(DON’T) SELL IN MAY & SAIL AWAY

”Vendi in Maggio e parti in viaggio”. Varrà anche quest’anno il vecchio adagio? Le borse sono destinate a continuare la loro discesa dopo quasi due mesi di alti e bassi? Se guardiamo le statistiche degli ultimi anni infatti storicamente è spesso andata così: la performance cumulativa delle borse da maggio in poi è negativa fino all’incirca alla fine dell’estate. Anche perché ciò è spesso coinciso con l’andamento stagionale al rialzo dei tassi d’interesse.

 

LE STATISTICHE INVITANO ALLA PRUDENZA


MA QUESTA VOLTA PUÒ ESSERE DIVERSO

Se si volesse adottare anche quest’anno questo atteggiamento, date anche le molte preoccupazioni per le sorti dell’economia a livello planetario sarebbe dunque meglio vendere e attendere nuovi ribassi. O quantomeno delle decise schiarite sui fronti geo-politici ed energetici. Ma viviamo tempi eccezionali, e questa volta (così come è già successo nel 2020) potrebbe anche andare diversamente. Il motivo principale è che al momento le borse sono in regime di “ipervenduto” e che dunque si è teoricamente creata una buona occasione di acquisto per gli investitori di lungo termine.


Certo ci vorrebbe un segnale forte per far cambiare direzione ai listini azionari, perché al momento invece le banche centrali sembrano invece molto decise a recuperare il terreno perduto nei confronti dell’inflazione, anche se questo può avere l’effetto di scatenare una recessione globale. E il mercato finanziario in generale è da un mese a questa parte rimasto pesantemente orientato al ribasso perché sconta una doppia escalation: quella delle nuove restrizioni monetarie, così come quella del confronto militare tra Oriente e Occidente. Il punto però è che l’inflazione dei prezzi, soprattutto quelli all’ingrosso, delle materie prime e dell’energia, potrebbe aver già toccato un picco massimo, oltre il quale iniziare a recedere. Questo non significa che si potrà abbassare la guardia sull’inflazione, perché i meccanismi al rialzo attivati nel corso dei primi quattro mesi dell’anno comportano la progressiva trasmissione ai prezzi al consumo degli aumenti dei costi dei fattori di produzione. E non si arresteranno presto, né facilmente.

L’ECONOMIA GLOBALE RALLENTA

Quello che tuttavia sta succedendo è che l’economia globale oggettivamente sta rallentando, o addirittura recedendo. Il P.I.L. degli Stati Uniti d’America ha già percorso all’indietro il primo trimestre dell’anno di un punto e mezzo percentuale (un’enormità rispetto agli zero-virgola dell’Europa). Non è invece dato di conoscere con precisione l’ammontare della frenata economica che ha subìto la Cina nello stesso periodo, (si parla di un rallentamento della crescita dal 6% al 4%, ma molti ritengono le statistiche ufficiali poco attendibili). Certo da Aprile in poi le cose sono andate anche peggio perché è arrivato il lockdown della zona di Shangai, la più attiva economicamente dell’intero paese. E un po’ ovunque tutta l’Asia ha visto l’economia rallentare.

L’Europa d’altro canto, statistiche a parte, è grande difficoltà. Non soltanto per lo sviluppo sostanzialmente negativo del suo prodotto interno lordo (in Italia e Germania innanzitutto, ma ricordiamo che le statistiche ufficiali anche da noi sono spesso “da interpretare”), ma soprattutto per le prospettive: molte imprese stanno chiudendo i battenti, o cercano di ristrutturare le produzioni a causa non soltanto dei costi dell’energia, e della forte dipendenza dalle forniture di gas, su cui era impostata buona parte dell’industria pesante. In realtà calano soprattutto i consumi perché scende il potere d’acquisto dei salari, con un mercato del lavoro sostanzialmente assai rigido.

L’Europa inoltre sta sopportando ingenti sforzi per incrementare la spesa militare e inviare aiuti alla guerra in Ucraina, con il risultato che i bilanci pubblici si appesantiscono, proprio mentre la Banca Centrale Europea si accinge a terminare il proprio programma di acquisto dei titoli pubblici nazionali. Il combinato disposto di tutto ciò come minimo provoca il rischio di downgrading del debito europeo. E genera timori di estensione del conflitto, con l’effetto di fai rinviare o cancellare i programmi di investimento infrastrutturale o quelli di efficientamento produttivo. Le conseguenze di quei timori di oggi si faranno perciò sentire nel tempo e rischiano quindi di essere peggiori di quelle -nell’immediato apparentemente più pesanti- che si avvertono in America.

MA LA FRENATA PUÒ FAR BENE ALLE BORSE

Se tuttavia gli effetti di queste frenate in tutto il mondo nella crescita economica avranno quasi sicuramente importanti conseguenze negative sull’economia reale, è però possibile che vadano a sfociare in minori tensioni sulla dinamica dei prezzi (cioè nella riduzione dell’inflazione) e, di conseguenza, sui tassi d’interesse (prima quelli reali, ma poi forse anche quelli nominali). Potrebbe essere questa, forse, la scintilla che andrebbe a favorire l’ipotetica ripresa dei listini azionari dopo le pesanti aspettative che vengono scontate nei prezzi attuali.


Ma c’è anche un altro fattore che potrebbe contribuire alla ripresa dei listini azionari: la consistente liquidità rimasta in circolazione. È vero che la “normalizzazione” della politica monetaria resta tra i principali obiettivi dichiarati dalle banche centrali occidentali. E’ assai probabile dunque che i tassi cresceranno e che i titoli acquistati dalle banche centrali verranno progressivamente venduti. Ma la verità a volte diverge dalle dichiarazioni d’intento, anche perché nessuna banca centrale ambisce ad eccedere, creando problemi alla liquidità dei titoli pubblici del proprio paese.


Dunque la liquidità residua in circolazione non solo resta oggi abbondante e -al primo segnale positivo sui tassi- potrebbe ancora una volta riversarsi sui listini azionari che garantiscono rendimenti (derivanti dal pagamento dei dividendi) almeno pari a quelli (oggi accresciuti) dei titoli a reddito fisso. Ma addirittura potrebbe non scendere della misura oggi annunciata dalle banche centrali, così come i rialzi già annunciati dei tassi d’interesse, di fronte al raffreddamento dell’economia mondiale e alle possibili flessioni dell’inflazione, potrebbero finire con l’essere interrotti. Le borse oggi scontano infatti una “forward guidance” annunciata dalle banche centrali in decisa contrazione della massa monetaria, e in forte rialzo dei tassi. Qualora le aspettative mutassero, per il mercato dei capitali sarebbe una gran bella notizia!

SE L’INFLAZIONE SI RIDUCE LE BORSE POSSONO RIPRENDERSI

Perché le attese sui tassi d’interesse possono risultare così importanti? Perché le valutazioni delle imprese quotate in borsa possono essere assimilate alla sommatoria attualizzata dei loro flussi di cassa netti futuri. Nel calcolare il valore attuale netto di quei flussi di cassa dunque, il tasso di attualizzazione risulta particolarmente rilevante. Se quel tasso cresce il valore attuale netto scende. Se scende, o cresce meno, quest’ultimo può salire.


D’altra parte ciò era successo anche all’inizio dell’era-Covid 19: dopo un primo importante spavento, le borse da Marzo ad Aprile 2020 erano rimbalzate con decisione, sinanco in presenza di seconde e terze ondate pandemiche, perché la liquidità inizialmente sottratta all’investimento azionario da qualche parte doveva pur essere collocata. E, passato lo spavento, il rimbalzo aveva superato la discesa. Ora è notorio che i mercati finanziari spesso assai cinici e che talvolta vivono di luce propria, anche a prescindere da ciò che accade per l’economia reale. Anche perché i mercati borsistici non sono organismi democratici: sui listini azionari pesano, talvolta anche più che proporzionalmente, gli andamenti dei titoli maggiori, le cui performances riflettono le aspettative sui profitti delle più grandi multinazionali. Che non necessariamente perdono soldi con la guerra, né con l’inflazione.


Per chi vuole una controprova c’è un esempio per tutti: il più famoso finanziere degli ultimi trent’anni, Warren Buffett (patron della più grossa holding quotata a Wall Street: la Berkshire Hathaway, che non si può certo dire sia uno smidollato speculatore) è lo stesso che si era ampiamente tenuto alla larga dal boom dei titoli della “new economy” all’inizio del millennio e che era stato altresì alla larga dalle azioni delle banche americane ai tempi della crisi dei mutui “sub-prime”. Ebbene la sua holding non è mai stata così attiva con gli investimenti in borsa come nell’ultimo paio di mesi! Ha comperato di tutto.

SI, MA QUANDO?

Ovviamente il diavolo fa le pentole ma non i coperchi: fuor di metafora potremmo cioè essere di principio tutti d’accordo sul fatto che un ribalzo potrebbe arrivare per le borse valori, così come potremmo concordare sul fatto che il picco speculativo sulle materie prime e sull’energia è forse già stato superato, ma non è facile comprendere con quale tempistica si potrebbe tornare -sui mercati finanziari- ad una qualche normalità.

Una possibilità è quella che ciò avvenga molto presto, e in modo del tutto repentino, come spesso succede sui mercati. Cioè che le mani forti del mercato possano decidere di muoversi ben prima che gli altri investitori arrivino a metabolizzare l’idea di un rimbalzo. È verosimile, ma non è una certezza, dal momento che la congiuntura internazionale resta al momento piuttosto nera. L’altra possibilità è che ciò avvenga invece tra qualche mese, ma che comunque avvenga prima che le statistiche ufficiali possano rilevare un rilassamento dell’inflazione e delle tensioni sui tassi d’interesse. Vale a dire poco prima della pausa ferragostana, quando magari la maggior parte dei gestori delle grandi ricchezze inizia ad abbassare l’attenzione per godersi il riposo, e prima di quando ci si possa preparare ad un autunno sicuramente caldo dal punto di vista delle rivendicazioni salariali, che potrebbe rilanciare le preoccupazioni sull’andamento dell’inflazione.


Ovviamente c’è sempre una terza possibilità: quella che le condizioni economiche globali peggiorino così pesantemente da cancellare ogni speranza di rimbalzo in borsa. E nessuno è in grado di saperlo in anticipo. Tutte queste sono soltanto ipotesi, dal momento che parliamo del futuro. Ma sono ipotesi con un certo fondamento. E la probabilità cumulata delle prime due potrebbe eccedere quella della terza.

Stefano di Tommaso




Il futuro del retail: dal Retailoring al neoRetail

Il contesto del settore retail presente e futuro è molto dinamico e richiede un momento di riflessione. Post-pandemia, digitalizzazione e sostenibilità sono i tre fenomeni che impongono un significativo ragionamento del modo di competere per trovare un nuovo equilibrio tra uomo-macchina-ambiente.
RETAILORING tratta questi temi da una prospettiva strategica proponendo un ordine e delle soluzioni per prepararsi alla prossima era del retail, il NEORETAIL, che vedrà una nuova generazione di aziende fortemente informatizzate e digitalizzate nonché governate da principi di sostenibilità economica, ambientale e sociale.

Questo mio nuovo libro è stato arricchito di significativi contributi di Luca Bidoglia che tratta dei nuovi approcci alla formazione per il retail del futuro. Davide Castelvero che descrive le evoluzioni e le nuove frontiere del CRM. Marco De Carli che parla dei nuovi retail innovation patterns e de nuovi modelli e concept retail. Francesco Fedele che racconta dell’empowerment e come una community consapevole costruisce excellent customer experience. Gaia Rancati parla del rapporto Human + Robot e dell’integrazione ideale. Stefano Sacchi che tratta il tema della sostenibilità dal punto di vista dell’onestà, del profitto e del cuore. Ed infine io tratto dell’argomento della blockchain e dei possibili benefici nel retail. In aggiunta a questi aspetti è fondamentale citare la prefazione di Barbara Cimmino e l’introduzione di Francesco Massara che offrono dei contributi interessanti sugli aspetti generali del retail del futuro.

Assunti di partenza
L’assunto di base è che il retailer dovrà diventare, oltre ad essere un produttore e un distributore di prodotti e servizi, anche un collettore e un generatore di dati. L’implicazione più significativa per affermare questo fatto sarà la modifica della governance. Le nuove figure rilevanti per istituire questi nuovi processi saranno il Chief Digital Officer, Chief Information Officer e il Chief Sustenibility Officer oltre alla figura del Chief Marketing Officer. L’agenda del CdA e del CEO dovrà essere aggiornata e ampliata con questi nuovi argomenti che toccano le priorità strategiche delle aree R&D, innovazione, diversità, diversificazione e ovviamente quelle primarie del brand, del prodotto, della distribuzione e della supply-chain.
Altri passaggi centrali:

  • ri-partire dai codici evolutivi che, di fatto, manifestano lo spirito del cambiamento. Le parole chiave che ho identificato sono: armonico, sincrono, circolare, connesso, co-creativo, centripeto, collaborativo, responsabile, trasparente, umano e analitico;
  •  ri-pensare il processo decisionale – data&analitics strategic governance – tramite una raccolta organizzata e processata di informazioni e dati provenienti dal mercato;
  • ri-configurare le priorità commerciali e distributive in un’ottica digitale e tecnologica rafforzando le coerenze più realizzabili nel breve periodo;
  • ri-uniformare l’organizzazione a un elevato rapporto one2one tra il brand e il consumatore adeguando l’organizzazione al nuovo cambio di rotta e iniziando la fase di sperimentazione e di implementazione del rinnovato modello di business;
  • rispettare e sviluppare un senso di responsabilità maggiore per l’impatto ambientale a tutti i livelli dell’impresa.

Conclusione
La possibile conclusione è fluida, quindi in divenire. L’idea che mi sono fatto è che uno degli scenari possibili possa essere una nuova era – neoRetail – nella quale il retail futuribile vedrà una forte eredità con il passato, ma svilupperà una nuova arena competitiva popolata da una generazione di aziende fortemente informatizzate, digitalizzate e guidate da princìpi di sostenibilità ambientale e sociale. Essenzialmente, ci sono delle traiettorie di sviluppo da tenere sotto controllo e ho evidenziato tre linee di tendenza. 1) Dematerializzazione del tempo e dello spazio commerciale. Le nuove tecnologie fortemente immersive multi dimensionali, che combinano più applicazioni, rappresenteranno il contesto nel quale l’azione dell’acquisto viene dematerializzata rispetto alla fisicità di un luogo e di un momento specifico. Il tempo e lo spazio diventano infiniti, il dove e il quando non influiscono sugli acquisti e sui consumi. 2) Realtà della marca. Le nuove soluzioni digitali immersive, virtuali e virali in cui i brand, i prodotti, le storie, le identità, i servizi, i venditori, le fabbriche, costruiranno insieme una nuova fisionomia di realtà equivalente a quella fisica, ma che sarà di fatto un solo insieme. 3) Partecipazione. Le precedenti tendenze necessitano di uno spirito esecutivo rinnovato e maggiormente cooperativo – empowerment – nel quale le funzioni aziendali elevino la semplice collaborazione a una partecipazione più efficace che connetta diverse discipline, conoscenze e competenze.
Il metaverso è la modalità che sostanzialmente rappresenta meglio queste linee di tendenza. Il suo successo consisterà nel dimostrare la reale potenzialità di convertire vendite e di diventare un formato di vendita performante: se non dovesse essere considerato in questo modo diventerà uno strumento di comunicazione per la diffusione di contenuti.

Emanuele Sacerdote

 

 




VERSO LA RECESSIONE?

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La guerra in Ucraina non accenna a fermarsi. La Cina prosegue il lockdown delle sue principali città. Le statistiche iniziano a divenire “pesanti” riguardo alla frenata degli scambi internazionali e alla riduzione della crescita economica. Le borse di tutto il mondo continuano a scendere da piu di tre settimane e, soprattutto: le banche centrali, la banca mondiale e il fondo monetario internazionale lanciano un vero e proprio allarme riguardo un’inflazione oramai palesemente fuori controllo. È divenuto allora sempre più legittimo porsi questa scomoda questione: il mondo sta entrando in recessione? Ci sono molti elementi che lo possono far ritenere. La risposta però non è affatto scontata.

 

L‘ECONOMIA ITALIANA DIPENDE MOLTO DA QUELLA GLOBALE

L’Italia -per iniziare- nel primo trimestre del 2022 ha già innestato la retromarcia e probabilmente farà ancora peggio nel secondo “quarter”: accumuleremo cioè l’1% di decrescita nella prima metà dell’anno, poi si vedrà. Lo stesso vale per altri paesi dell’Eurozona. Ma quel che conta davvero sapere non è se l’Italia non cresce, bensì se le maggiori economie del mondo stanno rischiando una brusca frenata. La nostra economia in fondo è una variabile fortemente dipendente da ciò che accade altrove. Tanto per il turismo, il lusso e gli accessori che produciamo quanto per le esportazioni di componenti e impianti siderurgici, elettromeccanici e tecnologici che trainano buona parte del resto del Paese. Insomma se il mondo frena allora l’economia italiana può forse andare a rotoli, ma se l’economia globale “tira” difficilmente da noi andrà così male.

COSA PUÒ PORTARE IL MONDO IN RECESSIONE

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Ma perché l’economia globale è a rischio di recessione? Le cause non risiedono soltanto nei timori dell’inflazione e di allargamento del conflitto ucraino, (che peraltro non demordono e mantengono elevati i prezzi dell’energia) ma anche e soprattutto in quelli di un eccesso di zelo da parte delle banche centrali, e nell’ulteriore restrizione della disponibilità di semiconduttori e altri componenti che vengono prodotti in Asia, dove la pandemia continua a colpire, l’attività dei porti rallenta e i noli aumentano. In fondo l’inflazione nasce l’anno passato proprio da uno shock derivante dalla scarsità di offerta.

E questa volta le variabili appena citate potrebbero congiurare per un letale incremento del medesimo shock. La sola Russia infatti è esportatrice di moltissime risorse naturali, che adesso potrebbero scarseggiare.

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L’inflazione è dunque probabile che continuerà a erodere il potere d’acquisto delle classi sociali più deboli, anche per l’effetto-trascinamento: se soltanto taluni prezzi sono saliti presto (nei primi mesi dell’anno), si può ragionevolmente presumere che nel prosieguo anche altri prezzi si adegueranno ai rialzi, semplicemente perché lo fanno più lentamente. L’inflazione dei prezzi al consumo quindi (quella registrata dalla maggioranza delle statistiche) potrebbe continuare a crescere per qualche mese anche soltanto per effetto di quel trascinamento, anche se la frenata dell’economia mondiale inizia a portare al ribasso i prezzi delle materie prime.

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Al gracchiare delle cornacchie, che temono che la revisione di circa un punto delle previsioni di crescita economica del Fondo Monetario Internazionale sia un mero esercizio di eufemismo, si sono aggiunte le banche centrali occidentali, in particolare FED & ECB stanno facendo sapere di voler accrescere la stretta monetaria già pianificata in precedenza. Spesso in passato le recessioni economiche sono state provocate dalle banche centrali, con manovre maldestre, tardive o inopportune. E stavolta tardive lo sarebbero di sicuro, inopportune forse anche.

LE BANCHE CENTRALI POTREBBERO DARE IL “COLPO DI GRAZIA”

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In passato avevo accarezzato l’idea che le borse valori avrebbero potuto sì imbarcarsi un po’ (a causa della guerra e dell’inflazione galoppante) ma che dopo qualche tempo si sarebbero riprese brillantemente così come era successo un paio di anni fa, dopo la prima ondata Covid. Anche questa volta potrebbe accadere: se tra maggio e giugno la guerra trovasse una tregua e l’inflazione iniziasse a moderarsi, le borse potrebbero teoricamente riprendere la loro corsa, quantomeno nei comparti delle nuove tecnologie e della finanza (le prime perché ce n’è sempre più bisogno, la seconda perché il rialzo dei tassi d’interesse porta maggiori profitti).

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Solo teoricamente però, perché in questi giorni il mio pessimismo aumenta. Il rischio infatti non è soltanto quello di una probabile frenata della crescita economica globale, con l’Europa già tecnicamente in recessione, l’Asia che riduce le sue aspettative di sviluppo e l’America che al massimo non cresce. Il vero rischio è piuttosto un altro: quello di un eccesso di reazione da parte delle banche centrali che potrebbero far venire a scarseggiare la droga che ha sorretto nell’ultimo decennio l’economia mondiale: la liquidità.

Le banche centrali sono infatti assillate dall’essere rimaste tecnicamente molto indietro rispetto alla “curva dei tassi” (la funzione di crescita degli interessi man mano che si allungano le scadenze dei titoli a reddito fisso) e vorrebbero recuperare terreno, innalzando i tassi d’interesse a breve in modo più repentino di quanto in precedenza pianificato. Le principali borse valori ne hanno profondamente risentito e rischiano di proseguire la loro discesa proprio in funzione dell’attesa di cospicui rialzi dei tassi.

LE BORSE SONO ANCORA SOPRAVVALUTATE

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Quel che è accaduto al valore di borsa di Netflix infatti dovrebbe far riflettere: se una leggera correzione delle vendite di abbonamenti ha provocato la riduzione della capitalizzazione di borsa del titolo di circa un terzo del valore era probabilmente perché buona parte dei titoli più “alla moda” (i cosiddetti “meme”stocks) scontavano nelle loro valutazioni ancora un lungo periodo di crescita degli utili e un altrettanto lungo periodo di tassi d’interesse bassi. Ora che i tassi rischiano di crescere bruscamente e il mondo di entrare nuovamente in recessione il rischio è quello di un brutto risveglio alla realtà per buona parte dei titoli che compongono i principali panieri di titoli che segnano gli indici di borsa! E ovviamente se le borse scendono anche la ricchezza disponibile per consumi e investimenti si riduce, con il rischio di un avvitamento dell’economia reale, così come era successo nel 2008-2009.

LA GUERRA NON È PIÙ SOLTANTO “FREDDA”!

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Altro motivo di grande apprensione è il rischio di estensione del conflitto ucraino ad una parte dell’Europa e a un confronto molto più serrato dell’Occidente con la Cina, il grande convitato di pietra dei tavoli negoziali di pace. La Cina fino ad oggi si è limitata a tenersi fuori dalla disputa, pur denunciando le indebite pressioni americane sull’Ucraina quali “moventi” del conflitto e pur declinando la propria adesione alle sanzioni nei confronti della Russia. Ma è possibile che l’attuale leader cinese XI Jin Ping, stia soltanto temporeggiando, in attesa della data del congresso del Partito che lo deve riconfermare, prima di prendere una posizione più decisa in politica estera.

La Russia dal canto suo in Ucraina ha sinora impiegato soltanto l’1% del proprio potenziale militare e l’avvicinarsi della scadenza che si è sempre data per l’ “operazione Ucraina” (il 9 maggio, giorno della vittoria nella seconda guerra mondiale, celebrata da allora come festa nazionale) potrebbe spingerla ad un inasprimento delle manovre militari. La NATO poi non ha facilitato in alcun modo i negoziati di pace, anzi! E’ stato provato che è partito da una sua base in Romania il missile che ha affondato la nave militare Moskva al largo dell’Ucraina: se volevamo la scintilla che può far deflagrare il conflitto adesso c’è l’abbiamo! D’altra parte la NATO non è un’organizzazione militare democratica: ciò che accade dalle sue basi è notorio che viene deciso soltanto a Washington. E quest’ultima non sembra molto interessata alla pace.

Non a caso l’esasperazione di questo conflitto ha portato non soltanto l’Ungheria, ma adesso anche Francia e Germania, a dissociarsi pubblicamente dalla “linea dura“ politico-militare espressa da Londra, Washington e Roma. Una linea di dura battaglia e di grande fornitura di armi “strategiche” (cioè a lunga gittata e che potrebbero colpire Mosca) alle armate che sono oramai soltanto nominalmente ucraine, ma che in realtà sono “guidate” da un notevole numero di consiglieri militari NATO. E al riguardo è un segnale inquietante il fatto che sia passata totalmente in sordina l’apertura di Putin della scorsa settimana ad un tavolo negoziale di pace: nessuno gli ha nemmeno risposto e nessuna testata giornalistica italiana l’ha riportata! Cosa che la dice lunga circa l’ “indipendenza” dei media nostrani su ciò che sta accadendo.

L’EUROPA È QUELLA CHE RISCHIA DI PIÙ

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Il fatto che mezza Europa (e quella che conta di più) si dissoci formalmente dalla linea della NATO in Ucraina (chiedendo a gran voce di riaprire i negoziati di pace), pur nel silenzio di molti media, rischia di delegittimare la già scarsa influenza dei vertici europei e di mettere a nudo la dura realtà di un comando molto americano e assai poco democratico della stessa alleanza atlantica. Ma fa anche ben sperare in un ammorbidimento -almeno tattico- della linea dura sinora espressa senza che nessuno fiatasse. Qualora la Russia dovesse rispondere alle provocazioni che partono dalle basi militari NATO, sarebbe coinvolta l’Europa stessa, dove è situata la maggioranza di quelle basi, oltre alla Turchia che ha già abbandonato ogni ipotesi di tavolo negoziale arrivando addirittura a vietare il sorvolo dei propri territori ai velivoli russi!

Qualsiasi guerra infatti è sempre stata originata da interessi economici, oltre che politici. E questa guerra non fa eccezione. Ci sono giganteschi interessi economici dietro a chi soffia sul fuoco dell’estensione del conflitto, a partire dalle grandi multinazionali che si occupano di energia e da quelle che producono armamenti. Ma mentre in passato le aree di conflitto erano sempre state geograficamente limitate a specifiche aree asiatiche o mediorientali, oggi la minaccia di una guerra globale termonucleare è divenuta più concreta, e dipende dal fatto che la Russia ha sempre parlato chiaro: se sarà colpita risponderà ai “mandanti” (cioè anche oltre i Balcani e oltre Atlantico) e non soltanto ai meri esecutori di eventuali attacchi.

LA STAGFLAZIONE PUÒ IMPEDIRE IL RIMBALZO DELLE BORSE

Un rischio come questo ne rilancia un altro: quello di avvitarci in una “stagflazione”, cioè quella micidiale combinazione di inflazione dei prezzi e stagnazione dell’economia. Di fronte a tale scenario occorre tenere conto di alcune dinamiche -scontate ma pur sempre molto importanti- che intervengono quando l’inflazione erode il potere d’acquisto delle famiglie e la recessione comporta la riduzione degli investimenti tecnologici e produttivi: i consumi scendono, le vendite di impianti vengono rinviate, le esportazioni si riducono e in generale i profitti delle aziende languono. Se ci aggiungiamo il fatto che quasi certamente i tassi d’interesse continueranno a salire, ecco che il valore attuale dei flussi di cassa attesi dalle imprese (elemento chiave nella valutazione delle stesse) non può che ridursi. E le quotazioni delle borse non potranno non tenerne conto, regredendo a loro volta. Forse anche decisamente.

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Ecco dunque spiegati i timori di una mancata ripetizione del “rimbalzo” delle borse che si era visto subito dopo l’attenuarsi dell’incubo pandemico, a metà del 2020. Se mancheranno i “fondamentali” non si capisce su quali basi le borse potrebbero riuscire a rimbalzare! Si potrebbe obiettare che la liquidità in circolazione potrebbe restare ancora abbondante, e che peraltro essa viene alimentata non soltanto dalle banche centrali, ma anche dal riacuirsi di quel fenomeno che gli americani avevano chiamato in passato “savings glut” (cioè congestione dei risparmi) dal momento che la maggior prudenza dei risparmiatori occidentali li spinge ad incrementare le loro riserve monetarie e a trovare relativamente poche opportunità dove investire, restando per lo più liquidi.

GLI SQUILIBRI VALUTARI DANNEGGIANO I PAESI EMERGENTI

Dunque potrebbe essere l’abbondanza di liquidità nonostante tutto che salverà le borse? Dipende, principalmente da ciò che faranno le banche centrali: se la recessione in arrivo le riporterà alla moderazione è possibile. Ma anche qui occorre rilevare due atteggiamenti molto diversi nel mondo: da un lato ci sono le banche centrali di Cina, India e Giappone che propendono verso una linea morbida per evitare di accentuare i problemi congiunturali. Dall’altro lato ci sono quelle del Regno Unito, dell’America e adesso anche dell’Eurozona, che invece meditano un’accentuazione dei rialzi dei tassi di interesse. Il problema è che se soltanto una parte delle grandi economie mantengono un atteggiamento espansivo delle proprie politiche monetarie allora intervengono grandi squilibri nei livelli di cambio delle valute, a favore di chi rialza di più i tassi (cosa che in parte sta già avvenendo). Costringendo chi non li voleva rialzare ad adeguarsi giocoforza.

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Inutile ricordare quanto il Dollaro forte può danneggiare le economie emergenti, che restano fortemente dipendenti da questa valuta per i prestiti internazionali ottenuti, ma anche per il finanziamento delle infrastrutture. Né può aiutare il fatto che le esportazioni di materie prime e semilavorati avvengono quasi sempre in Dollari, poiché il controllo di queste ultime è spesso appannaggio delle grandi multinazionali, con poche eccezioni. Dunque gli squilibri valutari possono danneggiare le economie emergenti le quali a loro volta contribuiscono non poco alla crescita economica globale, che spesso si basa più sull’andamento della demografia (che cresce soprattutto nelle aree più svantaggiate) di quanto possa basarsi sulla produttività del lavoro.

QUALI SETTORI ECONOMICI ANDRANNO MEGLIO?

In caso di grave recessione globale saranno quasi soltanto i titoli anticiclici (cioé i beni di prima necessità, gli alimentari e i farmaceutici) a limitare i danni. Tutti gli altri sconteranno il combinato effetto delle minori vendite, della decrescita dei margini, dell’incremento dei tassi e della riduzione degli investimenti. Se invece le tensioni si allenteranno, per lo scampato pericolo di un nuovo conflitto mondiale, o per la riduzione dei costi energetici, o ancora perché la minaccia di una nuova ondata pandemica regredirà, allora la congiuntura economica potrebbe evolvere in senso positivo nella seconda parte dell’anno.

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In quest’ultimo caso saranno gli investimenti produttivi per la rilocalizzazione (reshoring) delle produzioni strategiche e quelli per incrementare la produzione di energie da fonti rinnovabili a guidare la ripresa, anche perché l’orientamento strategico resterà il medesimo e si tornerà a parlare dell’esigenza di ridurre le emissioni nocive.

Però anche nel migliore degli scenari è probabile che l’inflazione continuerà a mordere ugualmente e resta altresì probabile che le tensioni geopolitiche permangano ancora molto a lungo. Per questi motivi anche caso si riesca scansare il pericolo di una recessione globale, i portafogli azionari degli investitori continueranno probabilmente a ruotare, privilegiando i comparti energetici e quelli finanziari. In particolare le assicurazioni che potranno imporre rialzi dei prezzi delle polizze forse più che proporzionali all’incremento dei rischi e in generale tutti gli operatori che potranno beneficiare dell’incremento dei tassi di interesse potranno accrescere i propri margini.

I conti economici delle banche potranno riprendersi altrettanto in funzione dei maggiori margini che derivano da interessi comunque in crescita, ma sicuramente dovranno prima scontare l’ennesima ondata di insolvenze derivanti dall’attuale periodo di incertezza. Dunque per le aziende di grande dimensione il comparto finanziario potrebbe essere quello che guadagna di più in caso di mancata recessione mondiale (perché i tassi continueranno a salire) o quello che perde di meno, in caso di profonda recessione.

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Qualora infine la recessione sarà evitata non escluderei un ritorno di fiamma degli investitori per le nuove tecnologie, non per tutte però e nemmeno a qualsiasi prezzo: saranno più beneficiati probabilmente i settori legati alla difesa, al risparmio energetico e alla ricerca chimica, nonché ovviamente all’intelligenza artificiale. Potranno invece (continuare a) farne le spese i settori dell’entertainment, del commercio elettronico, degli accessori e i social networks, perché considerati troppo ciclici. Difficile pensare bene invece (almeno nel medio termine) delle public utilities, della logistica, dei trasporti e delle comunicazioni.

COMUNQUE VADA IL MONDO ACCELERA

Se anche il mondo quindi non sta entrando in recessione, lo scenario globale non sembra nemmeno dei più rosei. Gli sconvolgimenti in atto sono comunque di enorme portata. Potranno forse riuscire a non risultare particolarmente dannosi per l’economia globale, ma per certo provocano sin da oggi una brusca accelerazione delle evoluzioni in corso, così come è successo con la pandemia.

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E se il mondo accelera le sue evoluzioni, ci saranno come sempre molti vincitori e molti vinti. Molti settori economici raggiungeranno la maturità o il declino più in fretta di come si sarebbe potuto supporre, altri oggi appena agli albori inizieranno a primeggiare. Come sempre in questi casi l’importante è non restare con le mani in mano: se arrivano le onde è meglio trovare una qualche supporto per tentare di restarvi a cavallo, piuttosto che farsene travolgere. E quel supporto -invariabilmente- sono le disponibilità di capitale, di cui ci sarà sempre più bisogno.

Stefano di Tommaso




ATLANTISMO E GAS AFRICANO

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Vista la crescente contrapposizione del nostro premier con la Russia, riuscirà l’Italia a fare a meno del gas di Putin? Draghi sembra molto impegnato e sta partendo per un lungo giro dell’Africa con l’obiettivo dichiarato di ottenere forniture alternative. Ma è oggettivamente molto difficile sostituire le forniture russe, per l’intera Europa. Che infatti si chiede se vale la pena sostenere le posizioni oltranziste di Draghi. Nel frattempo la bolletta energetica sale e le nostre riserve rischiano di terminare a Luglio…

 

L’Italia come sappiamo tutti è forse il paese europeo più esposto nel sostenere il governo ucraino contro la Federazione Russa. Il nostro presidente del consiglio ha addirittura rivendicato come sua l’idea di congelare le riserve russe di dollari e oro in America (che ovviamente non se l’è fatto ripetere due volte) ed è arrivato a suggellare con il segreto di stato il valore, l’entità e l’assortimento di armamenti inviati in dono dall’Italia a Kiev per contrastare l’armata rossa.

Tutti ricordano poi i discutibili sequestri ai cittadini russi in Italia di ville, auto, barche e disponibilità finanziarie. Sequestri discutibili per il semplice motivo che non esistono leggi del nostro stato che possano autorizzarli sulla sola base dell’appartenenza etnica! Si può dunque immaginare che non avranno lunga vita (e nel frattempo qualche danno al nostro turismo ovviamente l’hanno procurato ugualmente).

L’Italia insomma, grazie ad un governo che più atlantista non si può immaginare, è in prima linea contro gli “invasori” russi. E’ un dato di fatto, non un’opinione. Ma ovviamente c’è un prezzo pesante da sostenere su questa linea, soprattutto adesso che nessun paese occidentale sembra più volere un compromesso e la pace ma anzi, si rischia una decisa escalation militare.

Se vogliamo seriamente schierarci contro la Russia infatti, non abbiamo soltanto il problema dell’imporre un doloroso stop alle numerose nostre imprese che vivevano delle loro esportazioni verso Mosca, bensì c’è un altro piccolissimo problema da risolvere quando si vuole avere una politica estera così aggressiva nei confronti del maggior fornitore di risorse energetiche del nostro paese: quello di smarcare l’attuale dipendenza dalle sue forniture, che peraltro alcuni altri membri dell’Unione Europea (come l’Austria ad esempio, ma anche come l’Ungheria e sinanco la Germania) oggi appaiono molto più “laici” nell’andare ad accaparrarsi, guerra o non guerra.

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E qui alcuni nodi vengono al pettine: ci sarebbero grandi giacimenti in territorio italiano, oggi sfruttati soltanto per il 6%. Ma i nostri governi hanno più volte deciso di non voler fare di più. Dai tempi della benzina nazionale “Supercortemaggiore” che oramai nessuno ricorda nemmeno. Addirittura il referendum “no trivelle” (che si riferiva principalmente all’estrazione di gas metano) risale soltanto a 6 anni fa: troppo presto per fare un deciso dietrofront che assomiglierebbe ad uno smacco per i vari ambientalisti e intellettuali di certo ambiente.

Ci sarebbe poi l’energia elettrica prodotta con le centrali nucleari, alcune delle quali devono ancora iniziare ad essere smantellate. Ma di nuovo sarebbe uno smacco per quella politica, non importa il fatto che la maggior parte delle centrali dei nostri confinanti siano state posizionate proprio vicino ai confini. Dunque non possiamo contare nemmeno sul nucleare italiano, anzi! (nell’immagine qui sotto le centrali nucleari presenti in Europa)

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E poi il problema indubbiamente l’abbiamo con il gas, sia perché il petrolio con le navi arriverà sempre (magari il medesimo estratto in Siberia ma fatto prima passare dai porti asiatici offshore), che perché gran parte degli stabilimenti industriali e delle civili abitazioni sono collegate a reti di distribuzione del gas che non sono agevolmente sostituibili con altri combustibili. E quando anche l’intero “bel paese” fosse unitariamente allineato nella ferrea volontà di estrarre tutto il gas possibile dal nostro sottosuolo, passerebbero comunque anni prima di poterne ottenere quantità adeguate al nostro fabbisogno.

Ma sappiamo che la politica de’noantri non ha alcuna lungimiranza in quanto alle scelte strategiche del paese, semplicemente perché le subisce dall’estero. Ci rimangono dunque le navi gasiere americane a caro prezzo (ma prima dovremmo avere almeno i rigassificatori, e anche quelli erano oggetto di ludibrio da parte degli ambientalisti al governo, fino all’altro ieri). Oppure gli altri “vicini di casa”, cioè i paesi africani, che indubbiamente hanno grandi riserve energetiche non sfruttate da andare a prendere.

Cosa che non si può dire che Draghi non stia tentando. La settimana prossima infatti partirà per un vero e proprio tour africano: Congo, Angola e Mozambico. Motivo del viaggio, stringere accordi per la fornitura di altro gas, dopo il mezzo fiasco algerino e l’autogol politico con l’Egitto. Ma è saggio ed è sicuro puntare su Paesi africani dove è notorio il rischio di instabilità interna e con forti legami storici con Mosca? Ai tempi della guerra fredda al fianco dell’Unione Sovietica infatti erano proprio Algeria, Angola e Etiopia. E ancora oggi molti paesi africani dipendono dal grano russo per sfamare la popolazione. E che siano ancora legati e riconoscenti nei confronti della Russia lo si è visto con la loro assenza al voto delle Nazioni Unite per la condanna dell’invasione Ucraina.

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Ma se anche Draghi dovesse trovare i tappeti rossi al suo arrivo e dovesse ricevere la più grande apertura di questi paese a sostenerci con forniture mai viste in precedenza, resterebbero ancora un bel grattacapo: le reti fisiche per fare arrivare il gas dalle nostre parti appaiono decisamente insufficienti. Cioè mancano le infrastrutture per trasportarlo. Ad esempio la Nigeria, di recente, ha siglato un protocollo d’intesa con l’Algeria per la costruzione del gasdotto transahariano, un’opera lunga 614 chilometri che dovrebbe essere collegata all’Europa. Ma la prima volta che si è parlato del metanodotto in questione è stata negli anni ’70. E i lavori non sono ancora iniziati.

E poi per il trasporto del gas africano sono necessari investimenti significativi. Il che, come ha giustamente scritto Al Jazeera, equivale a una pioggia di capitali che al momento non si capisce da dove potrebbero arrivare. Così come ha riportato la Rystad energy (società di ricerca con sede a Oslo, in Norvegia) in un suo recente studio: «i progetti deepwater nell’Africa subsahariana sono rischiosi e possono essere oggetto di ritardi o mancate autorizzazioni a causa degli elevati costi di sviluppo, delle difficoltà di accesso ai finanziamenti, dei problemi con i regimi fiscali e di altri rischi». Tradotto: il gas africano, per ora, resterà a lungo sotto terra. Peccato inoltre che le quantità potenzialmente dispacciabili dall’Africa non potranno mai soddisfare la fornitura di 150 – 190 miliardi di metri cubi l’anno che Mosca usava inviare all’Europa. Non è un dettaglio da poco. Nell’immagine qui sotto le infrastrutture di trasporto africane attualmente esistenti.

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Dunque nemmeno con il gas africano ce la caveremmo nel sostituire l’oro “azzurro” che oggi arriva ancora dalla Russia. Alla luce di queste considerazioni allora viene da chiedersi: Draghi sta facendo una politica di lunghissimo o di brevissimo periodo? Se Draghi stesse lavorando per il benessere energetico italiano dei prossimi cinque o dieci anni potremmo ben comprendere la necessità di diversificare le fonti e le provenienze geografiche e, per ciascuna di esse, quella di progettare nuove grandi infrastrutture di trasporto.

Ma la sensazione è tutt’altra. E’ quella che Draghi stia sì facendo questo “tour” soltanto per mostrare a tutti la sua determinazione, in realtà ben sapendo che a pochi mesi dalle sue -ampiamente annunciate- dimissioni da premier, egli stia cercando di mantenere la propria ferrea linea atlantista proprio quando una serie di altri governi europei, con ben più realismo del nostro, iniziano a dichiarare dei distinguo nel proseguire verso la drastica riduzione delle forniture russe. Tra pochi giorni è in arrivo l’ennesimo pacchetto di sanzioni deciso da Washington, le quali sanciranno l’abbandono di qualsiasi posizione di dialogo con Mosca.

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E’ chiaro ed evidente infatti che la ”linea dura” nei confronti della Russia la stanno pagando praticamente soltanto gli stati europei. E che questo alimenta non pochi malumori. Ulteriori restrizioni nelle forniture non porterebbero soltanto un impoverimento delle tasche dei consumatori italiani, bensì anche dei probabili arresti di talune produzioni eccessivamente energivore.

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Uno scenario da “stagflazione” conclamata (cioè stagnazione economica e inflazione dei prezzi al tempo stesso), insomma, che molti paesi nord-europei vorrebbero evitare, cercando di non accentuare lo scontro. Draghi dal canto suo invece tira dritto e, nella posizione di premier, temiamo pensi soltanto a fare le valigie. Si mormora un suo nuovo ruolo a capo dell’alleanza militare atlantica. E sostanzialmente di un addio alla politica italiana. Altro allora che visione di lungo termine! Di brevissimo, casomai.

Stefano di Tommaso