GUERRA E INFLAZIONE CAMBIANO IL MONDO

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Cosa succederà con una guerra che non accenna ancora a fermarsi e dopo gli shock da pandemia e inflazione? È probabile che ancora una volta i cambiamenti epocali accelereranno, l’umanità si spaccherà in blocchi geografici contrapposti e la democrazia finirà sotto lo zerbino. L’Europa sembra quella che avrà più da perdere da tale evoluzione dello scenario, schiacciata sulle posizioni dell’America, incapace di completare la sua unificazione e alle prese con scarse performances dei settori industriali tradizionali. Chi ci guadagnerà sono probabilmente America e Inghilterra, ma anche Cina, India e Giappone.

 

CAMBIANO LE ABITUDINI DELLA GENTE

L’Occidente è così sconvolto dai recenti eventi, dai vertiginosi incrementi dei costi, dalle sempre più ampie divaricazioni con il passato e dal confronto impietoso con sistemi geopolitici diversi dal nostro (meno democratici, ad esempio), che stavolta sembra essere caduto in una profonda crisi di identità. Inizia a prevalere l’idea che la guerra sarà lunga e il timore che le sanzioni abbiamo soltanto fatto il solletico.

Quel che rileva di più è tuttavia che gli ultimi terribili eventi determinano un’accelerazione dei cambiamenti del mondo come lo conoscevamo fino a ieri. Non soltanto a causa delle recenti emergenze sanitarie e umanitarie, della progressiva digitalizzazione, della contraddizione tra la necessità di procedere verso la transizione energetica e quella di produrre più energia. Non soltanto per la conseguenza di dover modificare le filiere produttive e distributive dell’industria a seguito dei nuovi equilibri geopolitici, ma anche per le conseguenze di tutto ciò nelle abitudini della gente, nei relativi consumi e nel calo del potere d’acquisto implicito nell’inflazione, e per le pesanti conseguenze a livello economico, industriale e finanziario per la parte più tradizionale delle attività economiche.

Ciò è tanto più vero per l’Europa, dove negli ultimi anni l’industria non si è evoluta abbastanza rispetto a quanto è successo per l’America e per i paesi asiatici in generale. Ma è soprattutto l’importazione forzosa del modello culturale americano che ci sta spingendo verso un profondo cambiamento delle abitudini e dei consumi, che sta sconvolgendo le attività economiche pre-esistenti, accentuando il solco tra le generazioni.

LE NUOVE GENERAZIONI E IL LORO APPROCCIO AL LAVORO

Il divario più radicale che stiamo vivendo in Europa è forse quello con il nostro recente passato, con l’assottigliamento della presenza dello Stato nella previdenza, nell’assistenza socio-sanitaria, nell’istruzione e nel lavoro. Ma anche con il venir meno delle precedenti modalità di interazione sociale. Il cittadino europeo medio fino a ieri poteva contare su una pensione decente, su un servizio sanitario nazionale più o meno completo, su una limitata esigenza di finanziare l’istruzione dei propri figli (perché pagata dallo Stato) ed era inoltre poco avvezzo a cambiare radicalmente datore di lavoro, luogo di residenza e attività. Oggi tutto questo sta cambiando. Oggi anche l’ultimo operaio deve eseguire i suoi compiti principalmente attraverso un’interfaccia digitale, deve adattarsi a continui e profondi cambiamenti nelle modalità di lavoro, non può più contare molto sul trattamento di fine rapporto per acquistare la propria abitazione (nel 70% dei casi in Italia il cittadino ne è proprietario) e non può contare troppo sull’entità della pensione di Stato per sopravvivere al termine della vita lavorativa.

Oggi che gli standard di lavoro europei si avvicinano in fretta a quelli americani, il cittadino medio del vecchio continente sembra però più povero ma anche meno pronto al cambiamento e alla possibilità di assumere elevati rischi nella propria attività. il rapido convergere verso una situazione generale di maggior precarietà spinge perciò innanzitutto le famiglie a ridurre la spesa per consumi. È notizia fresca ad esempio quella che la Apple prevede di produrre in questo trimestre circa il 20% in meno di iPhone SE (il più economico) rispetto a quanto originariamente preventivato. Lo riferisce Nikkei Asia, spiegando che si tratta di uno dei primi segnali che la guerra in Ucraina e l’inflazione incombente hanno iniziato a intaccare la domanda di elettronica di consumo. Stessa sorte anche per le cuffie AirPods.

Come era successo con i lockdown, anche stavolta si pensa di restare più in casa e di utilizzare più contenuti digitali in alternativa ai servizi tradizionali. Ma stavolta non è per obbligo, bensì per risparmiare. Si esce cioè, si viaggia e si acquista di meno. Anche perché il lavoro spesso è da eseguirsi ”online” oppure è saltuario o precario, o privo di un regolare contratto di assunzione. Tutti stanno pensando di fare qualcosa per risparmiare, abbassare i costi fissi e impegnarsi per spese cospicue. I tragici eventi che stiamo vivendo lasciano insomma meno fiducia nel futuro e sulla capacità di sostentamento delle famiglie nel medio termine. La sensazione è che, come per la pandemia, guerra e inflazione possano far accelerare alcune importanti discontinuità nello stile di vita, destinate a non tornare più indietro.

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CAMBIANO ANCHE LE IMPRESE E I SERVIZI

Anche per le piccole e medie imprese le modalità di accesso alle risorse economiche, così come quelle di impiego delle medesime, stanno mutando molto in fretta. La recessione che in Italia è già in corso, tende a rarefare il credito bancario tradizionale, spingendo che ne necessita verso nuove forme di finanziamento quali il crowdfunding, i minibond, i venture capital e la borsa delle piccole e medie imprese. Va però da se che le attività produttive tradizionali saranno le meno favorite da queste nuove modalità di finanza.

Tendono di conseguenza a modificarsi non soltanto le modalità di produzione e consumo, ma anche le preferenze di investimento. I nuovi risparmiatori spesso preferiscono mantenere liquidità sul conto corrente o investire direttamente in criptovalute e sul trading azionario, piuttosto che acquisire piccoli immobili o sottoscrivere polizze assicurative e fondi comuni di investimento.

Cambiano anche le modalità di finanziamento delle attività economiche (il timore del rialzo dei tassi riduce l’appetito per mutui e finanziamenti) e le metriche del successo nel business (si privilegiano i risultati più a breve termine). Tendono poi a scomparire le imprese più piccole e le attività più tradizionali, soppiantate da nuove reti di collaborazione, dal lavoro remoto, o da network di persone, mentre le imprese di media dimensione, magari ancora a capitalismo familiare, vengono sospinte ad aprire a terzi il proprio capitale, a tentare il salto dimensionale o rischiano di finire in ristrutturazione.

CAMBIA IL MERCATO DEL LAVORO

Sempre più persone dunque perdono il vecchio lavoro e accettano ruoli esterni ed incerti pur di trovare un’occupazione alternativa al posto fisso che non c’è più, anticipando nei fatti una liberalizzazione del mercato del lavoro che nel diritto ancora non si è materializzata se non attraverso l’introduzione delle agenzie per il lavoro interinale. La sfera economica è oggi sempre più dominata da grandi imprese multinazionali che modificano o condizionano i precedenti standard, incentivano o provocano cambiamenti nelle abitudini, nei consumi, nel lavoro, nell’impiego del tempo libero e nella formazione, investono pesantemente nelle nuove tecnologie e nella comunicazione, e arrivano a creare ecosistemi proprietari, sociali e culturali, trasversali a quelli pubblici.

Le imprese di più piccola dimensione ne sono perciò fortemente condizionate, arrivando spesso ad essere condannate a scegliere tra il declino e il dover scommettere su un’innovazione feroce (con tutti i rischi del caso), cercando di sperimentare nuove modalità produttive e commerciali, o accettando (più o meno passivamente) di assottigliare i margini di profitto, la dotazione di capitale, la qualità delle risorse umane, e la capacità di accesso ai mercati. Riducendo di conseguenza anche le loro speranze di sopravvivenza. Quasi ogni settore economico sta vivendo una fase di concentrazione su pochi grandi operatori che dominano la scena.

LE ISTITUZIONI VOGLIONO COMPIACERE IL GRANDE CAPITALE

In passato la democrazia (anche finanziaria), la coscienza collettiva e il substrato politico-sociale spingevano i partiti le istituzioni pubbliche a condannare lo sfruttamento di posizioni dominanti e a limitare l’influenza dell’industria e della finanza nella sfera politica. Oggi molte istituzioni e presidi democratici esistono ancora, ma sono spesso svuotati di contenuti, così come la politica e le risorse pubbliche hanno minori risorse e capacità di incidere nella sfera economica e nelle scelte culturali, industriali, sociali e tecnologiche sono dunque spesso al rimorchio delle grandi multinazionali.

Come le industrie farmaceutiche influenzano pesantemente la ricerca e la formazione universitaria, così le multinazionali della tecnologia influenzano la scuola e la formazione professionale e la grande finanza spesso sostiene la politica e i mezzi di comunicazione di massa. Quando perciò ci chiediamo come interpretare la super-inflazione appena arrivata, non possiamo non ricordare il fatto che persino le banche centrali sono state forse eccessivamente influenzate dalla necessità di compiacere i grandi operatori finanziari internazionali arrivando, come è successo nell’ultimo decennio, ad immettere sul mercato forse troppa liquidità, che non poteva non erodere il contenuto di riserva di valore della moneta.

Anche dal punto di vista delle grandi filiere industriali, a partire dall’estrazione delle materie prime, dalla produzione dei semi-lavorati e dalla produzione di energia sino ad arrivare agli impianti di produzione e ai sistemi di distribuzione, i grandi conglomerati economici hanno spesso soppiantato la mano pubblica e le politiche economiche nazionali e oggi non c’è troppo da stupirsi se, arrivando a controllare buona parte dei sistemi economici e con l’ausilio dei lockdown, hanno trovato il modo di beneficiare della riduzione dell’offerta di materie prime e risorse naturali facendone crescere i prezzi, assicurandosi così stratosferici profitti e incrementando la concentrazione della ricchezza mondiale in poche potentissime mani.

LE ECONOMIE OCCIDENTALI SI ALLONTANANO DALLE ORIENTALI

Se fino a ieri le grandi imprese multinazionali avevano cavalcato l’innovazione tecnologica e avevano così assicurato all’Occidente decenni di deflazione dei prezzi, riducendo i costi di produzione e assicurandosi l’approvvigionamento di risorse e lavoro umano ai costi più bassi possibili, oggi quel modello economico globalizzato sta arrivando ad una svolta anche perché una parte consistente della popolazione umana del pianeta vive scelte politiche diverse da quelle di uniformarsi alle esigenze del grande capitalismo occidentale.

Non c’è dunque troppo da stupirsi se in quella parte del mondo dove la ricchezza si è maggiormente concentrata in poche potenti mani (l’Occidente) è oggi più forte l’inflazione e sono più costosi i fattori di produzione, a partire dalle risorse umane, mentre il controllo delle grandi risorse naturali, di buona parte delle materie prime e di una parte dei combustibili fossili alimenta le più forti tensioni geopolitiche dalla seconda guerra mondiale ai nostri giorni.

I principali regimi politici orientali sembrano basarsi meno sui sistemi capitalistici occidentali, pur esprimendo ancor meno democrazia che dalle nostre parti. In Russia, in Cina, nel sud-est asiatico e in parte anche in India è tuttavia ancora la mano pubblica a prevalere su quella privata. Le grandi imprese a partecipazione statale controllano ancora il mercato e sono a loro volta controllate dai regimi politici. E anche per questo motivo non sono del tutto allineate con gli interessi espressi dal capitalismo occidentale. Questi sistemi hanno però indubbiamente attutito le conseguenze più estreme della globalizzazione sulla popolazione, e oggi iniziano a contrapporvisi. Hanno anche permesso in misura minore alle proprie banche centrali l’utilizzo dello strumento delle facilitazioni monetarie, con il risultato che si ritrovano minor emergenza inflazionistica.

LE BANCHE CENTRALI HANNO PERSO IL CONTROLLO

Non c’è da stupirsi se le banche centrali occidentali (Giappone compreso), dopo aver inflazionato le economie occidentali con forti iniezioni di liquidità per quasi un ventennio, oggi non riescono a controllare la conseguente svalutazione delle proprie divise valutarie. Anche perché le politiche economiche prevalenti nell’ultimo mezzo secolo in Occidente hanno comportato la necessità di assicurare forti politiche di assistenza sociale, con la conseguenza di un crescente deficit dei bilanci pubblici. I deficit sono stati colmati non con crescenti tassazioni bensì con maggiori emissioni di titoli del debito pubblico collocati sui mercati finanziari, le cui quotazioni sono state sostenute di necessità dall’intervento delle banche centrali, che ne hanno acquistato grandi quantità.

Ci sono stati anche paesi occidentali dove i deficit pubblici e il loro sostegno da pare delle banche centrali sono state più “moderati”, con l’effetto che le relative monete di conto si stanno svalutando un po’ meno: il Franco Svizzero, la Sterlina, lo Yen, le Corone e sinanco il Rublo e lo Yuan. L’Europa è invece stata la campionessa (negativa) di questo fenomeno, dal momento che per l’Euro-zona e per la sua Banca Centrale è oggettivamente più difficile che per altri arrivare a decidere di alzare i tassi, con il rischio di vedere collassare i debiti pubblici delle economie più deboli dell’Unione, rimasta ad oggi incompleta nel suo processo di consolidamento.

LA CRESCITA ECONOMICA GLOBALE RALLENTA…

Oggi dunque, per il combinato disposto della mancata sottomissione all’impostazione occidentale di alcune tra le più grandi nazioni (quantomeno Russia, Cina e India) con le conseguenti tensioni geopolitiche, e per l’impennata dei prezzi e per la necessità di elevare i tassi di interesse di conseguenza, l’economia mondiale rischia di rallentare la crescita e di innestare un processo semiautomatico di trasferimento a valle (cioè ai consumatori) dei rialzi dei costi dei fattori di produzione, dalle materie prime ai semilavorati, all’energia e sinanco alle retribuzioni orarie. Sono processi che, una volta innestati, si dispiegano lentamente e inesorabilmente nel tempo. È per questo motivo che l’inflazione non ha probabilmente finito di salire.

Senza dunque voler fare previsioni ma limitandoci ad osservare i meccanismi di adeguamento dei prezzi ai costi di produzione, è piuttosto probabile che i prezzi al consumo in Occidente continueranno a crescere ancora per qualche mese, e che a loro volta trascineranno una quasi scontata serie di tensioni sociali, rivendicazioni salariali, riduzioni dei volumi di produzione industriale, rallentamenti degli investimenti produttivi e tecnologici, nonché riduzioni dei margini di profitto e della velocità di circolazione della moneta. Sembra qualcosa di totalmente fisiologico nel breve periodo, indipendentemente dalla prosecuzione della guerra in Ucraina, da ulteriori rialzi dei tassi, e che intervengano o meno nuove manovre economiche, fiscali o altre facilitazioni monetarie. Queste conseguenze potrebbero indebolire le borse valori e i mercati finanziari.

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…E NEL FRATTEMPO IL POLVERONE È ASSICURATO

Qualunque cosa i leaders globali arriveranno perciò a decidere per contrastare la tendenza appena indicata, c’è da scommettere che non riusciranno a farlo istantaneamente. La situazione di qui ad un paio di mesi sembra destinata dunque a peggiorare, come appena espresso, forse anche per le borse e i mercati finanziari (con l’unica eccezione degli operatori del comparto energetico). Il motivo della possibile discesa dei corsi azionari è triplice: liquidità in calo, tassi al rialzo e profitti aziendali al ribasso. Non che ciò sia destinato a durare in eterno, ma al momento è difficile pensare che andrà diversamente, anche a motivo del progressivo esaurirsi dell’effetto-sostituzione dei titoli a reddito fisso con azioni quotate nei portafogli dei risparmiatori (effetto che ha sostenuto relativamente le borse sino ad oggi).

Quand’anche i rialzi delle materie prime e del costo dell’energia dovessero dunque esaurirsi presto, ancora per un po’ di tempo vedremo incrementare i prezzi dei prodotti finiti, dell’edilizia, dell’ora lavorata e del denaro preso a prestito. Quanto basta insomma per assicurare alla crescita economica globale una bella frenata e un possibile autunno caldo di rivendicazioni salariali.

E se il mondo sta arrivando a dividersi in grandi blocchi geopolitici, più o meno politicamente contrapposti, ciò potrà generare costi aggiuntivi per aggiustare di conseguenza le filiere di fornitura industriale e per i possibili rialzi delle tariffe doganali, che non potranno di certo far calare troppo i costi degli approvvigionamenti delle materie prime e i costi dei trasporti intercontinentali.

LA TRANSIZIONE ENERGETICA È DI FATTO RINVIATA

La scarsità di forniture (ad esempio dei pannelli fotovoltaici, quasi tutti prodotti oggi in Cina) frenerà inoltre la riduzione delle emissioni nocive in atmosfera, derivanti dall’uso di combustibili di origine fossile. Se teniamo conto del fatto che a queste complicazioni si sommeranno le maggiori spese pubbliche per armamenti e infrastrutture militari, nonché i maggiori costi di produzione di energia derivanti dall’esigenza di non fare del tutto dietrofront sulle recente disposizioni incentivanti verso la transizione energetica (come l’obbligo di riduzione dei consumi inquinanti e gl’incentivi al riciclo dei rifiuti), è facile prevedere anche ulteriori aggravi della spesa pubblica, ed aumenti dei tassi di interesse. Almeno nel breve periodo.

Non è dato però di sapere quanto tempo potrà durare questa situazione. Alimentata da fattori usciti dal controllo anche a causa delle tensioni geopolitiche e con il rischio che essa stessa possa generare tensioni sociali e crisi dei mercati finanziari, l’inflazione galoppante non potrà che determinare anche confusione politica e sociale. In America ha già superato l’8% e in Europa ci metterà forse più tempo (per la debolezza della domanda di beni e servizi) ma rischia di essere anche più severa, a causa del maggior rincaro della bolletta energetica.

LE NUOVE TECNOLOGIE POTREBBERO AIUTARE L’OCCIDENTE

Se l’inflazione tornerà presto sotto controllo potremo aspettarci che l’arrivo costante di nuove tecnologie e sistemi di automazione industriale torni ad alimentare la funzione “deflattiva” delle innovazioni, a causa della riduzione che indurranno nei costi di produzione, auspicando anche che esse tornino ad alimentare lo sviluppo economico complessivo. Ma perché le nuove tecnologie avanzino con decisione c’è bisogno di ingenti investimenti di capitale di rischio, e non è così certo che questi vengano proseguiti altrettanto oggi come in passato, almeno sintantoché permarranno gli attuali rischi di recessione.

Se è infine vero che la transizione “verde” sarà prima o poi compiuta in tutti i paesi industrialmente più sviluppati, sappiamo anche per certo che necessiterà di ulteriori importanti innovazioni tecnologiche e di tempi molto lunghi (forse ancora un trentennio, o ancora di più), mentre è in atto oggi una forte contraddizione: da un lato si cerca di reprimere l’utilizzo di energie derivanti da combustibili fossili e capaci di generare emissioni nocive, mentre dall’altro lato ancora oggi l’80% di tutta l’energia prodotta nel mondo proviene dall’utilizzo di derivati di gas e petrolio. E per di più la crescita economica, demografica e lo sviluppo economico dei paesi emergenti impone al pianeta una domanda crescente di energia, che potrà essere pareggiata dalla maggior disponibilità di impianti energetici “verdi” soltanto tra moltissimi anni.

LA DE-CARBONIZZAZIONE DEL PIANETA ERA TROPPO PRECOCE

Nel frattempo il mondo (e soprattutto nei paesi emergenti) ha appunto una gran necessità aggiuntiva di produrre energia e non può che soddisfarla con i sistemi più tradizionali, perché le energie da fonti rinnovabili sono spesso un lusso che pochi possono permettersi. A causa del permanere delle emissioni nocive perciò, il pianeta resta esposto al rischio di veder accrescere la probabilità di nuove catastrofi ambientali. Dunque le crescenti regolamentazioni volte a scoraggiare l’uso di energie “sporche” al momento non ha fatto altro che incrementare il costo medio dell’energia, senza riuscire a far calare parallelamente il prezzo dei combustibili fossili.

Per questo motivo la pretesa di agire subito sul fronte della “de-carbonizzazione” planetaria senza prima programmare la sostituzione delle relative fonti energetiche è stata un vago e goffo palliativo della nuova presidenza americana, priva di adeguata preparazione e con l’effetto di generare il rialzo del costo dell’energia. E si sa bene che quest’ultimo (il costo dell’energia) è stato proprio il primo fattore di trasmissione dell’inflazione nel resto del mondo.

QUALI ATTIVITÀ ECONOMICHE SARANNO PRIVILEGIATE…

Dunque le uniche attività economiche che con ogni probabilità non avranno problemi di mercato nei prossimi mesi saranno proprio quelle legate alla produzione (e a maggior ragione al risparmio) di energia e al riciclo dei materiali. Il rialzo generalizzato dei tassi d’interesse e la necessità di nuovo credito dovrebbe inoltre favorire un risveglio dei margini e delle valutazioni delle imprese bancarie e finanziarie, mentre resteranno sempre elevate le attese degli investitori nei confronti delle imprese più capaci di trasferire all’industria le nuove tecnologie (come la robotica e l’automazione spinta) e le nuove scoperte scientifiche, ivi comprese quelle chimiche e alimentari. Resteranno perciò probabilmente elevate le valutazioni delle aziende chimiche, alimentari e farmaceutiche che mostreranno una forte capacità di mantenere elevati margini di profitto.

Sul fronte inverso dovrebbero risultare penalizzate le imprese turistiche, e quelle che più risentiranno della tendenza al calo strutturale dei consumi, dell’occupazione e del risparmio, della riduzione degli acquisti di beni di consumo durevole, nonchè delle installazioni energivore di ogni genere (dalle piscine ai grandi impianti di intrattenimento). Potranno inoltre risultare penalizzati gli esercizi commerciali al dettaglio, soprattutto i meno efficienti in termini di costi, i sistemi logistici più obsoleti e le conseguenti valutazioni immobiliari.

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Mentre non potranno che rafforzarsi i servizi online e i software che aiuteranno a risparmiare costi e a ridurre gli spostamenti fisici, nonché le filiere di istruzione e formazione professionale che riusciranno ad assicurare un nuovo futuro lavorativo ai molti individui che dovranno adeguarsi a cercare nuove e diverse occupazioni. Potrebbero inoltre crescere le valutazioni e la domanda di sistemi di organizzazione ed efficientamento del lavoro interinale e stagionale, del precariato e del recupero dei lavoratori che perderanno la precedente occupazione. Anche l’industria meccanica potrà uscire rafforzata dall’attuale evoluzione, ma soltanto per quelle (poche) aziende che riusciranno a concentrare il mercato, e ad investire pesantemente nell’efficientamento dei costi e dell’utilizzo di energia.

…E QUALI PAESI SE NE AVVANTAGGERANNO

Se dunque ancora una volta saranno le tecnologie e la disponibilità diretta di materie prime a farla da padrone, è probabile che i paesi che se la caveranno meglio nella presente congiuntura non saranno quelli europei, bensì l’America, la Cina e probabilmente tra i paesi più dotati di risorse naturali, quelli che saranno al tempo stesso più capaci di rinnovare in fretta il loro apparato industriale attirando capitali, cervelli e tecnologie (come Israele e Singapore, ad esempio, rischi geopolitici permettendo). Tra questi probabilmente l’India, l’Australia, la Nuova Zelanda, e forse anche il Brasile.

Una nota a parte merita il Giappone, che resta al tempo stesso un’economia orientale ma anche appartenente a pieno titolo al mondo occidentale, e decisamente orientata alle nuove tecnologie. È piuttosto probabile che la crisi dell’Europa arrivi a determinare un relativo successo del Giappone, anche se non possiede quasi alcuna risorsa naturale. Il suo mercato finanziario sembra inoltre oggi maturo e capace di attrarre nuovi investimenti tecnologici, sull’implementazione dei quali peraltro il Giappone per molti versi ah già vinto molte battaglie.

Stefano di Tommaso




AVVISAGLIE DI RECESSIONE

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Molti segnali indicano la prossimità di una recessione: in Italia forse già in corso, nel resto d’Europa alle soglie, in Cina, in Giappone e negli Stati Uniti d’America soltanto possibile o comunque non ancora conclamata. Il rischio ovviamente è che la recessione in arrivo si estenda a tutto il mondo e possa auto-alimentarsi. È l’ovvio risultato dell’iperinflazione in atto e delle conseguenze della stessa, a partire dalla rarefazione degli investimenti, dal calo dei consumi e dal rallentamento della velocità di circolazione della moneta.

 

I MAGGIORI COSTI DEI FATTORI PRODUTTIVI

L’Eurozona ha chiuso il mese di Marzo con un’inflazione media del 7,5%. Gli Stati Uniti d’America con il 7,9%. Ma è chiaro a tutti che il meccanismo di trasferimento dei maggiori costi delle materie prime ai prezzi al consumo è appena iniziato. E che dunque la crescita di questi ultimi non potrà che proseguire. Per non parlare dell’inseguimento -molto probabile ma non ancora avviato- al rialzo del costo della vita da parte delle retribuzioni salariali. Anch’esso è da mettere in conto, di necessità, entro al massimo un semestre solare. Se ne deduce che l’inflazione dei prezzi al consumo che le statistiche ufficiali stanno osservando in questo primo trimestre del 2022 è giocoforza soltanto una parte di quella che dovrà palesarsi nei prossimi mesi per effetto dello shock da offerta intervenuto a monte delle filiere produttive, molto tempo prima dello scoppio della guerra. La guerra lo ha solo accentuato.

Ovviamente i rialzi dei costi di materie prime ed energia hanno spesso spiazzato le imprese che li hanno subìti, costringendole a ridurre il volume di produzione e a cercare nuove e più efficienti combinazioni di fattori. E -appunto- non è ancora iniziata la fase di richieste di adeguamenti salariali, che aggiungeranno altri problemi alle imprese medesime. La riduzione dei margini industriali che ne è derivata e che sarà visibile nei prossimi bilanci determinerà un possibile flesso nelle valutazioni aziendali, nonché nel gettito fiscale.

Come si può leggere dal confronto grafico qui sotto riportato, che copre l’arco dell’ultimo ventennio negli U.S.A. , un aumento troppo elevato dei costi di produzione (indicati dal Producer Price Index, misurato sulla scala di destra) conduce tipicamente in qualche mese di tempo ad una decisa frenata della produzione industriale (ISM Manufacturing Index, misurato sulla scala di sinistra):

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LA FIDUCIA DEGLI OPERATORI ECONOMICI NEL MONDO

Il rischio dunque di una recessione prossima ventura riguarda anche gli Stati Uniti d’America, che oggi hanno resistito molto meglio dell’Europa alla sventagliata di rincari. Ma l’indicatore economico più significativo per predire una recessione è sempre stato il calo della fiducia nel prossimo futuro. E ora tanto i produttori quanto i consumatori ora la vedono piuttosto nera. In Italia un segnale davvero inquietante è stato il calo delle vendite delle autovetture: un -30% secco a Marzo 2022 la dice lunga sulla (s)fiducia dei consumatori di casa nostra! Ma anche in Asia la situazione sembra proprio grigia: il Giappone ha registrato un brusco calo da 17 a 14 dell’indice trimestrale Tankan (che misura la fiducia delle aziende) al livello più basso da quasi un anno.

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La Cina sembra invece andare peggio. Sebbene le previsioni (Morgan Stanley) continuino ad indicare la prospettiva di una crescita del PIL cinese di almeno il 4,6% quest’anno (seppure in riduzione rispetto ad attese ufficiali del 5,5%), è soprattutto la fiducia delle imprese che ha subìto il maggior calo: l’indice PMI manifatturiero di Marzo (che lì si chiama Caixin) è calato di oltre 2 punti dal livello di 50,4 precedente, andando a 48,1, e soprattutto scendendo sotto la soglia psicologica di del livello 50, che segna il confine tra previsioni positive e negative. Per la Cina dunque la situazione è quasi peggiore di quella del Febbraio 2020, quando divenne ufficiale la crisi pandemica. Complice anche questa volta il virus, che ha imposto una serie di lockdown regionali in alcune tra le province più industrializzate dell’ex-celeste impero, oltre evidentemente ai rincari di quasi tutte le materie prime e dei costi dell’energia.

Fa inoltre paura non soltanto l’inflazione dei prezzi dei fattori industriali, ma anche il calo tendenziale del commercio internazionale, tanto per i maggiori costi dei noli marittimi quanto per la minore domanda di beni. Non stupisce perciò che le economie più esposte in Europa al possibile calo delle esportazioni siano quelle della Germania e dell’Italia. La prima è più che altro preoccupata per il calo delle vendite di autoveicoli in tutto il mondo (la cui produzione resta centrale per l’economia tedesca) e per la possibilità che le tensioni internazionali portino ad una riduzione degli ordinativi di impianti e macchinari, per i quali la Germania resta la prima esportatrice al mondo.

IL COSTO DELL’ENERGIA È CRESCIUTO DI PIÙ IN EUROPA

Mentre però la Germania ha ancora la possibilità di usare il carbone per produrre energia (con buona pace per la transizione verde) e ha spento le proprie centrali nucleari ma ne ha molte e può riattivarle in pochissimo tempo, L’Italia invece ha un problema in più: la carenza strutturale di risorse energetiche domestiche che, insieme all’elevata tassazione, rende proibitivo il costo per produrre l’energia elettrica. In campo energetico il nostro Paese è il fanalino di coda tra le grandi economie dell’Eurozona, dal momento che anche la Francia se la cava meglio, con un terzo della sua elettricità proveniente dal nucleare, mentre noi continuiamo a smantellare le centrali esistenti (chiuse da anni) e non estraiamo dal sottosuolo che il 6% delle risorse di gas e petrolio che possediamo.

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Sulla piazza finanziaria di New York poi la settimana scorsa è circolato l’allarme che proviene dall’ “inversione della curva dei rendimenti”, ovvero dal campanello d’allarme che suona con l’arrivare a invertire la normale progressione dei livelli dei tassi d’interesse per le durate finanziarie più lunghe: quando infatti i tassi a breve termine superano quelli a lungo termine, molto spesso nel passato è successo che nel giro di qualche mese si sia materializzata la recessione economica.

L’indicazione fornita da tale grafico è sempre stata piuttosto affidabile e, nel contesto generale di tensioni geopolitiche e industriali, essa rischia di essere verificata anche questa volta. Ecco nel grafico qui riportato un rapido confronto storico tra l’ inversione della curva e le fasi di recessione conclamata del recente passato:

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L’indicazione fornita dall’inversione della curva dei rendimenti sembra peraltro venire confermata anche da un altro segnale tipico del rallentamento dell’economia americana: quello della crescita degli stock delle scorte (inventories) superiore alla crescita degli ordinativi ricevuti dalle imprese (new orders): come si può leggere dal grafico qui riportato essa riguarda tanto la Cina quanto gli Stati Uniti d’America :

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LA CONFINDUSTRIA DENUNCIA: LA RECESSIONE È GIÀ IN CORSO

Si aggiunge al coro di cornacchie poi anche la nostra Confindustria, che parla autorevolmente tramite il suo Centro studi (CSC) e il presidente dell’associazione degli industriali, Carlo Bonomi: “nel 2022 il pil crescerà solo di un +1,9 per cento “ con un’ampia revisione al ribasso (-2,2%)” rispetto alle stime di ottobre, quando tutte le previsioni erano concordi su una crescita superiore al 4%. Aggiungendo tra l’altro che questa ipotesi fa riferimento a uno scenario relativamente ottimista, in cui “la durata della guerra è una variabile cruciale” e che da luglio abbia termine o si riducano incertezza e tensioni.

Per gli esperti del CSC poi, a fronte del +2,3% di crescita acquisita per “l’ottimo rimbalzo dell’anno scorso” nella prima metà dell’anno, l’Italia sarà letteralmente in recessione tecnica, poiché il PIL calerà dello 0,2% nel primo trimestre 2022 e dello 0,5% nel secondo. Sempre che -appunto- la guerra in Ucraina non prosegua anche nella seconda metà dell’anno. Ma come sappiamo la guerra ha soltanto accentuato le tensioni sui prezzi di materie prime e semilavorati. Tensioni sorte già a metà del 2021. È spiacevole dirlo, ma la strada per la ripresa perciò rischia di essere anche più lunga!

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Stefano di Tommaso




L’AZIENDA DELL’ESSERE E L’AZIENDA DEL DIVENIRE: LA CAPACITA’ ESPANSIVA

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A seguito della pubblicazione del precedente articolo sulla compatibilità del Gruppo di Comando e della presentazione della soluzione Radar1, abbiamo provato a porci una seconda domanda: come calcolare la capacità espansiva dell’impresa?

 

Questa domanda è sicuramente più complessa e complicata da affrontare, ma nella sua essenza significa riflettere sull’azienda dell’essere (oggi) e sull’azienda del divenire (domani).

Nella trasformazione tra essere e divenire ci sono alcuni punti da unire:

  • il futuro si deve fondare su una solida, efficace e consolidata gestione strategica;
  • senza una concreta attitudine al cambiamento sarà più complicato instaurare un processo di trasformazione;
  • la pianificazione strategica deve essere ex-ante, cioè preventiva, dotando l’impresa di una governance (persone e processi) che, prima di tutto, si focalizzi anche sul futuro;
  • la capacità di crescita futura deve fondarsi sull’identificazione e sulla mappatura delle opzioni strategiche migliori, più coerenti e più realizzabili.

Pragmaticamente, riteniamo che il miglior approccio per queste valutazioni sia quello fattuale e su quest’idea abbiamo sviluppato Radar2 che intende mostrare l’indice di espansione della gestione strategica misurando l’orientamento e la propensione alla crescita e al cambiamento.

Assunti di partenza

Alla luce delle considerazioni e dei risultati del paper “Lungimiranza come forma mentis. Indagine sull’efficacia della gestione strategica”, il punto di partenza da approfondire e dimensionare è la modalità con cui l’azienda affronta la pianificazione strategica nel suo complesso.

Il sistema di pianificazione strategica dovrebbe rappresentare la capacità di mappare e di selezionare le opzioni di crescita e di diversificazione più coerenti al raggiungimento degli obiettivi di lungo periodo e allo scopo dell’impresa.

Ciò detto, il focus principale da osservare sono la crescita organica (fatturato per attività generato da: clienti, marchi, categorie merceologiche, canali di vendita, forza vendita, modello di business ordinario, esistente e consolidato per cui l’azienda vanta il vantaggio competitivo), la crescita inorganica (fatturato generato da: nuovi modelli di business con lo stesso marchio, brand extension, industry extension, nuove categorie merceologiche, nuovi canali di vendita, nuovi target di consumo aggiuntivi, addizionali e complementari rispetto ai fatturati e attività inerenti alla crescita organica) e infine la crescita straordinaria (fatturato generato da: nuove imprese/start-up, partecipazioni societarie, acquisizioni e fusioni, lancio di nuovi brand, sfruttamento di nuovi brevetti, sfruttamento di nuovi diritti (asset), cambio di governance e/o assetto societario aggiuntivi, addizionali e complementari rispetto ai fatturati e ad attività inerenti alla crescita organica e allo sviluppo incrementale).

Radar2

Questa soluzione, come affermato precedentemente, mostra l’indice di espansione della gestione strategica che misura l’orientamento e la propensione alla crescita e al cambiamento dell’impresa.

Radar2, che può essere considerato uno stress test, osserva, oltre agli indicatori economici principali, la produttività, i processi, l’organizzazione, la governance e altri parametri analizzati in una dimensione temporale di 9 anni (5 passati, 1 presente, 3 futuri) e la rilettura qualitativa del piano strategico.

La soluzione esprime vari punteggi relativi ai vari parametri di efficacia della gestione strategica e operativa secondo la prospettiva esistente (passato/presente) e quella prevista (futura).

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Conclusione

Questa soluzione di valutazione offre una visione sintetica e di alto profilo in merito all’efficacia della gestione strategica dell’impresa. Ovviamente, non è un modello universale, tanto meno esaustivo, e dovrebbe essere associato ad altre valutazioni (soddisfazione della clientela, clima interno, pianificazione strategica, ecc.).

Le possibili applicazioni per cui è stato realizzato sono:

  • valutazione e revisione del ciclo strategico dell’impresa;
  • analisi e selezione di nuovi progetti di diversificazione e programmi di acquisizione;
  • due diligence, pre-acquisizione abbinata alle altre valutazioni finanziarie, commerciali, legali e operation;
  • turnaround e costruzione del piano di ristrutturazione.


Emanuele Sacerdote




E’ FINITA LA GLOBALIZZAZIONE?

LA COMPAGNIA HOLDING
La globalizzazione si è interrotta. La frase è divenuta il mantra di questi ultimi giorni e non soltanto perché lo ha detto Larry Fink (CEO di BlackRock e uno dei più influenti opinion maker degli USA. Siamo tornati alla “cortina di ferro”? Sembra di si, almeno con la Russia. Ma neanche con la Cina le acque sembrano calme. Se poi l’America chiudesse un accordo con l’Iran (stato islamico sciita) raggelerebbe i rapporti con l’intero medio oriente (che invece è islamico sunnita e perciò fortemente rivale). Il mantra della de-globalizzazione deriva perciò dall’acuirsi delle tensioni geopolitiche, salite nei giorni scorsi ben al di là dei normali livelli di guardia, che costringono ogni nazione a schierarsi e a organizzare il “re-shoring” delle produzioni essenziali.

 

IL RUOLO DEL “MAINSTREAM”

La guerra fredda sembrava un ricordo sbiadito della contrapposizione tra capitalismo e comunismo, fino a trent’anni fa. Oggi si è invece tornati insistentemente ad agitarne lo spettro. La caccia alle streghe è cioè di nuovo forzosamente in voga, sebbene senza più alcuna valenza ideologica. Oggi i russi non sono più comunisti ma sono definiti carnefici come allora. E, come allora, a influenzare l’opinione pubblica sono i media appartenenti al c.d. “mainstream”: cioè quell’insieme di giornali telegiornali, blog e dibattiti che vanno tutti nella stessa direzione politica. Neanche questo accadeva così palesemente da tempo in Occidente!

D’altra parte non serve sottolineare le differenze culturali e ideologiche per invocare lo sdegno collettivo dei nostri cittadini. Carri armati e missili che penetrano in un territorio dove -almeno in apparenza- prima regnava la democrazia, appaiono argomenti più che sufficienti per far lavorare i “persuasori occulti” (viene in mente l’omonimo saggio del 1957 di Vance Packard) a scaldare gli animi, alzare l’allarme, inneggiare al riarmo e insultare i leader politici e militari avversari. Insomma se la tensione tra gli stati è alta, i media la esacerbano.

COSA NE POTRA’ CONSEGUIRE ?

Così va il mondo, o almeno così va il mondo occidentale, dal momento che nessuno in occidente riporta le opinioni espresse dai leader dell’altra parte del mondo, cioè della Cina, del sud-est asiatico e dall’India, che non sembrano essere affatto allineate al “pensiero unico” occidentale. Comunque la si pensi dunque, non possiamo che constatare una consistente e crescente spaccatura tra Oriente e Occidente che nasce dalla geopolitica, ma che diviene oggetto di guerra economica e mediatica e può tradursi in una iattura assai generalizzata.

E qui viene il bello, perché al di là di qualche vuoto slogan, la verità è che nessuno al di fuori delle stanze del potere poteva prevedere che la tensione sarebbe salita così tanto. Né può affermare con certezza cosa succederà da adesso in avanti. Sicuramente occorre constatare il fatto che l’Oriente del mondo (con l’eccezione del solo Giappone) sembra a sua volta essersi compattato in senso opposto.

Si continua a sperare in una rapida soluzione al conflitto esploso da un mese, ma le ragioni di questo conflitto risalgono a molto tempo addietro. E probabilmente, per lo stesso motivo, non esso si risolverà così in fretta come vorremmo sperare. Quello che invece sarà più probabile sarà una sua pausa. Un “cessate il fuoco” per consentire alle parti di trovare soluzioni negoziali.

CAMBIERANNO LE FILIERE INDUSTRIALI…

Se davvero però nel frattempo dovremo fare i conti con la necessità di estrarre altrove nel mondo le materie prime e i semilavorati di provenienza russa o cinese l’economia globale avrà guadagnato un bel dilemma. Si dichiara di voler estrarre sempre più altrove gas e combustibili fossili, di voler creare in Occidente fabbriche sempre più integrate verticalmente (cioè capaci di lavorare l’intera filiera, dal trattamento delle materie prime al prodotto finito), ma tra il dirlo e il farlo passeranno anni!

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Se dovremo dire addio (almeno parzialmente) tanto alle forniture di materie prime e derrate alimentari, quanto ai mercati di sbocco dei paesi orientali ed asiatici, sino ad arrivare alla segregazione dell’Oriente dall’Occidente, allora si che saremmo a un passo dalla terza guerra mondiale e allora sì che saremo finiti nel pieno di una nuova guerra fredda. Si perché il costo di tale riconversione si farà sentire. E provocherà conseguenze di lunga durata.

… E SALIRÀ LA SPESA MILITARE

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La contrapposizione appena citata forse si potrà giungere ad evitare, ma nel frattempo dovremo probabilmente assistere ad una forte ripresa delle spese militari, e ad un ingente spreco di risorse nella duplicazione di scienze e tecnologie per far sì che i paesi appartenenti ai due schieramenti (Oriente e Occidente) si confrontino a distanza senza mettere a fattor comune le competenze e rallentando, di fatto, lo sviluppo economico globale.

EUROPA E PAESI EMERGENTI SUBIRANNO I DANNI MAGGIORI

Un altro grande, terzo incomodo di questa guerra è l’intero coacervo dei paesi emergenti, le cui economie sono già oggi in ginocchio per la rivalutazione del dollaro e per i rincari delle materie prime, che spesso non vanno in tasca loro, mentre i maggiori costi di tutto ciò che le loro popolazioni acquistano (a partire dagli alimenti) si toccano subito con mano. Un bel problema per molte nazioni che iniziavano soltanto adesso a tirarsi fuori dalla povertà diffusa, che risale addirittura allo scoppio della pandemia e che sta divenendo un dramma con le nuove tensioni.

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Ancor più pesante sarà il bilancio di sostenibilità globale, poiché in nome dell’indipendenza energetica, della necessità di sostenere le spese per gli armamenti, e dell’urgenza di rimpiazzare parte del commercio internazionale con produzioni domestiche sempre più automatizzate (per evitare di produrre con eccesso di costi), dovranno giocoforza rallentare o essere rinviati gli altri investimenti: quelli per l’economia circolare, la transizione verso energie “verdi”, le nuove infrastrutture digitali, e per ristabilire pari opportunità.

Ma è eclatante lo iato che si sta aprendo in questo momento tra Europa e America, e che non potrà che accentuarsi. A parte il diverso andamento dell’economia, lo si è visto anche in queste ultime ore: mentre nell’Unione Europea entravano due milioni di profughi ucraini, a Holliwood si celebrava la notte degli Oscar!

MA SARA’ L’INDUSTRIA A DOVER CAMBIARE MAGGIORMENTE

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L’incremento del prezzo delle materie prime e dell’energia rischia poi di provocare i più forti sconquassi soprattutto nell’apparato industriale europeo. Il più tecnologicamente arretrato e il più dipendente dalle importazioni. Nei due grafici sopra riportati si può toccare con mano la crescita dei costi industriali e in quello qui sopra manca tra l’altro l’ulteriore forte impennata dei costi energeticinel primo trimestre 2022.

L’incremento di questi costi va ad erodere immancabilmente i margini di profitto industriali. E con il rincaro progressivo anche dei prezzi dei prodotti finiti, si può facilmente prevedere che -almeno in Europa- i consumi tenderanno a restringersi, e numerosi posti di lavoro salteranno, generando nuova necessità di assistenza sociale (che i bilanci pubblici faranno molta fatica a sostenere). Insomma il rischio che un’inflazione dettata dalla scarsità di offerta provochi una frenata generale dell’economia è materialmente tangibile. Ma è anche molto difficile evitarlo. I prezzi dei fattori produttivi avevano già iniziato a lievitare con i problemi derivanti dalla restrizione ai movimenti imposta dal virus. Oggi sono letteralmente esplosi.

IL RUOLO DELLE BANCHE CENTRALI

Di fronte a tale congiuntura si può sperare che le banche centrali abbandonino presto l’attuale orientamento verso nuove restrizioni monetarie, atte a contrastare l’inflazione. Per evitare di esasperare esse stesse la stagnazione economica cioè, esse dovranno tornare ad assecondare con nuova liquidità le necessità dei governi e degli operatori economici privati di sostenere la spesa pubblica e gli investimenti. Con buona pace per l’inflazione, che è probabile non cederà il passo, visto che alla sua origine ci sono soprattutto limitazioni nell’offerta dei beni e non eccesso di domanda degli stessi. Nel grafico sotto riportato si può leggere a livello globale tanto il calo (superiore al 20%) dei livelli medi delle borse da inizio d’anno a questa parte, quanto (e soprattutto) il principale fattore che l’ha determinato: il calo della liquidità disponibile sui mercati. Con il rischio che il trascinamento verso il basso prosegua.

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Almeno in Europa insomma, lo spettro della “stag-flazione” si paleserà, quantomeno durante la prima metà dell’anno in corso. E si rifletterà, altrettanto probabilmente, in un innalzamento dei tassi di interesse anche qualora le banche centrali dovessero spingere sull’allenamento della liquidità in circolazione. Se cioè fino a ieri si poteva immaginare che inflazione e incertezza avrebbero frenato la crescita, con la crescita della tensione internazionale la situazione si aggrava ulteriormente e si prospettano in definitiva due grandi alternative:

GLI SCENARI POSSIBILI

  • Da un lato potrebbe succedere che la necessità di aumentare l’efficienza dell’industria e soppiantare le (scarse) materie prime energetiche di derivazione fossile scateni una vera e propria corsa agli investimenti, almeno in tutto l’Occidente, che da sola arrivi essa stessa a contrastare il rallentamento nei consumi e nella disponibilità di materie prime e “commodities” (cioè derrate alimentari). In tal caso assisteremmo di fatto ad una ulteriore accelerazione dell’introduzione di nuove tecnologie, le quali provocherebbero a loro volta l’accelerazione dei processi di trasformazione dell’industria, ulteriori passi avanti verso la digitalizzazione collettiva, e la definitiva sepoltura di molte arti, mestieri e piccole produzioni del passato. Lo scompiglio non mancherebbe ovunque nel mondo ma ci potrebbero essere anche effetti positivi derivanti dallo slancio e dagli investimenti. Uno dei quali potrebbe essere un relativo allentamento delle tensioni geopolitiche, in funzione della possibile mutua convenienza di Oriente e Occidente a fare qualche passo di riavvicinamento.
  • Dall’altro lato invece potrebbe succedere che la mancanza di fiducia nelle prospettive di rappacificazione, la nuova disoccupazione e la riduzione forzosa dei consumi in funzione del ridotto potere d’acquisto delle classi meno agiate agiscano da freno sull’economia, mandandone in stallo la crescita. Così come potrebbe accadere che le banche centrali arrivino a decidersi a fare marcia indietro troppo tardi, quando la recessione sarà stata oramai innescata. O potremmo assistere ad una “escalation” e ad un allargamento territoriale del conflitto armato oggi confinato alla sola Ucraina. In tutti questi casi lo iato con i paesi orientali si accentuerebbe, e sarebbe soprattutto l’Eurozona quella che finirebbe col subire il più clamoroso arretramento rispetto alle nazioni orientali (tra cui anche il Giappone) come Cina e India. In uno scenario del genere anche le contrapposizioni politiche si radicalizzerebbero, con il rischio di una più profonda spaccatura tra Oriente e Occidente.

Nemmeno l’Asia potrebbe beneficiare troppo da ciò che dovesse conseguire al secondo scenario, dal momento che verrebbe seriamente a mancare a quelle nazioni non soltanto la tecnologia occidentale, ma anche una parte importante degli attuali mercati di sbocco. Mentre nel primo scenario, al di là del gioco distruttivo delle sanzioni e delle possibili rappresaglie, si può ben sperare che il commercio internazionale subisca soltanto dei ritardi. Cioè che insomma la globalizzazione cambi sì, ma non si estingua del tutto.

LA GLOBALIZZAZIONE E’ DUNQUE FINITA? DIPENDE…

In definitiva, in risposta alla domanda iniziale (la globalizzazione è finita?) vi è un immancabile “dipende”! Forse soprattutto da Washington, che continuerà a deprecare l’uso dei carri armati russi e le morti provocate dalla guerra ma che potrebbe anche trovare una convenienza (interna ed esterna agli USA) in una tregua, una schiarita. Ma dipende anche da Mosca, che possiamo presumere difficilmente abbandonerà la campagna militare in corso in cambio di qualche blanda promessa di neutralità ucraina.

Cosa succederà nel frattempo non è chiaro. Perché -finché va avanti- l‘orrore di morti e distruzioni provoca indubbiamente danni alla Russia, ma anche all’Europa che si chiede se continuare ad alimentare il conflitto. E si è visto nelle ultime ore che provoca anche danni all’amministrazione Biden, che rischia di scadere nell’opinione pubblica interna. Dunque sta crescendo l’interesse di tutti per la ricerca di una soluzione negoziale.

UNA SOLUZIONE NEGOZIALE E’ POSSIBILE, ANCHE A BREVE

L’attuale congiuntura insomma sembra dunque nera, ma le forze in campo potrebbero anche finire per congiurare verso una svolta decisiva. La storia insegna che nulla è mai definitivo, e che in molti casi le più tristi previsioni possono essere clamorosamente smentite. Anche l’attuale ottimismo delle borse internazionali non fa che anticipare la probabilità di una soluzione negoziale. Ma potrebbero venire smentite dai fatti, viste l’apparente poca lungimiranza dell’attuale presidente americano e l’ostinazione del presidente russo.

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Certo, anche qualora una soluzione negoziale fosse trovata e applicata in fretta, i danni che derivano dalla campagna mediatica contro la Russia e le sue èlites interne, non svaniranno altrettanto in fretta. L’Occidente ha mostrato molta caparbietà nella gestione politica del suo rapporto con la Russia a proposito dell’Ucraina e il risultato economico di tale atteggiamento sarà quasi certamente il permanere di elevati costi di derrate e materie prime (cioè inflazione), una probabile stagnazione economica e un altrettanto probabile calo dei profitti dell’industria.

MA SARA’ DIFFICILE INVERTIRE LA RI-LOCALIZZAZIONE

Neanche per il resto dell’Occidente dunque (America in primis), visto che al momento ne ha tratto quasi soltanto svantaggi, sarà così facile invertire la rotta e tornare a invocare la ripresa del commercio internazionale. Lo shock da crisi di offerta di beni e servizi potrebbe andare avanti abbastanza a lungo, che vi sia o meno una schiarita nei rapporti geopolitici. E se l’inflazione continuerà a mordere allora anche i tassi d’interesse occidentali continueranno a salire, che le borse valori crescano o meno (una parte infatti della mancata discesa dei titoli azionari è infatti dovuta alla migrazione degli investitori dal reddito fisso alle borse).

E con la risalita dei tassi, la questione della sostenibilità dei debiti pubblici globali tornerà in grande evidenza, generando ulteriore scompiglio e il raffreddamento della loro appetibilità per i gestori di patrimoni di tutto il mondo. La guerra cioè potrebbe questa volta non rafforzare più il Dollaro americano, così come è successo quasi sempre in precedenza. Basterebbe infatti che la Cina liquidasse una piccola parte dei titoli di stato americani accumulati sino ad oggi, per creare il problema. Né ovviamente ne beneficherebbe la divisa unica europea, che rischia una vera e propria svalutazione indesiderata proprio mentre si appresta ad acquistare altrove materie prime e commodities.

CONCLUSIONI & PREVISIONI

Lo scenario più probabile insomma, sarà quello dell’incremento degli sforzi per trovare -almeno provvisoriamente- soluzioni di compromesso, onde evitare l’allargamento della guerra. Ma ciò difficilmente sanerà il clima di sfiducia che si è creato, che potrebbe far molto male al commercio internazionale e allo sviluppo economico mondiale. Da questo punto di vista abbiamo probabilmente già oltrepassato la linea di non-ritorno: la globalizzazione che abbiamo conosciuto negli ultimi trent’anni appare perciò irrimediabilmente compromessa.

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Al suo posto potranno tuttavia instaurarsi nuove e diverse forme di collaborazione internazionale, principalmente nella condivisione di parte del know-how (quello non considerato rilevante per la sicurezza delle nazioni) e nella concessione di licenze produttive e di software. Ma la spaccatura che si è creata con il blocco orientale non si riassorbirà così in fretta. L’inflazione potrebbe permanere a lungo e danneggiare irreparabilmente molte attività economiche legate alle tecnologie del passato, o al leisure, all’ entertainment, al turismo e alla produzione di beni voluttuari. Saliranno anche i prezzi degli alimenti, ma probabilmente non abbastanza da compensare i maggiori costi di produzione.

Potrebbero invece tornare a guadagnare terreno i produttori di automazione industriale, la farmaceutica, l’imprenditoria digitale, gli sviluppatori di nuove tecnologie per il risparmio energia, per la sua produzione da fonti rinnovabili, i programmatori di sistemi di sicurezza e di intelligenza artificiale. Anzi, quest’ultima probabilmente costituirà la prossima grande occasione per rilanciare l’economia globale. Così come potranno beneficiare dell’inflazione i prezzi dei beni rifugio (a partire dall’oro fino a tutti gli altri metalli pregiati) sino agli immobili.

Anche per questi motivi è probabile tuttavia che la disoccupazione tornerà ad allargarsi, colpendo quella parte della popolazione che sperava invece di contare sull’assistenza sociale e che si ritroverà con poca capacità di spesa a causa delle crescenti difficoltà dei bilanci statali. E’ possibile appunto che per qualche tempo di conseguenza i salari si appiattiranno e che i consumi collettivi si restringeranno, almeno per la popolazione di età più avanzata.

Si, è possibile che per giungere a una nuova fase della sua evoluzione l’umanità debba passare da un certo travaglio. Ma è anche possibile che questo sia più breve di quanto possiamo immaginare. Come al solito dipenderà dalle volontà umane, politiche e militari.

Stefano di Tommaso