CI VORREBBE UN MIRACOLO

I contorni di una recessione diventano sempre più nitidi in tutto l’Occidente, nonostante il fatto che l’Europa debba fronteggiare crisi energetiche senza precedenti e l’America no. La Banca Centrale Europea (BCE) stima una decrescita vicina all’1% del prodotto interno lordo per l’anno in corso nel caso di blocco delle importazioni di gas russo, che però è già una realtà, dal momento che la turbina che manca al North Stream 1 il Canada se la tiene stretta e nessuno preme il pulsante per l’utilizzo del North Stream 2, che anzi i media di tutto il mondo fingono di dimenticare.

 


UN DISASTRO ANNUNCIATO

Dunque si tratta di un disastro annunciato, e forse procurato inutilmente. Si calcola che soltanto in Italia nei prossimi 2 trimestri solari mancheranno all’appello ben 11 milioni di metri cubi di gas, con il rischio quindi che molte industrie si fermeranno e che, nell’ inutile tentativo di prolungarne le scorte, si arrivi a razionarlo, con molte famiglie che evidentemente resteranno in casa col cappotto.

C’è poi l’altra faccia della medaglia, e cioè il caro-bolletta, che porterà ugualmente molte imprese (soprattutto quelle artigiane) a fermarsi oppure ad imporre un forte rincaro. Il centro studi di confindustria ha stimato che la sua incidenza sui costi di produzione sia passata dal 4-5% degli anni precedenti al 9-10% di quest’anno (cioè il doppio) e possa arrivare al 14% nel 2023 (cioè a circa il triplo) se il gas russo continuerà a mancare. E questo con un prezzo di 235 euro quest’anno e 298 nel 2023: se dovesse crescere ancora sarebbe ancora peggio.


I guai però non sono confinati all’Europa cui manca il gas perché l’inflazione continua a incombere e, che abbia raggiunto o meno il suo picco, volteggia ben al di sopra dei tassi d’interesse nominali oggi in vigore (intorno al 9% per entrambe le sponde dell’Atlantico), ragion per cui tanto la Federal Reserve Bank of America (FED) quanto la BCE saranno costrette a continuare ancora a lungo ad alzare i tassi d’interesse, oggi ancora al di sotto del 2%, e saranno puntualmente seguite tanto dalla Banca d’Inghilterra quanto da quelle centrali del Canada e dell’Australia.

ASPETTANDO RI RIALZI DEI TASSI

Addirittura si parla di un incremento che potrebbe oscillare tra i tre quarti di punto percentuale e un punto intero per la FED che si riunirà il prossimo Giovedì, con l’ovvia conseguenza che anche le altre banche centrali seguiranno. Già così infatti il Dollaro continua a mostrare i muscoli sfondando tetti che non vedeva da vent’anni e più, figuriamoci se le altre banche centrali non dovessero alzare i tassi anche loro. Ovviamente il caro-gas si riflette in un petrolio più caro, e non soltanto per coloro che devono pagarlo in Dollari ma addirittura anche indipendentemente, visto che c’è il bando delle importazioni anche sul petrolio, se proviene dalla Russia (che però annovera una porzione consistente delle forniture mondiali di greggio). In pratica, scarseggiando anche questo, non è improbabile che le sue quotazioni (già risalite oltre i 90 dollari per barile) superino con l’arrivo dell’autunno di nuovo quota 100.


In pratica in tutta Europa si stima che la frenata indotta da costi e scarsità dell’energia nel prodotto interno lordo arrivi al 3% tra il 2022 e il 2023 con la perdita di ben oltre 1/2 milione di posti di lavoro. E sempre che il resto del mondo non si avviti di nuovo in una recessione feroce, perché sino ad oggi l’export continentale ha mostrato una decisa resilienza, la quale invece verrebbe meno nello scenario peggiore. Per l’America, il Regno Unito, il Canada, l’Australia e i paesi scandinavi la minaccia è meno feroce che per l’Europa continentale, dal momento che sono tutti estrattori in proprio di gas e petrolio e che quindi quantomeno le loro fabbriche più difficilmente si fermeranno. Come si può ben leggere nel grafico qui riportato, il peso dell’energia sul totale del prodotto interno lordo è cresciuto ben di più in Europa che in America.


VALE LA PENA DI INTESTARDIRSI?

  • Fin qui i fatti e i numeri, che risultano immancabilmente testardi anche quando si volesse provare a scompigliarli visto che quasi tutto l’occidente risulta in campagna elettorale. Anzi, questa coincidenza appare terribile, a ben guardarla, perché è la garanzia più forte del fatto che gli attuali governi faranno nel frattempo ben poco per contrastare l’orrenda deriva appena descritta, in attesa di essere sostituiti da quelli in arrivo.

E alla luce di questi fatti ben si comprende la gogna mediatica cui è stato sottoposto negli ultimi giorni il governo ungherese, reo di aver deciso che il carovita dei propri cittadini viene prima delle strategie di pressione internazionali sulla Russia. E scrivo di gogna mediatica perché, a quanto risulta, all’atto pratico la Commissione Europea ha partorito soltanto minacce nei confronti di Victor Orban e dei suoi ministri, che però il gas continuano a riceverlo a buon mercato dalla Russia. Mentre al resto d’Europa gli Stati Uniti (che il gas lo esportano con le navi in grande quantità) hanno fatto sapere che non interverranno con un maggior quantitativo di forniture. Dunque risulta anche piuttosto teorico il dibattito sui nuovi rigassificatori in Italia, dal momento che al momento rimarrebbero parzialmente inutilizzati.

Per non parlare delle politiche di transizione energetiche, delle quali -appunto- non parla proprio più nessuno in questo momento, dopo i grandi sbandieramenti cui abbiamo assistito fino a tutto il 2021. L’incremento della produzione di energia da fonti rinnovabili è sicuramente in corso, ma i suoi tempi non sono compatibili con il taglio repentino degli approvvigionamenti delle materie prime energetiche cui stiamo assistendo, ragione per cui il resto d’Europa continua a tenere accese le centrali nucleari e torna a bruciare il carbon fossile in grande quantità. In questa situazione chi rischia di pagare più salato il conto delle strategie geopolitiche messe in atto a livello atlantico è sicuramente il polo produttivo italiano della pianura padana e del circostante arco alpino, dove le temperature sono più rigide in inverno e dove si concentra la maggior parte delle produzioni industriali energivore.


CI VORREBBE UN MIRACOLO

Ci vorrebbe dunque un miracolo perché l’economia europea (e in particolare quella italiana) non prenda una nuova e più potente sbandata che la induca a subire ulteriori arretramenti nella classifica internazionale dei paesi più industrializzati. Qualcuno ha fatto notare che, in previsione di tutto ciò, è per questo motivo che le elezioni politiche sono state indotte così in fretta. Perché gli attuali governanti non debbano rispondere dei danni all’economia che si manifesteranno in autunno come conseguenza dell’aver accettato supinamente ogni richiesta atlantica, ivi compresi i 12-13 miliardi di euro di debito aggiuntivo per fornire nuove armi al governo di Zelenski.

La nostra borsa però non è destinata a riflettere il dramma che l’economia reale si accinge a subìre nei prossimi mesi. Innanzitutto perché i rialzi dei tassi d’interesse fanno bene ai conti delle banche, il cui peso sul totale del listino italiano non è affatto basso. E poi perché ha già forse subìto più delle altre borse internazionali il problema del caro-energia mentre il numero delle società quotate continua a diminuire per effetto delle migrazioni delle grandi imprese verso le borse più importanti del pianeta. Dunque a parità di domanda mancherà l’offerta.

Per cui è probabile che Piazza Affari si ridimensioni sì ancora un po’ ma non crolli affatto. Casomai il problema dei mercati finanziari al di quà delle alpi sarà quello dell’eccesso di debito pubblico pubblico, che con il rialzo dei tassi tornerà di grande attualità, e condizionerà non poco gli eventuali provvedimenti che il nuovo governo potrà adottare per stimolare la ripresa. Una situazione che non potrà non condizionare il risiko delle compravendite bancarie, desertificando ulteriormente il panorama delle alternative a disposizione delle piccole imprese per reperire credito. E spingendole ancora una volta a chiudere o ad aggregarsi oppure a reperire capitali di rischio.

MA QUEL MIRACOLO, FORSE, STA ARRIVANDO

Ma quel miracolo forse sta arrivando. Ci sono tuttavia dei segnali di distensione tra gli speculatori sui prezzi a termine (i “futures”) del gas i quali potrebbero indicare un’anticipazione di ciò che Russia e Cina potrebbero aver concordato nel vertice di Samarcanda: la riapertura del gasdotto North Stream 1 da parte della Russia. I motivi, politici, strategici o altro non è dato di conoscerli dal momento che non è nemmeno sicuro che succederà, ma il segnale fa il paio con la proposta di Putin di riaprire i negoziati di pace per l’Ucraina, segnale di fatto snobbata tanto da Zelenski quanto dai media nostrani ma che, se portato avanti con insistenza, non potrebbe essere ignorato. Se la Russia mostrasse infatti una forte volontà di ridurre la tensione in corso è piuttosto probabile che lo potrebbe fare accompagnando la strategia diplomatica con un gesto di “amicizia” verso l’Europa, e in particolare verso la Germania, che ha indubbiamente subìto il diktat americano e che rischia di stracciare il proprio tessuto manifatturiero.

Ora è evidente che, qualora la Russia mostrasse di voler fare sul serio, non solo non ci sarebbero i famigerati razionamenti, ma i prezzi dell’energia scenderebbero decisamente così pure come il cambio del Dollaro, che ha sino ad oggi indubbiamente beneficiato dei rischi di guerra. E chi ci guadagnerebbe di più potrebbe essere l’Europa, dal momento che è quella che ha più da perdere nello scenario opposto. Una mossa che indubbiamente scompiglierebbe gli alleati occidentali, alle prese con un’America che vuole vincere sempre e a prescindere e un’Europa continentale che, in preda alla crisi che sta arrivando, rischierebbe soltanto di accelerare le sue divisioni!

Stefano di Tommaso




NELL’OCCHIO DEL CICLONE

Ci sono segnali di ottimismo per i prezzi dell’energia, per l’inflazione e forse anche per i mercati finanziari. Cosa succede? Le tensioni internazionali sono destinate a scemare? Purtroppo l’analisi qui condotta porta in direzione opposta: il miglioramento della situazione sembra del tutto transitorio, come quando ci si trova “nell’occhio del ciclone”!

 

Con la pandemia prima, poi con l’inflazione dei prezzi e infine con lo scoppio della guerra in Ucraina, un vero e proprio ciclone sembra aver colpito l’Occidente e i suoi mercati finanziari, che sembravano inizialmente essersi mirabilmente ripresi fino alla fine del 2021 per poi ripiombare in discesa e, soprattutto, veder innalzare clamorosamente tassi di interesse e costi dei debiti pubblici.

In particolare la zona economica che ha subìto le peggiori conseguenze è senza dubbio l’Eurozona, l’area dei paesi che hanno adottato la moneta unica e la banca centrale europee, rinunciando a quelle nazionali. Non soltanto l’inflazione infatti sta erodendo i consumi privati e l’efficienza delle imprese industriali, ma anche le conseguenze della guerra in Ucraina si sono fatte sentire forte, in termini di scarsità e costo dell’energia, e di conseguenza nell’ondata di rincari che ne conseguiranno ulteriormente. La scarsità di gas naturale ha poi influito non poco sul costo dell’energia e peraltro rischia di limitare la capacità produttiva delle imprese situate nei territori più colpiti: quelli dell’Unione Europea.

QUALCOSA SEMBRA ESSERE CAMBIATO

Da metà estate però qualcosa sembrava essere cambiato: le borse erano tornate a salire e il costo del petrolio è man mano ridisceso, mentre le tensioni sul gas naturale sembrano in parte rientrate, nonostante il suo flusso di provenienza russa si sia quasi del tutto interrotto. (di seguito il prezzo del petrolio e il surplus di capacità produttiva)

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Da cosa dipende? E’ una conseguenza della recessione che sta colpendo l’Unione? In parte forse, ma essa non basta a spiegare il fenomeno complessivo, che si è accompagnato a stime di minor crescita dell’inflazione. Una moderazione complessiva di quegli elementi dirompenti che avevano fatto gridare all’allarme generale per l’autunno in arrivo, ha preso corpo. Ma quanto a ragione? Quanto ci possiamo contare per i prossimi mesi? (nel grafico qui riportato il prezzo della benzina in America)


Assai poco, a quanto sembra, e non soltanto per via del fatto che in America la crescita economica sembra proseguire e, con essa, la spirale dell’inflazione e degli incrementi dei tassi non può certo dirsi giunta al capolinea. Le banche centrali del resto del mondo infatti non possono non seguire la Federal Reserve Bank of America nell’incremento dei tassi d’interesse, pur rimanendo sostanzialmente impotenti alla prima delle conseguenze di questa situazione : il cambio del Dollaro contro quasi tutte le monete degli scambi internazionali continua a salire.

ALTRI NUVOLONI NERI ALL’ORIZZONTE

All’orizzonte poi si stagliano altri nuvoloni neri. Il rincaro di petrolio e gas infatti è stato senza dubbio una precisa conseguenza delle tensioni geopolitiche e del deciso schieramento pro-americano dell’Unione europea. Purtroppo tuttavia quelle tensioni geopolitiche non si sono mai ridotte negli ultimi tempi, anzi! Negli ultimi giorni il contrattacco dell’Ucraina fa pensare che il conflitto sia destinato a durare assai a lungo.

Non devono trarre in inganno il ribasso (relativo, peraltro) del costo del petrolio e di quello del gas, dal momento che per ottenere il primo ha sicuramente giovato quel milione di barili al giorno in più sul mercato derivanti dall’alleggerimento delle riserve strategiche americane (che però è destinato ad esaurirsi nel giro di un mese e mezzo al massimo, in coincidenza con le elezioni americane). Per il secondo più che altro i governi europei hanno cercato di ridurre gli effetti della speculazione e di controbilanciare la scarsità di gas con l’accumulo di importanti riserve per l’inverno, insieme ad una serie di misure destinate a limitarne i consumi. Ma se le tensioni di guerra risalgono come sembra, sono destinate ad apparire dei meri “pannicelli caldi”.

LE TENSIONI SUI PREZZI INDUCONO LA RECESSIONE

Morale: la tensione sui prezzi delle materie prime non è detto che non riprenda nei prossimi mesi, dal momento che la loro domanda scende piuttosto poco (più che altro scende in Europa, ma non in Oriente né in America) mentre i rischi di una nuova guerra mondiale tra Oriente ed Occidente restano elevati. L’unico vero fattore di moderazione risulta dal fatto che, nel complesso, complice anche la riduzione di scambi tra l’Occidente e la Cina, la crescita economica globale sta continuando a ridursi, (in Europa poi è già al di sotto dello zero).

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Ecco perché riteniamo sia possibile parlare di “occhio del ciclone”, cioè di quel momento di relativa calma che arriva quando ci si trova al centro di una grande perturbazione metereologica in movimento, prima che la violenza della medesima riprenda altrettanto fortemente mentre passa avanti. Anche lo shock energetico che sta subendo l’Europa sembra destinato a non finire tanto presto, e contribuisce a innalzare il costo dell’energia globale e, conseguentemente, anche quello dei prodotti di moltissime industrie che ne consumano abbastanza.

Questo, insieme al fatto che, a un certo punto della storia, l’inflazione inizia ad auto-alimentarsi, spinge a far pensare che le tensioni, sui prezzi e dunque sui mercati, non possano che tornare a crescere perché la spesa pubblica crescerà, tanto a causa dei maggiori interessi sui debiti governativi, quanto (soprattutto) per i sussidi che dovranno essere dispensati e per gli armamenti.

GLI ERRORI DELLE BANCHE CENTRALI E DEI GOVERNI

La politica monetaria è passata dall’essere estremamente espansiva a progressivamente restrittiva, costringendo le imprese a trasferire sui prezzi al dettaglio gli aumenti dei costi subìti e limitando la loro possibilità di investire per efficientare la produzione. Una politica monetaria restrittiva poi incide alla lunga anche sulla riduzione del valore degli investimenti finanziari, e contribuisce a ridurre la fiducia degli imprenditori avvicinando il momento in cui la recessione può allargarsi al resto del mondo.

La politica fiscale dei paesi occidentali viceversa è passata dall’essere prudente e orientata alla generazione di migliori incentivi per la transizione energetica a fortemente espansiva. Ma con la consapevolezza che le forti elargizioni alla popolazione non solo non riescono a lasciare invariati i consumi della popolazione (che continuano a scendere perché scende il reddito medio reale disponibile)ma in più alimentano inevitabilmente la domanda di beni e dunque l’inflazione (soprattutto in America) e spingono anche all’instabilità dei mercati finanziari, perché per molte nazioni occidentali sarà sempre più difficile incrementare l’offerta di titoli pubblici a reddito fisso.

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In una parola, l’inflazione sta divenendo strutturale, (nel grafico sopra riportato il CPI l’indice europeo dei prezzi al consumo per abitazioni e servizi di pubblica utilità) così come era successo a metà degli anni ‘70, solo molto più velocemente che allora. La progressiva monetizzazione del debito pubblico peraltro aggiunge instabilità al mercato dei cambi valuta e alimenta, indirettamente, l’inflazione, generando una corsa verso i beni-rifugio quali gli immobili innanzitutto, che però saranno evidentemente più tartassati che in precedenza. (di seguito un confronto dei tassi d’inflazione al consumo rilevata dagli istituti di statistica, dei principali paesi d’Europa).

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NEL BREVE TERMINE PREVALE L’OTTIMISMO

Come la mettiamo quindi con le previsioni di ripresa dei listini azionari e, addirittura, con le speranze di retromarcia sui tassi d’interesse da parte delle banche centrali? Nel breve termine è possibile che esse siano relativamente fondate anche a causa del fatto che la liquidità in circolazione resta abbondante e l’investimento azionario resta senza dubbio preferibile a quello del reddito fisso. Le borse sono spesso totalmente scollegate dall’economia reale e, oltretutto, l’autunno vede importanti appuntamenti elettorali in occidente che spingono a pensare che il “mainstream” diffonderà soprattutto buone e rassicuranti notizie.

Ma oltre l’orizzonte massimo di due-tre o quattro mesi al massimo lo scenario non appare affatto rassicurante. Deve davvero succedere qualcosa di eclatante perché il mondo non cada di nuovo in recessione nel 2023 e i mercati finanziari non ne risentano. I venti di guerra dovrebbero placarsi davvero e il commercio internazionale tornare a crescere. Prima o poi sicuramente succederà ma, al momento, è difficile vedere uno spiraglio di sereno sopra le nubi che si addensano.

Stefano di Tommaso




CHE FINE HANNO FATTO GLI ”UNICORNI” IN BORSA ?

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Gli unicorni, in gergo cioè le nuove società tecnologiche che possono sperare di raggiungere il miliardo di dollari di capitalizzazione andando a quotarsi in borsa, appaiono animali quasi in via di estinzione tra gli operatori del mercato. Le società tecnologiche iper-valutate per le loro fantastiche prospettive che rientrano nella definizione sopra indicata sembrano essere letteralmente sparite in questa seconda metà dell’anno, soprattutto a Wall Street, che resta non soltanto la piazza finanziaria più liquida del pianeta, ma anche quella che dà il tono a tutte le altre.

 

Se il numero di aziende che hanno chiesto di quotarsi a New York è sceso del 70-80% nel periodo gennaio-agosto 2022 non è soltanto perché le quotazioni espresse dalla borsa delle borse appaiono riflessive rispetto all’anno precedente (l’indice SP500 è sceso dell’18,2% dall’inizio dell’anno, il Nasdaq composite del 26,5%). Sono anche le aspettative degli operatori per il resto dell’anno in corso e per il prossimo che gettano una luce sinistra sulle prospettive per le aziende che hanno il coraggio di affrontare il listino di borsa in questo periodo, per raccogliere capitali e vedere i propri titoli pubblicamente quotati. Sottoscrivere i titoli in fase di quotazione (invece di attendere che siano già quotati) significa infatti indubbiamente scommettere sul futuro.

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I timori di estensione dei conflitti armati già in corso, quelli di eventuale prosecuzione dell’inflazione dei prezzi e quelli di ulteriori rialzi di tassi di interesse oltre le attuali attese vanno a dipingere scenari piuttosto foschi per gli investitori i quali invece, attraverso la sottoscrizione di titoli di nuova emissione, fanno un atto di fede sulla capacità di generare future performances. Sono infatti giù di tono soprattutto le quotazioni dei titoli cosiddetti “tecnologici” di minori dimensioni, per due grandi motivi: da un lato rappresentano scommesse per il futuro in un momento di cui quest’ultimo non appare particolarmente roseo, ma dall’altro subiscono più di altri il cosiddetto “volo verso la qualità” che gli investitori spiccano regolarmente quando le acque del mercato si increspano, soffrendo non poco delle aspettative di scarsa liquidità del mercato azionario, derivanti dalle politiche restrittive delle banche centrali e dalla maggior prudenza degli investitori istituzionali in questo momento.

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Il risultato dei fattori citati sono valutazioni sicuramente non esaltanti per le “matricole” di borsa mentre fino a tutto il 2021 -soprattutto per i titoli più innovativi- i multipli di valore dei redditi attesi erano stati decisamente più generosi, contribuendo a trasformare in ”Unicorni” un certo numero di start-up che andavano a quotarsi. E per molte matricole di borsa che possono vantare ottime prospettive di mercato, quel che risulta essenziale è l’ottimismo degli investitori circa la possibilità di convertire queste ultime in un cospicuo valore di capitalizzazione di borsa. Senza il quale forse conviene rimandare l’avventura a tempi migliori.

La popolazione delle società candidate alla quotazione tra l’altro non vede soltanto illustri start-up che vogliono raccogliere denaro per mettere in pratica i propri programmi, anzi! La maggioranza delle società che decidono di affrontare il percorso del primo collocamento agli investitori di titoli di nuova emissione (il cosiddetto “initial public offering” o “IPO”) sono società che vantano sì delle ottime prospettive, ma che molto spesso sono già arrivate a suggellare il proprio successo nel business e hanno già varcato la soglia dell’ internazionalizzazione. Di seguito l’elenco delle IPOs al segmento Euronext Growth della Borsa Italiana dall’inizio del 2022 ad oggi (cui si aggiunge soltanto il “direct listing” di Iveco):

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La raccolta di capitali dalla borsa per queste ultime spesso rappresenta l’alternativa all’ingresso nel capitale dei fondi di private equity, ovvero il momento in cui questi ultimi riducono la quota di partecipazione precedentemente sottoscritta, lasciando il loro posto al management e ad una platea allargata di investitori istituzionali, in molti casi con una governance che passa dall’essere estremamente concentrata a divenire molto diffusa. La quotazione in borsa cioè spesso rappresenta il momento in cui l’azienda si libera di parte dell’indebitamento o di buona parte della leva finanziaria imposta dagli investitori precedenti e prova a spiccare il volo sul mercato dei capitali.

Se -quando arriva quel momento- capita una congiuntura riflessiva dei corsi azionari o ci sono prospettive di recessione economica, è plausibile che ai vertici aziendali venga una gran voglia di rinviarlo a data da destinarsi. E così pare che stia andando oggi il mercato delle IPOs: molte imprese che avevano precedentemente deciso di affrontare il percorso di quotazione, alla luce delle condizioni generali di instabilità e scarsa liquidità delle borse stanno in realtà soltanto rinviando il momento dello sbarco, scaldando ugualmente i muscoli in attesa di una finestra più favorevole sui mercati finanziari. Molte notizie arrivano in tal senso, facendo pensare dunque ad un certo affollamento quando tale finestra si paleserà.

Lo stesso vale per molte operazioni sul mercato secondario (dove cioè gli investitori che hanno sottoscritto titoli azionari in fase di primo collocamento arrotondano la loro partecipazione alla luce dei risultati aziendali, ovvero la riducono, in favore di un nuovo gruppo di sottoscrittori) nonché per le operazioni di raccolta delle SPAC, vale a dire “special purpose acquisition companies”, cioè quelle società anche denominate “assegni in bianco” (blank check companies) che gli operatori professionali propongono agli investitori con la logica di speculare sul maggior valore prospetttico delle migliori società che essi selezioneranno per realizzare con loro la cosiddetta “business combination” del veicolo vuoto già quotato. Con le SPAC infatti le società che intendono accelerare la propria quotazione in borsa si ritrovano quotate e maggiormente capitalizzate a seguito di una fusione inversa.

Ovviamente il momento non appare particolarmente favorevole nemmeno per creare nuove SPAC, il cui ritorno per gli investitori è esclusivamente dettato dalle aspettative di maggior valore nel tempo delle società con cui esse vanno a fondersi, ma non lo è neanche per le “business combination” (cioè la fusione con l’industria-obiettivo) delle SPAC già esistenti, le quali per prassi dovranno ugualmente affrontare il giudizio dei sottoscrittori (ovvero il loro recesso), prima di perfezionarla. E di questi tempi lo scetticismo e la prudenza degli investitori non sempre premia le scelte fatte dai gestori della SPAC.

Soprattutto non favorisce la nascita di “unicorni”, cioè di società-modello, i cui titoli appaiono particolarmente desiderabili e che di conseguenza possono ottenere valutazioni molto elevate. Il mercato è più orientato casomai a sottoscrivere aumenti di capitale di titoli cosiddetti “value”, ovvero i cui fondamentali sono solidi e con buone prospettive reddituali. Ma questo non è detto che sia un peccato, perché c’è una fondamentale divergenza tra la scala temporale delle imprese che adiscono alla quotazione e quella degli investitori che ne sottoscrivono i titoli in emissione: la prima abbraccia un periodo di almeno un triennio, se non qualche multiplo del medesimo. La scala temporale degli investitori è invece oggettivamente molto più breve: in media è un anno o poco più.

Dunque molte imprese che possono trovare aperta una finestra per la quotazione spesso farebbero bene ad approfittarne, perché l’accesso al mercato dei capitali è solo il primo passo di un percorso di crescita, anche laddove le valutazioni che il mercato può esprimere appaiono poco soddisfacenti: è sufficiente ridurre le dimensioni dell’offerta, anche per riequilibrare l’equilibrio con la relativa domanda, o prevedere l’utilizzo delle cosiddette PAS (price adjustment shares) per garantire agli investitori il rispetto del piano di sviluppo aziendale. Nuove tranches di collocamento sarà possibile farle successivamente e probabilmente a condizioni migliorative. Nel frattempo infatti una serie di barriere psicologiche saranno state abbattute e quando si procederà oltre l’azienda sarà stata conosciuta molto meglio dai suoi sottoscrittori.

Dal punto di vista di chi investe può esserci altrettanta convenienza a sottoscrivere titoli di nuova emissione in momenti come questo: spesso sono in pochi quelli che si mettono a fare di conto per individuare un convenientissimo arbitraggio tra i multipli delle società già quotate e quelli delle quotande in periodi di scarsa liquidità: queste ultime normalmente pagano un elevato pegno nell’affrontare per la prima volta il mercato e, se chi le accompagna al listino avrà lavorato bene, probabilmente , quel “gap” sui multipli verrà ampiamente recuperato nei mesi successivi, con grande beneficio per chi le acquistate in IPO.

D’altra parte anche laddove il mercato dovesse riprendersi molto bene (e avrei qualche timore che ciò avverrà presto) le cose non sarebbero semplicissime per le società – matricole: se da un lato il contesto generale premierà le valutazioni, dall’altro lato il relativo affollamento -che si genererà quasi per certo- porterà le matricole ad essere in forte competizione le une con le altre. C’è il rischio dunque che il beneficio dell’aver scelto l’attesa e il rinvio sia piuttosto limitato. E nessuna certezza che quelle migliori condizioni di mercato che prima o poi dovranno palesarsi saranno davvero migliori…

Stefano di Tommaso




STRATEGIE D’AUTUNNO

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La radicalizzazione degli eventi globali che impattano sulla salute delle imprese (riduzione delle vendite, scarsità di manodopera, difficoltà negli approvvigionamenti, rincari dei costi, necessità di reshoring delle produzioni e di revisione dei listini prezzi…) impone un profondo ripensamento strategico a chiunque si trovi a gestire un’attività economica. Non basta riuscire ad assorbire gli incrementi dei costi e/o ribaltarli sui prezzi di vendita, ma occorre anticipare e cavalcare i cambiamenti epocali che tali eventi stanno generando per l’ambiente in cui le imprese sono inserite, costringendole ad adeguare in fretta il proprio modello di business invece di esserne travolte. Cosa ovviamente difficilissima, ma anche imprescindibile!

 

L’IPERINFLAZIONE E LE CONSEGUENZE PER LE IMPRESE

Partiamo dalla prima delle ovvietà: l’iperinflazione dei prezzi che è in arrivo in autunno per i consumatori, è già arrivata da tempo per molte imprese industriali. I costi di molti fattori di produzione sono letteralmente volati alle stelle fino a decuplicare o peggio in alcuni casi, e non soltanto per le bollette energetiche. Quegli incrementi a doppia o tripla cifra hanno iniziato a manifestarsi già un anno fa, inizialmente solo in taluni comparti, poi mano mano estendendosi sino ai servizi e alla manodopera qualificata. E’ stato cioè il fattore scarsità che nella maggior parte dei casi ha spinto al rialzo i costi. E la medesima scarsità negli approvvigionamenti ha già determinato o sta determinando una serie importante di conseguenze, anche a prescindere dal loro impatto sui conti economici delle imprese.

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Ad esempio la difficoltà di ottenere delle forniture ha costretto le imprese a fare più magazzino, con un ovvio appesantimento del capitale circolante. In altri casi le ha costrette a pagarle prima del solito o addirittura in anticipo, con la stessa conseguenza, per non parlare della garanzia di pagamento che oggi spesso viene richiesta all’ordine e che in precedenza non era invece usuale, la quale va inevitabilmente ad appesantire la dinamica finanziaria. In molti comparti il credito di fornitura era infatti altrettanto importante quanto quello bancario.

Anche le filiere di fornitura delle imprese -soprattutto quando sono internazionali- hanno subito o rischiano di subire a breve termine degli importanti cambiamenti che impongono altrettanto importanti ripensamenti strategici. Senza i quali probabilmente molte imprese sono destinate a non riuscire a restare vive.

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LA PRESA D’ATTO DEI CAMBIAMENTI EPOCALI

In realtà anzi sono numerosissimi e spesso poco visibili gli impatti non solo monetari che conseguono alla sferzata dei rincari dei costi che hanno investito le imprese. Sarebbe impossibile -nonché inutile- elencarli tutti. Quello che è invece molto utile osservare è ciò che ne sta conseguendo per quasi tutte le attività economiche: la necessità cioè per la maggior parte di imprese e imprenditori di riuscire a ripensare radicalmente e rapidamente la loro ragion d’essere.

Non soltanto per arrivare a trovare nuovi e non scontati equilibri al proprio bilancio aziendale, ma anche e soprattutto per evitare di rimanere vittima dei cambiamenti in corso, perdendo per strada parte della clientela (e dunque anche valore d’azienda) o per dover rinunciare a fattori di produzione che fino a ieri erano considerati strategici e che oggi possono risultare troppo cari o non più disponibili.

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A questo riguardo risulta ovvio per molte aziende fare (o rivedere profondamente) il proprio Piano Industriale per tener conto dei cambiamenti. Ma, come vedremo qui di seguito, ciò non è sufficiente. Il Piano Industriale è come il pesce: “puzza dalla testa”! La sua concretezza dipende cioè dalla qualità di chi è a capo dell’impresa. E per riuscire a reagire ai cambiamenti che si stanno sviluppando a seguito di inflazione, recessione e riassetto degli equilibri geopolitici non occorre soltanto una profonda revisione della piano aziendale, ma anche un’attenta disamina delle numerose ipotesi alla sua base.

QUATTRO ELEMENTI PER REAGIRE

Per orientarsi perciò nella tempesta di rincari e cambiamenti che le imprese -da molto tempo prima dei consumatori- stanno subendo, occorre per chi le gestisce riuscire a trovare: una bussola per orientarsi, un metodo per agire, la determinazione di riuscire ad agire radicalmente e tempestivamente e, molto spesso, le risorse finanziarie per poterselo permettere. Nessuno di questi quattro elementi risulta semplice da mettere in pratica, non foss’altro che per le terribili conseguenze che può determinare il commettere degli errori al riguardo. Se però l’alternativa rischia di essere la stessa sopravvivenza dell’azienda, ecco allora che può valere assolutamente la pena di correre qualche rischio e affrontare le riflessioni che ciò necessita.

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LA BUSSOLA

Mentre i costi di produzione crescono e impongono vari ripensamenti in ordine alla loro gestibilità, molte imprese sono costrette a chiedersi se gli obiettivi precedentemente definiti sono ancora validi, se il proprio posizionamento nell’ambito della concorrenza è ancora sostenibile, se il proprio mercato di sbocco è ancora il medesimo (talvolta, soprattutto per le attività “business to business”, la clientela decide di orientarsi in fretta in maniera del tutto differente, pur di riuscire a mantenere un equilibrio economico: il risultato può essere che una determinata fascia di clientela può arrivare letteralmente a vaporizzarsi).

Trovare un orientamento per comprendere verso quale direzione l’impresa deve dirigersi a seguito dei cambiamenti epocali in corso, non è mai scontato e presuppone, per coloro che riescono a farlo, la necessità di cominciare dall’aggiornamento dell’analisi di mercato e, di conseguenza, del posizionamento strategico dell’impresa. Cosa più facile a dirsi che a farsi.

Spesso queste cose infatti richiedono tempo e comportano costi. Anche le competenze per riuscirvi non sono necessariamente già presenti all’interno dell’impresa. Ciò può spingere a considerarle non urgenti, ma spesso è vero il contrario: nessuna impresa è al sicuro se non riesce a individuare come cambia la domanda dei propri prodotti e servizi e di conseguenza come può cambiare il proprio contesto competitivo, e come può mutare di conseguenza il proprio vantaggio strategico. E si può scommettere sul fatto che la tempesta perfetta oggi in corso sui mercati finirà per cambiare quasi tutto!

Ogni preferenza sta cambiando con l’inflazione in arrivo e con la revisione dei budget di spesa che ne consegue. Ogni abitudine e ogni convenienza saranno riviste. Addirittura in molti casi la carenza di forniture sta impedendo il normale equilibrio economico delle imprese perché ne riduce forzosamente il giro d’affari rendendo non più sostenibili i precedenti costi fissi. Ovvero la situazione impone nuovi importanti investimenti, che si giustificano però soltanto con una crescita -mai scontata- del giro d’affari.

IL METODO

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Le precedenti considerazioni introducono il secondo dilemma -in termini di priorità- che gli imprenditori devono riuscire ad affrontare: come agire? Da dove iniziare? A chi rivolgersi? E come coinvolgere i propri collaboratori?

Di solito un buon modo per iniziare a ragionare sullo scenario che cambia per l’impresa, dopo l’analisi di mercato, della posizionamento competitivo e, di conseguenza, della strategia, è quello di riuscire a fare davvero di conto. Non basta infatti prendere atto dei rincari e delle loro conseguenze sull’equilibrio economico: bisogna rivedere profondamente il Piano Aziendale, ivi compresi lo stato patrimoniale prospettico e il rendiconto finanziario che si può immaginare, almeno per l’esercizio in corso e per quello successivo. Ma per farlo occorre lavorare sulla contabilità industriale, ovvero sull’attenta revisione delle risultanze del controllo di gestione.

Spesso infatti il diavolo sta nei dettagli e, molto più spesso di quanto si possa immaginare, il primo problema delle imprese non sta nella capacità di pianificare il proprio futuro quanto nel cosiddetto “mispricing” (ovvero nella definizione non ottimale dei prezzi di vendita). Al di là dunque del Piano Industriale (la cui validità risiede sicuramente nell’accurata definizione delle ipotesi alla sua base e di come le stesse stanno cambiando nel prossimo futuro), ciò che manca molto spesso alle imprese è la capacità di ottenere validi risultati dal controllo di gestione nonché la capacità di utilizzare le sue risultanze per svolgere i ragionamenti strategici che ne conseguono.

Forse è quest’ultima la capacità più rara: quella di riuscire a tradurre in pratica i suggerimenti che discendono dalla pianificazione. E quando le cose cambiano occorre riuscire ad agire in maniera molto diversa da quanto fatto in precedenza. Pianificare il futuro prossimo è già molto complesso. Quasi impossibile farlo quando si vuole guardare ancora più in avanti. Ma è altrettanto vero che risulta quasi imprescindibile. Da questo punto di vista l‘accurata formalizzazione del Piano Industriale che ne consegue può aiutare l’imprenditore nel ragionamento.

Tradurre in pratica i suggerimenti che derivano dal controllo di gestione tuttavia non può non comportare la diffusione ad un certo numero di collaboratori di informazioni strategiche, al fine di coinvolgerli e motivarli. Senza disporre di un gruppo di persone molto coese e motivate è difficile per le imprese riuscire a reagire velocemente e bene. Per questo motivo occorre riflettere innanzitutto sulla qualità delle risorse umane che dovranno mettere in pratica i cambiamenti. E una volta fatto ciò può valer la pena di correre qualche rischio nell’affidarsi ad un certo numero di collaboratori condividendo con essi informazioni delicate! Nessuna azienda può dipendere dal solo vertice.

LA DETERMINAZIONE

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Pur riconoscendo la vastità e la difficoltà che comporta -per qualsiasi impresa, anche piccolissima- effettuare la revisione dell’analisi di mercato e della strategia aziendale, nonché la revisione conseguente del Piano Industriale e delle ipotesi alla sua base, e infine l’aggiornamento del controllo di gestione per tenere conto dei nuovi numeri che discendono dall’iperinflazione, ciò nonostante il punto non è mai la teoria, bensì la pratica.

Un’impresa infatti può dotarsi di ottimi consulenti e/o di personale interno estremamente capace di rivedere rapidamente ogni elemento della strategia aziendale, ma può ciò nonostante non riuscire affatto nel vincere le resistenze che immancabilmente si presentano quando si tratta di tradurre in realtà le indicazioni che emergono da tale revisione.

Se vogliamo insomma, per quanto siano chiare e importanti le indicazioni che discendono dalle analisi e pianificazioni che l’attento imprenditore deve riuscire a tradurre in realtà, il vero problema è il tracciare la cosiddetta “road map”, cioè il percorso di graduale progressività dei cambiamenti da effettuare, nonché la tempistica che ne consegue, mai facile da rispettare. Anzi! Normalmente ogni variazione delle procedure aziendali risulta traumatica, costosa e lunga da attuare. E l’alternativa alla capacità di tenere conto delle istanze dei dipendenti che vi si oppongono (a volte anche a ragione) è quella di scombussolare l’organizzazione, arrivando a perdere l’equilibrio acquisito in precedenza.

Ma ciò che accade “là fuori” sul mercato rischia di essere altrettanto traumatico, e non consente all’impresa di concedersi tempi lunghi per reagire. Le cose nel frattempo potrebbero cambiare ancora. Un attento imprenditore (o capo azienda) deve perciò contemperare la necessità di analizzare i mercati e i concorrenti arrivando a rivedere intelligentemente la strategia, con quella, altrettanto importante, di declinare -gradualmente ma con decisione e rapidità- i cambiamenti strategici e organizzativi che ne conseguono. Di nuovo: è molto piu facile a dirsi che a farsi.

LE RISORSE FINANZIARIE

Si è parlato più volte sino a qui della revisione strategica necessaria a seguito dei mutamenti oggi in corso sui mercati e delle conseguenti manovre che le imprese devono mettere a fuoco. Piani e manovre che devono essere condivisi, accettati e gradualizzati, prima che attuati. Ma non si può fare “i conti senza l’oste”. Fuor di metafora: la dimensione finanziaria dell’azienda rischia di risultare particolarmente strategica di fronte alle sfide che recessione, inflazione e revisione delle filiere produttive stanno imponendo alle imprese. Quasi sempre potervi reagire significa investire, e per farlo bisogna potertelo permettere.

Una prima osservazione riguarda la disponibilità di credito per le imprese, non soltanto bancario ma anche quello di fornitura. Che, con l’arrivo della recessione, rischia di prosciugarsi. Contrastare questo fenomeno generalizzato significa dunque vincere la concorrenza di altre imprese che vorrebbero ottenerlo (o mantenerlo) in presenza di una disponibilità complessiva del sistema finanziario che necessariamente arriverà a ridursi. Significa cioè risultare particolarmente resilienti alle difficoltà poste dalla congiuntura sfavorevole ovvero particolarmente capaci di cavalcare i cambiamenti in corso.

Una seconda e già meno scontata considerazione riguarda il capitale di rischio: teoricamente a seguito dell’incremento di numerosi rischi aziendali la dotazione di capitale sociale dovrebbe accrescersi, non diminuirsi a causa di perdite o minusvalenze cui facilmente -magari anche solo per pochi mesi- sono incorse le imprese prima di potersi adeguare ai rialzi dei costi di produzione. Inoltre per riuscire a mantenere il medesimo perimetro aziendale è piuttosto probabile che le imprese debbano effettuare investimenti, vuoi nell’efficienza di produzione e vuoi nella capacità di adeguare la propria struttura ai cambiamenti di mercato. Per i quali occorre altro capitale.

Quand’anche gli investimenti suddetti siano tutti sacrosanti e -nel medio termine- anche redditizi, ci sono soltanto due modalità per poterli sostenere: raccogliere altro capitale di rischio o dismettere delle attività non strategiche. Una terza modalità potrebbe sempre essere il ricorso ad ulteriori linee di credito ma non è affatto semplice riuscirvi, e presuppone un’insolita capacità dell’impresa di contrastare la tendenza di fondo degli istituti di credito a ridurre le erogazioni con l’arrivo di una recessione.

A meno perciò di importanti disinvestimenti (più difficili a realizzarsi e anche meno convenienti in tempi di recessione) le imprese che vogliono fare correttamente fronte all’attuale congiuntura e all’aumento generalizzato dei rischi aziendali (nonché agli ulteriori investimenti necessari) dovranno trovare il modo di raccogliere capitali, ovvero dovranno accettare di subire i cambiamenti di mercato senza potervi reagire e probabilmente accusando contemporaneamente una riduzione della disponibilità di credito.

Di solito si può sperare di ottenere capitale di rischio da terzi investitori a fronte di due condizioni: dell’aspettativa di tradurre in profitti incrementali tale capitale (cosa mai sicura) e della possibilità per chi investe di riuscire agevolmente a disinvestire in futuro (cosa altrettanto complessa quando l’impresa non è quotata in borsa). Per riuscire dunque nell’intento occorre disporre di un Piano Industriale molto affascinante e dove si mostra la capacità dell’impresa di riuscire addirittura a incrementare i propri profitti nonostante le difficoltà sopraggiunte.

LE ALTERNATIVE

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Da quanto sopra appare particolarmente evidente a quali difficoltà stanno andando incontro le imprese al sopraggiungere dell’attuale crisi: non soltanto dovranno riuscire a ribaltare gli incrementi dei costi e a mantenere i propri mercati di sbocco ma dovranno anche ripensare il proprio modello di business arrivando a trovare nuove filiere di fornitura, delle risorse umane qualificate per reagire ai cambiamenti, ed effettuare cospicui investimenti senza incrementare l’indebitamento ma anzi raccogliendo nuovo capitale di rischio.

E’ chiaro perciò che molte imprese non riusciranno a fare in tempo tutto ciò, se non dismettendo per tempo attività e cespiti non strategici per raccoglierne cospicue risorse finanziarie e/o per focalizzare i propri sforzi nelle direzioni più strategiche. All’arrivo di una recessione economica unita a una forte ventata di inflazione e con il conseguente rialzo dei tassi d’interesse, può dunque risultare particolarmente urgente effettuare dismissioni e incassare del denaro contante.

L’ultima alternativa possibile è quella di affrontare un importante “turnaround aziendale” accompagnato ad una o più aggregazioni con altre imprese, con lo scopo di ampliare la base dei ricavi e apportare tagli alle spese comuni. Spesso questa alternativa consente anche di sopperire all’impossibilità di effettuare direttamente degli investimenti strategici, che in caso di aggregazioni potrebbero non essere più necessari.

Dal momento che le crisi comportano non soltanto cambiamenti ma anche riduzioni del giro d’affari e/o fallimenti, contrastare un periodo del genere attraverso un programma di aggregazioni aziendali può risultare la più economica e la più veloce delle strategie possibili, soprattutto quando mettere in pratica le alternative risulta poco agevole o è poco probabile superare indenni le difficoltà.

Se vogliamo è questa l’indicazione più forte che discende dall’analisi qui effettuata: resistere e reagire alle mutate condizioni di contesto economico si può, magari anche con successo. Ma è piuttosto improbabile riuscirvi rimanendo immobili o aspettando troppo!

Stefano di Tommaso