METAVERSO E CRIPTOVALUTE

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Mentre l’Europa si interroga ancora sulla pericolosità della possibile quarta ondata pandemica e la Cina approfitta del vuoto politico che si è creato attorno alla retorica globale relativa alle questioni cruciali dell’ambiente in cui viviamo (incrementando l’uso del carbon fossile per alimentare di energia la propria industria), l’America fa un altro incredibile balzo in avanti nella corsa verso il futuro: negli U.S.A. le due parole-chiave dell’ultima settimana sono state infatti: “metaverso” e criptovalute.

 

IL METAVERSO

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È il cosiddetto universo digitale, cioè quello che -attraverso le piattaforme digitali- si estende oltre il mondo tangibile, e fino a ieri era soltanto uno dei tanti concetti della fantascienza che si aggiravano tra ambienti intellettuali e specialisti di realtà virtuali, anche se ultimamente è stato più volte indicato come l’evoluzione più probabile di internet.

Poi la settimana scorsa Facebook (che non è soltanto il nome del più famoso e pristino social network del pianeta, ma anche il nome di una multinazionale miliardaria, quotata a Wall Street e famosa per aver comperato anche: Whatsapp, Instagram, Oculus Virtual Reality eccetera…) ha deciso di cambiare il proprio nome aziendale (non quello del suo social network) in “Meta”, per segnare indelebilmente anche nel nome il suo nuovo obiettivo aziendale: quello di riuscire a tagliare per prima il traguardo del futuro dei social network, i quali molto probabilmente sono destinati ad entrare pervasivamente nei mondi della realtà virtuale e dell’intelligenza artificiale. E da quel momento tutti stanno parlando di Metaverso.

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Per espressa ammissione di Zuckerberg l’evoluzione prospettata con il cambio del nome non gli sarà davvero possibile prima di un certo numero di anni, ma sebbene la mossa sia stata audace e, probabilmente, prematura, non si può che ammettere l’inevitabilità di un futuro dell’economia che si sposta rapidamente verso i nuovi mondi digitali, spesso totalmente distaccati dalla realtà. E gli americani, che amano essere protagonisti, non volevano farsi soffiare dagli asiatici la leadership del nuovo mondo. Poco importa che esso esista soltanto “online”: se è destinato a far ”girare” 800 miliardi di dollari entro soli tre anni, allora probabilmente è più concreto di una roccia!

LE CRIPTOVALUTE

Sono spesso saltante agli onori della cronaca negli ultimi anni per aver raggiunto livelli di valore elevatissimo. Ma anche per l’altrettanto elevata volatilità dei loro corsi, tanto da essere considerate un investimento altamente speculativo, non certo una riserva di valore.

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La scorsa settimana tuttavia il neo-eletto sindaco di New York ha deciso di giocarsi la faccia nella corsa della sua città alla leadership mondiale nell’adozione del Bitcoin e delle altre criptovalute anche nelle transazioni quotidiane (negozi, bar, ristoranti…), arrivando a parlare dell’emissione una moneta “cittadina” (così come è già successo poco tempo fa per Miami) e a chiedere di ricevere il proprio “stipendio” in Bitcoin.

Una vera e propria rivoluzione digitale sta dunque attraversando l’America in pochi giorni: cosa succede? C’è un sottile fil rougeche lega i due concetti (la realtà virtuale del metaverso e i pagamenti digitali effettuati tramite criptovalute): quello della corsa verso il futuro digitale del pianeta.

Un futuro che già oggi è fatto di marchi concepiti e registrati espressamente per il mondo virtuale, di conseguenti grandi volumi d’affari online (Bloomberg Intelligence stima che il Metaverso” potrà raggiungere un miliardo di persone e un valore delle transazioni di 800 miliardi di dollari già nel 2024, cioè in soli 3 anni).

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Le quotazioni delle criptovalute d’altra parte, se non interverranno nuovi problemi regolamentari e “politici” sono destinate ad aumentare: da quando esistono la loro domanda ha quasi sempre superato l’offerta. Soprattutto ora che potrebbero risultare essenziali per gli scambi digitali. Si parla già del Bitcoin a 100mila dollari (oggi è a 65mila).

IL FUTURO PASSA DAL “GAMING”?

Si erano viste le prime avvisaglie dei modi virtuali per almeno tre decenni. Ma nessun mondo fatto di pupazzi e di “avatar” aveva siano ad oggi conquistato il podio di Wall Street. I videogiochi erano diventati sì un grosso business ma senza raggiungere le vette di ricchezza toccate da Facebook, Google, Amazon, Apple e Microsoft. Negli ultimi anni c’è poi stata l’esplosione degli sport digitali, che hanno appassionato tuttavia quasi soltanto le generazioni più giovani. Spesso i premi per i vincitori sono stati espressi in criptovalute e in buoni-acquisto su Amazon e Ebay, alimentando così un circuito totalmente digitale che in precedenza potevamo soltanto ipotizzare.

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Facebook l’anno scorso ha fatturato più di 86 miliardi di dollari facendo utili netti per quasi 30 miliardi (oltre un terzo del fatturato), ma soprattutto capitalizza oggi in borsa quasi 1800 miliardi di dollari, cioè circa 68 volte gli utili dello scorso anno. Quelle 68 volte sono oltre il triplo della capitalizzazione di borsa media a Wall Street, che corrisponde a circa 22 volte gli utili. E ovviamente in quella media ci sono anche i colossi sopra menzionati, le quali inevitabilmente la innalzano.

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Il multiplo citato è ovviamente molto elevato e corrisponde ad un impegno aziendale che non può per nessuna ragione venir meno (pena il crollo della capitalizzazione di borsa) : quello di lavorare costantemente alla crescita di valore della società. Facebook è dunque condannata ad esplorare nuovi mondi (e quelli virtuali sono tra quelli dove ha scommesso maggiormente: è sua Oculus VR, la prima maschera facciale per la realtà virtuale) ed è condannata a cercare di trarne profitto prima di tutti gli altri, se vuol mantenere alta la propria capitalizzazione.

ANCHE NVIDIA, MICROSOFT E NIKE NELLA CORSA AL METAVERSO

Pochi giorni dopo Facebook anche Microsoft, in un evento rivolto alle aziende, ha annunciato spazi personalizzati e immersivi per incontrarvisi nel lavoro. «Il metaverso è qui e non sta solo trasformando il modo in cui vediamo il mondo, ma anche il modo in cui vi partecipiamo, dalla fabbrica alla sala riunioni», ha detto Satya Nadella.

Tra le aziende che puntano su questo ambito ci sono anche Nvidia, il colosso americano dei semiconduttori e la piattaforma di giochi Roblox, nonché le cinesi ByteDance, Alibaba e Tencent. Quest’ultima, in particolare, ha registrato quasi cento marchi relativi al metaverso e starebbe allestendo un nuovo team internazionale per entrarvi al più presto.

Anche la vendita dei beni virtuali già esploso da anni nel gaming è tornato d’attualità con gli NFT: i certificati digitali che negli ultimi mesi hanno conosciuto un vero e proprio boom. Per questo, anche aziende non tecnologiche come Nike stanno programmando di investire nel Metaverso: ha registrato alcuni dei suoi marchi per l’uso in contesti virtuali, il che fa pensare che si stia preparando a una presenza massiccia.

SENZA INNOVAZIONE NON C’È CRESCITA ECONOMICA

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D’altra parte la tendenza riflessiva della demografia del pianeta (si veda il grafico qui sopra) mostra la necessità di impostare la crescita economica sull’innovazione tecnologica, dal momento che, con l’invecchiamento della popolazione, in molti settori l’offerta è destinata a superare la domanda.

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Per contrastare il declino probabile occorrerà allora molta innovazione tecnologica, che però oramai si basa quasi sempre sulla digitalizzazione spinta all’estremo. E più ci avviamo verso un mondo fortemente digitale, più è concreta la possibilità di sviluppare (anche dal punto di vista del business) nuovi mondi virtuali. Ed è una delle poche risposte concrete che le grandi multinazionali possono trovare per tenere alte le proprie quotazioni. Non stupisce allora che (anche in Borsa) l’illusione possa superare la realtà.

Stefano di Tommaso




AD OVEST NIENTE DI NUOVO

Non si tratta di ripercorrere gli orrori della prima guerra mondiale con una filippica sull’ antimilitarismo, così come venne percepito all’epoca l’omonimo romanzo di Erich Maria Remarque del 1928. E’ soltanto che stavolta è proprio l’assenza di brutte notizie a rincuorare i mercati finanziari e dunque a permettere loro di consolidare i record storici raggiunti aspirando addirittura a nuovi massimi. Nell’ultimo mese Wall Street è infatti salita del 7%…

 

A partire dagli sbadigli provocati dal coriaceo governatore della Bank of England che ha deciso di non alzare i tassi, spiazzando i più, fino alle buone notizie sul fronte delle filiere di fornitura di materie prime e semilavorati, dove i prezzi stanno mostrando (per il momento almeno) di non continuare la corsa al rincaro e -di conseguenza- stanno permettendo alle imprese meglio posizionate di collezionare profitti da record, ciò che sta delineandosi in sordina nell’ultima decina dì giorni è una vera e propria collezione di buone notizie (o quanto meno un’ imprevista assenza di quelle cattive), che torna a procurare sollievo alle borse e fiducia agli investitori che le frequentano.

Insomma siamo arrivati al paradosso (a livello globale, si intende) di una futuribile ma non impossibile progressiva maggior disponibilità di semiconduttori, gas, petrolio e altri materiali (quelli che insomma vanno a costituire in prevalenza i fattori essenziali di produzione), i quali fino a ieri avevano subìto rincari a dir poco a doppia cifra (e in qualche caso a tripla) e che adesso, man mano che si avvia la vera e propria normalizzazione dell’economia globale, magari non scenderanno di prezzo, ma difficilmente continueranno indiscriminatamente la loro corsa al rialzo.

La qual cosa potrebbe far gioco al sostegno della narrativa sin’ora prevalente delle banche centrali: e cioè che l’inflazione resterà “transitoria” ancora per due, tre o anche quattro trimestri, cioè forse per quasi un anno (ma difficilmente verrà retrocessa a semplice bolla speculativa), unitamente ad un ancora più verosimile progressivo rientro dei ritardi sui noli marittimi e disingolfamento dei sistemi logistici. Cioè a un possibile calo nei costi di alcuni dei fattori produttivi. Non dimentichiamo infatti che la fiammata inflazionistica dell’estate è avvenuta principalmente sui prezzi all’ingrosso.

La dura verità però resta quella già ampiamente anticipata dalla maggioranza degli osservatori economici: le banche centrali nelle ultime ottave non sapevano letteralmente quali pesci pigliare, combattute com’erano tra l’esigenza di mantenere l’inflazione sotto controllo e quella di continuare a normalizzare il mercato del “reddito fisso”, cui si abbeverano in grande copia i governi di tutto il pianeta con l’emissione senza precedenti di nuovi titoli del debito pubblico. Nel dubbio sono dunque esse rimaste impalate a guardare, e non è detto che -con il senno di poi- che non abbiano fatto assai bene!

Il risultato sui mercati finanziari dell’immobilismo delle banche centrali è consistito perciò fino ad oggi solo in qualche lieve limatura al rialzo nei tassi d’interesse, in una tendenziale nuova inversione della curva dei rendimenti (cioè quelli a breve che superano quelli a lungo termine) e in un rinvio generale a data da destinarsi delle vere scelte di fondo (inflazione o tapering, sviluppo o ambiente, assistenzialismo indiscriminato ovvero ordine nei conti pubblici…) che -immancabilmente- rimarranno necessarie e alla fine improcrastinabili, da qui a un annetto.

Ma quelle scelte appaiono oggi non più così urgenti, causa il tono di fondo dell’economia globale, che sembra non essersi arrestata come si è temuto alla fine dell’ultimo trimestre e nemmeno aver ripreso il galoppo post-pandemico. E con un’economia che mostra di poter riprendere moderatamente la propria crescita anche il pericolo di stagflazione sembra al momento allontanato. Poco importa dunque se la credibilità delle autorità monetarie scivola parallelamente così in basso, e se gli istituti di statistica dì tutto il globo faranno finta di misurare -con qualche ovvia forzatura- una moderata inflazione, pur di non ammettere che la “guidance” delle banche centrali si è di fatto azzerata.

Se davvero l’economia non decrescerà, ma nemmeno galopperà al rialzo, allora probabilmente potranno auto-realizzarsi quelle (sinora retoriche) aspettative di temporaneità dell’inflazione, sebbene ciò non potrà sicuramente avvenire gratis! Il prezzo da pagare non sarà soltanto la “faccia” dei governatori ma anche una probabile indefinita prosecuzione degli stimoli monetari, con il rischio crescente dì trascinare il mondo verso la cosiddetta “trappola della liquidità”: vale a dire quella fase in cui le politiche monetarie smettono di sortire effetti concreti mentre l’inflazione torna a fiammeggiare.

Al momento perciò -se crescono i profitti delle grandi corporations quotate nelle maggiori borse del mondo- anche i prezzi dei loro titoli ci guadagnano. E il mercato tira quel respiro di sollievo che tutti speravano, per consolidare le performance dì fine anno. Superato il Natale potrebbe essere, ovviamente, tutta un’altra storia, perché sarà più lecito di quanto appaia oggi farsi domande sulla sostenibilità dei mercati, dell’equilibrio ambientale terrestre, dei debiti pubblici da record, dei tassi così bassi e dei salari ancora ragionevolmente assai compressi.

E se sarà lecito porsi queste domande difficilmente la risposta del mercato sarà altrettanto positiva quanto lo è oggi. Il mondo non può continuare la sua corsa con il medesimo assetto del passato e -si sa- alla fine i nodi vengono al pettine. Dunque appare facile profezia immaginare prima o poi uno stop significativo nell’eterna corsa al rialzo delle borse. Ma quel mefitico momento della verità delle borse e dei tassi d’interesse (oggi sono ampiamente negativi quelli reali, cioè al netto dell’inflazione) sembra proprio essere come l’araba fenice cantata dal Metastasio: “che vi sia ognun lo dice, ma dove sia (ovvero quando arriva) nessun lo sa”…!

Stefano di Tommaso




L’ITALIA CORRE, MA LO SPREAD SALE

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Non sono bastate le ottime notizie sulla ripresa della produzione industriale e dell’export nazionale per tranquillizzare i mercati finanziari sulle sorti dell’Italia: mentre l’export italiano continua a correre più di quello tedesco e degli altri paesi europei, la congiuntura internazionale potrebbe invece giocarci un brutto scherzo, soprattutto se le banche centrali andranno a concretizzare la ventilata riduzione di acquisti di titoli sul mercato, tra i quali quelli italiani. Lo spread sale poi anche per un altro motivo: la più che probabile -a questo punto- risalita dei tassi d’interesse che induce anch’essa forti timori sulla sostenibilità del debito pubblico Italiano.

 

PREMESSA: IN ITALIA IL PIL CORRE PIÙ CHE ALTROVE

Nel terzo trimestre 2021 il PIL italiano è cresciuto del 2,6% in termini assoluti sul trimestre precedente (un dato che, se fosse annualizzato, indicherebbe una crescita a doppia cifra per il nostro paese. Tenendo conto però della minor crescita registrata all’inizio dell’anno e di quella -più tenue- prevista per il quarto trimestre, è già un ottimo risultato il fatto che esso sia salito nel complesso di circa il 4% dall’inizio dell’anno, che in termini annualizzati corrisponde ad una crescita del 6,1%. Un dato che a fine 2021 potrebbe addirittura migliorare.

Insomma un ottimo risultato, se confrontato con quello europeo (+2,2% rispetto al trimestre precedente) e con quello tedesco (soltanto +1,8% rispetto al trimestre precedente). Se tutto va bene potremmo chiudere il 2021 poco sotto il valore del PIL del 2019 (di circa l’1,4%, mentre la Spagna resta a meno 6,6%) mentre la zona Euro è in media sotto al risultato 2019 soltanto dello 0,5%. La Francia è invece già tornata in pari a fine Settembre. Nel confronto con il resto del mondo invece l’intera Area Euro tende a sbiadire: il Fondo Monetario Internazionale (FMI) prevede infatti per l’economia americana una crescita del 7% sull’anno precedente (e per quella globale del 6%).

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MA SPREAD E INFLAZIONE MORDONO

Insomma sale per il nostro paese il Prodotto Interno Lordo (PIL) più che nel resto d’Europa, ma cresce anche lo spread, arrivato a 131 punti percentuali e, con esso, le preoccupazioni che i capitali scarseggeranno sulle piazze finanziarie italiane. La preoccupazione riguarda infatti anche la possibilità che il PIL possa proseguire la sua corsa, e superare di slancio tanto l’incremento dell’inflazione, che ha raggiunto -per le statistiche ufficiali- il 4,1% nell’Eurozona quanto lo spiazzamento delle imprese private che deriva dall’ingombrante presenza della macchina pubblica, finanziata da una tassazione da record tanto per il mondo quanto per la storia.

C’è da dire che nella medesima Eurozona l’inflazione al 4,1% è il dato più alto da 13 anni (e a quell’epoca il petrolio raggiunse i 146 dollari/barile) mentre in America l‘inflazione è giunta al 4,4% ufficiale (è doveroso segnalarlo perché le statistiche ufficiali sono sempre “ammaestrate”) ed è la rilevazione più alta da 30 anni a questa parte. Per non parlare degli indici dei prezzi all’ingrosso, che rivelano molto meglio l’andamento reale dei prezzi dei “fattori di produzione” e che sono tutti oltre la doppia cifra! In Germania l’ultima rilevazione (Settembre) parla di un +13%, ma in Spagna siamo arrivati addirittura al +23%.

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L’incremento dell’inflazione (soprattutto di quella vera, quella non addolcita dai metodi statistici) ha mobilitato l’attenzione degli osservatori sui cambi valute e sull’atteggiamento delle banche centrali. Nel mondo queste si sono allineate su due poli contrapposti: sono rimaste in attesa di osservare lo sviluppo degli eventi e non hanno alzato i tassi quelle dei paesi più sviluppati: area Euro, zona Dollaro (che comprende anche quello canadese e quello australiano) e Giappone. Altrove le banche centrali sono invece dovute intervenire invece con decisione, rompendo gli indugi e somministrando rialzi di tassi a dosi da cavallo: a partire dalla Banca d’Inghilterra, e a proseguire con le banche centrali di Cina, Brasile, Russia, Nuova Zelanda, Turchia, eccetera. Tanto per il rischio di deriva sfavorevole nel cambio della propria valuta (ad esempio la Turchia) quanto per la necessità cercare di frenare per tempo la deriva inflazionistica.

IL DILEMMA

Potremmo dedurne che sia soltanto questione di tempo: la stretta monetaria si estenderà anche alle aree più forti, e in parte avremmo ragione. Il dilemma tuttavia resta: se la crescita economica si è ridotta quasi a zero (tanto l’America quanto la Cina hanno visto nell’ultimo trimestre un PIL cresciuto soltanto dello 0,2% sul secondo trimestre dell’anno) quale banca centrale vorrà prendersi la responsabilità di portare il proprio paese in recessione (alzando i tassi) pur di combattere l’inflazione?

Morale: fino ad oggi sono intervenute al rialzo dei tassi soltanto le banche centrali che temevano di più una svalutazione della propria moneta. Le altre stanno ancora aspettando di studiare meglio la situazione, consce del fatto che gli strumenti a loro disposizione sono assai limitati. Siamo infatti quasi giunti alla cosiddetta “trappola della liquidità”, nell’ambito della quale gli strumenti di politica monetaria risultano per definizione poco efficaci. Anche perché di liquidità abbiamo affogato il mondo.

Ovviamente dipenderà molto da quel che succede in seguito: se l’economia continuerà a rallentare magari l’inflazione frenerà la sua corsa e non ci sarà bisogno di rialzare i tassi d’interesse. Ma è d’altro canto relativamente improbabile che l’inflazione si fermi ai livelli attuali (a prescindere dalla crescita economica ) vista la strozzatura nella produzione industriale e il disallineamento tra domanda e offerta di beni e servizi. È in atto infatti un travaso dell’aumento dei prezzi alla produzione verso quelli al consumo, che hanno goduto sino ad oggi di parecchia vischiosità.

COSA SUCCEDERÀ

Dunque si può soltanto sperare che il rallentamento della crescita economica possa essere temporaneo, e che la crescita economica globale prevista dal FMI venga confermata. Se succederà questo spingerà gli investimenti produttivi e riaprirà i rubinetti della produzione, sebbene al tempo stesso ciò rilancerà il prezzo dell’energia e tornerà ad amplificare i timori sulle emissioni dannose per il clima. Ecco perché sono prevedibili ulteriori apprezzamenti dei titoli industriali, finanziari e tecnologici. Così come sono prevedibili aumenti generalizzati dei tassi d’interesse e del costo dell’energia.

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Per il nostro paese la situazione potrebbe rimanere sotto controllo sotto il profilo dello spread, soprattutto se l’ export italiano continuerà a correre più di quello d’oltralpe. La presenza di una governo molto autorevole può aiutare non poco in questo senso ed è anche il motivo per il quale appare improbabile che Draghi possa passare velocemente al Quirinale. Ma sappiamo bene che la politica italiana è intrinsecamente instabile e quel che possiamo pensare oggi non è così scontato che si manterrà valido anche nei prossimi mesi.

Certo un lungo periodo di “normalizzazione” economica targata Mario Draghi potrebbe ristabilire un equilibrio tra l’Italia e il resto d’Europa e potrebbe anche gemmare nuovi risultati in termini di riduzione della tassazione e degli sprechi, di moralizzazione della macchina pubblica e di riforma generale della pubblica amministrazione. Uno scenario idilliaco, in cui lo spread dovrebbe restare basso e il debito pubblico sotto controllo.

L’Italia però dipende fortemente dal proprio costo dell’energia ed è un grande importatore di materie prime e semilavorati. L’inflazione dunque non tarderà a mordere anche l’industria e i consumi discrezionali, facendo tornare a salire il prezzo degli immobili e rilanciando le tensioni sindacali. Solo una migliore armonizzazione dell’Unione Europea potrà dunque sortire effetti di lungo termine da una maggior autorevolezza dei nostri governanti. Se invece i “paesi frugali” continueranno a fare capricci e la Commissione Europea continuerà a obbedire soltanto alla politica degli egemoni, allora le tensioni centrifughe riprenderanno, le manifestazioni di scontento si moltiplicheranno e l’attuale maggioranza di governo si spaccherà. E in tal caso lo spread tornerà alle stelle e probabilmente il debito pubblico andrà in tensione.

Stefano di Tommaso




INVESTIRE COLLEZIONANDO: THE ART OF PATEK PHILIPPE

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Si dice che l’essere umano, per sua stessa natura, sia portato a collezionare. Poco importa cosa, che siano francobolli, conchiglie oppure dipinti d’autore: la possibilità di raccogliere oggetti simili, confrontarli, catalogarli ed ammirarli tutti insieme. La maggior parte degli oggetti collezionabili, tuttavia, è destinata a spendere la propria esistenza appesa ad una parete, chiusa in un cassetto, infilata tra le pagine di un album. Fanno eccezione gli orologi, che possono invece essere goduti in qualsiasi momento, indossati anche fuori casa, e sono l’accessorio perfetto e irrinunciabile nel guardaroba delle persone eleganti.

Curiosamente, però, il collezionismo di orologi, nello specifico di quelli da polso, affonda le sue radici in un tempo e un luogo a noi molto vicini. I segnatempo portatili nacquero a cavallo tra il Sette e l’Ottocento, e per un secolo rimasero appannaggio della fetta più abbiente di popolazione. Erano infatti oggetti preziosi, e dunque costosi, sia per i materiali usati che per la perizia necessaria al loro assemblaggio. Le cose cambiarono a partire dagli anni Venti del Novecento, quando nuove tecniche industriali consentirono di aumentare la produzione e rendere gli orologi più resistenti, abbassando al contempo il prezzo dell’oggetto finito. Inoltre, il passaggio dall’orologio da tasca a quello da polso rese i segnatempo infinitamente più pratici ed appetibili a chiunque.

La rivoluzione degli anni Venti segnò l’inizio del declino per gli orologi da tasca, che erano d’un tratto divenuti fragili, poco pratici e persino antiquati nel design: questo, di fatto, determinò l’inizio della loro collezionabilità. Tuttavia, gli orologi da tasca erano collezionati da una nicchia molto ristretta di appassionati e, con l’eccezione di alcuni pezzi particolarmente ricercati non raggiunsero mai quotazioni paragonabili a quelle visibili oggi nel mercato degli orologi da polso.

Bisogna aspettare gli anni Ottanta per veder nascere un reale interesse nel collezionismo di orologi da polso: quando l’avvento dei movimenti al quarzo di fabbricazione giapponese minacciava la sopravvivenza dei segnatempo meccanici, diversi appassionati italiani iniziarono ad acquistare orologi “d’epoca” prevedendo un incremento nella loro desiderabilità negli anni a venire. Acquistando spinti dal proprio gusto personale, gli italiani riuscirono inconsapevolmente ad indirizzare il nascente mondo del collezionismo: la loro predilezione per determinati marchi e tipologie di orologi provocò ben presto un aumento della domanda, e dunque del valore, di orologi come i Rolex “Prince”, gli “Ovetti” e i cronografi Patek Philippe. Nel corso di un decennio, il collezionismo di orologi raggiunse una portata tale da spingere anche le case d’asta, tradizionalmente attive solo nel mondo dell’arte, dell’antiquariato ed eventualmente dei gioielli, ad organizzare vendite all’incanto con cataloghi interamente composti da segnatempo.

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Il Deepsea Special, ricercato Rolex celebrativo, in asta da Phillips

Ed è proprio un’asta l’evento che, a detta di moltissimi esperti, ha segnato l’inizio del collezionismo come lo intendiamo oggi: si tratta dell’ormai leggendaria “Art of Patek Philippe”, allestita con encomiabile lungimiranza da Antiquorum nel lontano 1989. Per la prima volta nella storia si potè parlare di asta “tematica”, ovvero dedicata interamente ad una sola manifattura; il catalogo raccoglieva un numero relativamente ridotto di orologi, tutti selezionati per l’estrema qualità e per la rarità; infine, erano organizzati per materiale della cassa, suddivisi in base alla forma e ben fotografati.

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Due Patek Philippe da polso venduti durante l’asta “The Art of Patek Philippe”

Risulta quindi facile comprendere per quale motivo tale vendita sia considerata un punto di svolta nella storia del collezionismo. Per la prima volta, si affermarono i due concetti fondamentali che ancora oggi stanno alla base del mercato: la rarità e, ancor di più, la qualità, caratteristiche imprescindibili che un orologio deve avere per essere considerato appetibile da collezionisti, commercianti e investitori.

Con il passare degli anni, il mercato si è raffinato: i marchi più apprezzati dai collezionisti, sia per la loro storia che per il valore intrinseco o attribuito dei loro orologi, hanno fatto registrare una crescita delle quotazioni costante ed impressionante. Per dare un’idea dell’andamento del mercato: tra le venti maggiori aggiudicazioni nella storia delle aste, ben sedici sono avvenute dopo il 2015. Emblematico è il caso di modelli iconici, come il Rolex Daytona, il Patek Philippe Nautilus o l’Audemars Piguet Royal Oak, che sono passati dal valere poco più di diecimila euro sul finire degli anni Duemila alle quotazioni attuali, che sfiorano i centomila euro. Con buona soddisfazione dei lungimiranti collezionisti che, in meno di quindici anni, hanno visto il loro investimento decuplicare in un trend che non accenna a fermarsi.

E sì, perché nonostante lo scetticismo di alcuni riguardo alla tenuta del mercato nel difficile periodo della pandemia, le aste di novembre 2020 e maggio 2021 hanno dimostrato come le paure fossero assolutamente infondate. La percentuale di vendite e i prezzi di aggiudicazione, hanno ancora una volta migliorato le statistiche precedenti, anche grazie alla comparsa sul mercato di esemplari precedentemente sconosciuti oppure conservati gelosamente per decenni in favolose collezioni private.

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Patek Philippe Ore del mondo

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Il Cartier “London” Crash offerto da Sotheby’s

Nuovi record sono attesi per l’imminente stagione delle aste autunnali, quando andranno all’incanto orologi strepitosi che hanno acceso il fermento nei collezionisti fin dal giorno del loro annuncio, come il primo Patek Philippe 2523 “Ore dell mondo” mai prodotto, di uno dei rarissimi Rolex “Deepsea Special” degli anni ’60, o di un rarissimo Cartier Crash prodotto in una decina di pezzi dalla boutique londinese del marchio.

Elenco aggiudicazioni Patek Philippe 2523 e grafico

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Elenco aggiudicazioni Cartier Crash e grafico

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La ricerca è stata effettuata da Alvise Mori

Per informazioni: marika.lion@lacompagnia.it