PERCHÉ LA BORSA CONTINUERÀ A PERFORMARE

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Non ci sono soltanto argomenti a favore delle borse a causa della liquidità dilagante dei mercati in queste ore: la narrativa delle cause per le quali i mercati finanziari dovrebbero continuare a brindare nonostante le difficoltà dell’economia reale e il forte incremento dell’inflazione dei prezzi si è recentemente ampliata ad una moltitudine di fattori, soltanto alcuni dei quali vengono normalmente presi in considerazione dagli operatori di mercato. Eppure rischiano di essere quelli che conteranno di più…

 

Chi compra e vende in Borsa infatti ha soltanto parzialmente la possibilità di informarsi sui macro-trend di lungo periodo e forse non vi è nemmeno troppo interessato dal momento che resta sempre valida la famosa massima di John Maynard Keynes: “nel lungo periodo siamo tutti morti”. Eppure talvolta può avere senso guardare anche oltre l’orizzonte per chiedersi dove va il mondo, soprattutto quando nel breve termine le nebbie dell’incertezza lo avvolgono e una serie di segnali di possibile inversione del ciclo mettono paura e costringono chi ne rimane interdetto a cercare di comprendere meglio ciò che succede.

Le borse notoriamente tendono ad anticipare le grandi tendenze di fondo, anche quando queste anticipazioni possono rivelarsi contraddittorie e rischiano di venire ribaltate. È la natura dei mercati ed è il motivo per il quale, di tanto in tanto, la volatilità dei loro corsi si impenna e arrivano tempeste. Difficile predirle con certezza e ancor più difficile è mettersi al riparo quando arrivano.

Questa volta la congiuntura economica non potrebbe apparire più in contraddizione con l’andamento dei mercati finanziari, così come lo è addirittura una serie di segnali che, storicamente, li hanno accompagnati ad importanti ribassi, quali la prospettiva di un rialzo dei tassi d’interesse, quella di un vistoso ribasso dei rendimenti “reali” (cioè al netto dell’inflazione), e persino quella di una possibile riduzione dei profitti aziendali.

Se in passato tutti questi indicatori avrebbero riempito di timori chi investe per professione o per gestire i propri risparmi, oggi sembra che le famose “regole del pollice” possano non funzionare più come una volta, almeno nel breve termine. Se poi ci aggiungiamo che la vera causa di ciò risiede probabilmente nelle tendenze di lungo termine (cioè quelle che poi nessuno guarda davvero quando opera) ecco che il disorientamento cresce e ci si può chiedere con angoscia se stiamo vivendo in un mondo rovesciato (e di conseguenza quanto potrà durare).

Probabilmente si, una serie di coordinate dell’intelletto appaiono oggi saltate o in seria difficoltà a fornire indicazioni utili e, nonostante tutto quanto sopra possa indicare con decisione la prospettiva di un consistente ribasso dei mercati e rialzo dei tassi d’interesse, non si trova (quasi) nemmeno uno spaventapasseri pronto a scommetterci seriamente. Tutti sanno che l’albero della cuccagna non ha esaurito i suoi frutti, sebbene si possa soltanto tentare vagamente di comprenderne le ragioni:

  • Le banche centrali non vogliono e non possono allentare davvero la presa sugli acquisti di titoli a reddito fisso (quantomeno quelli che finanziano i debiti pubblici) perché è la politica che -indirettamente- glielo impone. Dunque i mercati rischiano di restare a lungo piuttosto liquidi, nonostante ogni tanto qualche portavoce dei “prestatori d’ultima istanza” provi a fare “buh”! e faccia finta di andare nella direzione opposta.
  • I profitti aziendali non scenderanno davvero e non hanno alcuna prospettiva seria di ribasso nonostante il peggioramento tangibile dell’economia reale. I motivi: probabilmente perché non vivono al “ground zero” come gli altri comuni mortali: il 60-70% del valore di capitalizzazione totale dei maggiori indici borsistici è composto di grandi e grandissime conglomerate multinazionali, il cui potere di mercato tende soltanto a crescere e le cui risorse tecnologiche tendono soltanto ad aumentare. Morale: comprate titoli di larga capitalizzazione e state attenti agli altri, soprattutto quando esprimono un basso contenuto tecnologico. Le innovazioni in arrivo rischiano di radere al suolo la vecchia industria e di continuare ad arricchire le imprese più capaci di “cavalcare la tigre”!
  • È in arrivo (nonostante i debiti pubblici) una montagna di denaro pubblico e di garanzie governative a favore dei grandi investimenti infrastrutturali che porteranno forti salti di qualità nello sviluppo delle città, dei mezzi di comunicazione e dei sistemi logistici e di trasporto. Non perché qualche politico illuminato lo abbia voluto strenuamente, bensì per la mole di interessi che vi risiedono attorno. I grandi “contractors” non potranno che continuare a guadagnare, così come i banchieri che li assistono e i fornitori strategici che li controllano di fatto (a partire da quelli che li approvvigionano di energia, materie prime e semilavorati strategici, o che cercano e forniscono risorse umane. Anche i titoli di questi ultimi perciò sembrano molto bene impostati ma… attenzione! Soltanto quelli più importanti e più globalizzati!
  • Il Green Deal è tutt’altro che morto dopo la pandemia epocale che stiamo tutt’ora subendo: anzi rischia di esaltarne i diktat e le priorità politiche, dunque anche su questo fronte c’è da attendersi una montagna di investimenti pubblici e privati, grandi incentivi fiscali e grandi monopoli e oligopoli di fatto che nessuno si sognerà di sanzionare (per il momento almeno). Ne beneficeranno ovviamente tutti i settori più esposti alla cosiddetta “sostenibilità” ambientale, a partire dai produttori di veicoli elettrici e di energie da fonti rinnovabili, fino a chi gestisce l’ecologia e il riciclo dei materiali (anche se in misura minore).
  • Infine ancora una volta la tecnologia. Ma non quella de’noantri! Quella epocale e “spaziale”: l’intelligenza artificiale, la grande cybersecurity, la robotica, l’informatica quantistica e iper-performante sui “big data”, la fabbricazione delle batterie del futuro e dei sistemi di conservazione dell’energia e, soprattutto, la ricerca medica e farmacologica più avanzata. I titoli dei gruppi (grandi e piccoli) capaci di accreditarsi come i campioni di questi settori non potranno che volare alle stelle, indipendentemente dalla loro effettiva capacità di trasformarsi in grandi produttori profittevoli. Di nuovo: almeno per il momento! Di questi operatori c’è un grande bisogno anche se è chiaro a tutti che prima o poi la festa arriverà alla sua conclusione naturale…

Morale: non è difficile prevedere che di fronte a “cotanto consesso” di candidati a guadagni stellari per tutti gli altri non resteranno che le briciole, se resteranno. E, a prescindere dal fatto che siano quotate in borsa o meno, le imprese più profittevoli, più estreme e con maggiore di capacità di crescere verticalmente e globalmente saranno ovviamente le altre preferite. Per esempio dai grandi fondi di private equity, che arrivano dove non arriva la Borsa e dove non ha senso che arrivi il Venture Capital. Insomma la grande finanza sembra destinata a vincere dovunque, sempre per il momento. E dove non arriva la grande finanza è probabile che resti soltanto un deserto.

E in Borsa sono quotate soprattutto le imprese migliori, gli indici di borsa sono composti dalle imprese più grandi e più globalizzate. E circa la metà di tutta la capitalizzazione di borsa dell’indice Standard & Poor 500 (a Wall Street) è fatto da imprese iper-tecnologiche. Difficile pensare che – nella lotta per la sopravvivenza –  avranno la peggio, così come è difficile prevedere un futuro roseo per le borse dei Paesi Emergenti o delle repubbliche più piccole dell’Unione Europea, persino quando le quotazioni delle rispettive borse hanno ancora un bel diverso di performance da recuperare, come nel caso dell’Italia.

Se vi piace vincere facile dunque bisogna riuscire a scommettere sui titoli quotati, sulla grande finanza, sui settori favoriti e sulle grandi trasformazioni epocali. Al momento è così, mentre rischia di essere molto “grigia” per tutti gli altri, per la piccola industria di stampo tradizionale e per le imprese familiari che non hanno acceso ai monopoli e oligopoli garantiti dalla politica. E tutto questo sempre per il momento. Quando sarà passato questo momento nessuno sa bene cosa succederà. E non mi stupirebbe osservare una specie di cataclisma che si abbatterà sul mondo. Ma quelli della mia generazione rischiano di non vivere abbastanza a lungo per riuscire ad osservare il ritorno alla realtà. Oggi è quella virtuale che vince su tutto!

Stefano di Tommaso




IL GREEN DEAL SI FARÀ CON LE BATTERIE ALLO STATO SOLIDO?

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Una nuova tecnologia per la fabbricazione di accumulatori di energia elettrica potrebbe avere un impatto molto forte non soltanto sullo sviluppo economico del pianeta, ma anche sulla sua salvezza dal punto di vista ambientale. D’altra parte le industrie di tutto il mondo ci stanno scommettendo e questo fatto ovviamente migliora le possibilità che si arrivi davvero presto (si parla del 2025) a disporne in ogni possibile applicazione. Vediamo di coglierne gli aspetti più significativi.

 

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Il Green Deal non ha ancora finito di stupirci. Tutti si stanno chiedendo in questi giorni, con l’arrivo di un’inflazione di stampo sudamericano, cosa ne sarà delle ambizioni verdi dei democratici americani e -parimenti- di quelle degli ecologisti europei, mentre il costo dell’energia sale a manetta e la Cina torna ad estrarre carbone a mani basse (per bruciarlo e produrre energia, inquinante, ma economica).

L’attuale crisi dell’offerta di beni e servizi, all’indomani della recessione indotta dalla pandemia, rischia di riportare il mondo indietro di mezzo secolo, quando alcune tensioni geopolitiche mediorientali contribuirono a far scarseggiare le forniture di gas e petrolio facendone innalzare il costo, e creando le basi per una spirale inflazionistica che durò molti anni. Il risultato probabile di questa situazione è una grossa frenata nello sviluppo economico globale, che metterebbe uno stop naturale alla cosiddetta transizione ecologica, da molti considerata essenziale per evitare che le problematiche legate al cambiamento climatico finiscano fuori controllo.

I maggiori costi di gas e petrolio possono, è vero, sospingere la produzione di energie da fonti rinnovabili, perché avvicinano la cosiddetta “green parity” (cioè lo stesso costo tanto per le energie “verdi” quanto per quelle “sporche”) ma generano anche scarsezza di risorse pubbliche (soprattutto gli incentivi) da destinare alla ricerca e al sostegno dei sistemi più ecologici per produrre energia. Con il rischio di una grossa crisi energetica all’orizzonte infatti le scarse risorse pubbliche sono innanzitutto impiegate a detassare il costo degli idorcarburi e dei consumi elettrici, onde evitare una spirale inflazionistica dettata dal rialzo dei salari minimi. Gli ingenti investimenti per salvare il pianeta in temi di difficoltà possono attendere.

È LA TECNOLOGIA CHE POTREBBE SALVARE IL GREEN DEAL

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Ma ancora una volta è invece la tecnologia che sembra venire in aiuto di chi si rende conto del rischio ecologico che sta correndo il pianeta terra in un momento in cui le emissioni di gas nocivi rischiano di alterare definitivamente l’equilibrio climatico globale: il risparmio energetico infatti -come pure l’adozione delle energie prodotte da fonti “rinnovabili”- passa necessariamente dalla possibilità di accumulare a condizioni efficienti l’energia verde prodotta solo quando c’è sole, o vento, o abbastanza acqua. Fino ad oggi lo stoccaggio di energia elettrica è sempre stato l’anello debole della catena di trasmissione e propagazione delle energie prodotte da fonti rinnovabili, e non soltanto nei trasporti, ma anche nel menage domestico e nelle automazioni industriali. Nel prossimo futuro il problema potrebbe venire superato con una nuova tecnologia che rende obsolete le batterie con tecnologie precedenti, ivi comprese quelle al Litio (attualmente le più avanzate).

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Le batterie agli ioni di Litio sono al momento di gran lunga le più diffuse tra quelle utilizzate per il trasporto su strada. Ma hanno limiti di capacità, di costo, di sicurezza (possono esplodere) e anche di futuro riciclo, al termine della vita utile delle medesime. Tutti problemi che possono essere in buona parte evitati con una nuova tecnologia, che si chiama SSBT (solid state battery tech). Essa comporta l’adozione di nuovi polimeri allo stato solido per separare catodi e anodi all’interno delle batterie, rendendo al tempo stesso più veloce la loro ricarica e più densa la loro capacità di accumulare energia da rilasciare successivamente. Oggi alcune di queste batterie allo stato solido vengono già utilizzate per applicazioni speciali come i “pace-maker” cardiaci, ma il loro utilizzo non è ancora così diffuso da giustificare un significativo calo di prezzo, cosa che si spera possa accadere già a partire dal prossimo anno.

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TUTTI CI INVESTONO

Molte case automobilistiche stanno scommettendoci forte, mentre al momento la ricerca più avanzata è giapponese e coreana. Tuttavia è soltanto nelle ultime settimane che si è diffusa la notizia di significativi passi avanti nello sviluppo di questa tecnologia: lo scorso 24 Settembre la più autorevole rivista americana di ricerca scientifica “SCIENCE” ha pubblicato un articolo: “Carbon Free High Loading Silicon Anodes Enabled by Sulfide Solid Electrolytes,” basato sui risultati di una ricerca svolta da ingegneri delle nanotecnologie dell’Università della California, in collaborazione con i ricercatori della multinazionale coreana LG.

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La possibilità di abbassare decisamente il costo delle batterie, la velocità di ricarica, il peso e la loro obsolescenza innalzandone al tempo stesso le performances potrà permettere di accelerare il passaggio dai sistemi basati su motori a combustione a quelli elettrici o misti ad idrogeno. In questo periodo di forte rialzo dei costi di fornitura peraltro c’è un fabbricante di veicoli elettrici, Tesla, che ci ha guadagnato decisamente, a causa del fatto che risulta essere uno dei pochi che produce quasi tutto in casa, ivi comprese le batterie al Litio e la ricerca per gli sviluppi tecnologici legati alle nuove tecnologie. Al di là della bolla speculativa che da molti mesi circonda il titolo Tesla, quantomeno la sua formidabile ascesa sta a dimostrare quanto il mercato creda alla necessità di trasferire all’elettrico la produzione di veicoli che prima erano alimentati con carburanti fossili.

MA TESLA CI GUADAGNA

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L’intero mercato finanziario globale ci sta scommettendo, anche perché -come si può immaginare- il business sottostante al trapasso verso i motori elettrici (che sono energeticamente molto più efficienti di quelli a combustione interna) è davvero gigantesco e potrà un giorno arrivare a coinvolgere anche la propulsione di navi e velivoli, i cui motori sono al momento ancora fortemente inquinanti. E ciò dipenderà quasi esclusivamente dallo sviluppo di nuove tecnologie nella fabbricazione delle batterie. Dunque la scala teorica di questa innovazione (la SSBT) appare davvero storica e planetaria, cioè capace di cambiare volto alle produzioni esistenti.

LA SSBT FAVORIRÀ ANCHE LE ALTRE TECNOLOGIE

Anche sul fronte dell’intelligenza artificiale l’eventuale utilizzo di batterie più avanzate potrebbe far scendere i costi e accelerare l’uso di robot e androidi per fini civili, oltre ovviamente a consentire una maggior mobilità a tutti i sistemi elettronici basati su computer e microchip. Non soltanto, ma la possibilità di trattenere più energia per poi rilasciarla nel momento e nel luogo più conveniente può favorire lo sviluppo di sistemi più grandi e complessi per produrre energia da fonti rinnovabili, che oggi hanno il forte limite di doversi confrontare con la problematica della loro connessione alla rete elettrica. Si pensi ad esempio a quanta energia potrebbe essere prodotta dai movimenti del mare qualora non fosse più un problema immagazzinare molta energia per poi trasportarla in seguito.

Stefano di Tommaso




INVESTIRE COLLEZIONANDO: UN PATEK PHILIPPE NON SI POSSIEDE MAI COMPLETAMENTE

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Un Patek Philippe non si possiede mai completamente, semplicemente si custodisce e si tramanda”, un motto che trasuda identità e legame con la tradizione, il passaggio di mano simbolico fra generazioni che, per forza di cose, avviene anche in Patek Philippe. Un ambiente sicuramente prono all’innovazione, purché porti con sè gli stilemi cardine dell’azienda; forse avrete già capito che stiamo parlando del Nautilus, il primo “salto nel vuoto” fatto da Patek Philippe. Un salto nel vuoto perché fino al 1976 la casa ginevrina era sempre stata sinonimo di eccellenza nel campo delle complicazioni ma sappiamo anche che proprio in quegli anni vi era il boom degli gli orologi al quarzo che, provenienti dal Giappone, stavano mettendo a dura prova l’orologeria meccanica svizzera. A tal proposito, ogni brand cercava un escamotage per sfuggire alla morsa della concorrenza del quarzo giapponese. Sulla scia del Royal Oak, lanciato 4 anni prima da Audemars Piguet, anche Patek Philippe decise di puntare su un segnatempo che fosse un trait d’union fra eleganza, data dall’eseiguo spessore e la cassa dai profili smussati e sportività, conferitagli dal materiale, l’acciaio, ed il bracciale.

 

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Disegni originali firmati Gerald Genta di Nautilus e Royal Oak

Entrambi gli orologi nascono dalla matita di Gerald Genta, personaggio chiave che non ha solamente risollevato le sorti dei due brand ma ne ha altresì spianato la strada per un successo che ancora oggi non accenna a finire. Come spesso accade, l’ispirazione non muove da calcoli o studi ma si manifesta inaspettatamente nel quotidiano e sta all’artista saper coglierla ed incanalarla nei giusti binari. Il Nautilus ne è la prova, con Genta che durante una cena posa lo sguardo sulla finestra a forma di oblò del ristorante e ne trae l’idea per la cassa. Il lancio del Nautilus venne accolto con morigerato entusiasmo, in quanto, da un lato vi era l’innegabile finezza costruttiva ed estetica ma dall’altro alcuni clienti rimasero sorpresi nel vedere Patek Philippe virare su un segnatempo tanto sportivo e versatile. Il successo planetario di cui oggi il Nautilus gode era ancora lontano.

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Pubblicità Nautilus ref. 3700 in acciaio

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Brevetto della cassa del Nautilus. Credits: Monochrome Watch

Il primo Nautilus nacque sotto la referenza 3700 e veniva distribuito nelle versioni acciaio, oro ed oro-acciaio. Ad oggi tale referenza risulta sicuramente la più ricercata dai collezionisti, sia perché rappresenta la prima iterazione di questa icona, sia in quanto molti la considerano la versione più riuscita esteticamente. Infatti, accanto ad uno spessore estremamente ridotto, il primo Nautilus sfoggia una cassa di 42mm, dimensioni piuttosto inusuali per l’epoca, tanto da meritare l’appellativo di “jumbo”.

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Nautilus 3700 in acciaio. Credits: Phillips

 

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Nautilus 3700 in oro giallo. Credits: Christie’s

Proprio per accontentare la fetta di clienti desiderosa di una cassa con diametro più contenuto, nel 1981 Patek Philippe introduce la referenza 3800, ancora oggi apprezzata per l’enorme versatilità e la varietà di configurazioni disponibili. Poco dopo il nuovo millennio, nel 2004 Patek Philippe concentra le sue forze sul Nautilus, modello che da tempo non veniva innovato. La prima manovra consiste nel riesumare la cassa jumbo da 42mm del 3700, che non risulta più oversize ma perfettamente in linea con gli attuali gusti del pubblico. Nasce così la referenza 3711, la quale verrà prodotta esclusivamente in oro bianco e rappresenta la transizione verso la nuova generazione del modello. La 3711 rappresenta una rarità in termini di numeri di produzione, in quanto rimase in catalogo solo dal 2004 al 2006, anno in cui verrà introdotta la referenza che ha fatto conoscere il Nautilus al grande pubblico, la 5711.

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3711 in oro bianco. Credits: Phillips

A differenza del Royal Oak, declinato nel tempo in numerose versioni e complicazioni, il Nautilus è sempre rimasto piuttosto fedele al disegno originale e non ha mai visto l’aggiunta di complicazioni oltre la data e l’ora. Tutto ciò fino al 2018, anno in cui Patek Philippe abbina il calendario perpetuo al Nautilus in una soluzione largamente apprezzata dai collezionisti. Tale referenza, la 5740, ha rinvigorito il modello e diventerà certamente un futuro must-have.

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5740 calendario perpetuo. Credits: Phillips

Negli ultimi 5 anni, le quotazioni del Nautilus sono andate aumentando in maniera costante con il 3700 che a poco a poco ha trainato anche le referenze successive, compresa l’attuale 5711. La versione in acciaio della 3700 risulta essere la più ricercata, dal momento che sin dal 1990, anno in cui cessa la produzione della referenza, bisognerà attendere il 2004 per vedere nuovamente un Nautilus con cassa jumbo da 42mm. Oltre ai metalli canonici, esistono degli esemplari rarissimi di 3700 in oro bianco e platino. Se l’oro bianco può essere considerato una rarità degna di aggiudicazioni altissime, il platino realizzato in un meno di 5 pezzi rappresenta il re dei Nautilus e ne riassume al meglio l’importanza.
Quest’ultimo è apparso in asta per la prima volta nel 2013, momento in cui il Nautilus non godeva ancora dell’attenzione odierna, conseguendo la cifra record di 730.000 euro. Qualora tornasse sulle scene, tale esemplare conseguirebbe certamente un risultato di gran lunga superiore. Infatti, un esemplare in oro binaco, battuto nel 2020 ha ottenuto un risultato molto simile(690.000 euro) nonostante la differente rarità. Ciò riflette palesemente la crescita che il Nautilus ha sperimentato negli ultimi anni.

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3700 in oro bianco battuto nel 2020 da Phillips per 690.000 euro. Credits: Phillips

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3700 in platino battuto nel 2013 da Christies per 730.000 euro. Credits: Christie’s

Abbandonando le rarità assolute, possiamo osservare che attualmente un 3700 in acciaio possiede una quotazione che oscilla tra i 130.000 ed i 200.000 euro, cifra che vista la maggiore rarità può spaziare dai 180.000 ai 300.000 euro per gli esemplari in oro. La forbice indica le variazioni di prezzo che intercorrono fra i diversi esemplari, a seconda delle condizioni in cui si trovano e della presenza o meno del corredo originale.
La crescita esponenziale del Nautilus ed in particolare della referenza 3700 non deve sorprenderci, in quanto tale modello riflette in pieno le tendenze estetiche attuali e portandosi addosso la storia e la tradizione di un marchio come Patek Philippe, crea un binomio irresistibile per qualunque collezionista.

La ricerca è stata effettuata da Lorenzo Rabbiosi

Per informazioni: marika.lion@lacompagnia.it

 

 




L’ECONOMIA ACCELERA, O FRENA?

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La domanda può sembrare bislacca ma non è priva di fondamento, dal momento che ci sembra di assistere ad una sorta di “guerra delle statistiche”. L’economia italiana a leggere le prime pagine dei giornali non ha quasi mai avuto prospettive così floride, mentre i governi di tutto il resto del mondo sembrano essere sull’orlo di una crisi di nervi. Come interpretare il clamoroso divario? Per chi ha pazienza di arrivare a leggere l’articolo fino in fondo, un paio di spiegazioni ho provato a fornirle…

 

CINA E AMERICA FRENANO

Il Sole 24 Ore di Domenica 17 Ottobre‘21 titola a tutta pagina: “nel 2021 il Pil cresce oltre quota 6%“ mentre da ogni parte del mondo arrivano preoccupazioni e segnali d’allarme circa la brusca frenata che sta avendo l’economia mondiale. Da ultima quella della Cina, la cui economia è cresciuta meno delle attese nell’ultimo trimestre soltanto dello 0,2% sul trimestre precedente. L’economia americana, ad esempio, è di nuovo quasi al palo, come si può leggere inequivocabilmente dal grafico qui sotto riportato:

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Questo grafico, pubblicato da Bloomberg il 14 ottobre scorso ma riferito alla settimana precedente è addirittura superato: l’aggiornamento del 15 Ottobre rileva infatti che il medesimo indice è ulteriormente sceso di un altro 0,1% . Il cosiddetto “GDPNow”, relativo alla crescita economica Usa del terzo trimestre che due mesi fa era al 6%, oggi è all’1,2% e si teme che sia in ulteriore contrazione. Se poi vogliamo guardare al di quà dell’oceano nella vicina Germania, le prospettive non vanno molto meglio: l’attesa per fine anno del Pil tedesco sono già passate dal +3,7% al +2,4% e anche qui si teme di dover segnare presto altre riduzioni nell’ultimo periodo dell’anno.

L’ITALIA SI LIMITA AL RIMBALZO

In Italia siamo in un’isola felice allora? La risposta è francamente no, dal momento che l’eredità negativa che il governo Conte ci ha lasciato per il 2020 (quasi meno 9% del PIL e una serie infinita di problemi irrisolti e soltanto rinviati) forse la recupereremo soltanto verso la fine del 2022, come si può leggere dalle stime del Centro Studi di Confindustria, riportate nella tabella qui sotto:

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Stiamo infatti semplicemente rimbalzando dopo il tonfo dell’anno precedente, come farebbe persino un gatto morto lanciato dalla finestra. Altri Paesi nel mondo sono caduti meno di noi con il lockdown (ad esempio la Germania) e hanno fatto prima di noi il rimbalzo, guadagnando posizioni preziose nella competizione internazionale, quella che forse ai politici interessa poco ma all’economia nazionale invece si, dal momento che l’economia del nostro Paese si regge soprattutto sulle esportazioni.

Ma oggi quegli stessi paesi che hanno performato meglio di noi fino all’estate, hanno di nuovo il fiato corto, a causa di una combinazione di fattori negativi quali: l’inflazione, la scarsità i ritardi e i maggiori costi nella fornitura di materie prime e semilavorati, la nuova frenata dei consumi individuali e una maggior cautela negli investimenti industriali. Tutte cose che si può ragionevolmente temere siano presto in arrivo anche a casa nostra. Siamo soltanto sfasati dal punto di vista temporale e questo, per una volta, ci favorisce (almeno nelle statistiche).

UNO SFORZO MEDIATICO

È evidente tuttavia che Confindustria, come pure il Governo, stanno facendo uno sforzo per infondere ottimismo e invitano le imprese a investire il più possibile, segnalando la congiuntura favorevole. E’ un lodevole tentativo di propagare il rilancio (e soprattutto la sua percezione) cui deve andare il plauso degli Italiani se vogliamo tornare a sperare di dimenticare gli anni bui che ci hanno appena lasciato.

In effetti l’Italia era rimasta così tanto indietro negli anni precedenti che oggi è lecito sperare -con gli opportuni scivoli e incentivi- che la ripresa in corso non si fermi tanto in fretta. E poi stavolta le politiche economiche sembrano rivolte nella direzione più corretta, che è quella di favorire gli investimenti (essenziali per alleviare la disoccupazione) e di detassare le innovazioni e le ristrutturazioni.

Anche dal punto di vista del rilancio degli investimenti energetici, della transizione ecologica e dell’innovazione tecnologica le risorse del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) sembrano accompagnate da una indubbia mano forte nelle politiche del governo affinché le risorse europee non vengano sprecate ancora una volta.

I PROFITTI NON CRESCONO PIÙ

Dunque niente male. Ma l’economia globale lancia al tempo stesso segnali di forte preoccupazione, tali da rischiare di mandare all’aria buona parte degli sforzi in corso. Non soltanto l’economia ha frenato bruscamente in quasi tutto il resto del mondo già alla fine del terzo trimestre dell’anno, ma anche il sistema industriale, rappresentato innanzitutto dai colossi multinazionali quotati a Wall Street, mostra segnali di stanchezza, con la previsione di una decisa riduzione della crescita dei profitti alla fine di Settembre, che fino all’inizio dell’estate sembrava invece impetuosa, come si può leggere nel grafico qui riportato:

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I motivi della frenata sono numerosi ed eterogenei (dalla compressione dei margini industriali derivante dal rialzo dei costi -anche energetici- e dai ritardi nei processi produttivi, fino alla scarsità di disponibilità di manodopera qualificata e al rallentamento degli investimenti che ne consegue).

Pertanto difficilmente si può classificare tali motivi come “passeggeri”: sono soprattutto le filiere di fornitura di materie prime e semilavorati ad essere sempre più sotto pressione, anche in funzione delle tensioni geopolitiche, che con l’arrivo di Biden alla presidenza americana si sono soltanto moltiplicate, facendo temere il peggio per il prossimo futuro.

In effetti i tempi di attesa nelle forniture industriali non soltanto si sono dilatati moltissimo a partire dall’estate, ma hanno poi continuato ulteriormente a crescere, come si può leggere dal grafico qui riportato (relativo ai soli microchip, i quali però sono oramai dappertutto):

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A Settembre eravamo arrivati a quasi 22 settimane di arretrato e non ci sono al momento segnali di miglioramento, nonostante il rallentamento nel frattempo intervenuto nella produzione e dunque anche nei loro ordinativi. L’industria automobilistica, come pure quella degli elettrodomestici e degli articoli elettronici, è in ginocchio per questa ragione. E le consegne di prodotti finiti sono calate di circa un quinto del totale!

IL RISCHIO DI STAGFLAZIONE

Del pari, come non bastasse, il costo delle materie prime continua a crescere, come rivela il grafico qui riportato, relativo all’indice dei prezzi delle materie prime (il“Commodity Research Bureau BLS/U.S. Spot Raw Industrials Index”):

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Se ci aggiungiamo che l’indice medesimo è relativo ai prezzi espressi in Dollari americani, i quali si sono rivalutati anche loro, si può comprendere il livello di allarme che, oltralpe e oltreoceano, viaggia sulla bocca di tutti. Di seguito l’andamento dell’Euro contro il suddetto Dollaro, che si è rivalutato del 6-7%, dopo il doppio massimo (classica figura che segnala l’inversione di un trend) segnato durante l’estate:

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Per non parlare della recrudescenza pandemica in corso (di cui da noi stranamente non sembra esserci traccia), in certa misura ampiamente attesa per l’autunno (per fattori stagionali) ma che stavolta sembrava dovesse invece risparmiare almeno una parte della popolazione mondiale a causa dell’incremento di vaccinati. È evidente che -in tutto il mondo- i vaccini sono un bel business ma non funzionano sempre, e che di conseguenza le assenze sul lavoro e i ricoveri ospedalieri contribuiscono anch’essi a frenare la crescita economica e i profitti aziendali!

I timori complessivi fuori dei nostri confini nazionali insomma non sono soltanto relativi ad una possibile precoce inversione del ciclo economico, ma addirittura di arrivare a piombare in una vera e propria trappola da “stagflazione” (stagnazione+inflazione) che spiazzerebbe completamente la posizione delle banche centrali, fino a ieri i principali alfieri degli stimoli alla ricrescita economica. Come si può leggere dal grafico qui riportato, in Germania i prezzi all’ingrosso sono arrivati a crescere del 13% al 30 Settembre (e del 18% rispetto ai minimi dell’anno):

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In Italia invece il presidente di Confindustria -Carlo Bonomi- parla di “rischio prezzi per ora contenuto”! Cosa sta succedendo? L’ondata di buone notizie, persino talvolta false e tendenziose (come quella relativa alle materie prime) fa pensare ad un supporto senza quartiere all’attuale governo Draghi, già da tempo definito “il migliore di quelli possibili”, onde evitare di perdere i contributi europei.

LE RIFORME ANCORA DA FARE

Sono infatti 42 le riforme ancora da far passare in Parlamento negli ultimi due mesi e mezzo dell’anno, sperando che nel frattempo le tensioni politiche in crescita dopo le elezioni amministrative non arrivino a bloccarle del tutto. Senza quelle riforme è piuttosto probabile che succeda all’Italia ciò che la Commissione Europea ha già fatto con l’Ungheria di Orban: bloccare i fondi! E quelle riforme corrispondono ad una cura da cavallo per il nostro Paese, utile si, ma non priva di ripercussioni anche sociali (si pensi solo all’allungamento dell’età pensionabile, all’incremento degli estimi catastali e all’inasprimento delle normative sulla crisi di impresa).

D’altra parte con l’arrivo del nuovo governo in Germania gli acquisti di titoli di stato da parte della Banca Centrale Europea sono di nuovo messi in discussione e l’Italia è tornata ad essere un sorvegliato speciale. E Draghi vuole evitare che qualcuno al nord del continente pensi che non stia facendo tutto il possibile. La grancassa che stiamo ascoltando insomma sembra da un lato ricordare al resto d’Europa i clamorosi risultati di questo governo “di transizione” e dall’altro lato sembra preludere alla necessità di provocare ancora una volta uno scossone importante non appena si materializzeranno anche nelle statistiche le problematiche già viste all’estero, pur di mantenere la rotta sul fronte delle riforme necessarie per portare a casa i contributi europei!

Stefano di Tommaso