IL PRIVATE EQUITY PAGA PIÙ CARO

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Il Private Equity paga di più in tutto il resto del mondo. Succederà anche da noi? L’auspicio nasce dalla considerazione -generalmente valida- che ciò che succede altrove nel mondo prima o poi accade anche a casa nostra. Ebbene: le grandi case di investimento di capitali privati negli ultimi mesi hanno alzato la posta in gioco pur di aggiudicarsi il controllo delle società quotate e investire la grande liquidità di cui dispongono. E probabilmente ciò risponde tanto alla logica del mercato finanziario quanto all’esigenza di un cambio di passo perché il Private Equity e il Venture Capital crescano anche in Italia come hanno già fatto nei paesi più sviluppati.

 

Su questo tema un recente articolo del Financial Times parla molto chiaro (qui sotto il grafico pubblicato insieme all’articolo dove si fa notare che in media (tanto per l’Europa quanto per l’America) il prezzo offerto in operazioni di buy-out per le società quotate è intorno al 45% più alto rispetto alla media delle quotazioni dell’ultimo mese.

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UNA FORTE CAPACITÀ DI GENERARE VALORE

Il fenomeno è vistoso perché rivela innanzitutto una forte capacità di generare valore da parte dei gestori dei fondi di private equity (p.e.) rispetto a quella del management delle imprese-obiettivo, e anche rispetto alla capacità di intervenire nella governance delle società quotate da parte degli investitori istituzionali che normalmente investono. Il rischio evidente che emerge dal forte premio che spesso viene pagato è quello di una bolla speculativa, derivante dalla necessità per il p.e. di investire i capitali ottenuti in gestione e dunque dalla propensione a pagare di più.

Ovviamente si potrebbe obiettare che tali proposte (quelle di buy-out) vengono rivolte alle imprese quotate laddove c’è un’occasione da cogliere, un prezzo troppo basso espresso dal mercato azionario che non rispecchia i fondamentali dell’impresa, un’arbitraggio da effettuare. Il p.e. normalmente acquisisce imprese non quotate oppure le “de-lista” dopo l’acquisizione, perché solo in tal modo può aver le mani libere per creare valore o riscoprire qualità nascoste delle imprese.

LE VALUTAZIONI TORNANO A MOLTIPLICATORI CRESCENTI

E a ragione, ma certo negli ultimi anni i prezzi riconosciuti dal p.e. per acquisire la maggioranza delle imprese-obiettivo è risultato man mano crescente, e non soltanto a causa del fatto che la liquidità a disposizione del private equity continua ad aumentare ma anche perché i tassi d’interesse scendono e dunque salgono più che corrispondentemente le valutazioni aziendali.

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A metà Luglio 2021 si è registrato un record di operazioni di fusioni e acquisizioni: 826 secondo l’osservatorio della SDA Bocconi, di cui 268 condotte da fondi di p.e., contro un totale del 2020 di 1025 con 274 condotte dal p.e. Anche i prezzi pagati sembrano in crescita con un valore mediano (il più numeroso) pari a 7.5 volte il margine operativo lordo (ebitda) per il totale delle operazioni osservate, ma il p.e. sembra aver pagato in media 9 volte l’ebitda, dunque significativamente di più. Gli investimenti del p.e. in Italia nel primo semestre del 221 si concentrano in due fasce di valora d’azienda (enterprise value): quella tra i 25 e i 50 milioni dove si sono rivolti capitali per il 20% del totale, e quelle tra i 50 e i 100 milioni, per le quali si sono effettuate operazioni nel 19% dei casi.

È da considerare normale questo maggior valore? Probabilmente si: quando il p.e. investe crea numerosi condizionamenti nel management e nella governance della società (o per gli azionisti originari, che spesso rimangono in quota) : la leva finanziaria cui sono sottoposte le imprese acquisite, la necessità di accelerare e fare acquisizioni per creare valore, la necessità di pianificare il disinvestimento e dunque spesso la cessione integrale dell’azienda acquisita. Tutto questo ha inevitabilmente un prezzo.

Ma c’è anche un’altra ragione: il p.e. ha messo oramai a punto una serie di metodologie per generare nuovo valore nelle imprese acquisite che permette di proiettare il valore pagato in acquisizione come parte del valore totale che ritiene di poter generare dalle imprese-obiettivo. Dunque il riferimento che gioca l’investimento dei p.e. sembra essere più il valore-obiettivo che ritiene possibile generare a 4-5 anni data, che non quello di mercato al momento dell’acquisizione. Talvolta questi due valori possono divergere sensibilmente.

E C’È SPAZIO PERCHÉ LE VALUTAZIONI CRESCANO ANCORA

Lo sconto rispetto al valore-obiettivo costituisce la plusvalenza teorica del p.e., vale a dire il rendimento del capitale investito. Ma anche quest’ultimo inizia a ragionare su valori più limitati quando il panorama dei tassi d’interesse scende ai livelli attuali! Se i tassi d’interesse privi di rischio erano in passato intorno al 3-4% e il p.e. si poneva un rendimento-obiettivo del capitale di rischio del 20-25% annuo nei 4-5 anni (cioè più del raddoppio in totale), oggi che i tassi d’interesse sono scesi all’1% in media nel mondo, anche il rendimento-obiettivo dovrebbe corrispondentemente ridursi.

Difficile dire di quanto, ma certo gli investitori che scelgono di allocare parte dei loro capitali in un fondo di private equity possono ugualmente dirsi più che soddisfatti se il premio per l’illiquidità e il rischio restano ugualmente 8-10 volte superiori al rendimento privo di rischio, anche se questo significa ottenere un rendimento del capitale investito decisamente inferiore agli obiettivi del passato. Soprattutto i privati, che stanno progressivamente incrementando questa asset class e che in passato hanno sempre avuto alternative inferiori a quelle a disposizione degli investitori istituzionali.

Di seguito un grafico che indica la crescente liquidità disponibile (dry powder) del Private Equity in Europa:

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Dunque per per il p.e. non soltanto si pone la possibilità teorica di pagare di più di quanto è disposto a riconoscere il resto del mercato per le aziende-obiettivo, in funzione delle attese di creazione di valore, ma ciò è anche giustificato sia perché talvolta serve la leva del prezzo per potersi aggiudicare un affare, sia per il fatto che può oggi far felici i propri investitori con una plusvalenza teoricamente inferiore a quella che necessitava in passato.

Quello che segue è un grafico relativo all’andamento del CAMBRIDGE ASSOCIATES PRIVATE EQUITY INDEX, che indica il tasso interno di rendimento del capitale basato su dati trimestrali forniti da quasi 2.300 fondi di private equity (buyout e growth) tra il 2000 e il 2020. Il paragone è con lo STANDARD&POOR TOTAL RETURN INDEX:

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SOPRATTUTTO IN ITALIA

D’altronde nel nostro Paese il p.e. deve ancora svilupparsi davvero. Per fare qualche paragone: secondo l’Aifi – l’associazione che raduna i principali operatori di venture capital e di private equity – i soggetti economici nostrani che stanno dietro a tutti i fondi basati in Italia sono soltanto una trentina, contro i 150 della Gran Bretagna, i 110 della Francia e i 160 della Germania (molti dei quali operano anche stabilmente in Italia).

E tra il 2016 e il 2020, nel nostro Paese l’ammontare complessivamente investito da questi investitori è stato soltanto di 1,2 miliardi di euro, a fronte di 6,4 miliardi nel Regno Unito, 8,3 miliardi in Francia e 8 miliardi in Germania. Nel 2021 dovrebbe finalmente essere superato il miliardo di euro di investimenti in venture capital. La storia è, dunque, ancora tutta da scrivere.

La nostra vera rivoluzione industriale probabilmente è ancora da scrivere. Gli investitori di venture capital così come di private equity possono oggettivamente essere protagonisti tanto di una nuova stagione di start-up innovative quanto del cambiamento di paradigma delle vecchie imprese familiari italiane. E per finanziare le vere innovazioni scongiurando il pericolo che corrano all’estero appena vedono che ce la possono fare o per convincere chi deve cedere l’impresa che la famiglia controlla da due generazioni, è piuttosto normale dover alzare il prezzo!

Stefano di Tommaso




FOTOGRAFIA: INVESTIRE COLLEZIONANDO

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Il mercato dell’arte e fotografia dipende da una serie di molti fattori. Possiamo definirlo un mercato complesso e particolarmente diverso da quello finanziario. Per investire in arte, pertanto, non è sufficiente saper riconoscere un’opera e stimarne il possibile valore economico, ma bisogna soprattutto conoscere il mercato e comprendere i meccanismi economici su cui si regola.

 

Per quanto concerne la fotografia, anch’essa è una forma d’arte nota e apprezzata, ma più recente nel mercato,  anche se l’interesse sta crescendo notevolmente e sempre più nuovi collezionisti considerano questo settore una nuova opportunità di investimento. Se per le opere d’arte si parla di autentico, in fotografia – essendo riproducibile – si parla di edizione limitata, ossia quante volte è stata stampata un’immagine, meglio se le copie sono firmate o timbrate dall’artista che ne autenticano la paternità. Mentre le prove d’artista sono quelle copie che non entrano prettamente nel mercato, ma vengono utilizzate a scopi personali, queste a differenza delle precedenti, vengono indicate con numeri romani da I al massimo di III. Poi dobbiamo dividere le foto in quelle storicizzate o vintage e quelle che entrano nel settore dell’arte contemporanea. Due settori ben precisi con stime e investimenti diversi tra loro.

In Italia, solo negli ultimi anni, il mercato della fotografia ha iniziato ad entrare nel collezionismo d’investimento, preferendo immagini di noti fotografi storicizzati, meglio se di moda o comunque immagini di celebrità come quelle del cinema. Allo stesso tempo si registra una crescita verso la fotografia contemporanea con autori più o meno noti grazie anche alle esposizioni internazionali sempre più frequenti, meglio se raccontano un momento storico, reportage dal tema sociale o immagini ambientali contestualizzate ad un messaggio preciso, come nel caso della mostra “Amazõnia” di Sebastião Salgado, che si tiene a Roma al Maxxi dal 1 ottobre 2021.

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Di seguito alcuni esempi di fotografia storicizzata (dove in questo momento si evidenzia un minore interesse o stabilità) e altri di contemporanea (con valori in crescita).

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Henri Cartier-Bresson (1908 – 2004) Siena, Italy. Stima 4,000 – 6,000 USD – aggiudicazione Sotheby’s (2020) 5,292 USD. Gelatin silver print, signed in ink in the margin, framed, a Ginny Williams Collection label on the reverse, 1933, printed later image: 14 by 9 1/2 in. (35.6 by 24.1 cm.

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Henri Cartier-Bresson (1908-2004) Bruxelles. Stima 6,000 – 9,000 – aggiudicazione Sotheby’s (2020) 6,300 USD – ferrotyped gelatin silver print, the photographer’s credit stamp and annotated in pencil by Martine Franck, president of the Fondation Henri Cartier-Bresson, on the reverse, framed, 1932, printed circa 1960 image: 6¾ by 9¾ in. (17.1 by 24.8 cm.

Per questo artista vi è stato un picco del valore 2012 per poi scendere gradualmente fino ad oggi (vedi grafico). I valori di oggi rendono appetibile per un investimento a lungo periodo. I grafici sono riferiti all’opera * (fonte artprice) 

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Diane Arbus, Untitled (8) 1970-1971– stima 10,000- 15,000 – aggiudicazione Phillips (2021) 27,500 USD Gelatin silver print, printed later by Neil Selkirk. 14 5/8 x 14 1/2 in. (37.1 x 36.8 cm) Stamped ‘A Diane Arbus photograph’, signed, titled, dated, numbered 49/75 by Doon Arbus, Executor, in ink, two copyright credit stamps and a reproduction limitation stamp on the verso.

Anche in questo caso il valore è sceso negli anni, confermando il cambiamento del collezionismo dalla foto storicizzata a quella – che vedremo dopo – contemporanea o di moda.

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Vivian MAIER (1926-2009) New York Public Library, New York (c.1952)
Stampa alla gelatina ai sali d’argento. Printed posthumous, 2011 Ed. 15 30,8 x 30,6 cm Prezzo di aggiudicazione: 2.800 € Stima: 2.500 € – 3.000 € Asta Photographie 09/06/2021 Grisebach, Berlino, Germania (Dettagli: Timbro successione Copyright “Vivian Maier […] © Maloof Collection / All Rights Reserved” / verso)

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Saul LEITER (1923-2013) Snow (1970). Stampa cromogenico, printed later.
Ed. AP 3. 48,2 x 32,3 c, Prezzo di aggiudicazione: 17.407 € (15.000 £ , Prezzo incluso spese : 21.932 € (18.900 £ ), asta Photographs 20/05/2021 Phillips, Londra, Regno Unito. Dettagli Firmato alla mano / verso. Provenienza: The Estate of Saul Leiter. Per Saul Leiter i valori sono stabili ma con una prospettiva di rivalutazione.

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Horst P. HORST (1906-1999), Mainbocher Corset, Paris (1939)
Stampa alla gelatina ai sali d’argento. Printed later 32,2 x 24,3 cm. Prezzo di aggiudicazione: 5.272 € (4.500 £ ).Prezzo incluso spese : 6.642 € (5.670 £ ). Stima: 7.029 € – 9.372. Works from the David Ross Collection Dal 07/09/2021 al 15/09/2021. Asta online Sotheby’s Regno Unito. Dettagli: Firmato alla mano.

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Frank HORVAT (1928-2020) “Givenchy Hat A, Paris, for Jardin des Modes” (1958)
Stampa alla gelatina ai sali d’argento, printed in 1994, 31,1 x 44,1 cm. Prezzo di aggiudicazione: 10.940 € (13.000 $ )Prezzo incluso spese : 13.784 € (16.380 $ ) Stima: 5.890 € – 8.415 € (7.000 $ – 10.000 $ )
Asta Photographs Dal 29/03/2021 al 07/04/2021, Sotheby’s Stati Uniti
Dettagli: Firmato alla mano Datato Iscritto Titolo / verso
Provenienza: Acquired from the photographer, 1997 ; Sotheby’s Paris, 12 May 2012, Sale PF1220, Lot 87

Un capitolo a parte per fotografi come Irving Penn, Helmut Newton, Richard Avedon e altri fotografi che hanno lavorato per testate internazionali nel fashion e che oggi destano sempre molta partecipazione dei collezionisti con aggiudicazioni record.

LA COMPAGNIA

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Irving Penn ‘Mouth (for L’Oreal), New York’, 1986. Dye transfer print, edition 23
Image 47,3 x 46,6 cm, feuille 57,7 x 49,6 cm. Stima 150,000 – 200,000 € Aggiudicazione 289,500 € Sotheby’s

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Helmut Newton, Yves St. Laurent, Rue Aubriot, French Vogue, Paris 1975
Gelatin silver print, printed 1981. 46 x 31 cm (18 1/8 x 12 1/4 in. Signed, titled, dated by the artist in pencil/ink and numbered 3/10 in another hand in pencil, with copyright credit reproduction limitation stamp on the verso. This print was awarded to Corinne Day as the 1992 young talent winner at the Festival of Fashion Photography in Monaco, which attracted high-powered attendance from Helmut Newton and Karl Lagerfeld to co-presenter Naomi Campbell. Stima £25,000 – 35,000 Aggiudicazione £47,880 Phillips Londra 2021

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Richard Avedon, Dovima with elephants, Evening dress by Dior, Cirque d’Hiver, Paris, August, 1955 Gelatin silver print, printed later. 23 1/8 x 18 3/4 in. (58.7 x 47.6 cm). Signed, numbered 24/50 in pencil, title, date, edition and copyright credit reproduction limitation stamps on the reverse of the linen flush-mount. Stima $150,000 – 250,000. Aggiudicato $189,000 Phillips Londra

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Peter Lindbergh. Amber Valletta, New York, USA 1993. Baryte print, printed later and flush-mounted. 223 x 148.5 cm (87 3/4 x 58 1/2 in). Signed, titled, dated and numbered on a label affixed to the reverse of the frame. One from an edition of 1 plus 1 artist’s proof. Stima £80,000 – 120,000. Aggiudicazione £115,20 Phillips Londra

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David LACHAPELLE (1963) Angelina Jolie In Poppy Field (2001)
Stampa cromogenico, face-mounted and mounted. Ed. AP 1 / 4, 74,2 x 100,4 cm. Prezzo di aggiudicazione: 9.284 € (8.000 £ ). Prezzo incluso spese : 11.697 € (10.080 £ ) Stima: 11.605 € – 17.407 € (10.000 £ – 15.000 £ ). Asta Photographs, 20/05/2021Phillips, Londra, Regno Unito. Provenienza: Maruani & Noirhomme Gallery, Knokke, 2006

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DAVID YARROW B. 1966, HELLO
Mural-sized archival pigment print, signed, dated, and editioned ‘AP3.’ in ink in the margin, mounted, framed, 2015; accompanied by a Certificate of Authenticity from the photographer’s studio (2). 56 by 91 in. (142.2 by 231.1 cm.) Stima 30,000 – 35,000 Aggiudicazione 35,000 $ Sotheby’s.

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ANNIE LEIBOVITZ B. 1949, DAN AYKROYD AND JOHN BELUSHI, HOLLYWOOD
Mural-sized archival pigment print, 1979, printed in 2010; accompanied by the photographer’s ‘The Master Set’ label, signed in ink (2) 37 by 37½ in. (94 by 95.3 cm.) Stima 30,000 – 50,000 Aggiudicazione 50,000 $.

E infine un omaggio a Giovanni Gastel, il grande fotografo italiano da poco scomparso, nipote di Luchino Visconti. Ritrattista d’eccezione e che qui proponiamo accanto a due delle sue opere della serie: Angeli Caduti.

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Marika Lion

Per informazioni: marika.lion@lacompagnia.it




AUTUNNO CALDISSIMO

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Petrolio a 80 dollari al barile, il massimo da sette anni! E il bello è che non è finita.il prezzo del gas è cresciuto molto di più, spingendo svariati produttori di energia elettrica a spostarsi sul petrolio per limitare i danni: solo questo fatto ha aggiunto circa mezzo milione di barili al giorno alla domanda mondiale di petrolio, tornata dopo il crollo pandemico a crescere negli scorsi mesi più di quanto è tornata a crescere l’attività estrattiva.

 

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IL RUOLO DELL’OPEC+

C’è dunque da attendersi nuove tensioni sui prezzi perché ieri l’OPEC+ (l’organizzazione dei produttori di petrolio che include anche la Federazione Russa) ha sì acconsentito ad accrescere la produzione di greggio, ma moderatamente e gradualmente, fino a raggiungere un incremento di 400mila barili, dunque meno dell’ accresciuta domanda.

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Se a questo ragionamento si aggiunge la considerazione del fatto che le scorte strategiche di petrolio e gas sono quasi dappertutto molto basse e che dunque governi, produttori e distributori stanno soltanto aspettando il momento buono per ricostituirle, ecco che non si intravede la fine del tunnel che sta portando verso la soglia psicologica dei 100 dollari al barile il prezzo del petrolio.

MA IL GAS È CRESCIUTO DI PIÙ

D’altronde se volessimo fare un paragone, il prezzo del metro cubo di gas naturale è cresciuto fino ad un livello equivalente a circa 180-190 dollari al barile di petrolio (cioè di circa il doppio della crescita del prezzo del petrolio sul mercato), seminando il panico persino tra gli intermediari, molti dei quali potrebbero rischiare il tracollo finanziario perché, di fronte a una tale impennata, avevano nei giorni scorsi scommesso su un ribasso.


La stessa America, che produce più materia prima energetica di quanta ne possa consumare (e dunque la esporta) è preoccupata per le conseguenze dolorose che ciò potrebbe scatenare sull’economia reale (l’incremento quasi scontato della velocità di circolazione della moneta), che rischia di trovarsi di fronte all’ennesima fiammata inflazionistica dopo che le autorità monetarie e politiche si erano sperticate sulla “temporaneità” del rialzo dei prezzi.

E ARRIVA LA SVALUTAZIONE MONETARIA

In un precedente articolo avevamo fatto notare che era andata più o meno nello stesso modo all’inizio degli anni ‘70, quando però il mondo non affogava nei debiti e in una marea di derivati finanziari come oggidì, con i quali stavolta si può “scherzare” molto meno di allora nel lasciare che i tassi di interesse rincorrano la svalutazione monetaria.

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Non a caso il Dollaro è risalito bruscamente la scorsa settimana e rischia di proseguire la tendenza al rialzo. Questo rischia di indurre ulteriore tensione sul prezzo delle materie prime, paradossalmente più preoccupando che facendo gioire i paesi emergenti, i debiti finanziari dei quali rischiano di rivalutarsi più dell’incremento dei ricavi da export.

I media ne parlano assai poco ma i governi di tutto il mondo sono in allarme, e stanno correndo ai ripari in ordine sparso, senza un opportuno coordinamento. Soprattutto dopo aver strombazzato ai quattro venti la necessità di ridurre le emissioni nocive, sostituendo le fonti energetiche di origine fossile con quelle da fonti rinnovabili.

BORSE GIÙ-PREZZI SÙ E, TUTTAVIA…

Concludiamo con due grandi -ma non scontate- ovvietà: 1) l’economia globale rischia ulteriori rallentamenti che sono l’esatto opposto di ciò che poteva sperare sino a pochissimi mesi fa, e 2) le borse (come anche le quotazioni dei titoli a reddito fisso) non potranno che accusare il colpo, quantomeno a livello psicologico.

Dunque ciò che è destinata ad amplificarsi è principalmente la volatilità, sebbene non necessariamente possa essere a rischio il livello finale dei listini (quello di fine anno, utile per calcolare la performance di chi amministra patrimoni), dal momento che c’è pur sempre in circolazione molta liquidità ancora a caccia di occasioni.

LA PROBABILE RINCORSA DEI SALARI

Un’ultima considerazione riguarda l’economia de’noantri: l’Italia ha sino ad oggi sperimentato una forte deflazione salariale, che ha compresso i consumi e trattenuto la risalita dei prezzi al consumo. Il paragone con gli altri paesi industrializzati lo si può leggere da questo grafico ed è impietoso: nel periodo dì riferimento il nostro potere d’acquisto si è praticamente dimezzato rispetto agli Stati Uniti d’America.

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Ma l’arrivo probabile dell’inflazione a due cifre porrà più dì un problema dì rivalutazione dei salari e della conseguente tenuta dei conti pubblici, dal momento che una parte importante (più dì un terzo) dì tutti gli assunti sono dipendenti della pubblica amministrazione!

Stefano di Tommaso




CHI SOSTERRÀ L’EXPORT ITALIANO?

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Apparentemente le notizie sono eccellenti per l’economia italiana: il primo semestre dell’anno ha visto una straordinaria ripresa dei volumi di produzione ed export della macchina industriale nazionale. Ma il successo per l’economia del nostro Paese è meno scontato di quanto sembri, a causa del potenziale spiazzamento delle piccole e medie imprese italiane derivante dall’elevata tassazione, e a causa dell’inflazione e del rischio di non trovare sufficiente credito. In questo il governo italiano sta facendo molto ma non ancora a sufficienza.

 

OTTIMI RISULTATI INDUSTRIALI NEL PRIMO SEMESTRE

La direzione corporate di Intesa San Paolo ha presentato nei giorni scorsi i risultati di un’indagine sui 158 distretti industriali italiani, i cui risultati appaiono estremamente lusinghieri per il primo semestre 2021: nuovo record dell’export nazionale nei 6 mesi a quasi €65 miliardi (oltre quelli del 2019), 145 di essi appaiono in crescita (il 92%) e 101 distretti produttivi sono andati oltre i livelli del 2019.

Come si può leggere dal grafico sotto riportato, primeggiano nella crescita delle esportazioni i produttori di elettrodomestici, metallurgia, arredo e costruzioni. Poco sotto i livelli del primo semestre 2019 l’export del settore meccanico, mentre è ancora pesantemente dietro ai livelli pre-covid il sistema moda (-29%) con gli altri beni di consumo (-10%) . In totale ci si attende per fine anno un avanzo commerciale dell’industria italiana di oltre 100 miliardi di euro.

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Se dopo la crisi del 2009 ci vollero due anni per tornare ai livelli produttivi pre-crisi, dopo quella del 2020 sono apparentemente bastati soli sei mesi. Ovviamente è stato di sicuro complice di tale risultato la pesante riallocazione delle filiere di sub-fornitura della grande industria europea a favore delle imprese continentali, tra le quali quelle italiane sono spesso tra le principali terziste, anche se la festa rischia di durare poco.

La performance industriale del resto d’Europa nello stesso periodo è stata infatti assai meno positiva, come si può leggere dalla tabella comparativa qui sotto riportata (la performance si riferisce al periodo gennaio-luglio 2021 rispetto agli stessi mesi del 2020, nei quali come è noto il nostro Paese aveva fermato più di altri la macchina produttiva) :

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INFLAZIONE E CONGIUNTURA RISCHIANO DI ROVINARE LA FESTA

A preoccupare però sono i rincari di energia e materie prime scattati nel secondo semestre del 2021, che oggi minacciano le imprese di far azzerare i margini industriali accumulati nel primo semestre, oltre evidentemente ad un deterioramento complessivo del clima di ripresa e fiducia che si era diffuso all’inizio dell’anno.

Il rincaro delle materie prime cui assistiamo negli ultimi mesi è soprattutto l’inevitabile conseguenza del rimbalzo post-lockdown della domanda di energia, che si è scontrata con una carenza di offerta di idrocarburi derivante anche dalla pretesa di sostituire velocemente le tradizionali fonti energetiche di origine fossile (tipicamente petrolio, gas e carbone) con quelle rinnovabili come sole e vento. Non soltanto la produzione di energie da fonti rinnovabili non ha ancora raggiunto in molti casi l’efficienza necessaria a fare a meno dei sussidi pubblici (la cosiddetta “carbon parity”), ma non è ancora altresì sufficientemente assistita da adeguati sistemi di accumulo dell’energia prodotta nelle ore di punta.

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Tecnicamente dunque l’ambizione di sostituire rapidamente le fonti energetiche tradizionali con quelle meno inquinanti è stata prematura. E il risultato è sotto gli occhi di tutti: la forte riduzione degli investimenti nell’estrazione di petrolio, gas e carbone (penalizzati dalle normative ambientaliste) ha determinato uno strozzamento dell’offerta delle materie prime energetiche di origine fossile e un deciso rincaro dei relativi prezzi. Questi ultimi hanno agito da detonatore per un rialzo generalizzato dei costi delle materie prime, che ha a sua volta provocato l’inflazione dei prezzi immediatamente a valle: quelli dei principali fattori di produzione dell’industria.

E poiché in molti casi la concorrenza e la subalternità di fornitura di parecchie piccole e medie imprese italiane mei confronti delle grandi multinazionali non consente di scaricare a valle il rincaro subìto nei costi dei fattori di produzione, ne consegue un pericolo per la stessa sopravvivenza di molti dei distretti produttivi italiani.

GLI INTERVENTI DI MARIO DRAGHI

Per una volta il governo italiano ne è stato perfettamente conscio ed è intervenuto silenziosamente ma efficacemente più volte, tanto nell’assicurare l’arrivo dei primi fondi europei, quanto nello sblocco di maggiori forniture di gas (con il sostegno all’apertura del North Stream, il gasdotto che passa dal nord Europa), come pure nel ridurre i limiti e le strozzature alla normativa per l’utilizzo degli incentivi alle ristrutturazioni edilizie (il cosiddetto “Superbonus”), e infine nell’evitare tensioni inflative e salariali con la fiscalizzazione di parte dei rincari della bolletta energetica.

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Ma la partita per le piccole e medie imprese italiane è ancora molto più complessa: se da un lato esse hanno bisogno di mantenere margini positivi tra costi di produzione e ricavi, dall’altro lato sono sottoposte ad una fortissima pressione fiscale (“vantano” il record mondiale di tassazione, come si può leggere dalla tabella qui accanto riportata), dall’altro ancora hanno anche bisogno di sostenere finanziariamente l’incremento di capitale circolante e, soprattutto, di tornare a investire.

Tutto questo mentre è in corso un duro scontro politico nel Paese circa le riforme economiche (e fiscali) e mentre la congiuntura generale del mercato finanziario rischia un deciso peggioramento, con il rialzo dei tassi d’interesse e i cali del mercato borsistico.

I RISCHI FINANZIARI PER LE PICCOLE E MEDIE IMPRESE

In Italia il 90% delle esigenze finanziarie delle piccole e medie imprese (PMI) è tutt’ora fornito dal sistema bancario, sul quale ha agito efficacemente nel recente passato la vigilanza della Banca Centrale Europea, allentando i requisiti patrimoniali richiesti nell’erogazione del credito e lanciando il cosiddetto “PEPP” (Pandemic Emergency Purchase Program) per fornire adeguata liquidità agli istituti di credito, che si è rivelato provvidenziale.

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Il punto è che tali misure erano legate al raggiungimento dell’obiettivo di un’inflazione al 2% (fino all’inizio del 2021 c’era viceversa un serio rischio di deflazione) che oggi è stata ampiamente superata anche nelle statistiche (che notoriamente sono sempre in ritardo) mentre i livelli di erogazione del PEPP a Settembre stavano già eccedendo l’obiettivo programmato di 1700 miliardi.

L’inflazione in Germania ha viaggiato invece nell’ultimo mese al 4,1% e la media europea ha raggiunto il 3,6%. Il rischio dunque è che i paesi “frugali” del nord Europa possano richiedere la riduzione degli incentivi alla liquidità del sistema bancario nel timore che essi possano alimentare la spirale inflativa. Ciò ridurrebbe la provvista finanziaria per le banche italiane e a farebbe tornare a crescere il livello dei tassi d’interesse, cosa che andrebbe immediatamente a scoraggiare gli investimenti produttivi. Tutto questo mentre la domanda di produzione industriale è in crescita e l’esigenza di fare efficienza aumenta la necessità di modernizzare l’industria.

COSA FARE DUNQUE ?

Le imprese italiane sono state storicamente sottoposte ad una serie di svantaggi competitivi rispetto a quelle di quasi tutto il resto del mondo che andrebbero rimossi. Ad esempio:

  • il progressivo riavvio delle attività di riscossione delle cartelle esattoriali (ancora sospese in Italia causa pandemia) rischia presto di drenare molta liquidità al sistema produttivo e occorrerebbe procedere alla loro rottamazione;
  • al momento ancora non si parla di possibili de-fiscalizzazioni degli investimenti, che sarebbero tanto più necessari dal momento che l’orientamento politico nazionale non sembra ancora indirizzato alla riduzione delle aliquote di tassazione, per rimuovere la differenza con le altre imprese europee;
  • come si può dedurre da quanto sopra la situazione economica italiana è sì in ripresa (si parla di un rimbalzo del prodotto interno lordo di circa il 6% nel 2021, ma si confronta con un calo del P.I.L. del 9% dell’anno precedente) ma il rischio per le imprese nazionali è quello di non disporre di un adeguato supporto finanziario proprio mentre stanno subendo una forte riduzione dei margini;
  • resta certamente da prendere in seria considerazione un rilancio degli investimenti infrastrutturali, sui quali non si è ancora fatto abbastanza e che potrebbero contribuire non poco tanto al rilancio dell’economia reale quanto al miglioramento dell’ambiente generale nel quale si muove l’industria nazionale. Non soltanto nelle telecomunicazioni e nell’apparato viario (sebbene siano fortemente arretrati) ma anche nello sviluppo dei sistemi logistici intermodali, nella modernizzazione della pubblica amministrazione, nel supporto a ricerca, innovazione e start-up, negli incentivi atti a contrastare la fuga dei cervelli e degli imprenditori;
  • anche l’intera filiera turistico-ricettiva (ivi compresi i servizi connessi, l’intrattenimento e la ristorazione) è stata messa a dura prova dal lockdown e resta, dopo la crisi subìta, ancora fortemente danneggiata. Nei confronti degli operatori di quel settore ancora molto poco è stato fatto per supportarne tanto la ripresa dell’attività quanto gli investimenti, nonostante il nostro Paese contempli la maggior parte del patrimonio storico e artistico mondiale;
  • esistono numerosi incentivi e misure di supporto agli investimenti legati alle esportazioni, previsti dalla Simest (la finanziaria di Stato che finanzia le imprese italiane quando vanno all’estero), che tuttavia non hanno ricevuto nel recente passato sufficiente una copertura finanziaria. Ragione per cui molte imprese italiane che avrebbero potuto beneficiarne ne sono beffardamente rimaste escluse. Poter disporre finalmente di tali misure nei limiti di legge senza dover sottostare a bandi e infinite graduatorie potrebbe migliorare non poco la capacità di esportazione degl’Italiani.

Occorre in definitiva una forte presa dì coscienza al riguardo delle misure ancora necessarie per il sostegno all’industria nazionale, altrimenti la pandemia non ancora terminata passerà alla storia come la buccia dì banana che ha fatto scivolare l’Italia al livello dei paesi del terzo mondo! Il governo Draghi sta comportandosi oggettivamente nel migliore dei modi possibili ma la ripresa dell’occupazione dipende soprattutto dalla performance delle attività private, perché quelle pubbliche sono già finanziate in deficit e non potranno perciò ragionevolmente espandersi ancora.

Stefano di Tommaso