ALLARME IMPRESE ! (2^ PARTE: COME REAGIRE)

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Se da un lato è difficile obiettare all’elencazione -riportata nel precedente articolo- dei venti contrari che congiurano per rendere assai difficile la vita degli imprenditori italiani, dall’altro lato è pur vero che alle sfide ambientali e sistemiche i governi e le imprese possono tentare di rispondere. Mentre però risulta difficile in questa sede parlare di politiche industriali e delle grandi alleanze internazionali che hanno portato nell’angolo l’imprenditoria del nostro Paese, è invece molto più interessante provare a riflettere su quello che le imprese possono fare per reagire alle straordinarie condizioni avverse che abbiamo elencato nel precedente articolo.

 

ALLA RISCOSSA

Cominciamo con la parola “allarme”. Essa viene dal grido: “all’arme!” Cioè alle armi, alla riscossa. Grido che si lanciava quando il nemico era alle porte, invitando soldati o popolazione a impugnare le armi e a reagire.

Proviamo dunque a chiederci come possono combattere la situazione esistente le imprese italiane, mettendo insieme qualche prima considerazione al riguardo:

IL COSTO DELLE MATERIE PRIME

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Il problema principale relativo all’inflazione dei prezzi dei fattori di produzione sembra essere il grado di dipendenza dell’industria dalle fonti primarie di materie prime e semilavorati: più le imprese che sono sottoposte a rialzi dei costi riescono a controllare le loro fonti di approvvigionamento (cioè a integrarsi verticalmente) e meno possono subirne pressioni.

È chiaro che il modo migliore per integrarsi verticalmente sarebbe quello di poter controllare le miniere e i produttori di semilavorati in giro per il mondo, ma per farlo bisognerebbe raggiungere dimensioni aziendali tali che ciò possa risultare conveniente. Le imprese italiane sono al contrario affette da nanismo endemico e pertanto spesso questa strada è da escludere.

Restano le grandi alleanze, i network di filiera e di sistema, i distretti produttivi e le joint ventures internazionali, che invece hanno un solo limite: le capacità manageriali a disposizione. In molti casi le imprese italiane hanno seguito questa strada ma si tratta per lo più di quelle più grandi e magari quotate in Borsa. Le piccole spesso non ci riescono. Solo che in tal caso occorre chiedersi se non conviene aggregarsi a gruppi più grandi piuttosto che subìre costi maggiori e poca capacità di reggere la concorrenza.

IL COSTO DELL’ENERGIA

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L’altro grande fattore che sarebbe molto utile poter controllare è il costo dell’energia, la cui inarrestabile escalation ha portato spesso le imprese a lavorare con margini ridottissimi. La più bella di tutte le risposte sarebbe quella di ridurre il più possibile i consumi di energia e in tal modo economizzare il costo, ma spesso per farlo occorre investire pesantemente.

In altri casi risulta perciò più pratico decentrare altrove nel mondo quella parte di produzione industriale che ha più bisogno di consumare energia, onde sfruttare la capacità di altre imprese o altri paesi nel tenerne sotto controllo il costo.

In ogni caso l’opzione migliore resta sempre quella di lavorare per trasformare la propria azienda nella più ecologica di quelle possibili, ad esempio soddisfacendo i famosi criteri di sostenibilità “Environment, Social, Governance (ESG)” in modo da risultare attraenti per finanziatori e investitori a caccia di opportunità “verdi” e in tal modo mettere in cantiere investimenti di contenimento dei costi.

IL MARKETING STRATEGICO E I CANALI COMMERCIALI

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Se la domanda da parte dei consumatori scarseggia, occorre probabilmente anche riuscire a risvegliarla raggiungendo più direttamente possibile la clientela e dialogandoci, allo scopo di trarne utili indicazioni relative alla domanda potenziale di mercato e alle azioni necessarie dal punto di vista del marketing.

Spesso le imprese di minori dimensioni non effettuano nemmeno ricerche di mercato, del loro posizionamento competitivo, indagini sull’andamento dei consumi e analisi sull’efficienza dei propri canali commerciali. Sono spesso attività che hanno ciascuna un costo elevato e che pertanto sono spesso fuori della portata dei piccoli imprenditori, ma non tutte.

In molti altri casi è il “focus” manageriale che manca davvero, la cultura d’impresa, la pianificazione strategica e la presa di coscienza della propria situazione di mercato relativamente agli attuali canali distributivi. A volte basta esaminare i bilanci delle imprese concorrenti per farsi domande utili a mettere a fuoco idee di efficientamento dello sforzo commerciale. L’unico limite è la capacità di chi gestisce, che deve poter reggere la sfida aziendale.

Anche dal punto di vista del prodotto occorre probabilmente trovare nuove modalità di vincere la concorrenza e di adattarsi alle nuove esigenze del mercato (ad esempio: quella del contenimento del prezzo di vendita) modificando la propria offerta, migliorando la competitività nei costi e trovando nuove e ulteriori valenze per l’utilità del prodotto nei confronti degli acquirenti finali. Non c’è limite da questo punto di vista alla possibilità di rinnovamento, se non quello strettamente finanziario!

MA OCCORRE AVER VOGLIA DI CRESCERE

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Di nuovo però: anche per lavorare attivamente allo sviluppo commerciale e al marketing strategico e di prodotto occorre disporre di capitali sufficienti ad investire nelle strutture, e più ancora nelle competenze. Servono ottime risorse umane, fresche, indipendenti e creative, con capacità di gestione dei costi aggiuntive, nonché forte propensione al cambiamento.

Quando lo scenario esterno peggiora e cominciano a soffiare forti venti contrari bisogna infatti correre ai ripari. Chi si ferma è perduto!

Le iniziative sopra descritte per contrastare la congiuntura sfavorevole che si prospetta sono ovviamente state sino ad oggi appannaggio quasi soltanto delle imprese maggiori, e di quelle con una più spiccata diversificazione internazionale. Mentre le più piccole devono chiedersi se è ancora possibile restare piccole. Oppure se devono riuscire ad allacciare rapporti con reti d’impresa di appoggio, tanto per i fornitori quanto per i distributori, ovvero a costruire partnership strategiche in giro per il mondo, o infine se riescono a trovare la capacità finanziaria di investire in maniera significativa nelle direzioni sopra descritte per poter crescere internamente.

E OCCORRONO CAPITALI

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Se la concorrenza è globale, anche le dimensioni aziendali devono adeguarsi. Solo attraverso il raggiungimento di quel “ticket minimo” delle dimensioni aziendali diviene possibile raccogliere abbastanza capitali e finanziamenti per investire nell’innovazione, nell’efficienza (anche energetica) e, più di ogni altra cosa, nei canali distributivi e nel consolidamento del proprio marchio di fabbrica (il cosiddetto “brand”).

Molte imprese si troverebbero nella condizione di affrontare le loro sfide investendo e assumendo, ma spesso non lo fanno perché non vogliono aprire la compagine azionaria a terzi investitori, o non vogliono quotarsi in Borsa, o non vogliono aggregarsi a grandi gruppi. È anche il motivo per il quale un certo numero di imprese a un certo punto getta la spugna…

I SETTORI INDUSTRIALI FAVORITI

Ovviamente non tutte le imprese dei vari settori industriali saranno ugualmente capaci di cogliere le opportunità offerte dalla situazione di stallo che si sta prospettando: senza dubbio l’appartenenza ai settori che sembrano più favoriti dalla situazione di scarsità energetica potrebbe favorire la loro reazione.

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La crescente fame di energia e lo scenario di fondo che non riguarda soltanto il razionamento energetico ma anche la necessità di una seria transizione ecologica porranno per molti anni a venire l’accento sull’intelligenza di macchine uomini e sistemi nell’utilizzo efficiente delle energie.

Non soltanto dunque la produzione da fonti (davvero) rinnovabili, ma anche l’efficienza nell’utilizzo, lo stoccaggio e l’intelligenza nella gestione energetica sono destinati a diventare sempre più importanti in un mondo a venire che sembra da un lato condannato ad una fame compulsiva di sempre maggiori capacità energetiche e dall’altro a doverne sopportare un costo sempre più elevato.

Ovviamente questa situazione favorirà non soltanto il mondo della produzione di energie da fonti rinnovabili bensì anche le nuove tecnologie nucleari, l’efficientamento delle vecchie centrali idroelettriche, lo sviluppo di nuove tecnologie solari e, finalmente, lo sfruttamento delle immense energie sottomarine, oggi quasi del tutto trascurate.

LE GRANDI INFRASTRUTTURE DEVONO ESSERE TUTTE RINNOVATE

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Non soltanto la transizione ecologica (come ad esempio il passaggio a veicoli elettrici e a sistemi di caldo/freddo basati sull’elettricità), bensì anche l’efficienza nei costi determineranno una domanda indotta di fortissimi investimenti nelle infrastrutture di base, quali la produzione e il trasporto di energia, i nuovi sistemi di trasporto pubblico, le comunità energetiche, i sistemi di telepresenza (il futuro delle videochiamate) e, con essi, i nuovi sistemi di trasporto dati ad altissima velocità, eccetera…

Gli anni a venire vedranno probabilmente concentrarsi sulle infrastrutture tanto la spesa pubblica quanto nuovi giganteschi investimenti privati. Entrambi peraltro avranno bisogno, per essere alimentati, di un ottimo funzionamento dei mercati finanziari regolamentati e, con essi, di nuove categorie di intermediari in grado di “fare mercato” nel mondo delle grandi opere infrastrutturali. Anche per questi ultimi ci saranno perciò opportunità di guadagno, anche se probabilmente saranno più polarizzate verso le grandi dimensioni.

SEMPRE MAGGIORI DIMENSIONI AZIENDALI

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È dunque facile profezia che la crisi in arrivo possa accelerare numerose transizioni tecnologiche e energetiche. Ad esse si accompagnerà però -probabilmente- anche lla necessità di nuove, gigantesche, dimensioni aziendali. E che dunque le piccole e piccolissime imprese saranno sempre più fuori gioco. Così come saranno in maggiori difficoltà le imprese che avranno avuto poca capacità di raccogliere la sfida della diversificazione internazionale, nonché la capacità di organizzare importanti partnership con governi ed organizzazioni pubbliche di ogni genere.

Molte imprese italiane rischiano seriamente di soccombere ai nuovi scenari economici e devono fare di tutto per preparare la propria organizzazione ai cambiamenti in corso. A partire dalla loro dimensione aziendale e dal loro “sdoganamento” sul mercato dei capitali (attraverso la trasparenza di bilancio e la capacità di rispondere ai criteri ESG), fino alla diversificazione interculturale e internazionale del management e alla capacità di realizzare partnership globali.

Se la situazione generale non potrà che peggiorare, soprattutto per le imprese italiane, bisogna anche riuscire a riconoscere che le grandi trasformazioni in corso non portano con loro solo minacce, bensì anche grandi opportunità. E chi riesce a coglierle può non soltanto sopravvivere, ma anche prosperare, accelerando l’evoluzione del proprio business e investendo pesantemente nel cambiamento.

Stefano di Tommaso




QUOTARSI IN BORSA NEL 2022

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Guerra, inflazione, possibile recessione stanno tenendo emittenti e investitori più lontani dai listini provocandone forti ribassi che hanno influito pesantemente sulla riduzione, nel corso del 2022, del numero delle Initial Public Offerings (IPO). Ma non le ha cancellate del tutto, anche perché la tendenza di fondo è quella di un incremento del loro numero. Sempre più imprese intendono raccogliere capitali nei mercati regolamentati e, per farlo, avviano un percorso di preparazione che può durare anni. Quando risultano pronte per l’IPO, ma arrivano periodi come questo, spesso non lo cancellano tutto bensì si limitano a rinviarlo. Il che è un bene per listini come quello italiano, dove il numero di società quotate è ancora limitatissimo.

 

LE BORSE SCENDONO…

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A Wall Street (di gran lunga la borsa più importante del mondo, spesso anticipatrice di tutte le altre) l’ultima settimana si è chiusa con un ribasso che non si vedeva dall’inizio di gennaio. La causa di questo violento ribasso è legata all’indice dei prezzi al consumo USA di maggio, che ha raggiunto il livello più alto dal 1981. Il dato ha mostrato un aumento dell’8,6% su base annua e del 6% se si escludono i prezzi di cibo ed energia. Gli economisti intervistati da Dow Jones si aspettavano un aumento su base annua dell’8,3% per l’indice principale e del 5,9% per l’indice core. Il grafico qui riportato mostra l’andamento di Wall Street dall’inizio dell’anno: un calo da 4800 punti a 3900 in soli sei mesi!

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Anche gli altri mercati borsistici hanno vissuto molto male la tempesta scatenata dalle banche centrali. L’indice europeo Stoxx 600 per esempio, perde da inizio anno quasi il 14%.

I dati sull’inflazione americana hanno anche riacceso i timori di una recessione. La fiducia dei consumatori americani è scesa violentemente. La lettura preliminare di giugno dell’indice di fiducia ha toccato un minimo storico: è diminuita del 14% rispetto a maggio, proseguendo la tendenza al ribasso dell’ultimo anno e raggiungendo il valore più basso registrato nella sua storia, paragonabile al minimo raggiunto nel mezzo della recessione del 1980. E in effetti grafici come questo mostrano una decisa probabilità che sia in arrivo una nuova recessione globale!

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…MA POI DI SOLITO RISALGONO…

Tuttavia, come si può intuire dal grafico sotto riportato, i corsi azionari hanno una loro ciclicità durante l’anno solare (scendono nella prima parte e salgono nella seconda) e forse anche stavolta, dopo i pesanti ribassi (linea blu) potrebbe esserci una fase di relativa traslazione laterale, seguita da un rimbalzo a partire dal mese di Luglio (i numeri dell’asse delle ascisse sono quelli delle settimane dell’anno), così com’è successo mediamente negli ultimi trent’anni (linea rossa).

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Certo le vendite in borsa riducono la liquidità disponibile, materia prima essenziale per alimentare il fenomeno dei collocamenti azionari delle matricole di borsa: i cosiddetti Initial Public Offerings (IPO).

LE IPO IN OCCIDENTE OGGI SONO UN DECIMO CHE NEL 2021…

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Il valore delle IPO tra USA e Europa quest’anno è sotto del 90% rispetto allo scorso anno. La raccolta di fondi nei primi 5 mesi del 2022 delle matricole al listino principale delle Borse è scesa a 17,9 miliardi di dollari con 157 IPO contro le 628 dei primi 5 mesi del 2021 e 192 miliardi di dollari raccolti. Il problema però non è soltanto occidentale: a livello globale è andata altrettanto male, con 596 IPO contro le 1237 dell’anno precedente e 81 miliardi di dollari raccolti nei primi 5 mesi, contro i 283 del 2021: cioè un calo del 71%. Certo, in questi numeri si può leggere un calo più vistoso dei mercati euro-americani rispetto a quelli asiatici, ma bisogna aspettare la seconda parte dell’anno per tracciare un quadro affidabile, dal momento che molte IPO sono state soltanto rimandate e potrebbero vedersi da Settembre.

Il comparto delle SPAC ha anch’esso visto una notevole riduzione dei numeri: a Wall Street erano state 613 le matricole con una raccolta di 162 miliardi di dollari, mentre nei primi 5 mesi dell’anno sono state soltanto 19 ma tutte di grandi dimensioni.

…MA IN MOLTI CASI SONO SOLTANTO RINVIATE A TEMPI MIGLIORI

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Cosa succede quindi: sono le imprese non vogliono più quotarsi o è il mercato che non è favorevole ad accoglierle? Il punto focale sembra quello della scarsa liquidità. Guerra, inflazione, possibile recessione stanno tenendo emittenti e investitori più lontani dai listini: magari in autunno potrebbe rivedersi un certo ritorno delle quotazioni, soprattutto in Italia dove resta molto elevato il numero di aziende che non sono quotate e che oggi potrebbero fare tale scelta.

La diminuita probabilità di successo del collocamento azionario rende oggettivamente più sfidante il lavoro di molti mesi che le candidate matricole devono svolgere per poter risultare idonee alla quotazione. Ma lo sbarco sul listino azionario è un’operazione complessa che viene preparata in tempi lunghi (soprattutto dal punto di vista della pianificazione strategica) e comunque che si può realizzare in non meno di un semestre. Dunque è possibile che molte società stiano pensando da tempo a tale scelta e che oggi stiano soltanto rimandando l’operazione a tempi migliori.

OGGI “VANNO” SOLTANTO LE ENERGIE VERDI

Sicuramente poi è un tema di settori industriali: in questo periodo di forti tensioni sul mercato dell’energia è evidente che questo è l’unico comparto non intaccato dai ribassi. E infatti buona parte delle candidate alla quotazione nei prossimi mesi sono proprio aziende del settore, a partire dalla De Nora, che fabbrica elettrodi per ottenere idrogeno, o dalla Plenitude, che vende al dettaglio l’energia rinnovabile prodotta dall’ENI. Come si può dedurre dalla tipologia delle maggiori candidate italiane, non soltanto il settore privilegiato per le IPO è quello dell’energia, ma anche e soprattutto se questa è “verde”! Ma restano sullo sfondo l’intelligenza artificiale, la robotica e la cura della persona. Tutti campi sui quali sarà più probabile raccogliere capitali in borsa.

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Nessuno può negare l’urgenza per gli investitori professionali di accumulare titoli con forti caratteristiche ESG (environmental, social and governance). Ma restano appetibili anche le società che operano nelle biotecnologie, nell’aerospaziale e nelle altre tecnologie “verdi” o che aiutano a risparmiare, perché si ritiene che potranno sostenere più di altre i loro margini di profitto con la prossima recessione. Un settore in piena ripresa poi è quello dell’ “outdoor”, a partire da biciclette e trekking, perché considerato pro-ambiente e privo di ricadute inquinanti. Non a caso un’altra candidata alla quotazione alla Borsa italiana è la storica Selle Royal (accessori per biciclette di alta gamma).

Qualche punto di domanda invece attiene (per il momento) alle imprese del settore alimentare perché, pur appartenendo a un comparto per definizione anticiclico, esse hanno subìto enormi rialzi nei costi delle materie prime lacerando di conseguenza negli scorsi mesi i conti economici, senza che sia così scontata la loro capacità di rialzare corrispondentemente i prezzi di vendita.

MA QUANDO ARRIVA LA RECESSIONE BISOGNA INVESTIRE

La borsa però è anche sinonimo del mercato dei capitali e qui si apre un tema ben più ampio: quali imprese hanno davvero saputo cogliere tutte le opportunità di creare valore per i propri azionisti anche senza ricorrere a maggiori investimenti e capitali di terzi? La risposta molto spesso è: “molto poche”. In tantissimi altri casi le imprese sono affette da scarsa capacità di guadagno perché non hanno investito abbastanza, scegliendo spesso di restare “famigliari” e magari poco aperte all’internazionalizzazione. Sebbene non siano soltanto i capitali investiti a poter garantire migliori performances (molto spesso un problema è anche la qualità delle risorse umane di vertice) è inutile dire che in molti casi la scelta di restare piccoli è perdente.

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Proprio perché viviamo in un mondo caratterizzato da una sempre maggiore velocità dei cambiamenti le imprese devono trovare la capacità di reagire, molto spesso investendo pesantemente, quantomeno per cogliere tre obiettivi strategici fondamentali :

  • poter comunicare adeguatamente sulle piattaforme digitali, potenziare la notorietà del marchio, ottenere potenti stimoli di ritorno dal dialogo con la clientela
  • raggiungere la massima efficienza operativa, per esempio a livello energetico e di economicità della produzione, ma anche a livello distributivo che spesso costituisce una formidabile barriera alla crescita
  • potersi permettere una più accurata pianificazione aziendale, con la quale misurare risultati e performances del proprio staff, nonché per adattarsi più velocemente alle mutate condizioni ambientali e alle crescenti richieste di personalizzazione di prodotti e servizi.

IN BORSA SI RACCOLGONO CAPITALI PER LA CRESCITA

E per investire correttamente occorre non soltanto avere capacità di credito, ma anche poter investire in misura congrua del capitale di rischio, adeguando il livello di quest’ultimo alla sfida che ciascun investimento strategico rappresenta: più è elevata e meno si può sostenere con capitale preso a prestito.

La borsa rappresenta per le imprese che possono candidarvisi un’opportunità da questo punto di vista più unica che rara, dal momento che i sottoscrittori del capitale che vi si può raccogliere non andranno ad incidere sul governo dell’impresa e non pretendono di riaverli indietro con gli interessi. Ovviamente però stanno molto attenti a comprendere se esistono reali opportunità di creazione di valore!

IPO: BUONE OPPORTUNITÀ NON SOLO PER LE IMPRESE

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Ma le matricole in borsa possono rappresentare anche una buona opportunità per chi investe: mediamente le valutazioni d’azienda in occasione dei collocamenti iniziali vengono scontate del 20-30% rispetto al valore teorico. E se guardiamo al listino americano la maggior parte delle imprese che oggi mostrano la più alta capitalizzazione vent’anni fa non c’erano!

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Questo non è di per sé garanzia di guadagno nel sottoscrivere tali offerte pubbliche, ma aiuta poiché soprattutto per la borsa italiana, fortemente dipendente da pochi titoli relativi alle banche e alle public utilities, le IPO sono un’occasione abbastanza rara (e dunque mediamente da cogliere) di diversificazione degli investimenti. Se mettiamo insieme lo “sconto matricola” con l’opportunità di diversificazione degli investimenti, ecco che quelli nelle matricole di bors risulta nel lungo termine vincente.

Stefano di Tommaso




PERCHÉ LO SPREAD SALE

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“Sono in arrivo contemporaneamente così tanti shock per l’economia che è difficile prevedere qualcosa di buono”: questo in sintesi il messaggio combinato di due personaggi di primissimo ordine quali Jamie Dimon, capo di JP Morgan, e John Waldron, capo di Goldman Sachs. Per non parlare del grande capo (e fondatore) di Tesla: Elon Musk, che si è spinto più oltre arrivando a decidere di ridurre del 10% il personale in azienda, in vista della recessione! Siamo davvero sulla china del baratro? Si e No, come sempre. Ma noi Italiani siamo quelli che rischiano il peggio…

 

LA STAGFLAZIONE È ALLE PORTE

L’America si interroga sul rischio concreto di ritrovarsi con una combinazione micidiale di stagnazione e inflazione insieme (come segnalato nel grafico sotto riportato). Una congiuntura che può rovinare i progetti politici del presidente Biden e mandare il suo partito in minoranza al Congresso con le prossime elezioni di medio termine (autunno). Per questo la presidenza spinge su un deciso intervento della Federal Reserve Bank of America (la FED) affinché intervenga con più decisione. Ma così facendo la FED può spedire non solo l’America bensì anche il resto del mondo occidentale in recessione! La possibile combinazione di guerra, inflazione e recessione spaventa ovviamente tutti i grandi osservatori, e può danneggiare soprattutto l’Europa.

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Non c’è infatti soltanto l’inflazione che sta scatenando le banche centrali a rialzare (parecchio, ma in colpevolissimo ritardo) i tassi d’interesse con il rischio che questi ultimi mandino KO l’economia reale. Storicamente anzi, è sempre accaduto. Si veda qs grafico:

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C’è anche in arrivo un ulteriore peggioramento dei rapporti internazionali tra i due blocchi (quello occidentale e quello russo-cinese) e soprattutto c’è la matematica certezza di una nuova recessione europea con il varo di un sesto pacchetto di sanzioni alla Russia, che può da solo scatenare il fallimento del progetto di integrazione politica dell’Unione, qualora si avverasse la voce che gira a Bruxelles circa una possibile dipartita dell’Ungheria dall’Unione, dopo il successo del divorzio tra la Commissione Europea e il Regno Unito, deciso oramai sei anni fa. Insomma le tensioni internazionali hanno un costo e questo costo va a gravare soprattutto sulle spalle dell’Europa!

L’EUROZONA È ORAMAI IN RECESSIONE

Se nel resto del mondo si discute di una sempre più probabile nuova recessione globale, in Europa questa è praticamente già arrivata. Rabobank ha messo in fila cinque indicatori che lo dimostrano e l’Eurozona, varando il sesto pacchetto di sanzioni e dando così un nuovo ulteriore scossone al prezzo di gas e petrolio, rischia di essere la parte del mondo che ne paga di più le conseguenze. Vediamo allora insieme per quali motivi.

Innanzitutto a causa del fatto che il percorso obbligato della Banca Centrale Europea (la BCE) nel dover seguire le orme della FED nel rialzo dei tassi non soltanto spingerà l’economia europea verso un nuovo stop alla crescita, ma soprattutto fornirà un ennesimo shock alla sostenibilità dei debiti pubblici dei paesi europei più deboli (come il nostro), che sino a ieri avevano potuto invece contare sul sostegno della medesima, praticamente senza limiti.

ALLARME SPREAD

Cosa significa questo? Che lo spread tra il rendimento del titolo di stato decennale tedesco (il “Bund”) e quello del corrispondente titoli di stato italiano (il BTP a 10 anni), non è soltanto già raddoppiato ma sembra destinato a salire a razzo! Per due importanti motivi: perché appunto la BCE ha dichiarato da tempo che non intende proseguire il programma PEPP di sostegno ai titoli pubblici e perché il rialzo assoluto dei rendimenti dei titoli di stato come il BTP (siamo arrivati ben oltre il 3%) rende meno sostenibile il pagamento degli interessi da parte del governo italiano. E se lo spread sale la speculazione sui mercati finanziari può fare il resto.

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Però probabilmente non si tratta solo di questioni tecniche perché se così fosse anche lo spread spagnolo dovrebbe volare. E invece è fermo a 30 punti base (il nostro è arrivato a quota 213 b.p.). Evidentemente c’è di mezzo anche la speculazione sulla situazione politica. Da noi infatti sono in arrivo due importanti scadenze elettorali con la quasi certezza che la sinistra perderà dei consensi. E se vince il centrodestra cosa farà l’Unione Europea?

A BRUXELLES LO SANNO BENISSIMO

Il bello è che le sanzioni europee alla Russia di fatto non scalfiscono granché i suoi conti. Non per nulla sino ad oggi il Rublo è stata la valuta con la miglior performance nel 2022. Qualcuno dice che a Bruxelles lo sanno benissimo, ma che proseguendo su questa strada la Commissione ha scelto di accelerare la crisi dell’economia reale per avere il male minore: piuttosto che lasciar schiantare borse e titoli di stato (e con essi quel che resta del progetto europeo) meglio scatenare la catastrofe e trovare la scusa perché la BCE ritorni ad intervenire, magari in contemporanea ad una sorta di commissariamento dei governi dei paesi più deboli e invocare il Meccanismo Europeo di Stabilità (il MES) per salvare l’Euro, anche se questo significherà affossare l’Italia.

D’altra parte il presidente del consiglio dei ministri italiano ha già fatto sapere in tutte le lingue di essere “stanco”, cioè a corto di strumenti per arginare la crisi economica che attanaglia il nostro paese e di non poter di conseguenza garantire la stabilità del governo italiano. La coalizione che lo sostiene è oramai in fibrillazione pre-elettorale (anche se manca circa un anno alle nuove elezioni politiche) e Draghi è da tempo destinato alla presidenza della Repubblica in sostituzione di un Mattarella che ha sempre meno da dire.

ARRIVA IL M.E.S.

Tradotto in numeri questa situazione potrebbe favorire una speculazione ai d’anni dei nostri titoli di Stato, che questa volta non sarà contrastata dall’intervento della BCE. Ecco perché c’è da attendersi un’altra impennata dello spread tra i rendimenti dei titoli di stato italiani e quelli dell’Europa continentale, simile a quella che provocò le dimissioni del governo Berlusconi.

Con la necessità a quel punto di far intervenire “militarmente” la Commissione Europea (CE) a commissariare il governo o, meglio, a far intervenire la cosiddetta “troika” cioè il Fondo Monetario Internazionale (FMI), la BCE e la CE, così come era successo in Grecia qualche anno fa. L’Italia insomma rischia un destino molto simile, con la relativa confisca dei beni di maggior valore ancora appartenenti allo Stato (cioè al popolo italiano) in nome di una normalizzazione finanziaria necessaria ad evitare il tracollo.

MA LE BORSE NON CROLLERANNO

Da notare che tutto questo mette molto in allarme gli investitori ma ciò nonostante non è affatto detto che possa significare un automatico crollo delle borse, anzi! La Tempesta Perfetta di inflazione, guerra e recessione potrebbe paradossalmente avere ben poche ripercussioni sui listini azionari, dal momento che questi sono in discesa da parecchio tempo e che, se l’inflazione dovesse iniziare a flettere o se le banche centrali torneranno a sostenere l’economia, addirittura potremmo assistere ad un nuovo ciclo rialzista.

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Volendo fattorizzare tuttavia l’inevitabile discesa dei profitti aziendali dovuta alla recessione, potremmo pensare piuttosto all’elevata probabilità di un ennesimo incremento della volatilità dei corsi, alla base della quale c’è probabilmente solo un assestamento, non un tracollo. Il problema casomai sarà un altro: e cioè l’ennesimo scossone per la sofferenza dei crediti delle banche italiane, che rischiano di non passare indenni dalla tenaglia del MES, potrebbero soffrire di una nuova fuga dei capitali dal nostro paese e costituiscono una componente tutt’ora molto rilevante del listino azionario di Milano. Se così fosse insomma la borsa italiana potrebbe risultare tra le peggiori performer da qui a fine anno.

LA TEMPESTA PERFETTA È IN ARRIVO DA NOI!

La Tempesta Perfetta paventata dalle grandi banche d’affari anglosassoni insomma è in arrivo e può provocare qualche danno all’economia reale. Ma quel che ne potrà conseguire è soprattutto grave a casa nostra, dove sembra in arrivo più un attacco in forze a quel che resta dell’autonomia decisionale del nostro paese che non a un vero e proprio tsunami finanziario. Passerà anche questa si potrebbe dire. Noi poi alle recessioni abbiamo fatto il callo… Ma quella scomoda sensazione di disagio nell’assistere alla contrapposizione sempre più forte tra Oriente e Occidente del pianeta ci lascia il dubbio di essere stavolta dalla parte sbagliata!

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Stefano di Tommaso




THE CONUNDRUM

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Il mondo si interroga sulla direzione che sta prendendo l’economia globale dopo i ripetuti shock dovuti al virus, all’inflazione e alla guerra, con la speranza di vedere un futuro migliore. Ma molti hanno la sensazione che i problemi non siano ancora terminati. Non soltanto perché l’inflazione sta durando a lungo e perché la guerra (tanto quella “calda” con la Russia in Ucraina, quanto quella “fredda” con la Cina) ha indotto ulteriori problemi di approvvigionamento di energia, materie prime e componenti, ma anche e soprattutto perché adesso è la fiducia degli operatori economici che sta venendo meno. È un guazzabuglio temporaneo? O genererà a sua volta altri problemi, scatenando una recessione globale? Vediamo qual è lo scenario:

 

L’EUROPA

L’Europa sta già oggi affrontando la sua prima vera recessione strutturale dopo quella -durata assai poco- dovuta al lockdown. La piega negativa presa dall’economia nella prima parte dell’anno infatti rischia permanere e gli imprenditori stanno facendo i conti per rivedere di conseguenza le proprie strategie.

La questione fondamentale è se le esportazioni europee potranno riuscire a trainare la ripresa nella seconda parte dell’anno oppure verranno anch’esse travolte dallo “slowdown” globale dell’economia, mentre l’Unione Europea progetta nuove sanzioni alla Russia che di fatto peggiorano la situazione innanzitutto nei paesi più industrializzati e più rigorosamente filo-americani: la Germania e l’Italia. I Francesi invece le sanzioni le hanno di fatto applicate solo a metà mentre gli Spagnoli hanno addirittura appena riaperto tutti i collegamenti con la Federazione Russa semplificandone addirittura le procedure d’ingresso, per favorire la stagione turistica.

Appartenente solo geograficamente all’Europa è poi il Regno Unito, che sta innanzitutto beneficiando del fatto che è un esportatore netto di gas e petrolio, ma che è anche tranquillizzato dal fatto che buona parte del proprio interscambio commerciale proviene dalle ex colonie del Commonwealth, ed è per definizione al momento non a rischio. Non per niente, mentre l’Euro si svaluta la Sterlina si sta rivalutando.

LA CINA

La Cina sta seriamene rallentando la sua crescita economica (parzialmente spinta dalla demografia) anche a causa del severissimo nuovo lockdown imposto ai propri territori meridionali, che però sono i più industrializzati. Le prospettive però sono molto meno grigie di quelle del vecchio continente: la crescita economica sembra innanzitutto trainata dalla domanda interna al Paese e da quella dell’intero continente asiatico e pertanto le prospettive non sono così negative.

La banca centrale cinese sta inoltre continuando ad immettere liquidità nel sistema finanziario, anche per evitare che manchi ossigeno alle imprese e agli investimenti infrastrutturali, contando sul fatto che l’eventuale prosecuzione della svalutazione dello Yuan non è poi così svantaggiosa a casa propria. Ma soprattutto le tensioni della Russia con l’Occidente stanno portando un cospicuo dividendo per la Cina, con le forniture di gas e petrolio a condizioni vantaggiose da Mosca. Lo scenario economico potrebbe essere dunque quantomeno neutrale per la seconda parte dell’anno, se non addirittura positivo.

L’AMERICA

L’America sino ad oggi è riuscita a mantenersi in relativo equilibrio nonostante l’inflazione l’abbia colpita per prima e forse più duramente degli altri Paesi nel mondo: la crescita economica, seppur ridotta, non si è azzerata e la disoccupazione è rimasta molto bassa. La guerra in Ucraina è lontana e, a parte il salasso per il budget nazionale per finanziare armi e munizioni, anzi addirittura ha promosso l’industria bellica che sta facendo affari d’oro in questi mesi. La Borsa però ha accusato il colpo della mannaia della banca centrale che cerca di domare l’inflazione è sono state soprattutto le grandi imprese “tecnologiche” che hanno ridotto drasticamente le previsioni di crescita.

Ma sono i consumi a ridursi decisamente negli Stati Uniti d’America: se c’è un indicatore che normalmente funziona meglio di tutti gli altri per segnalare la salute dell’economia reale questo è l’andamento del settore delle costruzioni residenziali. Quando si contrae è segno che l’economia sta rallentando, anche laddove le statistiche provino ad affermare il contrario. E stavolta il segno meno c’è davvero. Si guardi a questi grafici, tanto relativamente alle vendite di case:

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quanto al riguardo delle previsioni per le costruzioni residenziali dell’anno intero :

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L’America arranca a causa del rallentamento nei consumi: l’inflazione ha addentato largo circa un decimo della capacità di spesa dei consumatori che appartengono alle classi sociali inferiori e questi hanno potuto fare poco per compensare il calo, dal momento che la quota di reddito destinata ai risparmi è notoriamente molto limitata oltreoceano.

Ovviamente la riduzione della domanda di beni è servizi è stata sino ad oggi molto meno che proporzionale al maggior costo della vita, per una moltitudine di fattori, ivi compreso un seppur timido riallineamento verso l’alto (tutt’ora in corso) del livello dei salari. Tuttavia non si può proprio dire che l’economia reale americana non abbia subìto il colpo. Ecco un grafico che lo evidenzia:

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L’ECONOMIA AMERICANA STA UGUALMENTE SOFFRENDO

Il punto non è tuttavia quello che è già successo, bensì ciò che deve ancora accadere: il tasso d’inflazione americano ha raggiunto il suo picco e sta iniziando a volgere verso il basso oppure c’è il rischio che possa incrementarsi ancora? È ovviamente molto difficile rispondere a questa domanda, ma ha anche a che fare con il comportamento futuro di uno dei maggiori poteri economici al mondo: quello della Federal Reserve Bank of America (la banca centrale USA, detta anche FED). Per tre formidabili motivi:

  • perché evidentemente le indicazioni restrittive sin’ora fornite dalla FED per la propria politica monetaria dei prossimi due anni hanno rafforzato fino ad oggi il Dollaro americano, consentendogli di esportare più inflazione di quanta ne importasse,
  • perché se l’inflazione dovesse continuare a crescere la reazione della FED potrebbe generare una nuova importante caduta di Wall Street e infine
  • perché se l’inflazione dovesse proseguire il partito al potere (i Democratici) probabilmente perderebbe le elezioni di medio termine.

Più esattamente:

  1. la FED sta valutando se incrementare ancora la stretta sulla liquidità in circolazione. Se lo farà potrà provocare un altro crollo a Wall Street e spingere la altre banche centrali occidentali a fare altrettanto, provocando problemi ai paesi emergenti e forse anche una recessione globale;
  2. è possibile che -in tal caso- gli operatori giudichino ancora una volta la FED “indietro rispetto alla curva dei rendimenti”, cioè in ritardo nel contrastare gli eventi, dunque con il rischio che le misure adottate non risultino comunque sufficienti e che si verifichi una svalutazione del Dollaro americano (come sta accadendo negli ultimi giorni) dal momento che in tal caso l’incremento dei tassi nominali non basterebbe a contrastare l’inflazione e i rendimenti “reali” resterebbero ugualmente negativi;
  3. l’eventuale ripresa dell’inflazione possa mandare K.O. il partito democratico al Congresso e al tempo stesso quel che resta della credibilità dell’attuale presidente americano, con la possibilità dunque che gli U.S.A. possano cadere nell’ingovernabilità più totale che la storia ricordi.

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Insomma se l’inflazione dovesse continuare la sua corsa al rialzo è possibile che l’economia degli Stati Uniti d’America subisca un duro colpo, e che l’onda lunga di tale disfatta possa devastare di conseguenza le aspettative di ripresa di tutto l’Occidente.

MA QUALE GENESI HA L’INFLAZIONE IN CORSO?

Ma quante probabilità ci sono che l’inflazione continui la sua corsa verso l’alto? Posto che nessuno può davvero sentirsi in grado di rispondere a questa domanda, resta il fatto che possiamo indagare sulle vere determinanti dell’inflazione, per tentare di farcene un’idea. I commentatori si sono sino ad oggi equamente divisi tra coloro che hanno gridato allo shock da offerta di beni e servizi (e il sottoscritto è tra costoro) e coloro che hanno additato principalmente l’eccesso di facilitazioni monetarie e di immissioni di liquidità delle banche centrali, come causa dominante della fiammata inflazionistica.

Ogni ipotesi è buona: la situazione dei prossimi mesi potrebbe risultare molto diversa a seconda che risulti prevalente l’una o l’altra causa del rincaro dei prezzi, oppure entrambe le determinanti potrebbero coesistere e risultare altrettanto “efficaci” nel tenere elevata l’inflazione. Nel primo caso (se lo shock da offerta dovesse risultare prevalente) allora la “stretta” monetaria della FED, arrivando per definizione in ritardo, genererà al massimo una frenata dei prezzi solo “di seconda intenzione”, cioè frenando la crescita dell’economia sino quasi a strangolarla. Nel secondo caso (quello in cui fosse stato l’eccesso di liquidità in circolazione a prevalere come causa determinante nell’ascesa dei prezzi) allora una stretta monetaria potrebbe avere maggiori speranze di risultare efficace nella lotta all’inflazione e senza necessariamente generare una caduta troppo brusca del prodotto interno lordo e magari scongiurando uno scenario di recessione profonda che molti iniziano oggi a pronosticare per l’anno a venire.

SI PROSPETTA UN “AUTUNNO CALDO”

Inutile aggiungere che, qualunque cosa succederà, le prospettive per l’autunno del 2022 sembrano al momento piuttosto grigie. Questo perché -sino a quando l’inflazione dei prezzi non dovesse ritornare a livelli compatibili (2-3% al massimo) con una vigorosa crescita economica globale- difficilmente gli operatori torneranno ad investire a mani basse, è improbabile che le imprese più tecnologiche torneranno al centro dell’attenzione e che gli investimenti per la sostenibilità ambientale torneranno a riprendersi la tribuna d’onore. Di seguito due grafici che ne segnalano il recente andamento (il primo negli USA e il secondo per i principali paesi europei):

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Ma quanto è realistico che l’inflazione si riduca nell’arco di pochi mesi? Per rispondere a questa domanda dovremmo innanzitutto chiederci se le tensioni internazionali potranno consentire un ridimensionamento del costo dell’energia (carbone petrolio e gas, in primis). Al momento è difficile vedere una schiarita nei rapporti tra i maggiori rivali a livello globale (America, UK ed Europa da un lato, Russia Cina e India dall’altro lato). Essi potranno tornare a dialogare, ma è improbabile che lo faranno senza la “pistola sul tavolo”cioè senza alcun allentamento delle tensioni geopolitiche in corso. Il prezzo dell’energia però tende a influenzare buona parte di tutti gli eletti prezzi dei fattori di produzione e se resterà alto allora l’inflazione proseguirà la sua corsa.

L’altro grande tema riguarda la possibilità di espandere la capacità produttiva globale, che sembra oggi limitata a causa dell’estrema vulnerabilità delle filiere di approvvigionamento globale, destinate sì ad essere nel tempo rimpiazzate dal “re-shoring” di molte manifatture, ma non certo nel brevissimo termine. E sintanto che l’offerta di energia, materie prime e commodities non tornerà a correre, è lecito attendersi una relativa stagnazione globale, che comporterà una riduzione del credito disponibile e la riduzione conseguente degli investimenti tecnologici e infrastrutturali nel mondo, i quali a loro volta restano tra le determinanti fondamentali per la creazione di nuovi posti di lavoro.

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E qui viene il bello: la possibile ripresa della disoccupazione potrebbe uccidere la dinamica salariale perché risulterebbe ridotta la capacità negoziale dei lavoratori nei confronti dei loro datori di lavoro. Ma se si prospetta una recessione globale o quantomeno una mancata crescita e se gli investimenti risulteranno ridotti nei prossimi trimestri è plausibile che si distruggeranno più posti di lavoro di quanti se ne creeranno ex-novo. Dunque se il rischio è quello di perdere il proprio impiego sarà difficile se non impossibile per le classi sociali più deboli agguantare la medesima capacità di spesa che avevano prima dell’inflazione.

Se ciò si avvererà si prospetta allora anche un autunno “caldo” dal punto di vista sociale e sindacale in tutto l’Occidente, che andrà a complicare le cose e a incrementare la spesa per il “welfare” (l’assistenza e previdenza sociale), impedendo ai debiti pubblici di fare quel passo indietro che oggi ancora i mercati si aspettano.

IL ROMPICAPO

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Un bel “conundrum” (rompicapo) come direbbe Barak Obama, insomma! Tanto per l’America e il suo zoppicante presidente, quanto per l’intero Occidente .

Con il rischio che qualche conseguenza negativa si potrebbe riscontrare anche per le borse valori, che non potranno non tenerne conto nei multipli che andranno a sostenere i criteri di valorizzazione delle imprese inserite nei loro listini.

E con la quasi-certezza che nessun banchiere centrale potrà avere forza e chiarezza di idee per venirne (presto) a capo perché gran parte dei “ferri del mestiere” (come il Quantitative Easing) li hanno già adoperati. Forse ci vorrebbe una sorta di nuovo Piano Marshall, sostenuto da appositi finanziamenti da parte degli organismi sovranazionali. Ma anche per fare questo ci vorrebbe un periodo di serenità, pace, coesione e collaborazione internazionale. Tutto il contrario della situazione attuale!

Stefano di Tommaso