anni a questa parte. Dunque le aspettative appaiono sì ancora così negative da far pensare che esse in parte si autorealizzeranno lasciando spazio ad ulteriori ribassi, ma è altrettanto vero che, se le aspettative generali appaiono (come anche questa volta)eccessivamente negative, allora i mercati borsistici potrebbero aver maturato una fase di iper-venduto dalla quale potrebbero riemergere, come si può peraltro vedere dal grafico qui riportato (relativo al Nasdaq):

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Dunque anche quest’ultima considerazione porterebbe a pensare che le cose, per il futuro, potrebbero forse andare meglio di quello che tutti oggi stanno pensando.

NON È DETTO CHE I TECNOLOGICI ABBIANO FINITO DI SCENDERE

Il ragionamento però non può essere fatto troppo in generale, anche perché quasi tutte le borse valori del mondo hanno i loro listini affollati di titoli “tecnologici” (cioè azioni di imprese in media estremamente sopravvalutate rispetto alle loro performances reddituali attuali, in funzione della promessa di risultati futuri ben superiori alla media). La sensazione pertanto è che quelle iper-valutazioni non potranno essere mantenute a lungo e che i prezzi di questi titoli dovranno sgonfiarsi ancora un po’.

A Wall Street ad esempio il peso dei soli titoli FAANG (Facebook, Apple, Amazon Netflix e Google) è pari a circa 1/5 del totale dell’intero listino. Pur essendo scesi di valore più che proporzionalmente rispetto all’indice generale americano SP500 (mediamente del 30% da inizio anno, come si può vedere dal grafico qui sotto riportato), esprimono ancora una valutazione d’azienda pari a circa 23 volte gli utili, cioè di oltre il 40% superiore alla valutazione media (di 16 volte gli utili) dell’indice generale SP500.

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Con l’arrivo delle aspettative di inflazione, recessione e crescita dei tassi d’interesse reali questi titoli “tech” sono stati pesantemente penalizzati dagli investitori che li hanno scaricati, in funzione di una decisa riduzione di quelle aspettative di crescita che ancora oggi contribuiscono a lasciarli decisamente sopravvalutati rispetto alla media del listino. A nessuno è però dato conoscere l’esatta misura di queste aspettative e dunque nessuno è in grado di formulare previsioni corrette circa il fatto che la loro svalutazione proseguirà e quanto essa influirà sui listini azionari complessivamente

I MOTIVI DI UN CAUTO OTTIMISMO

I mercati borsistici, dopo la doccia fredda che hanno vissuto dall’inizio dell’anno, abbiamo visto che nell’ultima settimana hanno provato a sviluppare ancora una volta un rimbalzo. Cioè stanno interrogandosi, dopo aver preso atto del fatto che è arrivata l’inflazione e che questa sta generando una nuova recessione, su quanto durerà e cosa potrà succedere dopo la recessione.

Se infatti l’arrivo della recessione arrivasse a spingere le banche centrali a invertire la rotta dei rialzi dei tassi e tornare a intervenire sulla liquidità disponibile, allora i tassi potrebbero smettere anticipatamente di salire e l’allarme relativo al possibile default per i paesi più indebitati potrebbe rientrare. È altresì possibile che il concretizzarsi della recessione (quantomeno per l’Occidente, che mostra una crescita demografica meno consistente di Asia e Africa) aiuti a far ridiscendere ancora il prezzo del petrolio (e quelli di tutte le materie prime ad esso collegate) e, con esso, l’inflazione attesa.

Tutti fattori che gioverebbero non poco all’umore dei listini azionari, scesi ad esempio in America ben più di quanto sia accaduto in Cina, come si può leggere dal grafico qui riportato (aggiornato alla settimana precedente). Dunque non in tutto il mondo le borse sono andate nello stesso modo!

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IL POSSIBILE RITORNO ALL’INVESTIMENTO OBBLIGAZIONARIO

Ma soprattutto potrebbe verificarsi un ritorno degli investitori dal listino azionario a quello obbligazionario, cosa che allenterebbe le tensioni (e la volatilità) delle borse ma che contribuirebbe a far terminare la lunga fase vissuta sino ad oggi di “bondification” degli investimenti, attraverso la sostituzione delle cedole del reddito fisso (che erano arrivate a zero) con titoli azionari capaci di generare i migliori dividendi. Se dunque gli investitori torneranno a comperare reddito fisso allora compreranno un po’ meno azioni, attenuando le speranze di risalita dei listini azionari.

Insomma se si segue questo ragionamento è piuttosto probabile che la fase che si apre a partire dall’estate 2022 potrà vedere una leggera ripresa delle borse valori che però non sarà necessariamente corroborata dal ritorno alle stelle dei maggiori titoli tecnologici e che sarà anche moderata da un ritorno alla diversificazione dei portafogli verso una maggior quota di titoli a reddito fisso. Se così fosse probabilmente dunque la forte volatilità media, vissuta dalle borse sino ad oggi, potrebbe finalmente scendere e, forse, una maggior liquidità potrebbe tornare a circolare sui mercati azionari a causa della progressiva ripresa di fiducia degli investitori professionali e istituzionali.

È chiaro infine che un allentamento della stretta attualmente promessa dalle banche centrali potrebbe ulteriormente corroborare le aspettative degli investitori, ma è anche piuttosto probabile che l’eventuale ritorno all’intervento da parte delle banche centrali potrà risultare più moderato che in passato, stemperando le aspettative al rialzo delle borse ma anche contribuendo a stabilizzarle.

MA GUERRA E PANDEMIA POSSONO ANCORA GUASTARE LA FESTA

C’è però all’orizzonte dell’altra nuvolaglia che potrebbe guastare le feste a chi si aspetta un rialzo delle borse: quella relativa al diffondersi delle nuove varianti dei virus che hanno provocato le precedenti cinque ondate pandemiche (e che recentemente hanno spinto la Cina ad un deciso nuovo “lockdown” della popolazione interessata), e quella relativa alle incerte sorti della guerra in Ucraina, dove tutti i contendenti sembrano fortemente propensi a proseguire o intensificare gli scontri.

Una nuova pandemia e/o un eventuale accanimento del conflitto ucraino (o una sua estensione a zone europee limitrofe) potrebbe infatti gettare nuova incertezza sui mercati, riducendone le possibilità di ripresa. Bisogna però ricordare che i mercati “prezzano” già l’incertezza bellica nelle attuali quotazioni e che tendono a limitare le loro aspettative di rialzo anche in funzione del fatto che il conflitto non accenna a risolversi. Dunque non solo guerra e pandemia potrebbero generare nuove sorprese negative, ma la loro “endemicità” introduce sicuramente un fattore di attenzione che spinge gli investitori a mantenere una maggior quota di liquidità tra i propri asset anche qualora l’inflazione facesse un po’ di marcia indietro e la recessione fosse soltanto parziale o avesse effetti molto limitati sulla riduzione dei profitti aziendali.

DUE “DRIVER” CONTRAPPOSTI

Ricapitolando perciò possiamo individuare per il prossimo futuro due possibili tendenze contrapposte:

  • da un lato infatti l’arrivo della recessione non appare destinato a generare nuovi importanti cadute dei listini azionari bensì addirittura forse a presagire un loro lieve rafforzamento. In contropartita eventuali interventi delle banche centrali a favore dei mercati potrebbero risultare in rialzi dei corsi molto moderati, a favore invece di una discesa probabilmente generalizzata del livello di volatilità dei mercati, sino ad oggi restata molto vicina ai massimi storici. Si tratta dunque di fattori moderatamente positivi che porterebbero maggior serenità all’investimento azionario e in definitiva ad una sua lenta ripresa;
  • dall’altro lato però lo scenario sopra descritto tende a ignorare i rischi di nuove ondate pandemiche e della possibile acutizzazione dei conflitti bellici in corso. Due fattori che potrebbero tranquillamente riportare indietro di un paio d’anni le lancette dell’orologio dei mercati. Con l’aggravante che oggi l’economia occidentale è sicuramente più provata di un paio d’anni fa a causa delle crisi già vissute e dell’accresciuto debito complessivo globale. In tal caso le borse non potrebbero che scendere ancora, fattorizzando non soltanto la recessione in arrivo ma anche un nuovo possibile picco dei prezzi delle materie prime.

LA STAGIONALITÀ DELLE BORSE

Nessuno conosce l’entità delle probabilità collegate all’uno o all’altro scenario e, in questi casi, la moderazione è d’obbligo. Ma la possibilità di una lieve ripresa dei listini azionari -almeno durante l’estate- potrebbe tutto sommato non essere del tutto da escludere, come ben indicato da questo grafico, che mostra con la linea rossa il tipico andamento borsistico (sintetizzato con l’indice Dow Jones) in ragione della stagionalità degli ultimi 30 anni: nella prima metà dell’anno le borse tendono a scendere, mentre dall’estate in poi tendono a a tornare a salire. Ci auguriamo che il buon auspicio possa valere anche per quest’anno.

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Stefano di Tommaso