LO SCENARIO ECONOMICO SI CAPOVOLGE

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E’ in atto un profondo cambiamento nel corso del ciclo economico: non soltanto a questo punto dell’anno tutti si rendono conto del fatto che l’inflazione che abbiamo registrato fino ad oggi (in Europa al 5% circa) può significativamente peggiorare man mano che gli aumenti dei costi dell’energia, dei componenti elettronici e delle materie prime si trasmettono a valle sui prodotti finiti. E nessuno sa bene quanto l’iper-inflazione in arrivo potrà devastare i conti aziendali così come i risparmi dei privati cittadini. Ma c’è dell’altro: persino la ripresa economica, nell’anno che avrebbe dovuto sancire il ritorno ai livelli pre-covid invece scricchiola! Cosa sta succedendo, e perché?

 

L’EUROPA NON CORRE

Iniziamo dall’andamento della Germania, che è stato negativo per tutta la seconda parte del 2021: poiché essa resta ugualmente il motore economico dell’euro-zona, allora è ancora più grave il fatto che sta entrando in piena recessione. Se infatti anche nel trimestre in corso mostrerà un andamento negativo, allora sarà tecnicamente la volta buona che lo si potrà affermare senza tema di smentita.

I motivi della recessione tedesca sono molti, ma la tendenza sembra inesorabile: dalla crisi delle forniture di semiconduttori, microchip, materie prime ed energia, al calo dei consumi dovuto alle restrizioni ai viaggi, al turismo e allo svago imposte dalla pandemia che continua a strisciare. Il risultato però è notevole: tutta l’ Europa sta pagando a caro prezzo tanto il Covid quanto la crisi geopolitica ed energetica.

L’ITALIA POTREBBE SEGUIRE LA GERMANIA

L’Italia, bisogna darne atto, sino ad oggi sembra aver viaggiato decisamente meglio. Ma nella buona sostanza le cose non vanno nemmeno da noi, e per una serie di motivi:

  • intanto a casa nostra il debito pubblico scricchiola più del Prodotto Interno Lordo (PIL) e quindi il rialzo dei tassi d’interesse (dato oramai per scontato) infliggerà al nostro paese una tassa micidiale che può azzoppare l’economia peggio della penuria di semiconduttori che rovina i conti dell’industria automobilistica franco-tedesca;
  • poi il nostro Paese vanta sì la seconda macchina industriale d’Europa (dopo la Germania e prima della Francia) ma non può vantare alcuna capacità di produrre in casa l’energia che servirebbe per farla funzionare! E’ come se avessimo in garage una vettura formula 1 ma avessimo forti condizionalità sulla benzina che serve per farla girare in pista. La Francia invece ha attivi 58 reattori nucleari, in 19 centrali, che volendo potrebbero quasi soddisfare l’intero Paese. La Germania ha i giacimenti di carbone ed è il punto di arrivo di un gasdotto del nord (il “North Stream”) che la Russia ha costruito apposta per lei. Noi avremmo il gas che arriva dall’Africa, ma non basta. Avremmo anche i giacimenti ma siamo il Paese di Tafazzi, tanto che ci siamo inventati lo stop alle trivelle, così da rendere impossibile andarlo ad estrarre. Morale: i conti delle imprese si apprestano ad essere profondamente affossati;
  • inoltre buona parte dei nostri distretti industriali sono fornitori o sub-fornitori delle grandi industrie europee, molte delle quali direttamente o indirettamente legate al mondo dell’auto (come Stellantis, WW, Bosch, Siemens, eccetera…) impiantistica compresa. Ma il settore “automotive” è in piena transizione e le sue fabbriche sono in ristrutturazione. Dunque è probabilmente soltanto questione di tempo perché anche le nostre esportazioni inizino a zoppicare. Cioè se Sparta piange allora Atene non ride;
  • infine per esprimere ottimismo sul nostro andamento economico non si può non guardare all’altro grande fattore che la fa girare: il denaro (cioè la liquidità). E quest’ultimo da noi non solo ha sempre scarseggiato, ma oggi più che mai ne gira assai poco nelle tasche della gente. L’Italia è in perenne deflazione salariale, le banche erogano sempre meno prestiti, le imprese investono poco persino dei profitti accumulati, lo Stato ancor meno, i risparmiatori comprano principalmente titoli esteri e la borsa italiana è oramai una filiale di quella francese! E se da noi non girano quattrini, le imprese più deboli rischiano di saltare e quelle che vanno bene rischiano di emigrare.
  • La statistica riportata nell’unica tabella che sono riuscito a trovare online è oramai completamente superata! La crescita prevista per il 2022 è da limare o addirittura da invertire per buona parte dell’Eurozona:

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In contemporanea per l’Italia arrivano anche diverse cattive notizie per l’occupazione: per gli stessi motivi visti più sopra per i quali l’industria tedesca va in crisi, anche molti stabilimenti controllati da gruppi stranieri nel nostro Paese stanno chiudendo i rubinetti. Il gruppo Bosch ad esempio ha annunciato 700 esuberi nello stabilimento di Bari nei prossimi cinque anni (un dimezzamento dei suoi attuali 1.700 addetti), la Magneti Marelli invece vuol tagliare 550 ”indiretti!” (dirigenti, impiegati e operai non addetti alla produzione). E vuole farlo entro Giugno. Come detto le ragioni risiedono nelle perdite determinate dai costi fuori controllo e dalla debolezza della domanda. Ma anche a causa di una troppo rapida transizione verso l’auto elettrica, che sta schiacciando tutta l’industria che lavora a monte di quella automobilistica, molto diffusa in Italia.

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Purtroppo a contrastare problemi come questi servirebbe una politica industriale nazionale ben più decisa, che nemmeno il governo Draghi ha mai varato, nonostante sia riuscito a gestire bene il rapporto con l’Europa per varare il PNRR e ottenere i 209 miliardi dei Recovery Fund. Il suo governo però non può permettersi di proseguire a contrastare i problemi della popolazione a colpi di deficit di bilancio.

E LA BCE NON AIUTERÀ

Servirebbe una maggior solidarietà della Banca Centrale Europea (BCE) nel gestire lo stock di debito pubblico italiano, mentre quest’ultima invece ha già annunciato dalla primavera un drastico taglio agli acquisti dei nostri BTP. Dunque il governo Draghi dovrà mostrare molto rigore per essere ascoltato a Bruxelles. Con il rischio di logorarsi politicamente e arrivare lacerato alla vigilia delle elezioni politiche.

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Ma se lo spread tra il BTP italiano e il Bund tedesco sta peggiorando anche perché dipende quasi totalmente da quello che decide la BCE a Francoforte, ecco che nemmeno Draghi può permettersi il lusso di andare a protestare contro le follie imposte dall’agenda ecologista della Commissione Europea. Anzi! Il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) è in arrivo e, con esso, di fatto una sorta di commissariamento dei conti italiani.

MENTRE IL DOLLARO SI RIVALUTA

La ciliegina sulla torta è poi la cavalcata del Dollaro americano, più o meno inevitabile visto che la BCE tutto sommato fa il nostro interesse a tenere i tassi più bassi che oltreoceano. Inevitabile anche perché l’America (che ha tutta l’energia che vuole e che non vede l’ora di esportarla a caro prezzo) farà di tutto per combattere in casa propria l’inflazione prima delle elezioni di medio termine.

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Con l’effetto che, con il caro-Dollaro, salirà ulteriormente per noi anche il costo delle materie prime (gas e petrolio compresi) e, di conseguenza, ancora una volta: l’inflazione. Con buona pace per le previsioni di un allentamento nell’anno in corso. E il rischio che presto il rincaro dei prezzi al consumo arrivi ad essere più forte di quà che di là dall’oceano!

Insomma quello che sembra vedersi all’orizzonte della prossima stagione, è una situazione economica globale da ”guerra del Kippur” del 1973, con tutto quello che ciò può significare per l’inflazione galoppante, ma senza che il nostro Paese possa opporre al caro-energia l’arma più usata in quegli anni per favorire l’industria nazionale: quella delle svalutazioni competitive. Oggi l’Italia non ha più il controllo della propria moneta e non può che subire una politica monetaria comunitaria fatta molto più su misura dell’industria tedesca che di quella domestica.

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L’esperienza delle crisi petrolifere degli anni Settanta ha peraltro insegnato alle banche centrali che l’inflazione provocata dalle difficoltà dell’offerta va sostanzialmente ignorata e non combattuta frenando la domanda. Dunque fa bene la BCE a dichiarare di non voler rialzare i tassi, ma fino a quale punto i popoli del nord-Europa accetteranno supinamente la svalutazione dell’Euro? E fino a quale punto accetteranno di sostenere i debiti pubblici dei paesi periferici dell’Unione? La domanda è lecita ma la risposta non c’è…

L’UNIONE EUROPEA AFFRONTA GLI ESAMI DI MATURITÀ

E’ per questi dubbi che l’anno appena iniziato si appresta ad essere una prova generale per la “vera” unione dei Paesi d’Europa che hanno aderito alla moneta unica: alle complessità della geo-politica, dell’inflazione e del ciclo economico che sta arrivando a ribaltarsi, essi vedranno sommarsi anche le tensioni tra i Paesi del nord Europa (i cosiddetti Paesi Frugali, più o meno corrispondenti a quelli della Lega Anseatica) e quelli del sud. Col rischio che possano decidere di prendere le distanze dalle politiche comunitarie annunciate sino a ieri.

Quando il cibo a tavola finisce, insomma, il rischio è quello che volino anche i piatti tra i commensali! Ciò che possiamo sperare è dunque che la recessione in probabile arrivo in Europa non sia completamente sincrona col resto del mondo (cioè con i paesi asiatici e quelli emergenti). E, per questa via, possano continuare a correre le nostre esportazioni. Soprattutto se la stabilità e la rinnovata autorevolezza delle nostre istituzioni riusciranno ad attirare risorse per il mercato dei capitali (o a farne fuggire meno).

MA LE BORSE POTREBBERO RESTARE POSITIVE

Per questi motivi è forse lecito attendersi per la prima parte del 2022 in Europa un completo sfasamento tra il ciclo economico e il mercato dei capitali: se l’economia reale farà tutto sommato fatica a correre nel vecchio continente, le borse -che al momento hanno già vissuto uno scrollone piuttosto deciso- con la liquidità sempre alta potrebbero addirittura rivedere miglioramenti per il comparto azionario, così come potrebbero correre le quotazioni dei beni rifugio ( e degli immobili ) a causa dell’inflazione galoppante. Un miglioramento che viceversa è molto più difficile attendersi per i titoli obbligazionari.

Nel grafico de Il Sole 24 Ore qui riportato si può ben vedere che il sodalizio tra le 2 principali “asset class” si è oramai interrotto:

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Ma la volatilità dei mercati finanziari è attesa altresì alle stelle per i prossimi mesi, soprattutto se i cannoni tuoneranno almeno un po’ ai suoi confini orientali. Il che in determinati momenti potrebbe rassomigliare molto ad una crisi dei mercati, anche se in definitiva resta decisamente improbabile che arrivi ad esserlo davvero. Un gioco adeguato soltanto ai fegati forti, dunque! O a chi riesce a diversificare parecchio i propri investimenti!

Stefano di Tommaso




I COSTI DELLA GEOPOLITICA

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Gli economisti di tutto il mondo sembrano concordare: la ripresa nel corso del 2022 probabilmente continuerà, sebbene a un ritmo sicuramente meno forte di quello precedente. Se così avverrà si saranno rivelate esatte le previsioni stilate nel corso del 2021 in cui si preannunciava un rimbalzo deciso -dopo il crollo del 2020- nel corso dell’anno passato ed un prosieguo della ripresa fino ai livelli di output produttivo del 2019 nel corso del 2022. Le borse però temono dell’altro. E nel frattempo scendono.

 

LO SCENARIO GENERALE È PEGGIORE DI QUELLO PRE-PANDEMICO

Peccato infatti che le condizioni generali in cui prosegue la ripresa economica siano divenute molto diverse da quelle del 2019, i cui livelli di output si dovrebbe tornare a eguagliare. Quello era un anno in cui i tassi d’interesse risultavano sostanzialmente azzerati, come pure l’inflazione era ai minimi storici e la disoccupazione viaggiava verso livelli molto bassi persino in paesi periferici come il nostro. La ripresa del 2020-2021 perciò è arrivata insieme con una serie condizioni peggiorative che oggi fanno sussultare le borse e alimentano il forte timore che le contromisure che le banche centrali si apprestano a disporre a freno dell’inflazione possano cancellare anche quel poco che resta delle speranze di sviluppo.

I DANNI DELL’INFLAZIONE

L’inflazione è stata indubbiamente sottovalutata sino a ieri e oggi è divenuta il maggior cruccio di studiosi, operatori, governanti e banchieri, ma viene affrontata in modo tardivo. Il principale mezzo attraverso il quale essa sta arrivando a nuocere è senza dubbio il maggior costo di gas e petrolio, arrivato a moltiplicarsi (soprattutto quello del gas, che in Europa scarseggia anche per motivi strutturali) a livelli nemmeno immaginabili già soltanto un anno fa. L’inflazione è poi un mostro dalle molte appendici.

Essa può deprimere le aspettative di profitto delle imprese, mettendo a rischio i ritorni attesi dagli investimenti programmati e l’ampliamento conseguente dei posti di lavoro. Può distruggere il valore dei risparmi di una fetta sempre più grande dell’umanità che sono gli anziani e i pensionati, ma soprattutto può rilanciare il valore nominale dei tassi d’interesse e far traballare i soggetti più indebitati, a partire dai numerosissimi governi nazionali che hanno sino ad oggi contrastato la recessione da lockdown con sussidi presi a prestito dalle banche centrali.

Se è attraverso la bolletta energetica che l’inflazione sembra più che mai arrivata per restare e, anzi, per gonfiare i prezzi ancor più di quanto abbiamo sperimentato al carrello del supermercato sino ad oggi, allora probabilmente gli scenari più oscuri sulle sorti della nostra economia guadagnano il loro diritto di cronaca. A partire dal fatto che la “crescita sincronizzata” che si era vista negli ultimi anni nelle varie zone geografiche del globo oggi rischia di scomparire per sempre.

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LA CRESCITA “SINCRONIZZATA” È SPARITA

L’Asia infatti ha subìto minori danni dalla pandemia e risulta sufficientemente lontana dalle tensioni geopolitiche dell’Europa orientale. La sua crescita infatti sembra tornata poderosa e i governi centrali mostrano minore incertezza di quelli occidentali.

L’America invece ha subìto danni ingenti nelle proprie filiere di approvvigionamento delle fabbriche e nel numero di morti nella popolazione (soprattutto quella più indigente), ma può innanzitutto contare su un’assoluta auto-sufficienza energetica e inoltre ha la capacità di incrementare il proprio debito pubblico senza il timore non vederlo coperto dalla banca centrale. Ma è anche il Paese che sta reagendo più velocemente all’inflazione, onde poter rimettersi in ordine prima di altri.

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L’Europa invece non soltanto rischia di pagare un elevato prezzo economico per la sua unione politica a metà, ma è anche l’area geografica che rischia di subìre le peggiori conseguenze nello scontro frontale che sta per prendere piede tra Oriente e Occidente ai confini della Federazione Russa con l’interruzione della fornitura di metà di tutto il gas che importa. Ed è anche la regione la cui Banca Centrale (la BCE) stava sperando di tirare dritto il più a lungo possibile con la politica dì tassi bassi onde non vedere frantumata l’Unione nella spirale dei debiti pubblici più elevati del mondo.

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SE LA FEDERAL RESERVE SI FA PRENDERE DAL PANICO…

Inutile dire che, se la Federal Reserve Bank of America (FED) dovesse accelerare la stretta dei tassi d’interesse già preannunciata sarà sufficiente il gioco delle aspettative (pur senza che si scateni alcun conflitto armato, che auspicabilmente nemmeno stavolta prenderà corpo) per mandare in crisi l’approccio da colomba della BCE, rilanciando le aspettative inflazionistiche e, probabilmente, rilanciando ancora una volta i prezzi di gas e petrolio, che tutto sommato fanno comodo agli americani che ne sono esportatori netti.

L’euro-zona, già esposta più di altre zone geografiche alle possibili conseguenze dì un conflitto armato ai suoi confini, rischia cioè oggi di entrare in un limbo fatto di “stag-flazione” (cioè stagnazione più inflazione) dove potrebbe rimanere sepolta molto a lungo se le proprie imprese dovessero mettere in pausa i propri programmi di investimento e se i propri governi dovessero traballare nella volontà dì spendere molto altro denaro nell’ampliamento delle proprie infrastrutture, tecnologiche, architettoniche e strategiche.

Il rischio geo-politico insomma, oggi soltanto marginalmente ”prezzato” dai mercati finanziari, potrebbe far esplodere soprattutto in Europa le tensioni speculative e i timori sulla tenuta dei giganteschi debiti pubblici accumulati sino ad oggi e ulteriormente esasperati dalla necessità di contrastare la deriva pandemica.

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…È L’EUROPA CHE RISCHIA DI FARNE LE SPESE

Se tale rischio dovesse iniziare a prendere forma concreta tra l’altro si materializzerebbe la possibilità che le quotazioni delle borse europee si sgonfino e che la liquidità evapori dai mercati finanziari e dal sistema creditizio del Vecchio Continente per prendere la volta dell’Asia (dove ci si attende maggior stabilità politica) e dell’America (che arriverebbe a offrire più elevati rendimenti).

Ovviamente (e grazie a Dio) non vi è alcuna certezza che la FED si lasci prendere dal panico accelerando il proprio programma di contrasto all’inflazione, né nella possibilità dell’aggravarsi delle tensioni geopolitiche con la Russia, con il conseguente probabile ulteriore rincaro delle materie prime. I timori del possibile maggior costo del denaro e dell’energia non sono perciò del tutto fondati, ma è comunque il gioco delle aspettative ciò che può far saltare il banco.

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Se la NATO accumula infatti truppe e munizioni in Ucraina (cioè ai confini della Federazione Russa e in un territorio dove un terzo della popolazione è di lingua ed etnia russa, cioè diversa da quella imperante ucraìna e questo terzo della popolazione è sotto continui attacchi provenienti addirittura dalle forze governative) è logico che anche la Russia rafforzi le sue posizioni ai propri confini e che valuti ogni possibile scenario, anche soltanto in soccorso di quelle popolazioni. E man mano che l’ammassamento prosegue, i rischi di qualche incidente tattico aumentano e, con esso, le probabilità della guerra.

Dunque è plausibile ancorché al momento sia anche improbabile, che si scateni la cosiddetta tempesta perfetta. E la sua possibilità è più che sufficiente ad accrescere le pressioni speculative che puntano a ulteriori rincari dei combustibili di derivazione fossile. Gli analisti se lo attendono e, come corollario, anche i prezzi di molte altre materie prime potrebbero seguirli.

IL COSTO DELL’INCERTEZZA POLITICA

La crisi diplomatica e l’imperversare dell’inflazione portano quindi con loro ulteriore incertezza politica a tutti i livelli, a partire dai rapporti secolari tra America e Cina, fino alle sempre più frequenti manifestazioni di piazza in Occidente, che nascono spontanee per contrastare la soppressione delle libertà individuali che è seguita alle misure di prevenzione dai contagi. E l’incertezza politica ha sicuramente un costo: quello della necessità da parte dei governi in carica di tenere elevate le loro politiche di welfare (cioè di assistenza socio-sanitaria) che a loro volta alimentano i deficit pubblici e i timori di nuovi shock di fiducia sui mercati finanziari.

La possibilità di una nuova frantumazione delle filiere internazionali di fornitura di manufatti provenienti dal blocco asiatico danneggerebbe infatti i consumatori occidentali, ma ancor più le imprese, che si vedrebbero costrette a creare nuove fabbriche in Occidente e, nel frattempo, a subire maggiori costi di produzione, che inevitabilmente si rifletteranno anche a valle, sui mercati di sbocco.Ma il costo di gran lunga più elevato relativo al propagarsi dell’incertezza risiede nella possibilità che essa arresti quella tanto attesa “normalizzazione” che il mondo si aspettava con l’esaurirsi della pandemia, dalla ripresa dei viaggi e -soprattutto- dalla piena ripresa del commercio mondiale (si veda il grafico qui sotto riportato relativo al commercio mondiale).

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La considerazione che prevale dunque è quella che stavolta, a dispetto delle rosee previsioni diffuse sino a ieri, sulle prospettive economiche europee, sia proprio il vecchio continente quello che potrà partire le peggiori conseguenze derivanti dalle tensioni geopolitiche alle proprie porte e dalla possibilità che le risorse energetiche arrivino a scarseggiare, rilanciandone il prezzo.

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Quanto è concreto questo rischio? Difficile dirlo, dal momento che le variabili geopolitiche non seguono una traiettoria lineare né sono figlie soltanto delle conseguenze razionali. Spesso prendono pieghe inaspettate, tanto in senso positivo quanto negativo. Bisogna dunque riuscire a gettare il cuore al di là dell’ostacolo e prefigurare anche scenari decisamente più positivi, nei quali le tensioni inflazionistiche arrivino presto a scendere di concerto con quelle geopolitiche, e permettano alle banche centrali atteggiamenti più accomodanti, ancora oggi ultra-necessari per procedere nell’ampliamento delle infrastrutture che il progresso economico richiede a gran voce!

MA -INFLAZIONE O NO- I TASSI SALIRANNO UGUALMENTE

Ma persino in tal caso (inflazione domata e tensioni attutite) la forte volatilità dei mercati finanziari potrebbe permanere ai livelli attuali, tanto per effetto della grande liquidità in circolazione che, in caso di scenari più positivi che si rifletterebbero in una crescita economica globale più accentuata, quanto per il sommarsi ad essa anche di una maggior velocità di circolazione della moneta. Lo scenario più positivo dunque vedrebbe comunque un rischio di surriscaldamento dell’economia che porterebbe comunque a far crescere i tassi di interesse, pur in presenza di una riduzione dei rischi di inflazione dei prezzi.

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Cosa che fa pensare che i rialzi dei tassi attesi (circa un punto percentuale, spalmato in circa un anno di tempo, secondo la FED) arriveranno comunque, e che si propagheranno più che probabilmente anche al resto del mondo, anche qualora le tensioni si placassero e la Banca Centrale Europea potesse riuscire a mantenere un assetto rilassato. Anzi la BCE farebbe sicuramente bene a restare cauta nel virare in direzione di maggior rigore. Non soltanto per venire incontro alle esigenze dei paesi periferici come il nostro, dove le tensioni sulla tenuta dei debiti pubblici potrebbero farsi più pressanti, ma anche per permettere alle proprie banche di proseguire ad erogare finanziamenti, che altrimenti scarseggeranno.

Ma -comunque andrà- l’effetto finale in Europa non dovrebbe essere molto diverso: è probabile che i tassi di sconto delle banche centrali si manterranno indietro rispetto all’innalzamento quasi certo della curva dei tassi d’interesse, con il rischio (ovvero l’opportunità, per Paesi come il nostro) che la Divisa Unica torni a svalutarsi rispetto al resto del mondo. Questo significherà un nuovo apprezzamento del Dollaro, o quantomeno una sua maggior forza di fondo, cosa che porta ad escludere nel medio termine (entro l’anno, dunque) il tanto ventilato rimbalzo verso il basso del biglietto verde.

E LE BORSE TRABALLERANNO, MA NON CROLLERANNO

In conclusione tanto le tensioni geopolitiche (con il conseguente rischio che l’inflazione si consolidi verso l’alto), quanto la probabile risalita dei tassi d’interesse, come pure la possibilità che il Dollaro torni ad apprezzarsi, fanno pensare nel medio termine a scarse performances delle borse mondiali, i listini delle quali peraltro si sono ridimensionati sino ad oggi quasi solo per l’incidenza negativa della discesa dei titoli più speculativi e dove i moltiplicatori del reddito erano ascesi a livelli eccessivi.

Ma la situazione attuale di tassi di interesse reali negativi, di elevata liquidità (con la possibilità che essa permanga a lungo in circolazione nonostante i proclami delle Banche Centrali) e anzi gli si sommi anche l’effetto dell’accelerazione della velocità di circolazione della moneta, sono tutti fattori che fanno ritenere sia relativamente improbabile un crollo delle borse, pur in presenza di un incremento delle tensioni internazionali.

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A meno di importanti conflitti armati dunque, lo scenario condiviso dalla maggioranza degli osservatori non prevede alcun crollo delle borse. Ma una maggior volatilità invece sì, a partire dalla giornata odierna. Ed è sempre più difficile discernere tra i due fenomeni senza perdere la bussola di una navigazione sicura.

Stefano di Tommaso




INVESTIRE COLLEZIONANDO: Cartier Crash, l’orologio eclettico

Edoardo VII, re d’Inghilterra dal 1901 al 1910, coniò per Cartier una definizione destinata a rimanere nella leggenda: “Il gioielliere dei re, il re dei gioiellieri”. Possiamo quindi dire che il Cartier Crash sia “l’orologio degli eclettici e l’orologio eclettico“.

 

In effetti, le creazioni della Maison, fondata a Parigi nel 1847 da Louis-François Cartier si sono sempre distinte per eleganza, splendore e costo, accessibile solo ai più ricchi del mondo. E anche dopo la divisione dell’azienda di famiglia in tre rami, uno per ciascun fratello, le tre Cartier di Parigi, Londra e New York continuarono a disegnare e creare i gioielli più esclusivi in assoluto.

Tuttavia, si sa, le cose cambiano: nella Londra degli anni sessanta, gli swingin’ sixties, i clienti della Maison non erano più solamente gli Windsor e gli altri nobili inglesi, ma i Beatles, i Rolling Stones, e tutti i personaggi del jet-set internazionale che affollavano le pagine dei rotocalchi e avevano eletto la città più frizzante del mondo a loro residenza.

Boutique londinese di Cartier, credit Financial Times

L’eclettico ramo Londinese

Jean-Jacques Cartier, allora presidente e direttore del ramo britannico, non si fece certo cogliere impreparato: introdusse infatti a catalogo nuovi gioielli e orologi, reinterpretando design già esistenti come nel caso del Maxi Oval oppure disegnando nuovi pezzi da zero – come avvenne per l’Helm o il Pebble.

Ma la creazione più stravagante ed inaspettata fu senza alcun dubbio il Crash, orologio che, come suggerisce il nome, sembra reduce da uno spaventoso incidente. Apparentemente fuso, accartocciato o ammaccato, l’orologio in realtà è frutto di un preciso intento di design. Un design così particolare e fuori dal comune che l’indicazione dell’ora era imprecisa tra le 10 e le 11, compromesso necessario affinché gli indici romani risultassero equilibrati.

Jean-Jacques Cartier, direttore di Cartier London negli anni ’60, credits NY Times

Origine ed evoluzione

La forma del Crash, decisamente fuori dal comune, ha da sempre ispirato teorie fantasiose sulla sua origine. Alcuni sostengono che l’ispirazione sia arrivata da un Maxi Oval appartenente al direttore della boutique, coinvolto in un incidente d’auto e lì danneggiato irreparabilmente; altri, invece, sono convinti che dietro alle originali linee del segnatempo ci sia niente meno che il pennello di Salvador Dalì, ai cui orologi liquefatti i designer di Cartier si sarebbero ispirati. Entrambe le versioni, tuttavia, sono state ufficiosamente smentite dalla Maison, e sembra insomma che il Crash sia stato semplicemente un’originale ed eclettica idea figlia del suo tempo.

Tutti gli orologi più eclettici di Cartier Londra vennero prodotti in un numero molto limitato di pezzi, quasi si trattasse di un gioiello piuttosto che di un segnatempo.

Il Crash “originale” venne infatti prodotto a partire dal 1967, ma ne vennero realizzati solo una dozzina di esemplari, dei quali tre in oro bianco ed i restanti in oro giallo. La loro rarità fu da subito motore del desiderio dei collezionisti: già negli anni ‘80, nelle rare occasioni in cui un Crash London appariva in asta, le stime superavano i 100mila franchi svizzeri.

Cartier Crash del 1967 venduto da Sotheby’s per 885mila dollari, credit Sotheby’s

Dopo il 1967, il Crash sembrò cadere nel dimenticatoio della Maison: fu solo nel 1991 che Cartier, ormai riunita, decise di rilanciare il particolare orologio.

Lo fece attraverso una serie limitata di 200 pezzi, parte della “CPCP” o “Collection Privée Cartier Paris”, una serie di orologi e gioielli prodotti appunto in numero limitato e disponibili solamente presso la boutique parigina. Ancora alla capitale francese sono legati i successivi 13 pezzi, datati 1997 e prodotti per la riapertura della boutique in Rue de la Paix dopo un restauro. Il numero 13, ricorrente nell’estetica del marchio, è un riferimento all’indirizzo originale dell’azienda: il numero 13 della leggendaria Place Vendôme.

Il moderno Cartier Crash

Nel 2013 fu la volta del primo Crash “al femminile”, un modello che ricalcava le linee dell’originale aggiungendo però piccoli diamanti a taglio brillante sulla cassa e sul bracciale integrato. Nel 2015, poi, arrivò il primo (e finora unico) Crash scheletrato mai prodotto, con il quale venne inaugurata la collezione “Legénds Mecaniques”.

Due Crash del 2013, uno con bracciale standard, l’altro Pavè, credit Pinterest

Per l’occasione, il dipartimento orologeria della Maison creò uno spettacolare movimento di forma, perfettamente sagomato per la peculiare cassa, la cui piastra principale replica con il suo traforo gli indici romani tipici dei quadranti Cartier: il calibro 9618MC. Ancora una volta, l’orologio venne prodotto in pochissimi esemplari: 67 esemplari in ciascun metallo, ovvero oro bianco, giallo e rosa, per un totale di soli 201 pezzi.

Il Crash “Legéndes Mecaniques” in oro rosa, credit A Collected Man

I più recenti Crash, infine, sono il “Radieuse”, edizione di 50 pezzi prodotta nel 2018 con un particolare quadrante a specchio con un decoro concentrico che riprende le linee della cassa, e la ri-edizione del Crash 1967, ordinabile esclusivamente tramite la boutique di Londra. La produzione di quest’ultimo è limitata ad un pezzo al mese, cosa che ha ovviamente fatto nascere una lista d’attesa virtualmente infinita.

Un Cartier Crash Radieuse, credits Hairspring

Va detto però che in tutti questi anni Cartier, come ogni gioielliere che si rispetti, ha offerto ad alcuni clienti molto speciali la possibilità di ordinare comunque un Crash. Ciò ha dato vita ad un ristretto numero di pezzi unici che, apparendo sul mercato di quando in quando, hanno alimentato il culto di cui l’orologio gode al momento, contribuendo a farne lievitare le quotazioni a dismisura.

Un Crash unico del 2003 con quadrante rosso, credit Christie’s

 

Due Cartier unici appartenenti al collezionista Californiano Eric Ku

Prezzi

Il valore attuale del Crash, prestando fede ai risultati d’asta, si attesta abbondantemente oltre i 100mila euro per un modello “moderno”, dall’edizione 1991 in poi; e vicino al milione per un “London” originale del 1967. Questo vertiginoso aumento dei prezzi, più che quintuplicati per entrambe le versioni nel giro di pochi anni, è stato provocato da diversi fattori.

Prima tra tutti, la nuova popolarità di cui il marchio Cartier gode tra i collezionisti, che ha portato ad una crescita notevole e generalizzata delle quotazioni. In secondo luogo, il fatto che il Crash è apparso al polso di diverse celebrità che nulla hanno da spartire con la ristretta nicchia dei collezionisti: Kanye West, Jack Dorsey e Tyler The Creator, per menzionare i tre più noti. Infine, il fatto che, nonostante le numerose riedizioni di modelli storici viste negli ultimi anni, Cartier abbia ufficiosamente dichiarato di non aver in programma alcuna riproposizione del Crash. Insomma, chi vuole possedere l’orologio più eclettico nella storia della maison parigina non può far altro che adeguarsi ai prezzi di mercato e inseguire il sogno all’asta… o prepararsi ad una lunghissima attesa nella boutique di New Bond Street!

Inutile dire che, se siete interessati ad acquisire un orologio incredibilmente raro, vi invitiamo a mandarci un messaggio o dare uno sguardo alla nostra Collezione!

 

Ricerca effettuata da Alvise Mori
Per informazioni lnk 




LE SORTI DELL’EURO SI SCRIVONO NEL 2022

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La bolletta energetica alle stelle e il tentativo di “tapering” della Banca Centrale Europea rischiano di mettere a dura prova la tenuta dell’Unione monetaria con rialzi dei tassi e conseguenti timori sui debiti pubblici come il nostro. Chi ci ha guadagnato dall’introduzione dell’Euro sino ad oggi (sono passati giusto 20 anni) è stata indubbiamente la Germania. La ricchezza media degli italiani non è quasi cresciuta nello stesso periodo ma l’inflazione ha eroso circa un terzo del valore dell’Euro nel 2021. Oggi l’esigenza di tornare a far crescere le economie periferiche può spingere il governo dell’Unione all’emissione di bond europei in larga scala, che nel tempo potrebbero rimpiazzare i titoli di stato nazionali, almeno per le infrastrutture. Ma la strada è in salita. E il nostro spread ne risente…

 

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LA RICCHEZZA MEDIA DEGLI ITALIANI NON E’ CRESCIUTA…

Sono passati poco più di vent’anni dalla perdita della sovranità monetaria del nostro paese e, sebbene il nostro debito pubblico sia cresciuto sensibilmente, la sua sostenibilità è apparentemente migliorata, anche grazie ai massicci acquisti di titoli dì stato italiani da parte della banca centrale europea. Il regime di tassi bassi imposto dall’introduzione di una moneta forte ha inoltre indubbiamente favorito la riduzione della spesa pagata per il servizio di quel debito. Eppure nello stesso periodo la ricchezza media degli italiani ha fatto ben pochi passi in avanti: è cresciuta in vent’anni soltanto del 4,6%, passando da 159.300 a 166.300 euro, mentre quella di altri paesi europei è decisamente migliorata: la Francia ha visto nel ventennio una crescita del 24,1%, passando da 150.330 a 187.000 euro, e la Germania ha sperimentato addirittura una crescita (il 50% in più) doppia della Francia e oltre dieci volte dell’Italia, passando da 112.800 a 169.500 euro (in media del 2,5% annuo).

…E IL PRODOTTO INTERNO LORDO NEMMENO

Se poi volessimo parlare non di ricchezza, bensì di reddito, la crescita al netto dell’inflazione del prodotto interno lordo italiano (PIL) si è quasi azzerata, giungendo allo 0,9% nell’ultimo decennio e ha fatto poco meglio in quello precedente (2000-2010) con una crescita del 3,2%. Molto meglio era andata prima dell’introduzione della moneta unica: nel decennio precedente (1990-2000) il PIL era cresciuto del 17,3%, in quello prima ancora (1980-1990) del 26,9% e addirittura del 45,2% negli anni ‘80. Nel grafico l’andamento dell’ output globale lordo che vede un costante ridimensionamento dell’Europa:

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Dunque avete letto bene: al netto dell’inflazione! Cioè quella crescita del PIL italiano, che stava già indubbiamente riducendosi in termini assoluti dagli anni ‘80 al primo decennio del 2000 ma che comunque correva, al netto delle svalutazioni monetarie, nell’ordine del 3% medio annuo, è poi letteralmente crollata intorno allo zero assoluto (+4,1% in vent’anni, cioè lo 0,2% annuo) con l’introduzione dell’Euro e di tutti i suoi vincoli! E senza più alcuna svalutazione, numeri alla mano. Non sono opinioni: sono numeri, e come tali molto testardi!

Senza dubbio dobbiamo tenere conto del fatto che, se l’intera Europa ha fatto qualche passo indietro nella competenza internazionale nel medesimo ventennio di moneta unica, è stata soprattutto l’Italia nello stesso periodo a sbagliare quasi tutto quello che poteva. Ma occorre altresì notare il trasferimento netto di ricchezza operato dalla Germania a proprio favore all’interno dell’Unione Europea, cosa che fa pensare -ex-post- che le stringenti regole comunitarie sono servite più a questo, che a generare una crescita di ricchezza complessiva.

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DAL 2001 L’EURO SI E’ SVALUTATO DEL 44%

Ora nello stesso ventennio l’inflazione è senza dubbio scesa ai minimi storici, arrivando addirittura ad essere negativa negli anni successivi alla grande crisi finanziaria del 2008-2009. La media annua di tutto il periodo è stata pari all’1,73% producendo una svalutazione media del potere d’acquisto in Euro del 43,4% nel medesimo ventennio, come si può vedere dai due grafici qui riportati (uno in termini reciproci all’altro):

Se dividiamo quel quasi 44% di perdita di potere d’acquisto in Euro nei vent’anni, otteniamo un tasso annuo (non composto) di svalutazione di circa il 2,2% annuo. Come dire che la crescita in termini reali del nostro PIL si è più o meno azzerata, ma la perdita dì potere d’acquisto a seguito dell’inflazione dei prezzi ce l’abbiamo avuta ugualmente, e ha eroso all’incirca un terzo del valore monetario a nostre mani a inizio 2001. Dì nuovo, vorrei evitare pregiudizi: non sono opinioni a proposito della moneta unica, soltanto testardissimi numeri!

ORA PERO’ L’INFLAZIONE COMPLICA TUTTO

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Il vero problema però arriva senza dubbio quest’anno, dal momento che l’inflazione si è di colpo risvegliata ben oltre le medie storiche, arrivando nell’ultimo mese al 5% medio nella zona Euro (come si può vedere dal grafico qui sotto) e, ahimè, anche con la prospettiva di rimanere intorno a quei livelli piuttosto a lungo!

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Nello stesso mese di Dicembre infatti l’inflazione americana è arrivata al 7% ma soprattutto è cresciuta -più che proporzionalmente nell’Unione Europea- la bolletta energetica! Con la quasi certezza che ciò si rifletterà notevolmente sull’inflazione tendenziale dell’anno in corso, come si legge nel grafico qui accanto:

L’ENERGIA COSTA MOLTO DI PIU’

E questo proprio mentre le tensioni politiche con la Russia fanno ridurre le forniture da quest’ultima e lievitare le importazioni dì gas da petrolio liquefatto dagli U.S.A.:

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L’Unione Europea cioè non soltanto si è privata di un importante strumento deflattivo che poteva essere il più basso costo dell’energia importata dalla Federazione Russa a causa dell’adesione incondizionata alla posizione contrapposta degli Stati Uniti d’America, mettendosi di conseguenza nelle mani degli esportatori di gas americano (che deve peraltro essere prima rigassificato al suo arrivo nei nostri porti per venire utilizzato) ma rischia di aver perso, per Paesi come il nostro, il principale vantaggio che sembrava mostrare in termini di stabilità monetaria e difesa contro l’inflazione, a causa della bolletta energetica.

IL TAGLIO DEGLI ACQUISTI DA PARTE DELLA B.C.E.

Il Vero problema è infatti non è chiedersi quanto sia stato utile all’Italia aver fatto parte sino ad oggi dell’Unione Monetaria Europea, bensì sapere quanto a lungo la Banca Centrale Europea (BCE) potrà continuare ad acquistare i titoli di stato italiani tenendone bassi i tassi d’interesse di conseguenza.

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Nel 2020 la BCE ne ha acquistati per 175 miliardi (coprendo interamente il nostro deficit pubblico pari a 159 miliardi). Nel 2021 per 155 miliardi (coprendo il 92% del medesimo deficit pari a 167 miliardi). Nel 2022 ha in programma di acquistarne molti meno! Soltanto 63 miliardi di titoli (coprendo però solo il 60% del deficit pubblico italiano, stimato in 106 miliardi), oltre al reinvestimento in nuovi titoli della liquidità proveniente dai rimborsi dei titoli giunti a scadenza. Nel 2022 insomma la musica rischia di cambiare!

Mai cioè come negli ultimi due anni l’appartenere all’Unione monetaria europea ha giovato al nostro Paese (seppure in cambio di una notevole frenata alla nostra competitività). Ma oggi le sfide (soprattutto a seguito dell’inflazione) si moltiplicano proprio mentre la giostra che ha rinviato sino ad oggi molti problemi del nostro Paese (gli acquisti di BTP da parte della BCE) sembra giunta a fine corsa!

In conseguenza dei suddetti acquisti, nel 2021 la percentuale di debito pubblico detenuto dalla BCE e dalle istituzioni europee è arrivata al 28% e (pur nella previsione di un dimezzamento degli acquisti BCE nel 2022 su base annua) nel 2022 sarà almeno pari al 30% (prima della pandemia era stato soltanto il 16%).

RIDURRE IL DEBITO SENZA ALZARE LE TASSE ?

Pochi giorni fa (prima di Natale) si erano riuniti il nostro capo di governo (Mario Draghi) e quello francese, nonché presidente di turno dell’Unione Europea (Emmanuel Macron) convenendo su un progetto semplice ma ambizioso: “Ridurre il debito senza alzare le tasse”. Ma le ultime notizie in termini di inflazione importata rischiano di tagliare decisamente le gambe a quel progetto. Cosa farà l’Italia per rendersi appetibile nel piazzare i suoi titoli pubblici nel corso di quest’anno ? Riuscirà a sfoderare una crescita robusta dell’economia tale da far tornare in discesa il rapporto debito pubblico / prodotto interno lordo? Al momento sembra improbabile, anche a causa del crollo dei consumi dovuto al virus…

Oppure riuscirà l’Europa a recuperare un dialogo al suo interno tra “fondamentalisti” e “progressisti” affinché si prosegua ad emettere debito pubblico comunitario, ben oltre il programma “NEXT GENERATION EU” (finanziato peraltro solo per metà dal debito dell’Unione)? La sfida è solenne nei mesi che verranno, anche perché in uno scenario difficile come quello che si prospetta per il prossimo biennio e con gli strascichi delle ondate pandemiche, la possibilità di contrastare la mancata crescita con una maggior spesa infrastrutturale europea è una delle poche panacee rimaste a sostenere i pilastri dell’Unione.

MA QUANDO ARRIVANO GLI EUROBOND ?

La risposta a questo interrogativo è fondamentale per vedere l’Unione Europea finalmente consolidarsi con l’occasione, oppure arrivare in fretta a disgregarsi irrimediabilmente. Noi siamo ovviamente ottimisti! Nessuno ha davvero interesse a tornare indietro dì vent’anni. Pur con tutti i limiti e difetti che si possono elencare di quest’unione a metà. Né appaiono oggi plausibili scenari dì “Italexit” che pure, in senso astratto, potrebbero risultare a noi convenienti. Non siamo nemmeno lontanamente paragonabili al Regno Unito! Il grafico riportato segnala infatti la necessità di aggiornare al ribasso le stime di crescita al netto dell’ inflazione (il “deflatore” nel 2022 sarà ben maggiore di quello qui recentemente previsto):

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Motivo per cui ben difficilmente le forze politiche italiane potranno dare luogo ad una crisi istituzionale nell’anno appena iniziato. Il solito teatrino della politica per un po’ dì tempo si può giurare allora che stavolta non andrà in scena: senza gli acquisti della BCE e senza una crescita poderosa il debito pubblico italiano può solo crollare o ridursi. E nessuno dei due scenari è oggi accettabile.

Per questo motivo si può tranquillamente scommettere sulla stabilità politica italiana e sul “whatever it takes” per riuscire a far continuare il nostro Paese nella stabilità fino a fine legislatura, onde promuovere la crescita economica interna. Magari con l’estensione del PNRR, finanziato in parte, appunto, di nuovo dal debito comunitario… (anche per contrastare il mancato rinnovo del blocco delle rate prestiti bancari a 700mila PMI -€27 miliardi- e la fine delle garanzie pubbliche -Giugno ‘22- ai prestiti erogati a 2,5 milioni di aziende).

Stefano di Tommaso