E’ FINITA LA GLOBALIZZAZIONE?

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La globalizzazione si è interrotta. La frase è divenuta il mantra di questi ultimi giorni e non soltanto perché lo ha detto Larry Fink (CEO di BlackRock e uno dei più influenti opinion maker degli USA. Siamo tornati alla “cortina di ferro”? Sembra di si, almeno con la Russia. Ma neanche con la Cina le acque sembrano calme. Se poi l’America chiudesse un accordo con l’Iran (stato islamico sciita) raggelerebbe i rapporti con l’intero medio oriente (che invece è islamico sunnita e perciò fortemente rivale). Il mantra della de-globalizzazione deriva perciò dall’acuirsi delle tensioni geopolitiche, salite nei giorni scorsi ben al di là dei normali livelli di guardia, che costringono ogni nazione a schierarsi e a organizzare il “re-shoring” delle produzioni essenziali.

 

IL RUOLO DEL “MAINSTREAM”

La guerra fredda sembrava un ricordo sbiadito della contrapposizione tra capitalismo e comunismo, fino a trent’anni fa. Oggi si è invece tornati insistentemente ad agitarne lo spettro. La caccia alle streghe è cioè di nuovo forzosamente in voga, sebbene senza più alcuna valenza ideologica. Oggi i russi non sono più comunisti ma sono definiti carnefici come allora. E, come allora, a influenzare l’opinione pubblica sono i media appartenenti al c.d. “mainstream”: cioè quell’insieme di giornali telegiornali, blog e dibattiti che vanno tutti nella stessa direzione politica. Neanche questo accadeva così palesemente da tempo in Occidente!

D’altra parte non serve sottolineare le differenze culturali e ideologiche per invocare lo sdegno collettivo dei nostri cittadini. Carri armati e missili che penetrano in un territorio dove -almeno in apparenza- prima regnava la democrazia, appaiono argomenti più che sufficienti per far lavorare i “persuasori occulti” (viene in mente l’omonimo saggio del 1957 di Vance Packard) a scaldare gli animi, alzare l’allarme, inneggiare al riarmo e insultare i leader politici e militari avversari. Insomma se la tensione tra gli stati è alta, i media la esacerbano.

COSA NE POTRA’ CONSEGUIRE ?

Così va il mondo, o almeno così va il mondo occidentale, dal momento che nessuno in occidente riporta le opinioni espresse dai leader dell’altra parte del mondo, cioè della Cina, del sud-est asiatico e dall’India, che non sembrano essere affatto allineate al “pensiero unico” occidentale. Comunque la si pensi dunque, non possiamo che constatare una consistente e crescente spaccatura tra Oriente e Occidente che nasce dalla geopolitica, ma che diviene oggetto di guerra economica e mediatica e può tradursi in una iattura assai generalizzata.

E qui viene il bello, perché al di là di qualche vuoto slogan, la verità è che nessuno al di fuori delle stanze del potere poteva prevedere che la tensione sarebbe salita così tanto. Né può affermare con certezza cosa succederà da adesso in avanti. Sicuramente occorre constatare il fatto che l’Oriente del mondo (con l’eccezione del solo Giappone) sembra a sua volta essersi compattato in senso opposto.

Si continua a sperare in una rapida soluzione al conflitto esploso da un mese, ma le ragioni di questo conflitto risalgono a molto tempo addietro. E probabilmente, per lo stesso motivo, non esso si risolverà così in fretta come vorremmo sperare. Quello che invece sarà più probabile sarà una sua pausa. Un “cessate il fuoco” per consentire alle parti di trovare soluzioni negoziali.

CAMBIERANNO LE FILIERE INDUSTRIALI…

Se davvero però nel frattempo dovremo fare i conti con la necessità di estrarre altrove nel mondo le materie prime e i semilavorati di provenienza russa o cinese l’economia globale avrà guadagnato un bel dilemma. Si dichiara di voler estrarre sempre più altrove gas e combustibili fossili, di voler creare in Occidente fabbriche sempre più integrate verticalmente (cioè capaci di lavorare l’intera filiera, dal trattamento delle materie prime al prodotto finito), ma tra il dirlo e il farlo passeranno anni!

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Se dovremo dire addio (almeno parzialmente) tanto alle forniture di materie prime e derrate alimentari, quanto ai mercati di sbocco dei paesi orientali ed asiatici, sino ad arrivare alla segregazione dell’Oriente dall’Occidente, allora si che saremmo a un passo dalla terza guerra mondiale e allora sì che saremo finiti nel pieno di una nuova guerra fredda. Si perché il costo di tale riconversione si farà sentire. E provocherà conseguenze di lunga durata.

… E SALIRÀ LA SPESA MILITARE

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La contrapposizione appena citata forse si potrà giungere ad evitare, ma nel frattempo dovremo probabilmente assistere ad una forte ripresa delle spese militari, e ad un ingente spreco di risorse nella duplicazione di scienze e tecnologie per far sì che i paesi appartenenti ai due schieramenti (Oriente e Occidente) si confrontino a distanza senza mettere a fattor comune le competenze e rallentando, di fatto, lo sviluppo economico globale.

EUROPA E PAESI EMERGENTI SUBIRANNO I DANNI MAGGIORI

Un altro grande, terzo incomodo di questa guerra è l’intero coacervo dei paesi emergenti, le cui economie sono già oggi in ginocchio per la rivalutazione del dollaro e per i rincari delle materie prime, che spesso non vanno in tasca loro, mentre i maggiori costi di tutto ciò che le loro popolazioni acquistano (a partire dagli alimenti) si toccano subito con mano. Un bel problema per molte nazioni che iniziavano soltanto adesso a tirarsi fuori dalla povertà diffusa, che risale addirittura allo scoppio della pandemia e che sta divenendo un dramma con le nuove tensioni.

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Ancor più pesante sarà il bilancio di sostenibilità globale, poiché in nome dell’indipendenza energetica, della necessità di sostenere le spese per gli armamenti, e dell’urgenza di rimpiazzare parte del commercio internazionale con produzioni domestiche sempre più automatizzate (per evitare di produrre con eccesso di costi), dovranno giocoforza rallentare o essere rinviati gli altri investimenti: quelli per l’economia circolare, la transizione verso energie “verdi”, le nuove infrastrutture digitali, e per ristabilire pari opportunità.

Ma è eclatante lo iato che si sta aprendo in questo momento tra Europa e America, e che non potrà che accentuarsi. A parte il diverso andamento dell’economia, lo si è visto anche in queste ultime ore: mentre nell’Unione Europea entravano due milioni di profughi ucraini, a Holliwood si celebrava la notte degli Oscar!

MA SARA’ L’INDUSTRIA A DOVER CAMBIARE MAGGIORMENTE

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L’incremento del prezzo delle materie prime e dell’energia rischia poi di provocare i più forti sconquassi soprattutto nell’apparato industriale europeo. Il più tecnologicamente arretrato e il più dipendente dalle importazioni. Nei due grafici sopra riportati si può toccare con mano la crescita dei costi industriali e in quello qui sopra manca tra l’altro l’ulteriore forte impennata dei costi energeticinel primo trimestre 2022.

L’incremento di questi costi va ad erodere immancabilmente i margini di profitto industriali. E con il rincaro progressivo anche dei prezzi dei prodotti finiti, si può facilmente prevedere che -almeno in Europa- i consumi tenderanno a restringersi, e numerosi posti di lavoro salteranno, generando nuova necessità di assistenza sociale (che i bilanci pubblici faranno molta fatica a sostenere). Insomma il rischio che un’inflazione dettata dalla scarsità di offerta provochi una frenata generale dell’economia è materialmente tangibile. Ma è anche molto difficile evitarlo. I prezzi dei fattori produttivi avevano già iniziato a lievitare con i problemi derivanti dalla restrizione ai movimenti imposta dal virus. Oggi sono letteralmente esplosi.

IL RUOLO DELLE BANCHE CENTRALI

Di fronte a tale congiuntura si può sperare che le banche centrali abbandonino presto l’attuale orientamento verso nuove restrizioni monetarie, atte a contrastare l’inflazione. Per evitare di esasperare esse stesse la stagnazione economica cioè, esse dovranno tornare ad assecondare con nuova liquidità le necessità dei governi e degli operatori economici privati di sostenere la spesa pubblica e gli investimenti. Con buona pace per l’inflazione, che è probabile non cederà il passo, visto che alla sua origine ci sono soprattutto limitazioni nell’offerta dei beni e non eccesso di domanda degli stessi. Nel grafico sotto riportato si può leggere a livello globale tanto il calo (superiore al 20%) dei livelli medi delle borse da inizio d’anno a questa parte, quanto (e soprattutto) il principale fattore che l’ha determinato: il calo della liquidità disponibile sui mercati. Con il rischio che il trascinamento verso il basso prosegua.

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Almeno in Europa insomma, lo spettro della “stag-flazione” si paleserà, quantomeno durante la prima metà dell’anno in corso. E si rifletterà, altrettanto probabilmente, in un innalzamento dei tassi di interesse anche qualora le banche centrali dovessero spingere sull’allenamento della liquidità in circolazione. Se cioè fino a ieri si poteva immaginare che inflazione e incertezza avrebbero frenato la crescita, con la crescita della tensione internazionale la situazione si aggrava ulteriormente e si prospettano in definitiva due grandi alternative:

GLI SCENARI POSSIBILI

  • Da un lato potrebbe succedere che la necessità di aumentare l’efficienza dell’industria e soppiantare le (scarse) materie prime energetiche di derivazione fossile scateni una vera e propria corsa agli investimenti, almeno in tutto l’Occidente, che da sola arrivi essa stessa a contrastare il rallentamento nei consumi e nella disponibilità di materie prime e “commodities” (cioè derrate alimentari). In tal caso assisteremmo di fatto ad una ulteriore accelerazione dell’introduzione di nuove tecnologie, le quali provocherebbero a loro volta l’accelerazione dei processi di trasformazione dell’industria, ulteriori passi avanti verso la digitalizzazione collettiva, e la definitiva sepoltura di molte arti, mestieri e piccole produzioni del passato. Lo scompiglio non mancherebbe ovunque nel mondo ma ci potrebbero essere anche effetti positivi derivanti dallo slancio e dagli investimenti. Uno dei quali potrebbe essere un relativo allentamento delle tensioni geopolitiche, in funzione della possibile mutua convenienza di Oriente e Occidente a fare qualche passo di riavvicinamento.
  • Dall’altro lato invece potrebbe succedere che la mancanza di fiducia nelle prospettive di rappacificazione, la nuova disoccupazione e la riduzione forzosa dei consumi in funzione del ridotto potere d’acquisto delle classi meno agiate agiscano da freno sull’economia, mandandone in stallo la crescita. Così come potrebbe accadere che le banche centrali arrivino a decidersi a fare marcia indietro troppo tardi, quando la recessione sarà stata oramai innescata. O potremmo assistere ad una “escalation” e ad un allargamento territoriale del conflitto armato oggi confinato alla sola Ucraina. In tutti questi casi lo iato con i paesi orientali si accentuerebbe, e sarebbe soprattutto l’Eurozona quella che finirebbe col subire il più clamoroso arretramento rispetto alle nazioni orientali (tra cui anche il Giappone) come Cina e India. In uno scenario del genere anche le contrapposizioni politiche si radicalizzerebbero, con il rischio di una più profonda spaccatura tra Oriente e Occidente.

Nemmeno l’Asia potrebbe beneficiare troppo da ciò che dovesse conseguire al secondo scenario, dal momento che verrebbe seriamente a mancare a quelle nazioni non soltanto la tecnologia occidentale, ma anche una parte importante degli attuali mercati di sbocco. Mentre nel primo scenario, al di là del gioco distruttivo delle sanzioni e delle possibili rappresaglie, si può ben sperare che il commercio internazionale subisca soltanto dei ritardi. Cioè che insomma la globalizzazione cambi sì, ma non si estingua del tutto.

LA GLOBALIZZAZIONE E’ DUNQUE FINITA? DIPENDE…

In definitiva, in risposta alla domanda iniziale (la globalizzazione è finita?) vi è un immancabile “dipende”! Forse soprattutto da Washington, che continuerà a deprecare l’uso dei carri armati russi e le morti provocate dalla guerra ma che potrebbe anche trovare una convenienza (interna ed esterna agli USA) in una tregua, una schiarita. Ma dipende anche da Mosca, che possiamo presumere difficilmente abbandonerà la campagna militare in corso in cambio di qualche blanda promessa di neutralità ucraina.

Cosa succederà nel frattempo non è chiaro. Perché -finché va avanti- l‘orrore di morti e distruzioni provoca indubbiamente danni alla Russia, ma anche all’Europa che si chiede se continuare ad alimentare il conflitto. E si è visto nelle ultime ore che provoca anche danni all’amministrazione Biden, che rischia di scadere nell’opinione pubblica interna. Dunque sta crescendo l’interesse di tutti per la ricerca di una soluzione negoziale.

UNA SOLUZIONE NEGOZIALE E’ POSSIBILE, ANCHE A BREVE

L’attuale congiuntura insomma sembra dunque nera, ma le forze in campo potrebbero anche finire per congiurare verso una svolta decisiva. La storia insegna che nulla è mai definitivo, e che in molti casi le più tristi previsioni possono essere clamorosamente smentite. Anche l’attuale ottimismo delle borse internazionali non fa che anticipare la probabilità di una soluzione negoziale. Ma potrebbero venire smentite dai fatti, viste l’apparente poca lungimiranza dell’attuale presidente americano e l’ostinazione del presidente russo.

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Certo, anche qualora una soluzione negoziale fosse trovata e applicata in fretta, i danni che derivano dalla campagna mediatica contro la Russia e le sue èlites interne, non svaniranno altrettanto in fretta. L’Occidente ha mostrato molta caparbietà nella gestione politica del suo rapporto con la Russia a proposito dell’Ucraina e il risultato economico di tale atteggiamento sarà quasi certamente il permanere di elevati costi di derrate e materie prime (cioè inflazione), una probabile stagnazione economica e un altrettanto probabile calo dei profitti dell’industria.

MA SARA’ DIFFICILE INVERTIRE LA RI-LOCALIZZAZIONE

Neanche per il resto dell’Occidente dunque (America in primis), visto che al momento ne ha tratto quasi soltanto svantaggi, sarà così facile invertire la rotta e tornare a invocare la ripresa del commercio internazionale. Lo shock da crisi di offerta di beni e servizi potrebbe andare avanti abbastanza a lungo, che vi sia o meno una schiarita nei rapporti geopolitici. E se l’inflazione continuerà a mordere allora anche i tassi d’interesse occidentali continueranno a salire, che le borse valori crescano o meno (una parte infatti della mancata discesa dei titoli azionari è infatti dovuta alla migrazione degli investitori dal reddito fisso alle borse).

E con la risalita dei tassi, la questione della sostenibilità dei debiti pubblici globali tornerà in grande evidenza, generando ulteriore scompiglio e il raffreddamento della loro appetibilità per i gestori di patrimoni di tutto il mondo. La guerra cioè potrebbe questa volta non rafforzare più il Dollaro americano, così come è successo quasi sempre in precedenza. Basterebbe infatti che la Cina liquidasse una piccola parte dei titoli di stato americani accumulati sino ad oggi, per creare il problema. Né ovviamente ne beneficherebbe la divisa unica europea, che rischia una vera e propria svalutazione indesiderata proprio mentre si appresta ad acquistare altrove materie prime e commodities.

CONCLUSIONI & PREVISIONI

Lo scenario più probabile insomma, sarà quello dell’incremento degli sforzi per trovare -almeno provvisoriamente- soluzioni di compromesso, onde evitare l’allargamento della guerra. Ma ciò difficilmente sanerà il clima di sfiducia che si è creato, che potrebbe far molto male al commercio internazionale e allo sviluppo economico mondiale. Da questo punto di vista abbiamo probabilmente già oltrepassato la linea di non-ritorno: la globalizzazione che abbiamo conosciuto negli ultimi trent’anni appare perciò irrimediabilmente compromessa.

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Al suo posto potranno tuttavia instaurarsi nuove e diverse forme di collaborazione internazionale, principalmente nella condivisione di parte del know-how (quello non considerato rilevante per la sicurezza delle nazioni) e nella concessione di licenze produttive e di software. Ma la spaccatura che si è creata con il blocco orientale non si riassorbirà così in fretta. L’inflazione potrebbe permanere a lungo e danneggiare irreparabilmente molte attività economiche legate alle tecnologie del passato, o al leisure, all’ entertainment, al turismo e alla produzione di beni voluttuari. Saliranno anche i prezzi degli alimenti, ma probabilmente non abbastanza da compensare i maggiori costi di produzione.

Potrebbero invece tornare a guadagnare terreno i produttori di automazione industriale, la farmaceutica, l’imprenditoria digitale, gli sviluppatori di nuove tecnologie per il risparmio energia, per la sua produzione da fonti rinnovabili, i programmatori di sistemi di sicurezza e di intelligenza artificiale. Anzi, quest’ultima probabilmente costituirà la prossima grande occasione per rilanciare l’economia globale. Così come potranno beneficiare dell’inflazione i prezzi dei beni rifugio (a partire dall’oro fino a tutti gli altri metalli pregiati) sino agli immobili.

Anche per questi motivi è probabile tuttavia che la disoccupazione tornerà ad allargarsi, colpendo quella parte della popolazione che sperava invece di contare sull’assistenza sociale e che si ritroverà con poca capacità di spesa a causa delle crescenti difficoltà dei bilanci statali. E’ possibile appunto che per qualche tempo di conseguenza i salari si appiattiranno e che i consumi collettivi si restringeranno, almeno per la popolazione di età più avanzata.

Si, è possibile che per giungere a una nuova fase della sua evoluzione l’umanità debba passare da un certo travaglio. Ma è anche possibile che questo sia più breve di quanto possiamo immaginare. Come al solito dipenderà dalle volontà umane, politiche e militari.

Stefano di Tommaso




LE FUSIONI E ACQUISIZIONI CRESCERANNO ANCHE NEL 2022

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Prima della guerra in Ucraina si prevedeva per quest’anno un boom di aggregazioni d’aziende, tanto per merito della liquidità in circolazione, quanto per la necessità di creare maggiori dimensioni aziendali, ottimali per la globalizzazione roboante che era in corso. Ma il panorama è profondamente cambiato nel giro di poche settimane: la globalizzazione è oggi sotto la scure di una possibile divaricazione (politico, ma anche economico) tra l’Occidente e l’Oriente del mondo. La liquidità sembra infine decisamente calata, così come è scesa la disponibilità di credito per le acquisizioni. L’M&A crollerà ?

 

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PIÙ RESHORING INDUSTRIALE

E’ presto per dirlo, e rischia di essere anche inesatto, perché altri fattori stanno progressiva-mente entrando in gioco: innanzitutto cambieranno le filiere di alimentazione di materie prime, semilavorati e componentistica terziarizzata, per le nostre industrie. E molti fornitori dell’estremo oriente punteranno a joint-ventures produttive in Europa o nelle Americhe, anche per scongiurare gli effetti devastanti del forte rincaro dei trasporti e avvicinare le produzioni o gli assemblaggi ai mercati di sbocco delle merci (il cosiddetto “reshoring”).

Così come i fornitori delle nostre industrie basati nel sud est asiatico probabilmente saranno affiancati nel tempo da altri produttori, meglio localizzati rispetto ai mercati di sbocco. Ma anche le organizzazioni commerciali e distributive cambieranno: la logistica sarà più pervasiva e meglio presidiata che in passato, come pure in tutto il mondo probabilmente le strutture estere di vendita tenderanno ad essere progressivamente soppiantate da avamposti organizzati anche per lo stoccaggio, l’assemblaggio, il controllo qualità, l’assistenza e il dialogo con la clientela.

Dunque -anche grazie alla progressiva digitalizzazione- le attività industriali che potranno permetterselo saranno sempre più “multi-localizzate”. E le principali multinazionali del mondo sono oggi americane. Ecco forse spiegato il grafico qui sotto riportato:

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Per non parlare delle tecnologie: le grandi ricadute tecnologiche delle scoperte scientifiche e della progressiva digitalizzazione del mondo intero continueranno a favorire accordi industriali, scambi e soprattutto acquisizioni di aziende, dettate dalla necessità di portare in casa gli adeguamenti tecnologici. La ventata di operazioni “technology-driven” riguarderà innanzitutto, com’è ovvio, i settori più maturi, dove cioè l’impatto delle nuove tecnologie deve ancora dispiegarsi appieno. Ma in generale c’è forse oggi più bisogno di tecnologie di quanto ce ne fosse in passato.

SEMPRE PIÙ DIGITALIZZAZIONE

Molte attività tradizionali che ancora residuano dalla precedente era industriale verranno progressivamente stravolte, ottimizzate e semi-standardizzate, soprattutto nella componente “retail”, cioè nell’ultimo miglio verso la clientela finale, dove il dialogo sarà sempre più digitalizzato, onde ottimizzarne i costi.

Sul fronte retail ad esempio è indubbiamente avanzata ma non ancora completata la rivoluzione relativa i sistemi di pagamento, sempre più basati su una “identità digitale” e sempre meno dipendenti dalle carte di credito e debito. Anche la gestione del tempo libero, del leisure, dello sport, del turismo e della ristorazione sarà sempre più dipendente da sistemi digitali di filiera che riescano ad ottimizzare i costi e fornire servizi in tempo reale.

Una grossa parte dello sforzo tecnologico sarà poi rivolto alla necessità di proseguire anche con la transizione ecologica. Gli investitori di tutto il mondo hanno chiaramente espresso preferenze per chi riesce a ottimizzare i consumi energetici, a riciclare materiali e energie di risulta, a innovare nella produzione di energie da fonti rinnovabili. Anche perché prima la pandemia, poi la guerra ci hanno chiarito una tendenza di fondo che -a differenza di quanto poteva apparire in passato- oggi sembra unidirezionale: il mondo è sempre più affamato di energie e la loro produzione “sporca” (e dunque a buon mercato) è sempre meno accettabile per la sostenibilità del pianeta. Dunque è probabile che la transizione sarà dolorosa, a prezzi crescenti e con la necessità di investimenti esponenziali. Svantaggi talvolta aggirabili attraverso l’esecuzione di fusioni e acquisizioni.

L’ENERGIA RESTERÀ CARA

E dove ci sono grossi investimenti in ballo, sono più frequenti e più necessarie le operazioni di aggregazione di aziende. E chi non riuscirà a sostenere quegli investimenti dovrà fronteggiare l’alternativa di fallire o reperire maggiori capitali. Ci saranno perciò più fallimenti e più quotazioni in borsa, perché le risorse per le infrastrutture oramai arrivano sempre meno dai governi e dalle comunità locali. Dunque le imprese che vorranno risultare appetibili per i grandi gestori di patrimoni dovranno necessariamente trovare capitali per svecchiarsi, crescere, innovare e accettare una sempre maggiore attenzione all’efficienza nei costi, anche energetici. In passato ciò valeva per le produzioni di base, e non valeva per il lusso e la qualità. Oggi valgono per chiunque. Ecco perché ci saranno ancora tante operazioni di finanza straordinaria, e prime fra tutte : altre fusioni e acquisizioni.

Gli effetti pratici delle politiche ESG degli investitori, delle problematiche ambientali e la transizione energetica, della necessità geopolitica del “reshoring” (ritorno a casa) di molte produzioni, nonchè dell’impatto delle nuove tecnologie, condizionano fortemente le scelte industriali e non potranno che stimolare altre fusioni e acquisizioni tra aziende.

Dunque c’è da attendersi che nonostante la guerra, con i costi abnormi dell’energia, e nonostante ancora grandi limitazioni agli spostamenti e agli scambi commerciali, persino di questi tempi le fusioni e acquisizioni continueranno a correre, seppure con qualche scontato rallentamento di ordine temporale!

PRIVATE EQUITY & VENTURE CAPITAL

Ci sono poi altri due fattori esogeni che dovrebbero sospingere le aggregazioni di imprese: gli investimenti dei grandi operatori di private equity e venture capital.

  • Il Private Equity è indubbiamente un fattore “push”: se agli imprenditori arriva un’offerta interessante da investitori professionali, essi difficilmente riusciranno a dire di no. E oggi il private equity ha accumulato sempre più “polvere da sparo” (denaro contante raccolto dai propri sottoscrittori) per riuscire a mettere a segno le proprie incursioni. E una volta acquisita la prima azienda di ciascuna filiera occorre moltiplicare gli sforzi per consentirle di creare valore, di aumentarne le dimensioni e di fare leva su ogni possibile margine aggiuntivo: tutte cose che normalmente si traducono in un maggior numero di fusioni e acquisizioni tra imprese dove ha investito il private equity rispetto al caso-base in cui le medesime imprese restino nelle mani dei fondatori;
  • Il Venture Capital è invece più probabilmente un fattore “pull”. Cioè si sviluppa per “risucchio”, rispetto al private equity, che avanza per propria spinta. Gli investitori di venture capital vengono cioè normalmente sollecitati da miriadi di imprenditori in erba, da advisor e da tecnologi di ogni sorta. I quali sperano di essere selezionati tra i mille altri contendenti nella sfida per aggiudicarsi il denaro e le attenzioni degli ”investitori di ventura”. Questo perché nella maggior parte dei casi le innovazioni di ogni genere hanno bisogno di essere ampiamente sovvenzionate da capitali di rischio. Anche il venture capitalist però, una volta definita una certa strategia e partito ad investire in una determinata impresa (o startup), subito dopo si chiede se potrà generare valore aggregandola ad altre simili, ovvero se occorre moltiplicare gli sforzi tecnologici, quelli gestionali o quelli distributivi. E anche in questi casi si generano numerose ipotesi di fusioni e acquisizioni.

Dunque lo sviluppo di queste tipologie di intervento finanziario contribuisce non poco a sviluppare nel mondo le aggregazioni d’impresa, che ci siano o meno conflitti armati. Anzi: in casi di grandi sconvolgimenti epocali come la pandemia prima (con la necessità di sviluppare nuovi farmaci e nuovi presidi sanitari) e la guerra dopo (con la necessità di individuare fonti di risparmio energetico o nuova disponibilità di energie), crescono inevitabilmente anche le esigenze di accelerare sul fronte delle fusioni e acquisizioni.

ELEMENTI A FAVORE E CONTRO LE FUSIONI E ACQUISIZIONI

Lo scenario che si prospetta perciò è caratterizzato da tre generi di spinte:

  • da un lato con la guerra sono intervenuti più timori, minori margini operativi, il rallentamento delle attività produttive, la scarsità delle filiere di approvvigionamento, minor generazione di cassa, minor disponibilità di credito e più bassa valutazione delle imprese. Tutti fattori che tendono a frenare le fusioni e acquisizioni;
  • dall’altro lato le “multi-localizzazioni”produttive, le tecnologie, le esigenze di sostenibilità ambientale e il maggior costo delle energie, spingono in senso opposto: cioè in direzione dello sviluppo di ulteriori attività di fusioni e acquisizioni;
  • infine gli investitori seriali (tanto quelli del private equity quanto quelli del venture capital) man mano che ampliano il loro raggio d’azione, generano anche crescenti esigenze di aggregazioni di aziende, oltre a contribuire a far nascere nuove imprese come pure a farne crescere velocemente la dimensione. E se c’è un maggior numero di aziende attive, o se le medesime sono mediamente più capitalizzate, allora c’è anche, probabilmente, un maggior flusso di fusioni e acquisizioni.

Come si può facilmente dedurre, le spinte all’incremento delle fusioni e acquisizioni sono probabilmente maggiori di quelle che frenano tali attività. Ragione per cui ciò che potrà succedere sarà al massimo un rallentamento delle attività in corso, anche in attesa di conoscere gli esiti della situazione attuale. Situazione oggettivamente non facile, e e non di immediata risoluzione.

LA RIPRESA DELLE BORSE POTREBBE AIUTARE

Nel giro di qualche settimana tuttavia, a meno di una escalation militare oggi di difficile prevedibilità, la situazione del conflitto potrebbe chiarirsi. E il prezzo delle materie prime, come si è iniziato già a vedere, potrebbe ritracciare rispetto ai picchi dei giorni scorsi.

È relativamente probabile perciò che le imprese di ogni parte del mondo continueranno a vagliare, negoziare e concludere nuove importanti operazioni. Probabilmente quest’anno con più cautela e per dimensioni inferiori a quelle viste in precedenza, ma comunque non irrilevanti. Anche le borse potrebbero sospingere non poco le fusioni e acquisizioni, poiché ci si aspetta -seppur con alterne vicende- una qualche prosecuzione dei primi rimbalzi già osservati. E se i moltiplicatori di borsa (e dunque le valutazioni) dovessero riprendersi -soprattutto nelle tecnologie- ecco allora che anche le probabilità di concludere nuove aggregazioni aziendali potrebbero trarne beneficio.

Stefano di Tommaso




ECONOMIA DI GUERRA

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Un vecchio proverbio africano dice che quando gli elefanti litigano sono le formiche che si fanno male: ebbene con questa guerra in Ucraina dove il vero scontro è con con gli USA, sono le popolazioni che ne stanno pagando il conto, in Ucraina ma anche in Europa, dal momento che ha generato rialzi dei prezzi di qualsiasi materia prima, con ricadute insopportabili persino per i paesi emergenti. Per l’inflazione poi l’impressione è che il peggio debba ancora venire! E l’Italia appare come uno dei vasi di coccio più deboli nello scontro tra quelli di ferro, con tetre prospettive di ripiombare in recessione.

 

DOVE ARRIVERÀ L’INFLAZIONE…

Stiamo iniziando a fare il callo sui rincari che fioccano in ogni direzione da qualche settimana a questa parte ma, abituandoci, rischiamo di perderne il conto. Le statistiche tendono a minimizzarli citando un’inflazione al 5-6%. Purtroppo però non esiste un prezzo, tra quelli dei beni di consumo della vita quotidiana, che non sia cresciuto ben di più! Quando va bene siamo al +10%. Ed è accaduto solo da inizio d’anno! Per l’energia elettrica siamo arrivati a 600 euro al megawatt, cioè a quasi 5 volte il prezzo fino all’estate scorsa. Lo scorso Gennaio i costi di produzione delle aziende italiane sono saliti del 32,9% anno su anno e, ovviamente l’indice della produzione industriale ha subìto un calo del 3,4% rispetto a dicembre (cioè ancora peggio su base annua).

L’ISTAT fa ancora la media dei prezzi con quelli (rarissimi) che non sono quasi cresciuti, come le sigarette nazionali, il sale, l’acqua minerale, ma anche le pensioni e gli stipendi. Ma nell’anno il conto salirà. A meno di ipotizzare che, dopo la fiammata dei prezzi da inizio anno ad oggi, l’inflazione -come d’incanto- si fermerà per il resto del 2022. Se parliamo di carne, latte, uova, formaggio, pane (il grano poi è letteralmente esploso!) e via dicendo, con ogni probabilità saremo fortunati se ci fermeremo a prezzi più alti di un quinto rispetto a quelli dell’anno prima (20%). Cioè a un’inflazione di stampo sudamericano. Insomma l’inflazione, comunque la calcoliamo, attualmente non viaggia a meno del 10%.

Ma a questo numero bisognerà sommare gli effetti (ancora da venire) dei rincari sulle materie prime conseguiti alla guerra (iniziata 3 settimane fa). I maggiori costi della produzione non si sono ancora scaricati a valle su quelli dei prodotti finiti. Dunque, se proprio dovesse andare molto bene, è probabile che i nuovi rincari del petrolio (passato in queste 3 settimane da meno di 100 USD al barile a oltre 130, con il dollaro americano che per di più si è anche rivalutato sull’euro) si tradurranno alla fine per almeno un terzo in ulteriori rincari dei beni di consumo. Cioè un altro 10% si aggiungerà nei prossimi mesi al +10% reale che abbiamo già totalizzato nei primi due mesi dell’anno.

Ne consegue che il totale dell’inflazione dei prezzi nell’anno 2022 sarà molto più vicino al 20% che non al 10%. A meno -appunto- di magìe politico-fiscali non ancora identificabili al momento o -ancor più magicamente- a meno di ritorni alla normalità dei prezzi di petrolio, gas e altre materie prime, che per il momento sono fantascienza. L’unico paragone storico è con quanto accadde nella prima metà degli anni ‘70, dopo la crisi petrolifera conseguente alla guerra del Kippur (settembre ‘73). Ricordate quali sofferenze ne derivarono? Quante limitazioni furono introdotte, quanti problemi finanziari? E come si svilupparono dì conseguenza le contestazioni giovanili, la rivolta sociale, l’estremismo, il terrorismo e la disoccupazione?

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…E CHI NE PAGA IL CONTO

Dal momento poi che risulta decisamente improbabile che le retribuzioni salariali cresceranno altrettanto velocemente, ecco chiarito sulle spalle di chi andrà a gravare il prezzo della guerra, della retorica politica e delle sanzioni dell’occidente alla Federazione Russa. Ovviamente su quelle di operai, ambulanti, artigiani e impiegati di ogni livello non dispongono di un ufficio stampa, né di un centro studi, per contrastare gli annunci del “mainstream” (cioè il coagulo di stampa, tv, radio e notiziari online). Coloro che dovrebbero rappresentare le classi più disagiate si sperticano invece a ossequiare il “partito della guerra” e vengono poi scoperti a fare grandi affari con le multinazionali (absit iniuria verbis). Ma l’inflazione a doppia cifra invece è reale, e la cinghia dovremo stringerla ugualmente.

Come se non bastasse poi, chi ci rimetterà di più saranno le imprese, molte delle quali dovranno tagliare posti di lavoro e rivedere i programmi di sviluppo, perché difficilmente riusciranno a ribaltare i rincari sui prezzi di vendita. Dovranno quindi tagliare costi di ogni genere, come il personale non necessario, o quelli rappresentanza, comunicazione, i servizi non essenziali e, magari, dovranno rimandare gli investimenti a tempi migliori perché la liquidità scarseggerà e anche la riscossione dei pagamenti sarà più difficoltosa e perché il credito alle imprese sarà centellinato (e non senza una ragione). Molte imprese quindi salteranno in aria, o faranno di tutto per restare in piedi per un po’, per poi aggregarsi.

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Nonostante quanto indicato nel grafico qui accanto, la settimana scorsa la Banca Centrale Europea ha abbassato di nuovo le stime di crescita del PIL dell’Eurozona ad un mero 2,3% per il 2022. Ma sappiamo tutti che verranno probabilmente riviste ancora, perché le statistiche e i dati tendenziali stimati dagli uffici studi possono soltanto riportare i dati già rilevati, non quelli che stanno materializzandosi in questi giorni.

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Per non parlare poi degli USA, dove le statistiche sono un po’ più oneste (per l’inflazione siamo già arrivati al 12%), il paragone con i dati storici è feroce: come si può leggere nel grafico qui riportato infatti, se proviamo a invertire l’andamento dei prezzi (maggiori i prezzi più scende la linea rossa) possiamo trovare un’evidente concomitanza storica della maggior inflazione con il rallentamento dell’economia. Cosa che inevitabilmente sta succedendo anche da noi.

LE IMPRESE PIÙ PICCOLE SPARIRANNO

La tecnologia peraltro ha fatto passi da gigante nel minimizzare i costi di produzione di praticamente qualsiasi cosa. Ma bisogna tenere conto di due fattori che stanno cambiando il mondo: 1) gli investimenti in tecnologia costano, e si applicano meglio alle grandi dimensioni aziendali (le cosiddette “gigafactories” sono già una realtà), con il rischio che ne vengano tagliati fuori tutti gli operatori più piccoli o meno dotati di risorse da investire; 2) una ristretta cerchia che controlla materie prime, energia e risorse naturali ne impone un costo sempre più elevato, contrapponendosi alla discesa dei prezzi dei prodotti finiti.

E ora che uno dei maggiori produttori di materie prime al mondo come la Russia è stato tagliato fuori dai circuiti internazionali dell’offerta, questa si restringe e spinge al rialzo i prezzi della domanda che resta parzialmente insoddifatta. Russia e Ucraina pesavano per il 53% dell’ export globale di ghisa, per il 27% di nickel, il 14% dei fertilizzanti, il 17% dell’uranio e il 32% dell’uranio arricchito (e nel calcolo manca il Kazakhstan che è sempre nell’orbita russa).

Morale: il taglio necessario di costi, derivante dall’esigenza di mettere sul mercato prodotti ancora accessibili al grande pubblico, le cessioni d’azienda, i fallimenti e le varie iniziative che si renderanno necessarie per riequilibrare i conti economici dell’industria, genereranno probabilmente una nuova ondata di “globalizzazione”, la terza, dopo quella derivante dalla digitalizzazione (anni ‘90) e quella conseguente all’ultima pandemia.

Occorre tuttavia notare che gli effetti negativi delle manovre che si renderanno necessarie per contenere i costi di produzione si faranno sentire molto presto: meno occupati diretti delle imprese e anche meno occupati indiretti (terzisti, cooperatori, piccoli artigiani, trasportatori, manutentori e fornitori di servizi vari). Meno investimenti significheranno poi meno lavoro per tutti gli altri: gli impiantisti, i fabbricanti di macchinari e sistemi, gli installatori e tecnici di ogni genere.

ITALIA: ADDIO RIPRESA, NONOSTANTE GLI STIMOLI

L‘attuale spirale inflattiva derivava già tuttavia dalla scarsità di offerta che risale alla ripresa dell’inizio 2021. E ha comportato rincari di energia, materie prime e semilavorati. A questa scarsità di fattori di produzione si aggiungerà adesso anche scarsità di prodotti finiti, perché la razionalizzazione delle attività produttive passerà per un taglio di quelle che non sono massimamente efficienti. Dunque a scarsità di offerta non potrà che sommarsi altra scarsità, con effetti macroeconomici depressivi. La crescita economica italiana, che speravamo andasse ben oltre il rimbalzo parziale del Prodotto Interno Lordo dopo i ripetuti lockdown del 2020 e inizio 2021, con ogni probabilità si fermerà quindi del tutto nel corso dell’anno.

E ciò nonostante i numerosi stimoli allo sviluppo posti dall’arrivo dei primi fondi del programma Next Generation EU, gli acquisti di titoli di stato da parte della Banca Centrale Europea, gli incentivi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, le garanzie di stato a favore del credito alle imprese, lo sviluppo del mercato dei capitali. Figuriamoci senza come sarebbe andata! Il nostro resta un Paese dove all’incirca la metà del Prodotto Interno Lordo passa dalla Pubblica Amministrazione, dove l’export delle piccole e medie imprese del nord conta moltissimo per riequilibrare la bilancia commerciale, dove le grandi imprese sono quasi in estinzione e dove i consumi interni continuano a toccare nuovi minimi perché la gente ha paura del futuro.

L’ITALIA NON È PRONTA AD AMMORTIZZARE LO SHOCK

L’Italia ha un mero del lavoro estremamente rigido e non è pronta ad ammortizzare uno shock sistemico della portata di quello in corso. Siamo ancora, in buona sostanza, privi di una politica industriale, di capacità di ricerca e sviluppo, nonché di estrarre le proprie risorse naturali ed energetiche. In più -per non farci mancare niente- abbiamo scelto di rinunciare all’elettricità prodotta dalle centrali nucleari (e ne abbiamo ugualmente numerose, appartenenti ad altre nazioni ma a pochi chilometri dai nostri confini settentrionali).

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Le piccole e medie aziende che sopravviveranno perciò sono quasi soltanto quelle collegate ai filoni alimentare, sanitario e meccanico (e queste ultime quasi soltanto per le esportazioni). I servizi e i consumi interni languono, e il turismo, la ristorazione e l’intrattenimento sono ancora sono sotto la cappa dell’emergenza pandemica. Come non parlare poi delle banche italiane, ancora importantissime per finanziare le piccole e medie imprese eppure in grande difficoltà perché tutti stimano una mole di insoluti assolutamente fuori dalla normalità. Sono immancabilmente sotto tiro (stanno perdendo quasi il 20% del valore di capitalizzazione di borsa da inizio d’anno e oltre il 30% dai massimi di febbraio) a riprova della gravità della situazione e del timore che stavolta il supporto della Banca Centrale sarà meno generoso!

CHI POTRÀ INTERVENIRE A SUPPORTO?

Cosa possiamo aspettarci dunque in termini di performance economica? Probabilmente le imprese davvero innovative, più capaci di organizzarsi e di rapportarsi meglio con il resto del mondo otterranno ugualmente credito e capitali. Saranno però alcune centinaia al massimo quelle che si quoteranno in Borsa, otterranno Minibond o troveranno la possibilità di aggregarsi e di ricevere aumenti di capitale. Troppo poche per un impatto significativo sull’economia dell’intero Paese. Le altre dipendono dai capitali propri e dal sistema bancario, che però è più che mai allergico a sostenerle.

In altri tempi si sarebbero potuti invocare aiuti di Stato, finanziamenti e investimenti pubblici, la fiscalizzazione degli oneri sociali e qualche ulteriore credito d’imposta. Ma oggi, che siamo sotto il mirino degli osservatori europei per ottenerne il sostegno del nostro debito pubblico e nelle mire dei vari speculatori globali, per il commercio e lo sfruttamento dei beni reali dati in garanzia dei crediti incagliati, sarà molto più difficile invocare altri interventi di Stato che amplierebbero il deficit pubblico o la clemenza dei creditori.

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IL RISCHIO E’ QUELLO DI ASSOMIGLIARE AL SUD-AMERICA

Vediamo perciò una serie di analogie con le vicende dei decenni scorsi nei paesi dell’America Latina. Se l’economia si ferma, noi rischiamo di diventare un una riserva di caccia a disposizione di Americani ed Europei del nord che vogliano fare shopping di aziende in crisi e immobili strategici! Anche se la guerra in corso non subirà un’escalation, le nostre posizioni politiche dovrebbero tenere conto di ciò che ci aspetta dal punto di vista pratico se non vogliono che il Paese finisca in ginocchio.

Gli “alleati” occidentali, imponendoci sanzioni e vincoli allo scambio con la Federazione Russa, stringono cioè di fatto le nostre imprese in un angolo in nome della solidarietà alle vittime delle aggressioni militari. Niente da obiettare, certo, nella misura in cui si trovi il modo di porvi adeguato rimedio economico! Tenendo anche conto del fatto che i paesi che oggi si trovano “oltre cortina”, iniziano ovviamente a considerarci nemici, tanto quanto gli altri paesi occidentali, che però sono nostri rivali di fatto nelle esportazioni (Germania e Francia, in primis) e nell’attrarre investimenti dall’estero.

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COSA FARE?

L’Italia con la sua forte dipendenza dall’estero (per il fatto che non ha una banca centrale, e per la provenienza delle principali fonti energetiche) dovrebbe elaborare invece una propria urgente strategia di sopravvivenza! Basata su defiscalizzazioni degli investimenti, facilitazioni burocratiche, rimpatrio dei capitali, semplificazioni per chi localizza stabilimenti produttivi, premi per chi assume e riduzione dei costi burocratici.

Per non parlare dell’importantissimo ruolo dell’Unione Europea e della relativa Banca Centrale: se l’inflazione deriva da uno shock da offerta non ha senso parlare di restrizioni monetarie, casomai occorrerà l’opposto! E se il rincaro dei prezzi rischia di affossare l’economia bisogna trovare il modo di fare arrivare ai consumatori risorse e liquidità, e di accelerare la velocità di circolazione della moneta.

Riteniamo anche che -se non subito- alla fine questo possa avvenire. E la liquidità aiuterà le borse, come tre-quattro mesi dopo lo shock da COVID. Ma difficilmente controbilancerà il problema del credito (così come è successo allora). Se poi le politiche di transizione verde impongono alle imprese costi che al momento esse non possono permettersi, ecco che bisognerebbe sollevarle temporaneamente dai relativi oneri.

Solo così il nostro paese e il nostro continente potrebbero cercare di contrastare la deriva negativa e contrastare l’impatto delle sanzioni. Le guerre però si combattono purtroppo anche a livello economico e, sebbene le sanzioni siano rivolte a qualcun altro, se non poniamo adeguati rimedi esse danneggiano (talvolta irrimediabilmente) anche chi le applica!

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Stefano di Tommaso




OLTRE L’ORIZZONTE

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Cosa succederà di qui a breve? Tutti si sperticano in previsioni catastrofiche e, in effetti, non c’è troppo da stare allegri. Ma oltre l’orizzonte degli eventi (e se non accadrà dell’altro) si può cercare di ragionare per immaginare cosa ci aspetta sulla base delle recenti esperienze. E non tutti i mali vengono per nuocere!

 

LA MISURA ERA COLMA

Tanto tuonò che piovve: la tradizione vuole che la frase fosse esclamata da Socrate dopo che la moglie, avendolo rumorosamente e platealmente redarguito sulla soglia casa, gli rovesciò addosso un vaso d’acqua. Cioè la misura era colma. Quello che non avremmo ragionevolmente ritenuto probabile è successo (l’attacco della Russia all’Ucraina) e l’occidente ha reagito con pesanti sanzioni economiche alla Russia. E non c’è da stupirsi se, dopo tale scelta, e anche la Russia porrà in atto misure simmetriche di ritorsione o se i suoi alleati (Cina in primis) prenderanno ancor più le distanze dall’Occidente. Di seguito l’indice delle materie prime energetiche aggiornato allo scorso venerdì (di pari passo pare che il Petrolio Brent sia giunto a 130$ per barile):

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Ciò danneggia non poco lo sviluppo economico, soprattutto quello dell’Europa. Tuttavia ancora non è chiaro il vero motivo per cui è la Russia ha sferrato l’attacco. Abbiamo ascoltato teorie di tutti i generi e l’unica cosa che abbiamo capito è proprio di non averlo compreso. Le informazioni-chiave sono rimaste occulte e forse non ce n’era da stupirsene. Questo però ricorda la presenza di variabili a-sistemiche nelle possibili previsioni che ci accingiamo a fare, di cui bisognerà tenere conto per non essere troppo sicuri del futuro.

LE BORSE, NEL DUBBIO, HANNO FATTO RETROMARCIA

Le borse -di fronte all’incertezza- hanno supinamente accusato il colpo, con una serie di ribassi che (a livello globale) hanno toccato circa un quinto del loro valore di capitalizzazione. E l’inflazione ha subìto un’impennata ulteriore, che per il momento non viene riportata dalle statistiche ufficiali, ma che non si farà attendere nell’appesantire l’elenco dei danni economici. I tassi impliciti nelle quotazioni dei titoli a reddito fisso sono dì conseguenza saliti ulteriormente, facendone crollare il valore. Lo scenario che si prospetta ai nostri occhi perciò è quello dei postumi di un campo di battaglia. Col rischio di camminare sul terreno ancora minato, ma anche con altrettante opportunità di cui trarre profitto dopo la devastazione intervenuta. Di seguito l’indice più noto relativo all’andamento medio di tutte le borse del mondo (che riporta una perdita da inizio anno di oltre il 12%:

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Chiaramente nulla accade a sproposito. In uno scenario in cui il potere d’acquisto dei consumatori occidentali viene meno a causa degli incrementi dei prezzi, in cui il debito pubblico diviene meno sostenibile a causa del rialzo del costo del debito, e in cui il denaro in circolazione rischia di scarseggiare (se non interverrà la Banca Centrale Europea), allora anche le prospettive di profitto delle imprese si riducono, e inevitabilmente scende il valore intrinseco delle azioni di società quotate in borsa.

MA POI… COSA CI ATTENDE?

Questo però attiene allo shock del momento, non alle prospettive di lungo termine, a meno che anche la guerra in atto, ancora vista dai più come una manovra di neutralizzazione del potenziale militare ucraino, possa estendersi, se non al resto del mondo, quantomeno ad altre zone dell’est europeo (ipotesi improbabile, ma lo era stato anche l’attacco russo).

Però -ai fini di poter valutare correttamente le conseguenze in termini pratici ed economici di ciò che accade- occorre chiedersi di quale termine ai nostri occhi può essere considerato lungo, e quale lo sia agli occhi di chi investe sui mercati. La guerra in atto infatti non sembra destinata a terminare presto, tanto per l’invio ai ribelli dell’Ucraina di armi e supporti da parte dell’Europa, quanto per la determinazione mostrata da Putin in risposta alle provocazioni subite.

La sensazione è pertanto che quella in corso si possa trasformare in una lunga guerra di posizione, dove le truppe della Federazione Russa punteranno a raggiungere un disarmo unilaterale dell’Ucraina e la sua “neutralizzazione” (fino all’instaurazione di un governo di transizione) cercando di non colpire la popolazione civile e le abitazioni, mentre i ribelli (e chi da dietro soffia sul fuoco della rivolta) punterà invece a creare situazioni di panico, a trasmetterne le drammatiche immagini in occidente per giustificarne il supporto logistico, e a trasformare i campi ucraini in qualcosa di simile alle foreste amazzoniche del Vietnam, dove la Russia possa incontrare un notevole impedimento a completare in fretta la sua campagna militare.

Se ciò sarà (ed è piuttosto probabile) si possono prevedere due scenari: che la Russia attenda pazientemente di completare la sua opera secondo le direttive attuali, oppure che possa alzare la posta in gioco, anche grazie al principio del “perso per perso” (dal momento che l’occidente la dipinge già come un regime sanguinario, tanto vale incrementare la pressione militare e terminare prima possibile l’operazione).

LE MACRO-VARIABILI ECONOMICHE

Anche se non sappiamo quale dei due si materializzerà, dal punto di vista economico poco cambierà: gli scenari prospettati sono entrambi negativi per le macro-variabili economiche, che proviamo qui sotto a prevedere :

  1. La tensione alimenta costantemente il rincaro dell’energia e delle materie prime (carbone compreso) e il mondo scopre anche di averne più fame di quanto pensava (nonostante le dichiarazioni sulla transizione verde), mentre i paesi estrattori di petrolio e gas hanno bellamente ignorato l’appello a calmierare i loro prezzi, godendo di extra-profitti.
  2. Tanto gli investimenti quanto gli utili delle imprese probabilmente prenderanno una pausa, contribuendo a deprimere i prodotti interni lordi occidentali e il valore intrinseco delle aziende. E potrebbe frenare anche le fusioni e acquisizioni.
  3. I titoli azionari quotati in borsa di conseguenza potrebbero continuare a scendere ma, come ai tempi del primo impatto da Covid19, le borse hanno già notevolmente anticipato gli eventi con importanti e bruschi cali dei loro listini, dunque una volta che la prospettiva dovesse chiarirsi con la mancata escalation del conflitto, le loro quotazioni potrebbero rimbalzare.
  4. Ovviamente come in tutti i casi di precedenti “cigni neri” le azioni delle imprese quotate (se mai dovessero farlo) non risaliranno tutte allo stesso modo: alcune addirittura potrebbero guadagnarci, altre è possibile che restino depresse, perché questi eventi accelerano sempre il ritmo dei cambiamenti di lungo periodo.
  5. Non è infine chiaro come reagiranno le banche centrali: se si muoveranno nella più completa razionalità, allora dovrebbero prendere atto che l’inflazione è la conseguenza di diversi e successivi shock da mancata offerta e che a nulla servirebbe alzare i tassi, cambiando rotta e inondando di nuovo di liquidità il sistema bancario (che adesso rischia il collasso). Contribuendo così anch’esse alla risalita delle borse e a favorire l’arrivo di nuove matricole. Ma non v’è alcuna certezza in tal senso: la vecchia scuola potrebbe sempre prevalere!

I SETTORI PIÙ A RISCHIO

Se le banche centrali daranno una mano però, abbiamo visto come sia probabile che soltanto i titoli azionari di alcuni settori industriali torneranno a crescere, ed è possibile che stavolta siano soltanto i bond a breve scadenza quelli che risaliranno un po’ di prezzo, dal momento che è divenuto sempre più chiaro che l’inflazione è arrivata per restare, e che non ha ancora finito di scaricarsi a valle e sui beni di prima necessità.

Dunque una parte della “decrescita” economica (seppure le statistiche pubbliche come sempre troveranno il modo di addolcire la pillola) ci sarà per forza, e l’inflazione di molti prezzi al consumo non potrà che proseguire il suo percorso. Tutto questo è molto negativo per i settori tradizionali, per i servizi, per le “vendite al dettaglio” e per i beni voluttuari. Forse con la possibile eccezione di immobili, beni di lusso e beni-rifugio (come l’arte o il collezionismo) che invece troveranno alimento dalla loro funzione di “protezione del valore” dall’erosione inflativa.

E I SETTORI CHE CI GUADAGNANO

Quel che si può tuttavia aggiungere è che -mentre tutto ciò accade- nessuno resterà inerme a guardare (né i governi né gli imprenditori), per diversi importanti motivi, e che quindi possiamo attenderci che ci sarà -oltre all’avvio prosieguo della sempre maggior concentrazione della ricchezza in poche mani- anche una ripresa degli investimenti, degli incentivi fiscali e del finanziamento delle nuove tecnologie, da quelle per ridurre consumi ed emissioni, a quelle per produrre energia verde, fino a quelle per la riduzione di ogni genere di costi, a partire dalla robotica avanzata (innanzitutto volta all’automazione industriale):

LA LIQUIDITÀ E LE INNOVAZIONI POTREBBERO AIUTARE LE BORSE

Così come è successo qualche mese dopo l’arrivo della pandemia insomma, in assenza di un’escalation senza fine della tensione geopolitica (sulla quale -ripetiamo- non ci è possibile in alcun modo fare previsioni sensate) e con un aiutino delle banche centrali, potrebbe accadere quel che successe nella seconda metà del 2020: che le borse si riprenderanno e che le nuove tecnologie torneranno ad essere grandi protagoniste dell’accelerazione del cambiamento dei costumi. Soprattutto però quelle cinesi e americane. Le quali potrebbero risultare le grandi vincitrici della pace che seguirà (speriamo) alla guerra.

Chi ha già venduto perciò in borsa forse ha fatto bene, dal momento che la prosecuzione della rotazione dei portafogli potrebbe riservare altre sorprese. Così come chi ha già effettuato importanti investimenti lo ha fatto probabilmente a sconto sui prezzi futuri. Chi invece sta meditando di farlo adesso (o di entrare sul mercato azionario a questi prezzi scontati) si trova a muoversi in assenza di una tendenza definita. L’eventuale escalation militare poi è tutt’altro che esclusa, anche se ci si rende conto del fatto che sarebbe drammatica.

Non è facile perciò riuscire a interpretare le grandi trasformazioni di fondo dell’economia, onde non imboccare la strada sbagliata! Se non lo si è già fatto conviene piuttosto raccogliere del denaro (a titolo di finanziamenti o di capitale), e attendere invece nell’investirlo.

Stefano di Tommaso