INVESTIRE IN TITOLI“ESG”CONVIENE?

La Compagnia Holding
Si fa un gran parlare dell’eccesso di valutazioni che stanno raggiungendo i cosiddetti titoli “ESG” (l’acronimo sta per Environmental, Social, Governance: si utilizza in ambito economico/finanziario per indicare investimenti che tengono in considerazione aspetti di natura ambientale, sociale e di gestione responsabile), e del fatto che, di conseguenza, la bolla speculativa che li ha spinti alle stelle possa essere sul punto di scoppiare. Nei giorni scorsi in cui le borse di tutto il mondo hanno perduto circa il 5% molti sono intervenuti a commentare le forti oscillazioni. A favore e contro dell’investimento ESG tuttavia intervengono diverse considerazioni. Proviamo a vedere quali.

 

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Dopo avere registrato un breve arresto con la pandemia, negli ultimi 12 mesi il mercato degli investimenti verdi è letteralmente esploso: solo nei primi 6 mesi del 2021 sono stati emessi dal settore privato e dai governi oltre 800 miliardi di $ di debito “sostenibile” (o altrimenti definito ESG); la stessa quantità collocata nell’intero 2020, che si era già concluso con una fortissima crescita (+39% annuo). Per il 2021 le stime più aggiornate puntano ad un controvalore di emissioni a livello globale di circa 1.200 miliardi di dollari (si veda il grafico qui sotto). Per capire l’accelerazione in corso, si consideri che a maggio scorso le grandi banche di investimento avevano stimato un livello di circa 860 miliardi per il 2021.

Il gruppo Enel, uno dei pionieri nel mondo per l’emissione di titoli “sostenibili” ha concluso lo scorso Giugno un’emissione di bond per il controvalore di €3.25 billion (US$3.83 billion).

Ma cos’è il Rating ESG (o Rating di sostenibilità)? La definizione data dalla CERVED è quella di ”un giudizio sintetico che certifica la solidità di un emittente, di un titolo o di un fondo dal punto di vista degli aspetti ambientali, sociali e di governance”.

ATTENZIONE A TRE FATTORI

Come possiamo allora individuare le imprese che possono godere di un buon rating ESG? CERVED sostiene che: le imprese devono mostrare attenzione a tre fattori:

  • quello ambientale (Enviromental): che considera i rischi legati ai cambiamenti climatici e quindi attenta alla riduzione delle emissioni di CO2, all’efficienza energetica, all’efficienza nell’utilizzo delle risorse naturali (es. acqua), che adotta politiche contrastanti all’inquinamento dell’aria e dell’acqua e allo spreco delle risorse naturali e alla deforestazione;
  • quello sociale (Social): che include politiche qualitative per l’ambiente di lavoro, per le relazioni sindacali, per il controllo della catena di fornitura, oltre che attenta alle diversità di sesso, abilità ed età, agli standard lavorativi, alle condizioni di sicurezza sul posto di lavoro, al rispetto dei diritti umani e ad una assunzione di responsabilità sociale a tutto tondo;
  • quello di governo societario (Governance): che riguarda l’etica e la trasparenza del governo societario e che riguarda la presenza di consiglieri indipendenti o non esecutivi, le politiche di diversità nella composizione dei CdA, la presenza di piani ed obiettivi di sostenibilità legati alla remunerazione del board, oltre che, le procedure di controllo, le policy e più in generale i comportamenti dei vertici e dell’azienda in termini di etica e compliance.

L’INDAGINE TRA 277 INVESTITORI PROFESSIONALI

Vediamo innanzitutto quanto è ampio il fenomeno dell’investimento in titoli marchiati ESG: da una recente indagine svolta da Campden Wealth (una società di ricerca basata a Londra) insieme con Global Impact Solutions Today (una società di consulenza) e la Banca Privata di Barclays, su un campione di 277 investitori professionali e istituzionali, l’86% degli stessi dichiarava che “l’allocazione di capitali su titoli che mostrano un buon rating ESG è essenziale per fare qualcosa per l’ambiente, dal momento che i governi non stanno facendo abbastanza”.

Secondo la suddetta indagine (Campden/GIST/Barclays) la percentuale dei titoli cosiddetti “impact” (cioè con un buon livello di rating ESG) acquisiti dai gestori di portafogli è passata quest’anno al 41% del totale contro il 36% del 2020 e il 18% del 2019. Dunque è arrivata a quasi la metà del totale più che raddoppiando rispetto a due anni fa. Il fenomeno è perciò particolarmente macroscopico perché lo si possa trascurare.

Se poi prendiamo il totale degli investitori “tradizionali” (quelli che in teoria sarebbero i più restii ad abbracciare politiche di investimento fortemente orientate) il addirittura il 48% dei medesimi afferma che i fattori ESG hanno giocato un ruolo nella selezione degli investimenti. Se invece prendiamo a riferimento i soggetti che investono “primariamente” in titoli ESG la loro quota sul totale degli investitori è cresciuta in due anni dal 13% del 2019 al 19% del 2021: quasi un quinto del totale!

Ma è soprattutto sui rendimenti da investimenti di tipo “responsabile” (dai quali perciò non ci si aspetta soltanto la performance) che arriva la vera sorpresa: il 60% dei gestori intervistati afferma di avere ottenuto ritorni in linea con le loro aspettative e addirittura un ulteriore 19% del totale afferma di aver fatto un miglior affare con quei titoli, dal momento che hanno sovraperformato rispetto alle aspettative.

UN BUON AFFARE

L’industria degli investimenti “verdi” pertanto sembra cogliere i classici due piccioni con una fava: se da un lato supporta la lodevole intenzione di avere un effetto positivo sull’ambiente, dall’altro lato sembra proprio che quattro quinti degli investitori afferma di essere soddisfatto dei risultati ottenuti in termini di guadagno. Cioè sarebbero anche un buon affare.

La cosa viene confermata da un’altra indagine relativa alla strategia di dividendi perseguita da Matrix, New York, che gestisce una massa di circa un miliardo di dollari e che ha separato tutti i titoli detenuti storicamente in portafoglio in due gruppi: uno relativo a quelli con buon rating ESG e un’altro relativo a tutti gli altri. Il risultato mostra come in media, negli undici anni dal 2010 allo scorso 30 giugno, il rendimento annuo in termini di dividendi dei titoli ESG ha superato il 12,5%, contro circa lo zero (in media) per i titoli non-ESG.

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S&p global

Ovviamente il risultato è sicuramente stato “deviato” dal fatto che prima di questo periodo non c’erano quasi titoli con rating ESG e che quindi si è prodotto nel tempo un effetto-sostituzione (con l’arrivo di una maggior consapevolezza ambientale) che non è così scontato possa ripetersi anche in futuro.

Ci sono poi (come sempre) le trappole per investitori non esperti: i titoli (soprattutto azionari, dove il rating ESG non è abituale) che si “tingono” di verde con qualche accrocchio e che in realtà poco hanno a che fare con la sostenibilità ambientale. Da quei titoli bisogna stare alla larga soprattutto per il fatto che nel tempo le analisi di sostenibilità si fanno più precise e i “bluff” vengono puntualmente scoperti, con immancabili tonfi nelle quotazioni.

LA TENDENZA PROSEGUIRÀ

Quale conclusione trarre da questa indagine? Nessuna, a livello di solide indicazioni per il futuro. Ma come sempre d’altronde. A livello intuitivo possiamo soltanto notare che il momento è particolarmente favorevole e che l’esigenza di attuare un serio contrasto al cambiamento climatico è appena arrivata agli onori della cronaca.

Dunque è molto probabile che la tendenza a privilegiare titoli ESG tra gli investitori proseguirà ancora a lungo e inoltre, in questo momento di (probabile) metà ciclo, i titoli colorati di verde possono spesso essere considerati come più “resilienti” ad eventuali correzioni dei corsi…

Stefano di Tommaso




INVESTIRE COLLEZIONANDO

Rolex
La Compagnia Holding presenta una nuova rubrica dal titolo « Investire collezionando ». Affronterà temi legati al collezionismo e valorizzazione di beni ritenuti asset class d’investimento come: arte in generale, libri e manoscritti, gioielli e orologi d’epoca. La rubrica é a cura di Marika Lion, senior partner della sezione Art Wealth Advisory.

 

Oggi puntiamo su un’icona assoluta dell’investimento in orologi, il Paul Newman, cercando di cogliere i motivi del suo straordinario successo.
L’ascesa del Rolex Daytona Paul Newman nel firmamento dell’orologeria comincia da lontano per assurgere ben presto ad icona del collezionismo dell’ultimo ventennio.
Ritrarre la crescita del Paul Newman implica analizzarne gli step che dall’inizio degli anni 2000 ne hanno visto moltiplicare il valore, fino ad arrivare all’exploit del 2017, quando Phillips mise all’incanto il Paul Newman dell’omonimo attore. L’esemplare da cui è nato il mito.
La cifra record finale di $17.000.000 è entrata di diritto negli annali del collezionismo e non solo. Infatti, un risultato del genere non poteva non rimbalzare sulle più importanti testate economiche, coadiuvando sempre più player, anche istituzionali, verso un mercato che, già da tempo, ha visto affiancati ai canonici collezionisti, investitori che guardano all’orologio come un mero asset di diversificazione. Le ragioni dietro ad una crescita così sostenuta e, a tratti, vertiginosa deve essere ricercata nel cambiamento di tendenza avvenuto dopo quella che potremmo chiamare “prima era” del collezionismo, dove prevalevano segnatempo eleganti e complicati. Con il nuovo millennio e l’avvento di un approccio generalmente più informale, lo status quo è stato pian piano stravolto in favore di segnatempo sportivi o comunque più facilmente spendibili in contesti diversi. Nessun segnatempo ha saputo cavalcare quest’onda meglio del Paul Newman, il quale grazie ad un quadrante dal design intramontabile ha saputo resistere alla prova del tempo per giungere a noi più attuale che mai.

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Occorre fare una piccola parentesi per definire cosa sia il Paul Newman. Paul Newman è il nome che i collezionisti, italiani, hanno conferito ad un particolare tipo di quadrante montato sui Daytona a carica manuale(prodotti tra il 1963 e il 1988). Il nome deve la sua origine al celeberrimo attore, il quale si vede ritratto spesso con un Daytona referenza( numero che Rolex attribuisce alla configurazione di un determinato modello, in questo caso il modello Daytona con referenza 6239 è stato prodotto dal 1963 al 1969) 6239 con quadrante Paul Newman al polso. Il quadrante Paul Newman è stato montato su tutte le referenze di Daytona a carica manuale, sia in oro che in acciaio ma non in maniera disordinata. A tal proposito gli appassionati sanno che, per ogni referenza, vi è un range di seriali di cassa ben preciso sul quale si può trovare un quadrante Paul Newman. Tale quadrante se montato su un seriale totalmente avulso da quelli accettati provoca una diminuzione del valore dell’orologio pertanto, è fondamentale affidarsi ad un advisor che conosca bene la materia.
Le origini collezionistiche del fenomeno Paul Newman sono collocabili attorno al 2005, quando l’oggetto passa dall’essere appannaggio di pochi, lungimiranti, appassionati a diventare l’emblema che meglio interpreta i gusti del nuovo corso. Sebbene fra il 2005 e il 2010 l’incremento delle quotazioni sia stato notevole ed il Paul Newman fosse già sulla bocca di tutti, mancava il tocco finale, un evento di portata internazionale che lo consacrasse una volta per tutte, anche agli occhi di investitori non strettamente legati al mondo dell’orologeria.

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Consacrazione che si consumerà a pieno nel 2013, quando Christie’s presenta un’inedita asta tematica sul Rolex Daytona, iniziativa che si rivelò un successo senza precedenti. Successo abilmente ottenuto, utilizzando un mezzo con ampia risonanza come l’asta, al fine di collegare segnatempo di qualità eccezionale ad appassionati di tutto il mondo. In un solo giorno l’ascesa inarrestabile del Paul Newman era sotto gli occhi di tutti, con aggiudicazioni che fino alla settimana prima parevano impensabili e tali da renderlo il nuovo santo graal del collezionismo. Vale la pena sottolineare come quella del Paul Newman non sia stata né una moda, tantomeno un fenomeno localizzato, al contrario. Coloro i quali nel 2013 hanno creduto, investendo cifre considerevoli, in quest’icona sono stati ampiamente ripagati negli anni a venire, anni in cui il Paul Newman non ha fatto altro che accrescere le proprie quotazioni e la schiera di ammiratori. Una dinamica, quella appena riportata, non facile da riscontrare, in quanto un oggetto che ravvisa di colpo una crescita esponenziale è solitamente destinato ad una flessione più o meno lunga, per poi riprendersi. Questo non è stato il caso del Paul Newman che ha continuato imperterrito la sua scalata, dimostrandosi un investimento assolutamente e solido e remunerativo. Negli anni successivi tutte le vendite importanti risulteranno incentrate sulla qualità dell’orologio, ovvero lo stato di conservazione di cassa, quadrante e movimento che ha assunto ed assumerà sempre di più un ruolo centrale nello stabilire la quotazione di un Paul Newman. Nel 2018, a solo un anno di distanza dalla vendita del Paul Newman di Paul Newman, Phillips rincara la dose con un’asta il cui nome è tutto un programma. Daytona Ultimatum, il non-plus ultra del Rolex Daytona riunito in un’unica asta prima, l’occasione per ribadire e rafforzare il predominio del Paul Newman nel collezionismo odierno. Un evento finemente concertato che ha raccolto la passione di molti collezionisti venuti da tutto il mondo, sia per comprare ma soprattutto per assistere ad una vendita miliare. Venendo al presente, nel biennio 2020-2021, il Paul Newman ha dato un’esemplare prova di solidità, uscendo indenne dalla crisi provocata dal Covid-19, con quotazioni in continuo aumento.
Il ruolo del segnatempo come asset privilegiato è stato confermato dalla grande quantità di capitali che, in un momento difficile come questo, sono transitati verso il nostro mondo, che nonostante la giovane età si sta via via affermando come uno dei mercati più forti in circolazione. Un mercato dove, se coadiuvati da un advisor ompetente, si può investire con sicurezza ed ottenere grosse soddisfazioni, unendo l’utilità dell’investimento al diletto di ammirare sul proprio polso un oggetto dal fascino ineguagliabile.
Di seguito andiamo ad esporre alcuni dei risultati più eclatanti conseguiti dal Paul Newman negli ultimi anni.
Rolex 6239 Paul Newman di Paul Newman, Phillips 26 Ottobre 2017 – Venduto per $17.000.000. In una sala gremita si assiste ad una lotta serrata fra due offerenti telefonici che si contendono un oggetto che unisce orologeria, design e cinema. L’offerta iniziale di $ 10.000.00, al netto di una stima dagli 1 ai 2 milioni, chiarisce subito che quello è un gioco per pochi con la sala che, spiazzata, si ammutolisce per seguire il duello telefonico. Il risultato finale di $17.000.000 si conferma oltre le più rosee aspettative ma ben riflette l’interesse enorme attorno al Paul Newman.

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Rolex 6263 Paul Newman – Phillips 14 Maggio 2016 – Venduto per €1.830.000
La referenza 6263 costituisce uno dei Daytona più apprezzati di sempre e la versione Paul Newman anche una delle più costose.
A Maggio 2016, Phillips mette all’incanto un Daytona 6263 Paul Newman in una configurazione già molto rara di per sé ma resa pressoché unica dal viraggio che il quadrante, in origine nero, ha subito nel tempo fino ad assumere una tonalità marrone cacao che ha fatto letteralmente impazzire i collezionisti.

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Rolex 6264 Paul Newman in oro, Sotheby’s 31 Luglio 2020 – Venduto per €1.400.000
La versione in oro del Paul Newman risulta molto più rara di quella in acciaio, caratteristica messa bene in luce dalle aggiudicazioni degli ultimi anni che hanno visto gli esemplari in oro prendere il largo molto velocemente. Le condizioni eccezionali unite ad un quadrante molto raro hanno decretato il record assoluto per i Paul Newman in oro.

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Rolex 6239 Paul Newman in oro, Phillips 12 Maggio 2018 – Venduto per €876.000
Il 6239 Paul Newman in oro è una delle configurazioni più rare in assoluto. Pochissimi sono i pezzi usciti da Rolex e tutti localizzati in un range di seriale di cassa ben preciso. Il 6239 ha rappresentato il primo Daytona della storia ed il primo su cui è stato montato il quadrante Paul Newman. Inoltre l’orologio scelto dal famoso attore, Paul Newman appunto, era un 6239(in acciaio). Di conseguenza non c’è da stupirsi se tale referenza occupa un posto speciale nel cuore degli appassionati.

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Quotazioni strabilianti e una crescita del valore di mercato vertiginosa. Ma è tutto oro quel che luccica? Si, ma solo se l’advisor è quello giusto. Un acquisto incauto può regalare infatti spiacevoli sorprese in quanto un orologio incoerente, con parti di fornitura o peggio false e soprattutto privo di quello standard qualitativo che il mercato indiscutibilmente premia, può vanificare l’investimento in un qualsiasi segnatempo d’epoca e particolarmente in un Rolex Paul Newman.

Per informazioni marika.lion@lacompagnia.it

Ricerca  effettuata da Lorenzo Rabbiosi




INFLAZIONE, COME NEGLI ANNI ‘70 ?

inflazione
All’arrivo dei vaccini quest’anno le economie di tutto il mondo hanno vissuto un momento di eccezionale ripresa economica, principalmente spinta dalla ripresa dei consumi e dalla necessità della gente di tornare ad una vita normale. Pochi mesi dopo il gran rimbalzo però c’è il rischio che il forte rincaro dei prezzi possa agire come una tassa occulta sui nuclei familiari spingendo l’andamento economico esattamente nella direzione opposta, verso cioè una contrazione. Anche i margini industriali sono sotto pressione perché spesso il forte rialzo dei costi non si riesce a trasferirlo sui prezzi di vendita. E le grandi multinazionali stanno rivedendo le loro filiere produttive localizzando gli acquisti e verticalizzando le produzioni.

 

È IL COSTO DELL’ENERGIA CHE PUÒ ACCENDERE LA MICCIA

In Europa la bolletta energetica (tutto compreso: dal riscaldamento agli elettrodomestici fino al costo dei carburanti per gli spostamenti) conta almeno per il 10% della spesa per consumi e le statistiche indicano che la crescita dei costi in questo ambito sta arrivando al 40% rispetto al periodo pandemico. Inutile aggiungere che essa rischia di trascinare verso l’alto i prezzi di buona parte degli altri beni di consumo, a partire dal cibo, fino a buona parte delle materie prime, danneggiando fortemente le filiere abituali di fornitura delle imprese manifatturiere.

Energy is expected to push up inflation

L’INDUSTRIA RIDUCE I VOLUMI PRODUTTIVI

L’aumento dei prezzi dei fattori e dei costi di produzione a sua volta sta spingendo le imprese (soprattutto le più grandi e più internazionalizzate) a rivedere fortemente la propria dipendenza dalle filiere “lunghe” cioè dal commercio internazionale, sia per la forte crescita dei prezzi di trasporto, che per la scarsa affidabilità che hanno mostrato in questi mesi di forte contrazione della disponibilità di componenti essenziali come ad esempio i semiconduttori. Anche perché oramai si teme che la scarsità delle forniture possa durare ancora per qualche annetto.

Backlogs soar at German carmakers

Le fabbriche asiatiche sono costipate di ordini ma la sensazione è quella che esse siano sempre meno interessate ad esportare ad occidente le proprie produzioni dal momento che la domanda locale è in crescita così come i prezzi di acquisto di materie prime e semilavorati. Se questo problema è valso durante l’estate quasi solo per l’industria automobilistica e quella aeronautica, già alla fine di Agosto esso si era esteso a buona parte del resto delle produzioni, generando rialzi dei costi di produzione che in molti casi le imprese non sono state in grado di riversare sui prezzi di vendita e soprattutto forti contrazioni nell’output produttivo.

COME NEGLI ANNI ‘70 ?

La scarsità dei beni che si riversano sul mercato è ovviamente sempre il primo fattore responsabile dei rialzi dei prezzi e, a guardare in prospettiva ciò che sta avvenendo, sembra proprio di essere tornati alla corsa all’accaparramento che si è vista all’inizio degli anni ‘70. E tutti sanno com’è finita: la spirale inflazionistica dei prezzi a due cifre che si è generata dopo un po’ di tempo in cui tutti pensavano che il rialzo fosse temporaneo ha sconvolto il mondo e ha creato problemi tanto ai mercati finanziari quanto ai cambi valute.

Consumer price index

Sebbene gli ultimi dati indichino qualche controtendenza negli Stati Uniti d’America, le cui imprese sono state anche le prime a soffrire di questi problemi, bisogna tener conto del fatto che il continente europeo è molto più esposto di quello americano alle importazioni dal sud-est asiatico ed è molto più dipendente dalle importazioni di quanto lo sia l’America.

IL PESSIMISMO AUMENTA TRA GLI INDUSTRIALI

Tanto che una recente pubblicazione di Bank of America indica tra i fattori di pessimismo per l’economia più l’inflazione che la ripresa della variante Delta del Covid-19. In America poi a scendere sono stati quasi solo i prezzi dei beni e servizi che hanno vissuto più intensamente la ripreso dopo la fine del lockdown, come i ristoranti e i biglietti aerei, ad esempio. I nuovi contagi dovuti alla variante delta hanno di nuovo calmierato quei consumi, ma gli altri prezzi hanno registrato un’ulteriore accelerazione, per cui è legittimo supporre che, quando l’attuale ultima ondata pandemica si sarà esaurita, l’inflazione riprenderà a crescere.

European future gas prices are soaring

E LE TASSE POTREBBERO ADDIRITTURA SALIRE

Il problema è così grande che anche i governi di quasi tutto il mondo si stanno muovendo, nella consapevolezza del fatto che la situazione può peggiorare bruscamente con l’arrivo di un possibile inverno freddo. Si sta pensando a sgravi fiscali e alla possibilità di controbilanciare i timori diffusi con nuove misure fiscali espansive che, se da un lato possono favorire gli investimenti e contribuire a migliorare la fiducia delle imprese, dall’altro lato gettano ulteriori timori circa l’acuirsi dell’inflazione e circa il rischio che il prelievo fiscale possa incrementare ulteriormente nei prossimi mesi per effetto degli interventi governativi. E nel nostro Paese che già ha superato ogni record sarebbe una vera iattura!

European OECD Country Rankings

Il momento magico della ripresa economica sembra insomma essersi esaurito fin troppo velocemente, lasciando il campo alla sensazione che si sia innescato quest’anno il medesimo movimento infernale che ha portato -cinquant’anni fa- al primo importante shock petrolifero globale e all’incapacità da parte delle autorità monetarie, di arginare l’inflazione dilagante.

DI NUOVO TROPPO OTTIMISMO SUI MERCATI

Inutile dire quello che sappiamo già: che i mercati finanziari probabilmente anticiperanno tutto ciò con molto disordine sui listini delle borse e una spiccata ripresa della volatilità complessiva, nonché degli ovvi possibili rialzi dei tassi d’interesse. Correzioni in vista dunque? È assai probabile, sebbene il peggiorare delle condizioni economiche globali possa indurre le banche centrali a continuare a pompare liquidità sui mercati, quantomeno per acquistare titoli del debito pubblico. È su questa base che sino ad oggi c’è stato fin troppo ottimismo, come si può leggere dal grafico riportato:

bearishness

L’effetto di questi interventi però sino ad oggi ha tenuto alto il livello delle quotazioni borsistiche, ed è possibile che questa tendenza non sia affatto esaurita. È ciò che spinge alla prudenza i gestori dei patrimoni in questi giorni, nel timore di fare qualcosa che potrà rivelarsi stupido nel giro di poco tempo, andando a intaccare la bella performance sul valore dei portafogli, accumulata nei primi trimestri di quest’anno.

SCENDERANNO I MARGINI INDUSTRIALI ?

Ma è l’altro timore quello che può giocare un brutto scherzo alle borse: il rischio che i maggiori costi possano provocare una clamorosa riduzione nei margini di profitto delle imprese (sui quali si basano le valutazioni aziendali). Il grafico qui sotto riportato (pubblicato da Bank of America) mostra i risultati di un recente sondaggio tra i gestori di fondi di investimento, e parla fin troppo chiaramente.

Margins expected to worsen

E per quanto anche questo rischio del calo dei margini industriali e di conseguenza dei profitti netti attesi sia ancora prevalentemente percepito come temporaneo e passeggero, qualche riduzione della fiducia dei mercati può provocarla ugualmente, oltre a quella sensazione di amaro in bocca che lasciano le numerose analogie con quanto già avvenuto negli anni settanta, in cui ci vollero un paio d’anni per comprendere che la fiammata inflazionistica non era più da considerarsi “temporanea”.

Stefano di Tommaso




AUTUNNO:PETROLIO A $100 AL BARILE?

Tensioni sul prezzo del petrolio. L’oro nero ha di nuovo superato i massimi di periodo e si appresta ad ulteriori balzi in avanti, con il rischio che possa provocare un’ulteriore inasprimento dei prezzi dei fattori di produzione (e l’inflazione). Il mondo industriale (Cina compresa) è in allarme perché la domanda di petrolio sembra destinata a crescere più dell’offerta. A meno che…

 

I MERCATI FINANZIARI ANTICIPANO LA TENDENZA AL RIALZO

Ieri in una Wall Street stazionaria persino per i titoli tecnologici, i titoli legati all’energia (che viene ancora prodotta principalmente con il petrolio e il gas) hanno guadagnato il 3%, con le quotazioni dell’oro nero che hanno superato i 73 dollari (nuovi massimi) nonostante il dollaro si rafforzasse sui mercati. Ma quel che preoccupa di più è che ciò accada quando le riserve strategiche (in tutto il mondo) sono basse e in buona parte del pianeta il clima si mantenga ora molto mite.

Con l’approssimarsi dell’autunno dunque ora è più probabile che, insieme all’aumento del suo consumo per esigenze di riscaldamento, tornerà a crescere ancora il prezzo di petrolio, gas e degli idrocarburi che da questi sono derivati.

Cosa significa? Che con l’autunno il petrolio potrebbe segnare nuovi importanti incrementi di prezzo e fungere da detonatore di quei timori di inflazione che ancora oggi sono tenuti nel subconscio di buona parte degli analisti finanziari.

Un altro segnale in tal senso proviene dall’altra materia prima energetica per eccellenza: il gas naturale, i cui prezzi sono recentemente cresciuti più che proporzionalmente rispetto al petrolio. Lo sanno i grandi produttori che si riuniscono intorno all’OPEC (il “cartello” dei suoi grandi esportatori) e lo sanno gli Stati Uniti d’America, che di entrambe le commodities sono anch’essi divenuti negli ultimi anni esportatori netti, ma ancora non muovono un dito per rilanciare la capacità estrattiva, poiché annusano il profumo di lauti profitti intorno a fine anno, quando il petrolio potrebbe tornare a infrangere la soglia psicologica dei 100 dollari al barile.


LE PREVISIONI OPEC: ULTERIORE AUMENTO DEI CONSUMI

A questo proposito ha agito da propellente ai prezzi l’aggiornamento da parte dell’OPEC delle previsioni di domanda di petrolio per il prossimo triennio, che -dopo la risalita post-pandemica- è vista in ulteriore crescita anche per il prossimo 2022 (+4%).

Per il momento le previsioni parlano di un prezzo medio di 80 dollari al barile per il prossimo autunno, ma è chiaro che tutti minimizzano, compresi i governanti (di tutto il mondo) e le autorità monetarie, i quali adesso hanno bisogno di tempo per escogitare qualche soluzione e non vogliono ammettere subito quanto grandi siano i rischi di reazione a catena nei rincari dei prezzi di tutte le altre materie prime!


Tanto per usare un paragone “combustibile”: governi e banche centrali non vogliono aggiungere benzina sul fuoco dei timori di ulteriori fiammate inflazionistiche, che accelererebbero il rialzo dei tassi di interesse e creerebbero non pochi problemi ai mercati finanziari, dove invece essi speravano di poter continuare a piazzare a tutto spiano titoli dei relativi debiti pubblici a tassi bassi ancora per un lungo periodo, magari addirittura dando vaghi segnali di “tapering” (riduzione) degli interventi delle autorità monetarie con i quali per qualche settimana si è sperato di placare le aspettative di rialzo dell’inflazione.

MA L’ESTRAZIONE POTREBBE AUMENTARE

Quel che è probabile è che alla fine le esigenze politiche prevarranno sui grandi interessi dei produttori e speculatori del petrolio, arrivando a smuovere i progetti di manutenzione e ampliamento della quantità estrattiva. Così come è possibile che il rialzo di questi giorni possa arrivare far riaprire a molti piccoli operatori i pozzi dello “shale oil” (il petrolio che giace negli interstizi dei giacimenti, che viene estratto con la tecnica del “cracking”, adottata principalmente in America) i cui costi in passato superavano il prezzo della materia prima ottenuta.

Il risultato potrebbe essere un maggior numero di barili di greggio che verranno riversati sul mercato, con evidenti effetti calmieratori sui relativi prezzi di vendita. Ma neanche questo è di per sé un bene, dal momento che l’amministrazione Biden aveva sperato di accelerare la “de-carbonizzazione” del pianeta e di rilanciare l’economia attraverso le grandi opere infrastrutturali del cosiddetto “green deal”. Consumando più petrolio invece, gli utilizzatori lo bruceranno, aumentando le emissioni di anidride carbonica in atmosfera.


Un circolo vizioso insomma, dovuto principalmente al fatto che i governi di tutto il pianeta avrebbero dovuto contrastare con maggior anticipo i grandi interessi sottostanti al rialzo dei prezzi del petrolio e dell’energia, invece di dedicare buona parte della loro attenzione alla retorica anti-COVID e all’esigenza del cosiddetto “booster” (alla lettera: l’amplificatore) come viene chiamata oggi in gergo la terza dose dei vaccini.

Certo l’ulteriore insorgenza della “Variante Delta” potrebbe aiutare a calmare il prezzo dell’energia, ma nessuno vuole sperare su questo, poiché ciò accadrebbe soltanto nel caso di nuove pesanti restrizioni della libertà di circolare e socializzare. Cosa che ucciderebbe del tutto le già ridotte speranze di ripresa economica nel mondo (si veda il mio precedente articolo).

Stefano di Tommaso