LE FUSIONI E ACQUISIZIONI CRESCERANNO ANCHE NEL 2022

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Prima della guerra in Ucraina si prevedeva per quest’anno un boom di aggregazioni d’aziende, tanto per merito della liquidità in circolazione, quanto per la necessità di creare maggiori dimensioni aziendali, ottimali per la globalizzazione roboante che era in corso. Ma il panorama è profondamente cambiato nel giro di poche settimane: la globalizzazione è oggi sotto la scure di una possibile divaricazione (politico, ma anche economico) tra l’Occidente e l’Oriente del mondo. La liquidità sembra infine decisamente calata, così come è scesa la disponibilità di credito per le acquisizioni. L’M&A crollerà ?

 

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PIÙ RESHORING INDUSTRIALE

E’ presto per dirlo, e rischia di essere anche inesatto, perché altri fattori stanno progressiva-mente entrando in gioco: innanzitutto cambieranno le filiere di alimentazione di materie prime, semilavorati e componentistica terziarizzata, per le nostre industrie. E molti fornitori dell’estremo oriente punteranno a joint-ventures produttive in Europa o nelle Americhe, anche per scongiurare gli effetti devastanti del forte rincaro dei trasporti e avvicinare le produzioni o gli assemblaggi ai mercati di sbocco delle merci (il cosiddetto “reshoring”).

Così come i fornitori delle nostre industrie basati nel sud est asiatico probabilmente saranno affiancati nel tempo da altri produttori, meglio localizzati rispetto ai mercati di sbocco. Ma anche le organizzazioni commerciali e distributive cambieranno: la logistica sarà più pervasiva e meglio presidiata che in passato, come pure in tutto il mondo probabilmente le strutture estere di vendita tenderanno ad essere progressivamente soppiantate da avamposti organizzati anche per lo stoccaggio, l’assemblaggio, il controllo qualità, l’assistenza e il dialogo con la clientela.

Dunque -anche grazie alla progressiva digitalizzazione- le attività industriali che potranno permetterselo saranno sempre più “multi-localizzate”. E le principali multinazionali del mondo sono oggi americane. Ecco forse spiegato il grafico qui sotto riportato:

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Per non parlare delle tecnologie: le grandi ricadute tecnologiche delle scoperte scientifiche e della progressiva digitalizzazione del mondo intero continueranno a favorire accordi industriali, scambi e soprattutto acquisizioni di aziende, dettate dalla necessità di portare in casa gli adeguamenti tecnologici. La ventata di operazioni “technology-driven” riguarderà innanzitutto, com’è ovvio, i settori più maturi, dove cioè l’impatto delle nuove tecnologie deve ancora dispiegarsi appieno. Ma in generale c’è forse oggi più bisogno di tecnologie di quanto ce ne fosse in passato.

SEMPRE PIÙ DIGITALIZZAZIONE

Molte attività tradizionali che ancora residuano dalla precedente era industriale verranno progressivamente stravolte, ottimizzate e semi-standardizzate, soprattutto nella componente “retail”, cioè nell’ultimo miglio verso la clientela finale, dove il dialogo sarà sempre più digitalizzato, onde ottimizzarne i costi.

Sul fronte retail ad esempio è indubbiamente avanzata ma non ancora completata la rivoluzione relativa i sistemi di pagamento, sempre più basati su una “identità digitale” e sempre meno dipendenti dalle carte di credito e debito. Anche la gestione del tempo libero, del leisure, dello sport, del turismo e della ristorazione sarà sempre più dipendente da sistemi digitali di filiera che riescano ad ottimizzare i costi e fornire servizi in tempo reale.

Una grossa parte dello sforzo tecnologico sarà poi rivolto alla necessità di proseguire anche con la transizione ecologica. Gli investitori di tutto il mondo hanno chiaramente espresso preferenze per chi riesce a ottimizzare i consumi energetici, a riciclare materiali e energie di risulta, a innovare nella produzione di energie da fonti rinnovabili. Anche perché prima la pandemia, poi la guerra ci hanno chiarito una tendenza di fondo che -a differenza di quanto poteva apparire in passato- oggi sembra unidirezionale: il mondo è sempre più affamato di energie e la loro produzione “sporca” (e dunque a buon mercato) è sempre meno accettabile per la sostenibilità del pianeta. Dunque è probabile che la transizione sarà dolorosa, a prezzi crescenti e con la necessità di investimenti esponenziali. Svantaggi talvolta aggirabili attraverso l’esecuzione di fusioni e acquisizioni.

L’ENERGIA RESTERÀ CARA

E dove ci sono grossi investimenti in ballo, sono più frequenti e più necessarie le operazioni di aggregazione di aziende. E chi non riuscirà a sostenere quegli investimenti dovrà fronteggiare l’alternativa di fallire o reperire maggiori capitali. Ci saranno perciò più fallimenti e più quotazioni in borsa, perché le risorse per le infrastrutture oramai arrivano sempre meno dai governi e dalle comunità locali. Dunque le imprese che vorranno risultare appetibili per i grandi gestori di patrimoni dovranno necessariamente trovare capitali per svecchiarsi, crescere, innovare e accettare una sempre maggiore attenzione all’efficienza nei costi, anche energetici. In passato ciò valeva per le produzioni di base, e non valeva per il lusso e la qualità. Oggi valgono per chiunque. Ecco perché ci saranno ancora tante operazioni di finanza straordinaria, e prime fra tutte : altre fusioni e acquisizioni.

Gli effetti pratici delle politiche ESG degli investitori, delle problematiche ambientali e la transizione energetica, della necessità geopolitica del “reshoring” (ritorno a casa) di molte produzioni, nonchè dell’impatto delle nuove tecnologie, condizionano fortemente le scelte industriali e non potranno che stimolare altre fusioni e acquisizioni tra aziende.

Dunque c’è da attendersi che nonostante la guerra, con i costi abnormi dell’energia, e nonostante ancora grandi limitazioni agli spostamenti e agli scambi commerciali, persino di questi tempi le fusioni e acquisizioni continueranno a correre, seppure con qualche scontato rallentamento di ordine temporale!

PRIVATE EQUITY & VENTURE CAPITAL

Ci sono poi altri due fattori esogeni che dovrebbero sospingere le aggregazioni di imprese: gli investimenti dei grandi operatori di private equity e venture capital.

  • Il Private Equity è indubbiamente un fattore “push”: se agli imprenditori arriva un’offerta interessante da investitori professionali, essi difficilmente riusciranno a dire di no. E oggi il private equity ha accumulato sempre più “polvere da sparo” (denaro contante raccolto dai propri sottoscrittori) per riuscire a mettere a segno le proprie incursioni. E una volta acquisita la prima azienda di ciascuna filiera occorre moltiplicare gli sforzi per consentirle di creare valore, di aumentarne le dimensioni e di fare leva su ogni possibile margine aggiuntivo: tutte cose che normalmente si traducono in un maggior numero di fusioni e acquisizioni tra imprese dove ha investito il private equity rispetto al caso-base in cui le medesime imprese restino nelle mani dei fondatori;
  • Il Venture Capital è invece più probabilmente un fattore “pull”. Cioè si sviluppa per “risucchio”, rispetto al private equity, che avanza per propria spinta. Gli investitori di venture capital vengono cioè normalmente sollecitati da miriadi di imprenditori in erba, da advisor e da tecnologi di ogni sorta. I quali sperano di essere selezionati tra i mille altri contendenti nella sfida per aggiudicarsi il denaro e le attenzioni degli ”investitori di ventura”. Questo perché nella maggior parte dei casi le innovazioni di ogni genere hanno bisogno di essere ampiamente sovvenzionate da capitali di rischio. Anche il venture capitalist però, una volta definita una certa strategia e partito ad investire in una determinata impresa (o startup), subito dopo si chiede se potrà generare valore aggregandola ad altre simili, ovvero se occorre moltiplicare gli sforzi tecnologici, quelli gestionali o quelli distributivi. E anche in questi casi si generano numerose ipotesi di fusioni e acquisizioni.

Dunque lo sviluppo di queste tipologie di intervento finanziario contribuisce non poco a sviluppare nel mondo le aggregazioni d’impresa, che ci siano o meno conflitti armati. Anzi: in casi di grandi sconvolgimenti epocali come la pandemia prima (con la necessità di sviluppare nuovi farmaci e nuovi presidi sanitari) e la guerra dopo (con la necessità di individuare fonti di risparmio energetico o nuova disponibilità di energie), crescono inevitabilmente anche le esigenze di accelerare sul fronte delle fusioni e acquisizioni.

ELEMENTI A FAVORE E CONTRO LE FUSIONI E ACQUISIZIONI

Lo scenario che si prospetta perciò è caratterizzato da tre generi di spinte:

  • da un lato con la guerra sono intervenuti più timori, minori margini operativi, il rallentamento delle attività produttive, la scarsità delle filiere di approvvigionamento, minor generazione di cassa, minor disponibilità di credito e più bassa valutazione delle imprese. Tutti fattori che tendono a frenare le fusioni e acquisizioni;
  • dall’altro lato le “multi-localizzazioni”produttive, le tecnologie, le esigenze di sostenibilità ambientale e il maggior costo delle energie, spingono in senso opposto: cioè in direzione dello sviluppo di ulteriori attività di fusioni e acquisizioni;
  • infine gli investitori seriali (tanto quelli del private equity quanto quelli del venture capital) man mano che ampliano il loro raggio d’azione, generano anche crescenti esigenze di aggregazioni di aziende, oltre a contribuire a far nascere nuove imprese come pure a farne crescere velocemente la dimensione. E se c’è un maggior numero di aziende attive, o se le medesime sono mediamente più capitalizzate, allora c’è anche, probabilmente, un maggior flusso di fusioni e acquisizioni.

Come si può facilmente dedurre, le spinte all’incremento delle fusioni e acquisizioni sono probabilmente maggiori di quelle che frenano tali attività. Ragione per cui ciò che potrà succedere sarà al massimo un rallentamento delle attività in corso, anche in attesa di conoscere gli esiti della situazione attuale. Situazione oggettivamente non facile, e e non di immediata risoluzione.

LA RIPRESA DELLE BORSE POTREBBE AIUTARE

Nel giro di qualche settimana tuttavia, a meno di una escalation militare oggi di difficile prevedibilità, la situazione del conflitto potrebbe chiarirsi. E il prezzo delle materie prime, come si è iniziato già a vedere, potrebbe ritracciare rispetto ai picchi dei giorni scorsi.

È relativamente probabile perciò che le imprese di ogni parte del mondo continueranno a vagliare, negoziare e concludere nuove importanti operazioni. Probabilmente quest’anno con più cautela e per dimensioni inferiori a quelle viste in precedenza, ma comunque non irrilevanti. Anche le borse potrebbero sospingere non poco le fusioni e acquisizioni, poiché ci si aspetta -seppur con alterne vicende- una qualche prosecuzione dei primi rimbalzi già osservati. E se i moltiplicatori di borsa (e dunque le valutazioni) dovessero riprendersi -soprattutto nelle tecnologie- ecco allora che anche le probabilità di concludere nuove aggregazioni aziendali potrebbero trarne beneficio.

Stefano di Tommaso




ECONOMIA DI GUERRA

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Un vecchio proverbio africano dice che quando gli elefanti litigano sono le formiche che si fanno male: ebbene con questa guerra in Ucraina dove il vero scontro è con con gli USA, sono le popolazioni che ne stanno pagando il conto, in Ucraina ma anche in Europa, dal momento che ha generato rialzi dei prezzi di qualsiasi materia prima, con ricadute insopportabili persino per i paesi emergenti. Per l’inflazione poi l’impressione è che il peggio debba ancora venire! E l’Italia appare come uno dei vasi di coccio più deboli nello scontro tra quelli di ferro, con tetre prospettive di ripiombare in recessione.

 

DOVE ARRIVERÀ L’INFLAZIONE…

Stiamo iniziando a fare il callo sui rincari che fioccano in ogni direzione da qualche settimana a questa parte ma, abituandoci, rischiamo di perderne il conto. Le statistiche tendono a minimizzarli citando un’inflazione al 5-6%. Purtroppo però non esiste un prezzo, tra quelli dei beni di consumo della vita quotidiana, che non sia cresciuto ben di più! Quando va bene siamo al +10%. Ed è accaduto solo da inizio d’anno! Per l’energia elettrica siamo arrivati a 600 euro al megawatt, cioè a quasi 5 volte il prezzo fino all’estate scorsa. Lo scorso Gennaio i costi di produzione delle aziende italiane sono saliti del 32,9% anno su anno e, ovviamente l’indice della produzione industriale ha subìto un calo del 3,4% rispetto a dicembre (cioè ancora peggio su base annua).

L’ISTAT fa ancora la media dei prezzi con quelli (rarissimi) che non sono quasi cresciuti, come le sigarette nazionali, il sale, l’acqua minerale, ma anche le pensioni e gli stipendi. Ma nell’anno il conto salirà. A meno di ipotizzare che, dopo la fiammata dei prezzi da inizio anno ad oggi, l’inflazione -come d’incanto- si fermerà per il resto del 2022. Se parliamo di carne, latte, uova, formaggio, pane (il grano poi è letteralmente esploso!) e via dicendo, con ogni probabilità saremo fortunati se ci fermeremo a prezzi più alti di un quinto rispetto a quelli dell’anno prima (20%). Cioè a un’inflazione di stampo sudamericano. Insomma l’inflazione, comunque la calcoliamo, attualmente non viaggia a meno del 10%.

Ma a questo numero bisognerà sommare gli effetti (ancora da venire) dei rincari sulle materie prime conseguiti alla guerra (iniziata 3 settimane fa). I maggiori costi della produzione non si sono ancora scaricati a valle su quelli dei prodotti finiti. Dunque, se proprio dovesse andare molto bene, è probabile che i nuovi rincari del petrolio (passato in queste 3 settimane da meno di 100 USD al barile a oltre 130, con il dollaro americano che per di più si è anche rivalutato sull’euro) si tradurranno alla fine per almeno un terzo in ulteriori rincari dei beni di consumo. Cioè un altro 10% si aggiungerà nei prossimi mesi al +10% reale che abbiamo già totalizzato nei primi due mesi dell’anno.

Ne consegue che il totale dell’inflazione dei prezzi nell’anno 2022 sarà molto più vicino al 20% che non al 10%. A meno -appunto- di magìe politico-fiscali non ancora identificabili al momento o -ancor più magicamente- a meno di ritorni alla normalità dei prezzi di petrolio, gas e altre materie prime, che per il momento sono fantascienza. L’unico paragone storico è con quanto accadde nella prima metà degli anni ‘70, dopo la crisi petrolifera conseguente alla guerra del Kippur (settembre ‘73). Ricordate quali sofferenze ne derivarono? Quante limitazioni furono introdotte, quanti problemi finanziari? E come si svilupparono dì conseguenza le contestazioni giovanili, la rivolta sociale, l’estremismo, il terrorismo e la disoccupazione?

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…E CHI NE PAGA IL CONTO

Dal momento poi che risulta decisamente improbabile che le retribuzioni salariali cresceranno altrettanto velocemente, ecco chiarito sulle spalle di chi andrà a gravare il prezzo della guerra, della retorica politica e delle sanzioni dell’occidente alla Federazione Russa. Ovviamente su quelle di operai, ambulanti, artigiani e impiegati di ogni livello non dispongono di un ufficio stampa, né di un centro studi, per contrastare gli annunci del “mainstream” (cioè il coagulo di stampa, tv, radio e notiziari online). Coloro che dovrebbero rappresentare le classi più disagiate si sperticano invece a ossequiare il “partito della guerra” e vengono poi scoperti a fare grandi affari con le multinazionali (absit iniuria verbis). Ma l’inflazione a doppia cifra invece è reale, e la cinghia dovremo stringerla ugualmente.

Come se non bastasse poi, chi ci rimetterà di più saranno le imprese, molte delle quali dovranno tagliare posti di lavoro e rivedere i programmi di sviluppo, perché difficilmente riusciranno a ribaltare i rincari sui prezzi di vendita. Dovranno quindi tagliare costi di ogni genere, come il personale non necessario, o quelli rappresentanza, comunicazione, i servizi non essenziali e, magari, dovranno rimandare gli investimenti a tempi migliori perché la liquidità scarseggerà e anche la riscossione dei pagamenti sarà più difficoltosa e perché il credito alle imprese sarà centellinato (e non senza una ragione). Molte imprese quindi salteranno in aria, o faranno di tutto per restare in piedi per un po’, per poi aggregarsi.

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Nonostante quanto indicato nel grafico qui accanto, la settimana scorsa la Banca Centrale Europea ha abbassato di nuovo le stime di crescita del PIL dell’Eurozona ad un mero 2,3% per il 2022. Ma sappiamo tutti che verranno probabilmente riviste ancora, perché le statistiche e i dati tendenziali stimati dagli uffici studi possono soltanto riportare i dati già rilevati, non quelli che stanno materializzandosi in questi giorni.

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Per non parlare poi degli USA, dove le statistiche sono un po’ più oneste (per l’inflazione siamo già arrivati al 12%), il paragone con i dati storici è feroce: come si può leggere nel grafico qui riportato infatti, se proviamo a invertire l’andamento dei prezzi (maggiori i prezzi più scende la linea rossa) possiamo trovare un’evidente concomitanza storica della maggior inflazione con il rallentamento dell’economia. Cosa che inevitabilmente sta succedendo anche da noi.

LE IMPRESE PIÙ PICCOLE SPARIRANNO

La tecnologia peraltro ha fatto passi da gigante nel minimizzare i costi di produzione di praticamente qualsiasi cosa. Ma bisogna tenere conto di due fattori che stanno cambiando il mondo: 1) gli investimenti in tecnologia costano, e si applicano meglio alle grandi dimensioni aziendali (le cosiddette “gigafactories” sono già una realtà), con il rischio che ne vengano tagliati fuori tutti gli operatori più piccoli o meno dotati di risorse da investire; 2) una ristretta cerchia che controlla materie prime, energia e risorse naturali ne impone un costo sempre più elevato, contrapponendosi alla discesa dei prezzi dei prodotti finiti.

E ora che uno dei maggiori produttori di materie prime al mondo come la Russia è stato tagliato fuori dai circuiti internazionali dell’offerta, questa si restringe e spinge al rialzo i prezzi della domanda che resta parzialmente insoddifatta. Russia e Ucraina pesavano per il 53% dell’ export globale di ghisa, per il 27% di nickel, il 14% dei fertilizzanti, il 17% dell’uranio e il 32% dell’uranio arricchito (e nel calcolo manca il Kazakhstan che è sempre nell’orbita russa).

Morale: il taglio necessario di costi, derivante dall’esigenza di mettere sul mercato prodotti ancora accessibili al grande pubblico, le cessioni d’azienda, i fallimenti e le varie iniziative che si renderanno necessarie per riequilibrare i conti economici dell’industria, genereranno probabilmente una nuova ondata di “globalizzazione”, la terza, dopo quella derivante dalla digitalizzazione (anni ‘90) e quella conseguente all’ultima pandemia.

Occorre tuttavia notare che gli effetti negativi delle manovre che si renderanno necessarie per contenere i costi di produzione si faranno sentire molto presto: meno occupati diretti delle imprese e anche meno occupati indiretti (terzisti, cooperatori, piccoli artigiani, trasportatori, manutentori e fornitori di servizi vari). Meno investimenti significheranno poi meno lavoro per tutti gli altri: gli impiantisti, i fabbricanti di macchinari e sistemi, gli installatori e tecnici di ogni genere.

ITALIA: ADDIO RIPRESA, NONOSTANTE GLI STIMOLI

L‘attuale spirale inflattiva derivava già tuttavia dalla scarsità di offerta che risale alla ripresa dell’inizio 2021. E ha comportato rincari di energia, materie prime e semilavorati. A questa scarsità di fattori di produzione si aggiungerà adesso anche scarsità di prodotti finiti, perché la razionalizzazione delle attività produttive passerà per un taglio di quelle che non sono massimamente efficienti. Dunque a scarsità di offerta non potrà che sommarsi altra scarsità, con effetti macroeconomici depressivi. La crescita economica italiana, che speravamo andasse ben oltre il rimbalzo parziale del Prodotto Interno Lordo dopo i ripetuti lockdown del 2020 e inizio 2021, con ogni probabilità si fermerà quindi del tutto nel corso dell’anno.

E ciò nonostante i numerosi stimoli allo sviluppo posti dall’arrivo dei primi fondi del programma Next Generation EU, gli acquisti di titoli di stato da parte della Banca Centrale Europea, gli incentivi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, le garanzie di stato a favore del credito alle imprese, lo sviluppo del mercato dei capitali. Figuriamoci senza come sarebbe andata! Il nostro resta un Paese dove all’incirca la metà del Prodotto Interno Lordo passa dalla Pubblica Amministrazione, dove l’export delle piccole e medie imprese del nord conta moltissimo per riequilibrare la bilancia commerciale, dove le grandi imprese sono quasi in estinzione e dove i consumi interni continuano a toccare nuovi minimi perché la gente ha paura del futuro.

L’ITALIA NON È PRONTA AD AMMORTIZZARE LO SHOCK

L’Italia ha un mero del lavoro estremamente rigido e non è pronta ad ammortizzare uno shock sistemico della portata di quello in corso. Siamo ancora, in buona sostanza, privi di una politica industriale, di capacità di ricerca e sviluppo, nonché di estrarre le proprie risorse naturali ed energetiche. In più -per non farci mancare niente- abbiamo scelto di rinunciare all’elettricità prodotta dalle centrali nucleari (e ne abbiamo ugualmente numerose, appartenenti ad altre nazioni ma a pochi chilometri dai nostri confini settentrionali).

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Le piccole e medie aziende che sopravviveranno perciò sono quasi soltanto quelle collegate ai filoni alimentare, sanitario e meccanico (e queste ultime quasi soltanto per le esportazioni). I servizi e i consumi interni languono, e il turismo, la ristorazione e l’intrattenimento sono ancora sono sotto la cappa dell’emergenza pandemica. Come non parlare poi delle banche italiane, ancora importantissime per finanziare le piccole e medie imprese eppure in grande difficoltà perché tutti stimano una mole di insoluti assolutamente fuori dalla normalità. Sono immancabilmente sotto tiro (stanno perdendo quasi il 20% del valore di capitalizzazione di borsa da inizio d’anno e oltre il 30% dai massimi di febbraio) a riprova della gravità della situazione e del timore che stavolta il supporto della Banca Centrale sarà meno generoso!

CHI POTRÀ INTERVENIRE A SUPPORTO?

Cosa possiamo aspettarci dunque in termini di performance economica? Probabilmente le imprese davvero innovative, più capaci di organizzarsi e di rapportarsi meglio con il resto del mondo otterranno ugualmente credito e capitali. Saranno però alcune centinaia al massimo quelle che si quoteranno in Borsa, otterranno Minibond o troveranno la possibilità di aggregarsi e di ricevere aumenti di capitale. Troppo poche per un impatto significativo sull’economia dell’intero Paese. Le altre dipendono dai capitali propri e dal sistema bancario, che però è più che mai allergico a sostenerle.

In altri tempi si sarebbero potuti invocare aiuti di Stato, finanziamenti e investimenti pubblici, la fiscalizzazione degli oneri sociali e qualche ulteriore credito d’imposta. Ma oggi, che siamo sotto il mirino degli osservatori europei per ottenerne il sostegno del nostro debito pubblico e nelle mire dei vari speculatori globali, per il commercio e lo sfruttamento dei beni reali dati in garanzia dei crediti incagliati, sarà molto più difficile invocare altri interventi di Stato che amplierebbero il deficit pubblico o la clemenza dei creditori.

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IL RISCHIO E’ QUELLO DI ASSOMIGLIARE AL SUD-AMERICA

Vediamo perciò una serie di analogie con le vicende dei decenni scorsi nei paesi dell’America Latina. Se l’economia si ferma, noi rischiamo di diventare un una riserva di caccia a disposizione di Americani ed Europei del nord che vogliano fare shopping di aziende in crisi e immobili strategici! Anche se la guerra in corso non subirà un’escalation, le nostre posizioni politiche dovrebbero tenere conto di ciò che ci aspetta dal punto di vista pratico se non vogliono che il Paese finisca in ginocchio.

Gli “alleati” occidentali, imponendoci sanzioni e vincoli allo scambio con la Federazione Russa, stringono cioè di fatto le nostre imprese in un angolo in nome della solidarietà alle vittime delle aggressioni militari. Niente da obiettare, certo, nella misura in cui si trovi il modo di porvi adeguato rimedio economico! Tenendo anche conto del fatto che i paesi che oggi si trovano “oltre cortina”, iniziano ovviamente a considerarci nemici, tanto quanto gli altri paesi occidentali, che però sono nostri rivali di fatto nelle esportazioni (Germania e Francia, in primis) e nell’attrarre investimenti dall’estero.

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COSA FARE?

L’Italia con la sua forte dipendenza dall’estero (per il fatto che non ha una banca centrale, e per la provenienza delle principali fonti energetiche) dovrebbe elaborare invece una propria urgente strategia di sopravvivenza! Basata su defiscalizzazioni degli investimenti, facilitazioni burocratiche, rimpatrio dei capitali, semplificazioni per chi localizza stabilimenti produttivi, premi per chi assume e riduzione dei costi burocratici.

Per non parlare dell’importantissimo ruolo dell’Unione Europea e della relativa Banca Centrale: se l’inflazione deriva da uno shock da offerta non ha senso parlare di restrizioni monetarie, casomai occorrerà l’opposto! E se il rincaro dei prezzi rischia di affossare l’economia bisogna trovare il modo di fare arrivare ai consumatori risorse e liquidità, e di accelerare la velocità di circolazione della moneta.

Riteniamo anche che -se non subito- alla fine questo possa avvenire. E la liquidità aiuterà le borse, come tre-quattro mesi dopo lo shock da COVID. Ma difficilmente controbilancerà il problema del credito (così come è successo allora). Se poi le politiche di transizione verde impongono alle imprese costi che al momento esse non possono permettersi, ecco che bisognerebbe sollevarle temporaneamente dai relativi oneri.

Solo così il nostro paese e il nostro continente potrebbero cercare di contrastare la deriva negativa e contrastare l’impatto delle sanzioni. Le guerre però si combattono purtroppo anche a livello economico e, sebbene le sanzioni siano rivolte a qualcun altro, se non poniamo adeguati rimedi esse danneggiano (talvolta irrimediabilmente) anche chi le applica!

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Stefano di Tommaso




OLTRE L’ORIZZONTE

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Cosa succederà di qui a breve? Tutti si sperticano in previsioni catastrofiche e, in effetti, non c’è troppo da stare allegri. Ma oltre l’orizzonte degli eventi (e se non accadrà dell’altro) si può cercare di ragionare per immaginare cosa ci aspetta sulla base delle recenti esperienze. E non tutti i mali vengono per nuocere!

 

LA MISURA ERA COLMA

Tanto tuonò che piovve: la tradizione vuole che la frase fosse esclamata da Socrate dopo che la moglie, avendolo rumorosamente e platealmente redarguito sulla soglia casa, gli rovesciò addosso un vaso d’acqua. Cioè la misura era colma. Quello che non avremmo ragionevolmente ritenuto probabile è successo (l’attacco della Russia all’Ucraina) e l’occidente ha reagito con pesanti sanzioni economiche alla Russia. E non c’è da stupirsi se, dopo tale scelta, e anche la Russia porrà in atto misure simmetriche di ritorsione o se i suoi alleati (Cina in primis) prenderanno ancor più le distanze dall’Occidente. Di seguito l’indice delle materie prime energetiche aggiornato allo scorso venerdì (di pari passo pare che il Petrolio Brent sia giunto a 130$ per barile):

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Ciò danneggia non poco lo sviluppo economico, soprattutto quello dell’Europa. Tuttavia ancora non è chiaro il vero motivo per cui è la Russia ha sferrato l’attacco. Abbiamo ascoltato teorie di tutti i generi e l’unica cosa che abbiamo capito è proprio di non averlo compreso. Le informazioni-chiave sono rimaste occulte e forse non ce n’era da stupirsene. Questo però ricorda la presenza di variabili a-sistemiche nelle possibili previsioni che ci accingiamo a fare, di cui bisognerà tenere conto per non essere troppo sicuri del futuro.

LE BORSE, NEL DUBBIO, HANNO FATTO RETROMARCIA

Le borse -di fronte all’incertezza- hanno supinamente accusato il colpo, con una serie di ribassi che (a livello globale) hanno toccato circa un quinto del loro valore di capitalizzazione. E l’inflazione ha subìto un’impennata ulteriore, che per il momento non viene riportata dalle statistiche ufficiali, ma che non si farà attendere nell’appesantire l’elenco dei danni economici. I tassi impliciti nelle quotazioni dei titoli a reddito fisso sono dì conseguenza saliti ulteriormente, facendone crollare il valore. Lo scenario che si prospetta ai nostri occhi perciò è quello dei postumi di un campo di battaglia. Col rischio di camminare sul terreno ancora minato, ma anche con altrettante opportunità di cui trarre profitto dopo la devastazione intervenuta. Di seguito l’indice più noto relativo all’andamento medio di tutte le borse del mondo (che riporta una perdita da inizio anno di oltre il 12%:

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Chiaramente nulla accade a sproposito. In uno scenario in cui il potere d’acquisto dei consumatori occidentali viene meno a causa degli incrementi dei prezzi, in cui il debito pubblico diviene meno sostenibile a causa del rialzo del costo del debito, e in cui il denaro in circolazione rischia di scarseggiare (se non interverrà la Banca Centrale Europea), allora anche le prospettive di profitto delle imprese si riducono, e inevitabilmente scende il valore intrinseco delle azioni di società quotate in borsa.

MA POI… COSA CI ATTENDE?

Questo però attiene allo shock del momento, non alle prospettive di lungo termine, a meno che anche la guerra in atto, ancora vista dai più come una manovra di neutralizzazione del potenziale militare ucraino, possa estendersi, se non al resto del mondo, quantomeno ad altre zone dell’est europeo (ipotesi improbabile, ma lo era stato anche l’attacco russo).

Però -ai fini di poter valutare correttamente le conseguenze in termini pratici ed economici di ciò che accade- occorre chiedersi di quale termine ai nostri occhi può essere considerato lungo, e quale lo sia agli occhi di chi investe sui mercati. La guerra in atto infatti non sembra destinata a terminare presto, tanto per l’invio ai ribelli dell’Ucraina di armi e supporti da parte dell’Europa, quanto per la determinazione mostrata da Putin in risposta alle provocazioni subite.

La sensazione è pertanto che quella in corso si possa trasformare in una lunga guerra di posizione, dove le truppe della Federazione Russa punteranno a raggiungere un disarmo unilaterale dell’Ucraina e la sua “neutralizzazione” (fino all’instaurazione di un governo di transizione) cercando di non colpire la popolazione civile e le abitazioni, mentre i ribelli (e chi da dietro soffia sul fuoco della rivolta) punterà invece a creare situazioni di panico, a trasmetterne le drammatiche immagini in occidente per giustificarne il supporto logistico, e a trasformare i campi ucraini in qualcosa di simile alle foreste amazzoniche del Vietnam, dove la Russia possa incontrare un notevole impedimento a completare in fretta la sua campagna militare.

Se ciò sarà (ed è piuttosto probabile) si possono prevedere due scenari: che la Russia attenda pazientemente di completare la sua opera secondo le direttive attuali, oppure che possa alzare la posta in gioco, anche grazie al principio del “perso per perso” (dal momento che l’occidente la dipinge già come un regime sanguinario, tanto vale incrementare la pressione militare e terminare prima possibile l’operazione).

LE MACRO-VARIABILI ECONOMICHE

Anche se non sappiamo quale dei due si materializzerà, dal punto di vista economico poco cambierà: gli scenari prospettati sono entrambi negativi per le macro-variabili economiche, che proviamo qui sotto a prevedere :

  1. La tensione alimenta costantemente il rincaro dell’energia e delle materie prime (carbone compreso) e il mondo scopre anche di averne più fame di quanto pensava (nonostante le dichiarazioni sulla transizione verde), mentre i paesi estrattori di petrolio e gas hanno bellamente ignorato l’appello a calmierare i loro prezzi, godendo di extra-profitti.
  2. Tanto gli investimenti quanto gli utili delle imprese probabilmente prenderanno una pausa, contribuendo a deprimere i prodotti interni lordi occidentali e il valore intrinseco delle aziende. E potrebbe frenare anche le fusioni e acquisizioni.
  3. I titoli azionari quotati in borsa di conseguenza potrebbero continuare a scendere ma, come ai tempi del primo impatto da Covid19, le borse hanno già notevolmente anticipato gli eventi con importanti e bruschi cali dei loro listini, dunque una volta che la prospettiva dovesse chiarirsi con la mancata escalation del conflitto, le loro quotazioni potrebbero rimbalzare.
  4. Ovviamente come in tutti i casi di precedenti “cigni neri” le azioni delle imprese quotate (se mai dovessero farlo) non risaliranno tutte allo stesso modo: alcune addirittura potrebbero guadagnarci, altre è possibile che restino depresse, perché questi eventi accelerano sempre il ritmo dei cambiamenti di lungo periodo.
  5. Non è infine chiaro come reagiranno le banche centrali: se si muoveranno nella più completa razionalità, allora dovrebbero prendere atto che l’inflazione è la conseguenza di diversi e successivi shock da mancata offerta e che a nulla servirebbe alzare i tassi, cambiando rotta e inondando di nuovo di liquidità il sistema bancario (che adesso rischia il collasso). Contribuendo così anch’esse alla risalita delle borse e a favorire l’arrivo di nuove matricole. Ma non v’è alcuna certezza in tal senso: la vecchia scuola potrebbe sempre prevalere!

I SETTORI PIÙ A RISCHIO

Se le banche centrali daranno una mano però, abbiamo visto come sia probabile che soltanto i titoli azionari di alcuni settori industriali torneranno a crescere, ed è possibile che stavolta siano soltanto i bond a breve scadenza quelli che risaliranno un po’ di prezzo, dal momento che è divenuto sempre più chiaro che l’inflazione è arrivata per restare, e che non ha ancora finito di scaricarsi a valle e sui beni di prima necessità.

Dunque una parte della “decrescita” economica (seppure le statistiche pubbliche come sempre troveranno il modo di addolcire la pillola) ci sarà per forza, e l’inflazione di molti prezzi al consumo non potrà che proseguire il suo percorso. Tutto questo è molto negativo per i settori tradizionali, per i servizi, per le “vendite al dettaglio” e per i beni voluttuari. Forse con la possibile eccezione di immobili, beni di lusso e beni-rifugio (come l’arte o il collezionismo) che invece troveranno alimento dalla loro funzione di “protezione del valore” dall’erosione inflativa.

E I SETTORI CHE CI GUADAGNANO

Quel che si può tuttavia aggiungere è che -mentre tutto ciò accade- nessuno resterà inerme a guardare (né i governi né gli imprenditori), per diversi importanti motivi, e che quindi possiamo attenderci che ci sarà -oltre all’avvio prosieguo della sempre maggior concentrazione della ricchezza in poche mani- anche una ripresa degli investimenti, degli incentivi fiscali e del finanziamento delle nuove tecnologie, da quelle per ridurre consumi ed emissioni, a quelle per produrre energia verde, fino a quelle per la riduzione di ogni genere di costi, a partire dalla robotica avanzata (innanzitutto volta all’automazione industriale):

LA LIQUIDITÀ E LE INNOVAZIONI POTREBBERO AIUTARE LE BORSE

Così come è successo qualche mese dopo l’arrivo della pandemia insomma, in assenza di un’escalation senza fine della tensione geopolitica (sulla quale -ripetiamo- non ci è possibile in alcun modo fare previsioni sensate) e con un aiutino delle banche centrali, potrebbe accadere quel che successe nella seconda metà del 2020: che le borse si riprenderanno e che le nuove tecnologie torneranno ad essere grandi protagoniste dell’accelerazione del cambiamento dei costumi. Soprattutto però quelle cinesi e americane. Le quali potrebbero risultare le grandi vincitrici della pace che seguirà (speriamo) alla guerra.

Chi ha già venduto perciò in borsa forse ha fatto bene, dal momento che la prosecuzione della rotazione dei portafogli potrebbe riservare altre sorprese. Così come chi ha già effettuato importanti investimenti lo ha fatto probabilmente a sconto sui prezzi futuri. Chi invece sta meditando di farlo adesso (o di entrare sul mercato azionario a questi prezzi scontati) si trova a muoversi in assenza di una tendenza definita. L’eventuale escalation militare poi è tutt’altro che esclusa, anche se ci si rende conto del fatto che sarebbe drammatica.

Non è facile perciò riuscire a interpretare le grandi trasformazioni di fondo dell’economia, onde non imboccare la strada sbagliata! Se non lo si è già fatto conviene piuttosto raccogliere del denaro (a titolo di finanziamenti o di capitale), e attendere invece nell’investirlo.

Stefano di Tommaso




DELLA FOLLIA E DELLE SUE CONSEGUENZE

LA COMPAGNIA HOLDING
Al di là delle ragioni e delle colpe del conflitto armato ucraino, l’Europa rischia di pagare un prezzo molto elevato per il suo sostegno alle posizioni americane, tanto in termini di forniture energetiche e mancate esportazioni, quanto per i maggiori costi cui andranno incontro le sue imprese. Senza contare il fatto che sarà chiamata più di chiunque altro a sostenere l’emergenza umanitaria. Una nuova cortina di ferro ad Est potrebbe poi rivelarsi in uno svantaggio netto per il nostro continente. Le borse lo hanno già decretato da giorni ma la campagna mediatica di sostegno all’Ucraina sembra volercelo far dimenticare. Intanto le bollette salgono e la ripresa rallenta…

 

LE RAGIONI DEL CONFLITTO

Purtroppo è successo. Sembrava che la guerra non dovesse scoppiare perché rappresentava un esito poco razionale di un confronto decisamente strategico. Avevamo ritenuto che la partita dell’Ucraina potesse andare senza troppo clamore verso una soluzione simile a quella della Crimea. O semplicemente che tutti avrebbero fatto un passo indietro. Invece è successo: la Russia ha attaccato e ha spiegato il suo perché ai pochi che hanno voluto davvero saperlo: il governo di una delle popolazioni più estremiste del pianeta ha compiuto una serie di scelte che sembrano dettate soltanto dalla follia. In particolare ciò che ha determinato l’ “opzione militare” da parte russa sono stati tre elementi: 1) l’installazione di una nuova base missilistica nucleare in Ucraina che puntava verso Mosca, (i media di questo quasi non parlano) 2) l’intensificarsi del bombardamento della popolazione civile nelle repubbliche separatiste e 3) una nuova doppia dichiarazione del presidente Zelenski di voler aderire sia all’organizzazione militare della NATO che all’Unione Europea. Tutto nelle ultime ore.

Così al suo ingombrante (e preoccupatissimo) confinante non è rimasta altra scelta che attaccare tentando di azzerare il potenziale bellico (e belligerante) che si andava accumulando ai propri confini. Pura follia. Ma follia è stata anche quella di Zelenski di rifiutare sistematicamente ogni compromesso che tenesse conto a delle esigenze di sicurezza della Russia. In quanto titolare delle maggiori risorse naturali del mondo la Russia è stata progressivamente pervasa dalla sensazione di accerchiamento da quando la NATO si è allargata a dismisura lungo i suoi confini. Ciò perché all’avvicinamento delle batterie di missili nemici consegue la possibilità di essere aggredita senza riuscire ad avere tempo di rispondere, azzerando il suo potenziale di dissuasione nucleare.

LA FOLLIA HA PREVALSO

Ma follia è stato per la Russia il decidere di passare all’azione militare, perché -sebbene le istruzioni impartite alle milizie possano essere state quelle di colpire soltanto obiettivi militari, l’esercito non sa agire che in un solo modo: colpire. E la possibilità di sacrificare vite umane in caso di attacco militare non si può mai escludere. Si potrà affermare che non era rimasta alla Russia alcuna opzione possibile, ma la verità è che non esiste mai una “opzione militare” davvero saggia. Così come non esiste mai la possibilità di riuscire nella “guerra lampo” (quel blitz-krieg tanto caro ai nazisti che però non ha mai funzionato). Casomai poteva esistere sulla carta una manovra immobilizzante, ma sappiamo che nemmeno questa in Ucraina aveva molte speranze di riuscita. Troppe variabili sono in gioco e troppo imprevedibile è quella popolazione, che fin dai tempi delle guerre zariste era nota per la sua capacità di estremizzare qualsiasi posizione. Insomma, da ogni punto di vista la Russia non doveva attaccare l’Ucraina.

Ma è stata follia anche incitare la popolazione delle città ucraine a rispondere all’invasione con la guerriglia urbana! È ovvio che ciò può avere un costo altissimo in termini di vite umane. Follia è poi, da parte di vari stati europei, fornire alla popolazione civile dell’Ucraina armi e munizioni senza chiedersi cosa ciò può comportare come conseguenza. Si poteva cercare elementi di dissuasione (quale poteva essere l’intervento di truppe ONU, o addirittura si poteva fornire all’Ucraina delle batterie di missili contraerei di nuova generazione (come i Patriot utilizzati in Israele) che forse sarebbero stati capaci di bloccare la maggior parte degli attacchi russi. Ma non soltanto tutto ciò avrebbe avuto un costo finanziario altissimo che evidentemente nessuno si sentiva pronto a sostenere. Soprattutto avrebbe potuto costringere i contendenti a sedersi al tavolo delle trattative. Cosa che, altrettanto evidentemente, non era davvero desiderata dall’Occidente. E allora viene da chiedersene il perché.

QUALI FINALITÀ ?

L’essersi assicurati un’ovvia prosecuzione del conflitto per chissà quanti mesi probabilmente può rispondere a disegni militari e geopolitici americani. Sia perché costituisce l’esatto contrario di ciò che invece poteva sperare la Russia con il suo “blitz”. Ma anche perché ciò manterrà in alto ancora a lungo il prezzo di gas e petrolio (di cui gli USA sono esportatori). Poco importa che altrettanto probabilmente ciò determinerà sofferenza, morte e distruzione in Ucraina e forse non solo lì. D’altra parte questa strategia è in perfetta coerenza con quella di continuare ad alimentare (da otto anni oramai) la guerriglia di stato tra l’esercito regolare dell’Ucraina e i separatisti filo russi delle sue regioni di confine, sino ad auspicare la cosiddetta “pulizia etnica” spingendo la popolazione a fuggire profuga in Russia, così come era successo in Kosovo con la cacciata delle popolazioni non musulmane.

La volontà di umiliare il nemico costringendolo ad un conflitto terrestre non si può però giustificare se per farlo occorre far morire centinaia di migliaia di cittadini (vittime più o meno inconsapevoli dei grandi giochi internazionali). Averli frettolosamente addestrati ed armati è stato come mettere un oggetto contundente nelle mani di un infante: il disastro è decisamente probabile. La condanna della follia di tutti questi eventi e della guerra stessa dovrebbe essere perciò bilaterale, e invece politici e giornalisti occidentali sembrano guardare solo in una direzione.

LE CONSEGUENZE PRATICHE DEL CONFLITTO

Ma soprattutto quel che ci dovrebbe interessare di più sono le conseguenze pratiche di questa guerra per noi Europei, per le nostre attività economiche e per le partnership industriali con l’Oriente. Innanzitutto vediamo allora le conseguenze economiche: è difficile oggi rispondere alla domanda principe: come se la caverà l’Europa con il prezzo delle risorse naturali alle stelle? Male grazie! Ma è altrettanto difficile misurare anche le ricadute a medio/lungo termine delle nostre severissime “scelte di campo”. Lo schiacciamento politico dell’Unione Europea sulle scelte filoatlantiche rischia infatti di avere un costo.

L’industria del vecchio continente non vive granchè di esportazioni in Africa e America tanto quanto di quelle in Asia e nel bacino pacifico. Le seconde sono da tempo molto più importanti delle prime. E nelle aree di influenza russa e cinese le nostre “scelte di campo” rischiano di venire assai poco apprezzate in futuro. Cosa succederà se questo dovesse determinare un inaridimento degli scambi economici con la parte del mondo più vitale e più in sviluppo?

Ma soprattutto cosa succederà se potremo importare sempre meno risorse naturali dalla Russia? Cosa succederà a tutte quelle imprese “energivore” che per almeno un paio di anni dovranno fronteggiare costi decisamente eccessivi? E’ ovvio che alcune chiuderanno o falliranno. E che altre dovranno riallinearsi su posizioni e modalità di gestione completamente diverse se vorranno sopravvivere. Tanto nelle fabbriche come nei servizi. Persino la finanza e le opere infrastrutturali subiranno forti contraccolpi e rallentamenti.

E LA CINA POTREBBE DECIDERE DI SCHIERARSI

Per non parlare delle nostre vie di comunicazione e dello scambio delle merci, che potrebbero risultare ridotte verso oriente, dal momento che, col proseguire del conflitto, la Cina (che al momento non sembra ancora volerci mettere bocca) potrebbe nel tempo avere tutto l’interesse a schierarsi più decisamente con la Federazione Russa per offrirle a Oriente quello sbocco naturale che l’Occidente vorrebbe negarle. Una nuova cortina di ferro a est dell’Europa insomma è decisamente contraria ai nostri interessi economici. Noi europei rischiamo di assomigliare al sud-America con l’assottigliamento delle esportazioni di prodotti, servizi e tecnologia verso i mercati orientali. Venderemo cioè meno automobili, impianti, turismo, accessori di lusso e sistemi di software. Perderemo dei posti di lavoro e assottiglieremo i nostri margini industriali. Se si pensa che parallelamente il potere d’acquisto dei salari non potrà che scendere, ecco che possiamo prendere una misura di quello che ci aspetta.

LE BORSE VALORI SCENDONO (QUASI) SOLO IN EUROPA

Le borse valori, non a caso, già stanno scontando tutto ciò penalizzando le quotazioni delle relative imprese coinvolte in Europa e invece recuperando più o meno integralmente le perdite quelle di oltreoceano. Purtroppo, per i motivi che seguono, nemmeno le prospettive sono più così interessanti per le borse europee, dal momento che l’inflazione al galoppo (al seguito della probabile scarsità di gas) non fa ben sperare per i profitti delle imprese. Diverso sarebbe se la Banca Centrale Europea dovesse decidere di riaprire i rubinetti della liquidità a seguito del peggioramento dello scenario, così come ha fatto la Banca Centrale della Cina: allora probabilmente le borse potrebbero tornare a correre ancora per un po’. Ma pesano anche le difficili prospettive per l’anno prossimo. Ragione per cui è ragionevole attendersi nel complesso molta cautela di chi investe in borsa e molta selettività.

I SETTORI (E I PAESI) PIÙ SVANTAGGIATI

C’è infine una considerazione da fare in termini strategici: così com’è successo con la pandemia, anche con l’iper-inflazione in arrivo noi subiremo un’indigesta e forte “disruption” dei vari settori industriali. Cambieranno cioè molti paradigmi. Il rialzo dei costi energetici e l’iper-inflazione in arrivo determineranno un impoverimento del potere d’acquisto dei salari e un calo dei mercati domestici di vendita dei nostri prodotti e servizi. Penalizzando quindi parte dell’industria che ha sempre contraddistinto l’Italia: lo stile, la moda, il tessile, il lusso e l’arredo casa. Le imprese del “made in Italy” rischiano poi seriamente di vendere di meno anche in Oriente.

E se il prezzo dell’energia e l’inflazione ridurranno il potenziale di crescita economica, le nostre banche avranno meno margini e molti più crediti in sofferenza. Le nostre proprietà immobiliari perderanno valore a causa della citata “deflazione salariale” di fatto imposta dai cambi rigidi e dalla poca liquidità che circolerà come conseguenza della restrizione degli spazi potenziali per le nostre esportazioni.

La risalita dei tassi nominali che consegue all’inflazione rilancerà poi ancora una volta i problemi di eccesso di debito dell’Italia e la nostra dipendenza dalla banca centrale europea. Il rialzo dei costi accelererà inoltre la domanda di tecnologia e, a tutti i livelli, di prodotti e servizi “digitali”. Da questa “disruption” è assolutamente evidente che guadagneranno quasi soltanto gli americani ed è altrettanto evidente che ci perderanno quasi soltanto gli europei e in particolare Germania e Italia che hanno la maggior potenza industriale.

GLI OBIETTIVI AMERICANI E I COSTI PER L’EUROPA

I nostri “alleati” insomma non sono del tutto disinteressati nelle scelte strategiche che ci impongono con l’espansione a est della NATO. E stanno soltanto portando avanti un doppio disegno egemonico: oggi riducendo gli spazi di interlocuzione dell’Europa con l’Oriente, domani cercando di trovare un punto di rottura nella resistenza all’occidentalizzazione del gigante russo, dal momento che -per le grandi multinazionali- il controllo delle risorse naturali russe potrebbe aiutarle a consolidare la loro egemonia economica anche nei confronti delle imprese del sud-est asiatico, dove invece la Cina sta arrivando a prevalere e dove l’India sta iniziando a guadagnare una propria autonomia politica.

I nostri leader di governo probabilmente lo comprendono benissimo, ma per qualche ragione non si comportano di conseguenza. L’Europa avrebbe cioè tutto l’interesse, se non a tenere rapporti di buon vicinato con la Federazione Russa, almeno a condannarla si, ma anche a non allinearsi a infliggere pesantissime sanzioni economiche, che danneggeranno inevitabilmente anche sé stessa. Si limita invece ad allinearsi alle scelte americane, anche quando significano spargere altro sangue o perdere posizioni economiche che rischiamo di non recuperare mai più. I mezzi di comunicazione di massa potranno anche tentare di presentare ai nostri occhi una storia diversa, ma la verità, si sa, alla fine emerge sempre, almeno sino a quando resterà ancora acceso qualche barlume di democrazia!

Stefano di Tommaso