LA FORMIDABILE ASCESA DELLE NUOVE IMPRESE IN ITALIA – SECONDA PARTE: ANALISI & SELEZIONE –

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Molti di noi sono stati sollecitati a contribuire al lancio di imprese innovative, a supportare la diffusione di nuove tecnologie, oppure a sostenere in qualche modo nuove metodologie medicali o nuove modalità di utilizzo di internet per telecomunicazioni, acquisti, o iniziative benefiche. Quasi tutte appaiono caratterizzate da ottimi spunti, tecnologie rivoluzionarie, idee geniali, o meravigliose intuizioni. Come selezionare quelle con maggiori probabilità di successo?

 

LA DIFFERENZA TRA FARE INNOVAZIONE E FARE BUSINESS

Inutile precisare che solamente alcune di esse sono destinate ad avere effettivamente successo commerciale e un numero ancora minore di queste a reperire capitali e finanziamenti per poter sostenere i loro progetti. il lancio dì una nuova impresa non riesce a molti. Come mai? È un problema dovuto all’arretratezza del Paese in cui viviamo o ci sono altri più solidi motivi? La risposta nella maggioranza dei casi è: entrambe le ragioni. È vero che il mercato dei capitali in Italia ha pochi incentivi fiscali a sostenere delle startup e si scontra con un notorio eccesso di burocrazia, con la concorrenza sleale dello Stato medesimo e, in molti casi, con una mentalità da anni ‘70 e ‘80 dovuta -tra l’altro- al forte invecchiamento della popolazione. Ma è anche vero che c’è una differenza abissale tra la capacità di realizzare nuove tecnologie e nuove iniziative degne della massima attenzione internazionale e la capacità -invece- di fare business.

Molti inventori non sono affatto capaci di organizzare e gestire un’impresa, pur avendo generato idee rivoluzionarie! Anzi: quasi mai il profilo psicologico dell’inventore coincide con quello dell’imprenditore. Quest’ultimo deve riuscire a poggiare le proprie iniziative su solide fondamenta, a scegliere collaboratori capaci e affidabili, validi partner di business e a reperire fornitori che credono profondamente in lui e nella sua capacità di concludere e restare al tempo stesso in piedi. Un’imprenditore deve poi essere sostanzialmente in grado di vendere agli altri la sua idea, i suoi prodotti e servizi e la sua immagine. Senza questa capacità di riuscire a vendere sé stesso, i suoi prodotti e la sua capacità di generare profitti, l’impresa che lui guida può soltanto finire a testa in giù.

IL PUNTO DI VISTA DI CHI INVESTE

Chi valuta se fornirgli capitali, lavoro, tempo e attenzione, deve tenere necessariamente conto di ciò, oppure deve riuscire a convincerlo a farsi affiancare da validissimi soci e partner di business, a concedere spazi decisionali a soggetti terzi e a capaci organizzatori. E anche qualora ciò fosse possibile, deve poter scorgere nell’impresa che nasce un piano organico sostenibile, un’analisi validissima del mercato che si intende aggredire, un’attenta valutazione delle risorse necessarie (umane e finanziarie), e della capacità di ottenerle o metterle a disposizione in tempi congrui con le esigenze dell’iniziativa. Oppure deve affidarsi a un validissimo advisor finanziario in grado di farlo per lui.

Normalmente la modalità naturale per compiere le valutazioni e i discernimenti sopra accennati è la disamina del Piano di Business. Il confronto che esso deve mostrare tra i risultati attesi per la futura impresa e gli scenari di mercato devono poter rassicurare. È anche questo il motivo per cui spesso chi investe nelle startup innovative deve potersi fidare quasi ad occhi chiusi dell’advisor finanziario che è capace dì portare a termine quelle verifiche. Ed è altresì il motivo per il quale normalmente ha senso che gli investitori vengano reperiti e convinti dal medesimo advisor, o intermediario finanziario, o anche coinvestitore, che deve rassicurare gli altri investitori sulla capacità dell’iniziativa di avere successo.

LE CARATTERISTICHE DEGLI “STARTUPPER”

Si dice che il denaro, per quanto valida possa essere l’iniziativa imprenditoriale, lo si dà alle persone, non all’azienda. Bisogna che qualcuna di esse riesca ad esprimere autorevolezza e affidabilità. E bisogna che al tempo stesso mostri capacità dì fare business. Attenzione: non dì fare profitti (subito) o anche solo margini operativi. Questi verranno a tempo debito e se li si cerca troppo presto molto probabilmente si sta rischiando dì azzoppare l’iniziativa. Ma dì fare business, cioè in ogni istante che passa bisogna riuscire a dimostrare che si sta creando valore.

Quella dì creare valore è una capacità che hanno pochi grandi organizzatori, gestori, capitàni d’impresa capacità di tenere la bussola e saper navigare sopra le ondate delle difficoltà operative e dì andare oltre gli errori commessi. Da chiunque. La capacità dì mantenere il sorriso, l’armonia e la motivazione dì tutti coloro che sono coinvolti è sì rara, ma deve anche accompagnarsi ad una buona dose di realismo nel giudicare gli ostacoli e le possibilità. Quando ciò accade -spesso ad opera dì un “team” e non di una sola persona, allora l’impresa compie effettivi passi in avanti.

Allora gli investitori sono contenti e possono anche accettare i rischi che -immancabilmente- sono in agguato a prescindere da tutto il resto. Le startup (anche quelle più valide) sono caratterizzate da una forte rischiosità intrinseca e ineluttabile, oltre che dalla capacità di generare rapidamente valore (quelle che lo sono davvero). Chi investe deve potersi aspettare grandi risultati (altrimenti -letteralmente- la spesa non vale l’impresa) ma deve accettare al tempo stesso grandi rischi. Che ovviamente sarebbe bene elencare pedissequamente nel prospetto informativo onde evitare di ricevere dagli investitori facili accuse di raggiro.

Stefano di Tommaso




LA FORMIDABILE ASCESA DELLE NUOVE IMPRESE IN ITALIA – PRIMA PARTE: LO SCENARIO DI MERCATO NEL NOSTRO PAESE –

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Il nostro paese è interessato più che mai alla ventata di globalizzazione e innovazione tecnologica che pervade l’intero pianeta e sta rispondendo con una grande massa di imprese neo-costituite che vanno quasi sempre a cogliere le nuove possibilità di fare affari determinate dallo sviluppo scientifico e tecnologico. Ovviamente il mercato dei capitali guarda con attenzione in questa direzione perché costituiscono una buona opportunità: qualcuna di esse emergerà come nuovo “unicorno” (nel gergo finanziario, supererà il miliardo di dollari in valore). Il problema è che l’Italia brilla per numerosità e qualità delle Startup ma scarseggia nella capacità di veicolare loro la dotazione iniziale di capitali.

 

LA BORSA LE ACCOGLIE MA… DOPO !

La Borsa Valori è molto recettiva nei confronti delle imprese innovative (ovviamente quelle che hanno superato la fase pionieristica) e mostra un deciso appetito per esse. Nell’ultimo anno e mezzo ovviamente il numero di “matricole” si è ridotto per via della pandemia, ma costituisce comunque la stragrande maggioranza delle operazioni di “Initial Public Offerings” (IPO), cioè di nuove quotazioni. Il segmento di mercato delle imprese innovative vale oggi alla Borsa di Milano (che da quando è stata incorporata da quella francese ha assunto il nominativo di Euronext Growth Milan – EGM) circa 150 imprese, su un totale di circa 350 società quotate in Italia, ma è destinato a crescere esponenzialmente. Solo in Francia ce ne sono infatti tre volte tanto, sia delle une che delle altre.

Il confronto nell’Unione europea sull’innovazione delle piccole imprese evidenzia che l’Italia è quinta in classifica, con una quota di piccole imprese con attività innovative pari al 60,9% del totale. Superiore di 14,9 punti percentuali alla media europea (46,0%), poco distante dalla Germania (62,3%) e ampiamente superiore a quella di Francia (45,9%) e Spagna (26,9%).

Esploreremo il fenomeno delle nuove imprese in Italia sotto due punti di vista: i numeri del macro settore delle neo-costituite e le loro modalità di finanziamento, aiutandoci con le poche risultanze statistiche disponibili nel nostro paese, la prima delle quali è fornita dal Ministero per lo Sviluppo Economico, che pubblica un rapporto trimestrale (realizzato con Unioncamere, Infocamere e Fondo di Garanzia del Mediocredito Centrale) utile a comprendere la vertiginosa ascesa delle Startup Innovative.

IL RAPPORTO DEL M.I.S.E.

Alla data dello scorso 1 Ottobre 2021 queste ultime erano divenute più di 14.000 di cui 2600 quelle a prevalenza giovanile (sotto i 35 anni) e delle quali piu di 10.000 nei servizi digitali. Tra tutte quasi il 13% è costituito in prevalenza da donne. Ma l’imprenditoria corre in Italia più di quanto si pensi non soltanto per le Startup innovative: le società di capitali di recente costituzione sono infatti la bellezza di circa 100.000.

Delle 14.000 Startup Innovative registrate già più di 6.000 hanno ricevuto l’autorizzazione del Fondo di Garanzia per quasi 2 miliardi mentre le PMI Innovative che hanno ricevuto una garanzia sono state poco più di 1.200 e il Fondo medesimo ha garantito prestiti nei loro confronti per un totale di 1,3 miliardi .

Singolare il fatto che la maggior parte delle Startup Innovative abbia sede in Lombardia (oltre il 26%) e addirittura quasi il 19% sia a Milano, contro il quasi 12% del Lazio e il quasi 9% della Campania, cosa che sta a significare soltanto che chi ha una buona idea di business se può viene nelle città dove è più sviluppata la capacità di incubarla e finanziarla per farla diventare un’impresa.

I REQUISITI PER RIENTRARE TRA LE “STARTUP INNOVATIVE”

Ma chi sono le Startup Innovative? Il Ministero dello Sviluppo economico risponde così: Possono ottenere lo status di Startup Innovativa le società di capitali costituite da meno di cinque anni, con fatturato annuo inferiore a cinque milioni di euro, non quotate, e in possesso di determinati indicatori relativi all’innovazione tecnologica previsti dalla normativa nazionale“. Che poi sarebbe il possesso di almeno 1 di questi 3 requisiti:
A)sostiene spese in ricerca e sviluppo per più del 15% del valore della produzione, B) impiega personale altamente qualificato (almeno 1/3 dottori di ricerca o ricercatori o almeno 2/3 con laurea magistrale), C) è titolare di un brevetto o di un software recentemente registrato.

A queste imprese sono state rivolte significative agevolazioni, introdotte con il decreto-legge “Rilancio” del 19 maggio 2020, n.34 :

  • Incentivi fiscali all’investimento nel capitale di startup innovative
  • Accesso gratuito e semplificato al Fondo di Garanzia per le PMI
  • Smart & start Italia (finanziamenti agevolati per startup innovative localizzate sul territorio nazionale)
  • Trasformazione in PMI innovative senza soluzione di continuità
  • Esonero da diritti camerali e imposte di bollo
  • Raccolta di capitali tramite campagne di equity crowdfunding
  • Servizi di internazionalizzazione alle imprese (ICE)
  • Deroghe alla disciplina societaria ordinaria
  • Disciplina del lavoro flessibile
  • Proroga del termine per la copertura delle perdite
  • Deroga alla disciplina sulle società di comodo e in perdita sistematica
  • Remunerazione attraverso strumenti di partecipazione al capitale
  • Esonero dall’obbligo del visto di conformità per compensazione dei crediti IVA
  • Fail Fast (procedure semplificate in caso di insuccesso della propria attività)

Inoltre in risposta all’emergenza COVID sono state introdotte ulteriori misure a loro favore:

  • Contributi a fondo perduto per acquistare servizi per lo sviluppo delle imprese innovative
  • Sostegno al Venture Capital
  • Credito d’imposta in ricerca e sviluppo
  • Proroga del termine di permanenza nella sezione speciale del registro imprese
  • Estensione della garanzia per il fondo centrale di garanzia per le Pmi
  • Ulteriori incentivi all’investimento in Startup Innovative
  • Programma Investor Visa for Italy: dimezzamento delle soglie minime di investimento
  • Agevolazioni per le Startup Innovative localizzate in zone colpite da eventi sismici

MA I CAPITALI NON ARRIVANO DAL MISE. NÈ DAL MEDIOCREDITO

Ovviamente le suddette agevolazioni hanno contribuito in parte a stimolare la nuova imprenditoria, in particolare quella giovanile (poco meno del 20%) ma, evidentemente il grosso è costituito soprattutto da quella “di riflusso” degli “adulti (che va ben oltre l’80%), derivante dalla cancellazione di numerosissimi posti di lavoro a causa della crisi economica o della delocalizzazione all’estero delle imprese. Lo testimonia il fatto che una percentuale quasi uguale alla proporzione tra adulti e giovani nuovi imprenditori è quella delle 100.000 imprese neo-costituite, delle quali oltre l’80% non ha i requisiti di startup innovativa.

Bisogna dire che il Decreto Rilancio costituisce nel complesso una vera e propria manna per le giovani iniziative innovative. Una manna spesso ignorata da coloro che vogliono mettersi ”in proprio”, ma sulla quale si sono buttate orde di professionisti, consulenti e intermediari che in qualche modo vantano “agganci” presso il Ministero per lo Sviluppo Economico e il Mediocredito Centrale. Una manna che però evidentemente è stata meglio sfruttata in quei luoghi (come Milano) ove è più facile creare, finanziare e condurre un’impresa. Un’informazione questa che impone una riflessione ulteriore a proposito degli altri fattori (diversi da agevolazioni e incentivi ai finanziamenti di Stato) che risultano essenziali affinché l’imprenditoria si sviluppi ulteriormente in Italia, prima fra tutti la disponibilità di capitali di rischio, oltre che di finanziamenti.

Praticamente infatti nessuna delle misure previste recentemente dal Governo riguarda il capitale di rischio (tipicamente gli proveniente da Family&Friends e Venture Capital), la cui presenza peraltro risulta essenziale anche nella normativa prevista per attivare i finanziamenti e i contributi di Stato. E senza capitali di rischio le nuove imprese non riescono a partire. L’italiano medio insomma, quando non riesce a tenersi il proprio posto di lavoro, se può se lo crea di sana pianta, e questo gli fa onore. Ma poi sconta il fio della ristrettezza e poca trasparenza del mercato dei capitali italiano, che oltretutto resta negli ultimi anni particolarmente arretrato rispetto al resto d’Europa.

EPPURE IL RISPARMIO DEGLI ITALIANI È INGENTE

Basti pensare che oltre 3/4 dei risparmi italiani (ingenti e in crescita) che vengono investiti sul mercato dei capitali prende la strada degli investimenti esteri. Una vera e propria iattura per il sistema delle imprese, che dipende dal fatto che non esistono strumenti (privati e pubblici) per veicolare loro a sufficienza la disponibilità di risparmio fresco.

I depositi bancari italiani peraltro crescono anche loro (siamo a quota 1.700 miliardi di euro), ma sempre più difficilmente si trasformano in finanziamenti alle imprese. Da dieci anni a questa parte le banche italiane hanno ridotto di circa 275 miliardi di euro il credito alle imprese mentre hanno incrementato di 185 miliardi l’investimento in titoli pubblici italiani. Lo Stato cioè, per ogni euro garantito alle imprese italiane (circa 3,4 miliardi in totale) ne ha assorbiti 55 dal mercato dei capitali, spiazzando di fatto le imprese.

COSA FARE

L’auspicio è perciò che il governo attuale possa finalmente muoversi anche nella direzione dello sviluppo del mercato dei capitali, prima che l’ondata di nuove iniziative si sgonfi per impossibilità di reperire adeguate risorse. Perché senza che quest’ultimo raggiunga anche nel nostro paese maggiori dimensioni e articolazioni, buona parte delle 100.000 nuove imprese costituite alla fine si spegnerà.

Le banche d’affari come la nostra fanno il possibile per mettere insieme i capitali di rischio , assicurandosi prima che il Piano di Business sia concreto e che impedisca di sprecare risorse, costituendo e registrando la Startup come “innovativa”, reperendo idonee risorse umane con competenze qualificate, per renderle capaci di fare davvero business e trovando talvolta loro uno spazio di mercato anche attraverso accordi commerciali e collaborazioni industriali.

Altre volte viene costituito un “Club Deal” guidato dalle stesse banche d’affari che raccoglie intorno a sè capitali di rischio provenienti da uno sparuto gruppo di investitori professionali (per quasi il 70% i cosiddetti “Ángel Investor” i quali -giustamente- pretendono di partecipare anche alla conduzione aziendale, qualche “Family Office” (cioè gli uffici che si occupano di investire per conto dei più ricchi) e qualche (raro) investitore di Venture Capital.

Ma la sproporzione tra domanda offerta, così come tra le risorse complessivamente reperibili in Italia rispetto a quelle degli altri paesi avanzati, è notevole!

Stefano di Tommaso




INVESTIRE COLLEZIONANDO: Dove sta andando il mercato? Top lots delle aste di orologi di Novembre

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Il termometro delle aste si è espresso anche questo autunno, decretando un mercato forte e capace di coinvolgere sempre più marchi e modelli in ascesa. Il segnale forse più importante riguarda il ritorno di segnatempo, quali i tasca complicati o gli ovettoni di Rolex, molto in voga negli anni 90 ma da tempo rimasti in sordina. La testimonianza di un mercato maturo e diversificato, composto da una vasta pletora di acquirenti con gusti differenti, i quali coesistono e si influenzano vicendevolmente.

Uno dei marchi uscito a testa altissima dalle aste di Ginevra è A. Lange & Soehne, certamente non una sorpresa per gli addetti ai lavori che sin dal principio conoscono la cura e la sostanza che si celano dietro a tali orologi. L’attenzione dei collezionisti è stata catalizzata maggiormente dai primissimi esemplari prodotti nel 1994, già rari di per sé e che alla porte del 2022 possono essere di diritto annoverati nella categoria “new vintage”. In particolare, un Lange referenza 101.005 in platino del 1994 ha conseguito 103.000 euro

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A. Lange & Soehne 101.005 in platino del 1994. Venduto da Phillips per 103.000 euro

Ma le sorprese in casa Lange non sono finite qui, infatti un Lange referenza 730.048, prodotto in soli 30 pezzi, ed andato in asta da Phillips ha raggiunto la cifra di 598.000 euro. Un segnatempo con tutte le caratteristiche per diventare una futura icona, grazie al movimento a tourbillon perfettamente rifinito, al quadrante lavorato a mano da un artigiano del reparto Handwerkskunst ed alla tiratura estremamente limitata.

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A. Lange & Soehne 730.048 edizione limitata a 30 pezzi del 2016. Venduto da Phillips per 598.000 euro.

Sempre restando sul moderno, l’orologeria indipendente si riconferma un ramo trainante nel mercato, grazie ai molteplici capolavori messi all’incanto. L’estetica che si amalgama con la tecnica affascina sempre di più, soprattutto i collezionisti orientali che sono pronti a pagare cifre molto alte per aggiudicarsi creazioni che, spesso, rappresentano quasi dei pezzi unici.
Ben cinque indipendenti fra FP Journe, Roger Smith e Philippe Dufour hanno sforato i due milioni, con quest’ultimo testa di serie a 4.5 milioni di euro grazie ad un esemplare unico con grande e piccola suoneria.

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Philippe Dufour Grande & Petite Sonnerie del 1992. Venduto da Phillips per 4.5 milioni di euro

Fp Journe dal canto suo vanta un rarissimo Chronomètre à Résonance, facente parte della primissima produzione con una tiratura di 20 esemplari, battuto a 3.7 milioni di euro.

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FP Journe Chronomètre à Résonance realizzato in 20 esemplari del 2000. Venduto da Phillips per 3.7 milioni di euro

Venendo ai grandi classici del collezionismo, ormai divenuti altresì sicuri asset da investimento, notiamo anche in questo caso degli ottimi risultati garantiti dalla qualità dei lotti in palio. Qualità a cui si aggiunge la quantità, infatti nella tornata di novembre vi erano numerosi lotti “da copertina”, nonostante si tratti di segnatempo normalmente difficili da reperire.
Patek Philippe ha segnato svariati risultati degni di nota, presso tutte le case d’asta. Phillips ha battuto due importanti 2499 degli anni 50 a 3.4 e 1.4 milioni di euro rispettivamente.

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Patek Philippe 2499 prima serie del 1952. Venduto da Phillips per 3.4 milioni di euro

 

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Patek Philippe 2499 seconda serie del 1954. Venduto da Phillips per 1.4 milioni di euro

Sempre da Phillips è andata in scena l’aggiudicazione di un rarissimo Patek Philippe 2497 in oro bianco, configurazione prodotta in soli tre esemplari. L’orologio, molto atteso, non ha di certo deluso le aspettative conseguendo 2.7 milioni di euro

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Patek Philippe 2497 in oro bianco realizzato in 3 esemplari del 1954. Venduto da Phillips per 2.7 milioni di euro

Christie’s invece ha proposto un segnatempo quasi unico ed uno dei più amati dai collezionisti. Si tratta di un Patek Philippe ore del mondo, referenza 2523, aggiudicato alla cifra di 2.5 milioni di euro.

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Patek Philippe Ore del Mondo del 1953. Venduto da Christie’s per 2.5 milioni di euro

Accanto alle grandi perfomance di Patek Philippe, marchio che nonostante sia da sempre sulla cresta dell’onda dagli albori non smette di regalare soddisfazioni ad appassionati ed investitori, anche Rolex ha dato importanti conferme.
Come sempre il Rolex Daytona, ed in particolare il Paul Newman, rappresenta un cavallo sicuro su cui puntare, e non solo nella classica veste in acciaio. L’oro, infatti, si sta sempre più riaffermando e riesce a spuntare ottime aggiudicazioni, come nel caso del 6265 in asta da Phillips che, grazie alla grande qualità dell’oggetto, è arrivato a 156.000 euro.

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Rolex daytona 6265 in oro giallo del 1977. Venduto da Phillips per 156.000 euro

In generale, il grande leitmotiv delle aste è stata la qualità, ovvero colei che decreta una differenza finanche del 100% fra un oggetto in discrete ed eccellenti condizioni. Un esempio è il Rolex 6263 in asta da Christie’s, il quale forte di un eccezionale stato di conservazione, è riuscito ad ottenere un risultato molto più alto rispetto ai suoi simili, di 130.000 euro.

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Rolex Daytona 6263 ” big red” in acciaio del 1978. Venduto da Christie’s per 130.000 euro

Anche in casa Audemars Piguet non sono mancati i colpi di scena con il Royal Oak e, specialmente i calendari perpetui, in ulteriore aumento dopo il grande balzo degli ultimi anni.
Il Royal Oak calendario perpetuo scheletrato ha catalizzato l’attenzione dei compratori, con Phillips che ha venduto due esemplari con referenza 25829, sia in acciaio per 383.000 euro che in platino per 371.000 euro.

Christie’s ha proposto la stessa referenza anche in oro rosa, battuta 321.000 euro.

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Audemars Piguet 25829or in oro rosa calendario perpetuo scheletrato del 2005. Venduto da Christie’s per 321.000 euro

 

Ricerca svolta daLorenzo Rabbiosi (The Watch Boutique)

Per informazioni marika.lion@lacompagnia.it




LE BORSE SALIRANNO ANCORA

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Dove andremo a finire? Possibile che non vi sia limite ai rialzi dì borsa? Nonostante l’inflazione prosegua la sua corsa e la pandemia non demorda, a guardare i mercati finanziari pare proprio sia così. Nonostante i rischi di un crollo (o di elevata volatilità delle quotazioni) aumentino parallelamente ad ogni ulteriore salita degli indici dì borsa, l’orientamento dei mercati è ancora una volta positivo! Una ragione tecnica peraltro c’è e non è da sottovalutare: i tassi d’interesse reali. Mai stati così in basso, e con poche speranze che la tendenza si inverta. Continuerà? Pare proprio di si.

 

I FATTORI CHE ALIMENTANO LE BORSE

La liquidità in circolazione abbonda, l’alternativa ai mercati azionari spaventa (quelli obbligazionari promettono delle perdite, l’oro appare in rialzo ma molto speculativo e le criptovalute ancor di più): non c’è dunque troppo da stupirsi se le borse segnano quasi i massimi livelli di sempre. Ma c’è anche una ragione d’opportunità per la quale i rialzi dei listini potrebbero non finire qui: la fine dell’anno è vicina e i gestori di patrimoni vogliono far segnare delle belle plusvalenze. Ecco dunque che scatta la paura di perdersi il nuovo rialzo! La cosiddetta “fear of missing out”. Sebbene la prudenza consiglierebbe atteggiamenti più cauti, nessuno se la sente di rimanere fuori dai mercati borsistici se ha liquidità nelle mani, tanto più ora che è acclarata un’inflazione galoppante: se tutti i prezzi salgono (compresi quelli delle azioni) ciò che rimane liquido perde valore. L’inflazione dunque in un primo momento alimenta la salita dei listini azionari.

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L’IMMOBILISMO DELLE BANCHE CENTRALI

Oddio, non aspettiamoci che l’inflazione faccia per il momento altri salti quantici: non appare realistico. Anche perché permangono dubbi sul proseguire della ripresa economica. Ma nemmeno è realistico che l’aumento dei prezzi al consumo si dissolva come una nube passeggera, così come in troppi continuano a ripetere: mentono sapendo di mentire. La storiella del “fenomeno temporaneo” le banche centrali dovevano necessariamente raccontarcela, perché non potevano fare diversamente e perché non sapevano (e non sanno) che pesci pigliare. E a forte ragione. Ci sono molti altri fattori da valutare prima di decidere di rialzare i tassi, fra tutti il rischio di innescare una brutta reazione a catena che porti -come è già successo in passato- alla recessione. Poi c’è il rischio -gigantesco- di far saltare la sostenibilità dei debiti pubblici. Insomma la cautela è d’obbligo.

LE STATISTICHE E I TASSI D’INTERESSE “REALI”

Ma l’inflazione può restare anche soltanto ai livelli attuali per generare effetti dirompenti: i livelli oscillano dal 3% al 6% per i prezzi al consumo (in Europa è per il momento più bassa che negli U.S.A. e in Cina è frutto della “media del pollo” tra prezzi di mercato e prezzi amministrati). Ma per i prezzi all’ingrosso è a livelli doppi (cioè dal 6% al 12%) sebbene con una lieve tendenza al ribasso negli ultimi giorni. Non è dunque un fenomeno da sottovalutare e può comportare pesanti conseguenze, anche sui mercati finanziari.

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Tanto per cominciare queste ultime si mostrano in termini di tassi d’interesse “reali”: al netto dell’inflazione essi sono oggi decisamente negativi. Cosa che spinge al rialzo i titoli azionari, dal momento che la maggior parte delle imprese quotate si trova in posizione rialzista con l’inflazione. Ciò che invece appare depresso è il comparto dei titoli a reddito fisso: con l’erosione dei rendimenti reali esso può soltanto perdere terreno, anche perché prende maggior corpo l’aspettativa dì una risalita dei tassi nominali (i risparmiatori vendono titoli a reddito fisso per comperare azioni). E finché la liquidità in circolazione resta sempre molto alta, è difficile pensare che la tendenza possa invertirsi.

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Quello che prima o poi dovrebbe invece scomparire sono le tensioni relative alle filiere produttive così come la carenza di offerta di beni di consumo durevole (come le automobili e gli elettrodomestici) e dei loro componenti. Sebbene ciò avverrà certamente a fronte dì un riallineamento verso l’alto dei relativi prezzi finali.

TALUNE COMPONENTI DELL’INFLAZIONE PERMARRANNO

Ma altre componenti dell’inflazione risultano assai meno volatili: ad esempio se l’economia continuerà a “tirare” sarà più difficile che scompaia la carenza di manodopera qualificata, con la conseguenza che i salari non potranno che crescere, alimentando indirettamente l’inflazione, o almeno il suo permanere. Così come è piuttosto difficile che scompaiano da un giorno all’altro le tensioni sulla domanda di energia, alimentando altrettante tensioni sul prezzo del petrolio, caratterizzato al momento anche da un’offerta rigida. L’allarme climatico può inoltre contribuire a farne crescere il prezzo, a causa di possibili nuove “carbon tax”. E può a sua volta alimentare tensioni sul costo dei trasporti, dal momento che questo costo dovrà tenere conto della necessità di un accelerato rinnovo dei mezzi, per sostituirli con quelli meno inquinanti.

C’è da tener conto anche della necessità per i governi di proseguire talune politiche fiscali espansive, ad esempio in Europa e negli U.S.A. : non soltanto perché ci sono paesi che sono rimasti indietro (come il nostro) ma anche per l’esigenza di finanziare il rinnovamento e l’adeguamento tecnologico delle infrastrutture e dell’efficienza energetica. Giù quindi altri miliardi dai governi a favore di produttori e consumatori, con l’aiuto delle banche centrali che li finanziano. La pioggia di liquidità che si riversa inevitabilmente anche sui mercati finanziari insomma non è destinata ad esaurirsi così in fretta.

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LA RIPRESA ALIMENTA L’INFLAZIONE

Dunque l’inflazione dei prezzi sembra destinata a permanere, oltre che a dilagare anche nei comparti che ne erano rimasti immuni (come in taluni servizi pubblici e nelle retribuzioni orarie), ma soprattutto essa verrà tenuta viva dai rincari del prezzo dell’energia, la cui domanda supera costantemente l’offerta. Soprattutto se l’economia proseguirà la sua corsa (come si può vedere dal grafico qui sotto, aggiornato al terzo trimestre 2020), il prezzo del petrolio farà fatica a scendere.

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Ma se l’inflazione non è quindi passeggera e se le banche centrali faranno fatica a rialzare i tassi d’interesse nominali, allora i tassi d’interesse reali sono parallelamente destinati a rimanere negativi, anche perché la necessità di aiutare i governi a finanziare i più alti debiti pubblici di sempre spinge le banche centrali a non ridurre -al momento- l’offerta di moneta. Anzi: a lasciare che ne cresca la velocità di circolazione, assicurando in tal modo lunga vita all’inflazione.

ECCO PERCHÉ LE VALUTAZIONI SONO DESTINATE A SALIRE

E quella dei tassi d’interesse reali sottozero è la principale ragione per la quale i corsi delle società quotate crescono in borsa. Se infatti alla radice di tutti i metodi sulla valutazione delle imprese rimane il valore attuale netto dei flussi di cassa futuri che le medesime produrranno, o il loro valore implicito, che prima o poi potrebbe essere monetizzato con una cessione o con un IPO, ecco che il tasso di sconto dì quei flussi prospettici -quando risulta negativo- ne esalta il valore attuale. Soprattutto se si può ragionevolmente ritenere che il tasso di sconto resterà per un po’ di tempo negativo mentre i flussi di cassa aziendali potranno invece anche adeguarsi all’inflazione (e dunque crescere).

Questo meccanismo sembra tra l’altro destinato a far cambiare gli orientamenti in termini dì valutazioni d’azienda: quando le imprese mostrano capacità di crescere e di competere globalmente (o se risulteranno appetibili per altre imprese che vogliono acquisirle) le loro valutazioni sono trainate al rialzo (almeno in termini dì multipli della redditività) dalle logiche che oggi ispirano i mercati finanziari.

Anche se poi le medesime logiche imporranno altresì una più rigorosa selezione tra le imprese più capaci dì investire per rincorrere le nuove tecnologie e quelle che non potranno permetterselo, con una evidente falcidia per queste ultime. Il che però alimenta il flusso di fusioni e acquisizioni, un fattore da sempre positivo per i listini azionari, come si può leggere nel grafico qui sotto riportato dall’andamento del moltiplicatore medio dell’EBITDA (margine operativo lordo) espresso nelle ultime transazioni degli U.S.A.

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PRIVATE EQUITY E OPERATORI INDUSTRIALI SI ADEGUANO

I fondi di investimento di “private equity” sono stati i primi a riconoscere questa tendenza, e a cavalcarla al rialzo di conseguenza. Ma non sono soltanto loro oggi a muoversi con più decisione che mai: tutto il mercato dei capitali ha più mezzi a disposizione e idee più chiare. Dunque anche le valutazioni si adeguano al rialzo.

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Ora c’è dunque da attendersi che anche gli operatori industriali si adegueranno al rialzo delle valutazioni, soprattutto se -insieme ai flussi dì cassa futuri delle imprese che compreranno- essi vorranno portare a casa -uomini e tecnologie che potrebbero non trovare altrimenti. Ecco un altro motivo per il quale le borse potrebbero prenderne atto, chiudendo il cerchio e alzando ancora una volta l’asticella delle valutazioni d’azienda.

Stefano di Tommaso