ETEROGENESI DEI FINI E MERCATI FINANZIARI

L’espressione fu inventata dal filosofo Wilhem Wundt per indicare processi collettivi nei quali forze che perseguono determinati obiettivi finiscono con il realizzare invece tutt’altro. Succede perciò che coloro pensavano di essere attori finiscono con l’apparire strumenti; cioè non cause, ma mezzi di fronte ad un fine eterogeneo. Quasi sempre però, quando ci si accorge della «eterogenesi» dei fini è oramai troppo tardi per ripararvi.

 

I “CIGNI NERI” E LE ATTESE DEGLI OPERATORI

Cosa succederà in borsa nel nuovo anno? Molti osservatori temono “cigni neri” a guastare inesorabilmente la festa degli investitori, come ad esempio un aggravamento della guerra della NATO contro la Russia o un rialzo dell’inflazione, che evidentemente ucciderebbe sul nascere la speranza di ribassi dei tassi. Ma temono anche una recessione indotta dall’eccesso di debiti o, peggio, un crollo delle aspettative.

Potrebbero altresì manifestarsi anche “cigni bianchi”, cioè sorprese positive, come la vaga speranza (al momento nulla di più) di veder terminare la suddetta guerra, anche se resta tutto da dimostrare che ciò possa comportare conseguenze positive per i mercati finanziari, visto che sino ad oggi essi hanno invece prosperato con la guerra. Altro “cigno bianco” non impossibile da incontrare sarebbe la conferma che l’inflazione sia stata definitivamente domata, anzi che non scenda troppo sotto al 2-2,5%. Cosa che farebbe spazio ad ulteriori “tagli” del costo del denaro da parte delle banche centrali e ad una prosecuzione dell’attuale fase positiva dei mercati.


UN INGIUSTIFICATO OTTIMISMO?

Cosa succederà davvero? Se i “market mover” del 2025 potrebbero essere numerosi non è un caso che pochi si aspettino tranquillità e che i più temano importanti conseguenze del fatto che il mondo continua a cambiare ad un ritmo crescente. Qui però “casca l’asino” come diceva Totò: gli analisti finanziari anglosassoni che in questi giorni pubblicano le loro previsioni sembrano invece tutti molto concordi nel valutare le conseguenze di tali cambiamenti in atto: piuttosto positive per USA e UK e altrettanto negative per il resto del mondo! Di seguito ad esempio una tabella relativa alle attese per l’indice S&P500 a fine 2025:


In media dunque per Wall Street gli analisti si attendono una crescita del 12% dai livelli di fine 2024 con una capitalizzazione media di borsa pari a 24 volte gli utili. Che però resta una “media del pollo” (per dirla con Trilussa) perché le sole Magnifiche Sette contano per un terzo dell’indice e partono da una capitalizzazione di fine 2024 i cui multipli di valore sono molto superiori a quelli di tutte le altre: pari in media a dieci volte il loro fatturato!

Avevamo detto che gli analisti si attendono performances positive per le grandi multinazionali americane e negative sostanzialmente per tutte le altre aziende nel resto del mondo (in particolare per quelle dell’Eurozona). Potrebbero anche aver ragione, ma fino a che punto la “Corporate America” può sperare di prosperare rimanendo indenne dall’andamento riflessivo delle economie dei suoi alleati? Nessuno ad oggi può dirlo. Le nuove tecnologie potrebbero inaugurare una nuova era di benessere diffuso, ma potrebbero anche restare fuori della portata di imprese e consumatori delle nazioni e delle classi meno agiate, deludendo così le attese di profitto delle grandi multinazionali tecnologiche. O potrebbero optare per tecnologie simili ma più semplici, provenienti da imprese dei paesi emergenti.

GUERRE COMMERCIALI E FINANZIARIE

Già perché guerre e tariffe commerciali preannunciate da Trump non dovrebbero fare altro che molto rumore nei confronti di Europa e Giappone ma potrebbero invece riuscire a radicalizzare il separatismo con i BRICS che evidentemente hanno ben compreso la necessità di seguire un’agenda propria per non sottostare allo strapotere americano e stanno organizzandosi per evitare gli scambi in Dollari e i gli investimenti in Paesi che potrebbero sequestrare le loro ricchezze.

La guerra tra le maggiori economie (tra USA e Cina innanzitutto) è già oggi innanzitutto quella di riuscire ad attrarre il maggior volume di capitali finanziari a casa propria. Una sfida di cui l’America è sempre stata la vincitrice storica, e anche adesso con le politiche di Trump è ancora una volta favorita. Appare infatti evidente che, laddove molti capitali convergono su un determinato paese, non soltanto i mercati finanziari locali ne beneficiano, ma costituiscono più risorse per finanziare infrastrutture e investimenti, i quali generano lavoro e redditi prospettici.

La guerra dei capitali però è asimmetrica: fino ad oggi l’America ha attratto capitali dai Paesi OCSE alzando i rendimenti dei propri titoli di Stato: potrà riuscire a proseguire in tal senso? La Cina al contrario attrae capitali e genera esportazioni nei confronti dei Brics, con un occhio al minor tasso possibile di interesse. Potrà proseguire ad accrescere il divario dei tassi senza svalutare troppo lo Yuan?


Chi ci rimette oggi sono tuttavia i Paesi emergenti, “schiacciati” dal super dollaro e “comprati” per pochi denari dalla Cina, che riesce tra l’altro a spuntare prezzi di favore anche nell’energia, grazie alla Russia che deve fare cassa per gli armamenti. Ma anche questa situazione appare paradossale! Potrà proseguire indefinitamente? Oppure i detentori di risorse naturali riusciranno a venderle più care al resto del mondo?

Molto probabilmente nel 2025 la crescita dell’economia mondiale andrà verso un qualche rallentamento e risulterà sempre più difficile preservare l’ “eccezionalismo americano”, soprattutto se l’intelligenza artificiale non darà presto buoni frutti. La NATO poi sta preparando una guerra secolare alla Federazione Russa che rischia di compromettere gli investimenti delle imprese europee e di generare ulteriori vantaggi per la Cina, destinatario “naturale” delle risorse russe a basso prezzo. Così come gli instabili equilibri asiatici di Corea e Taiwan potrebbero a loro volta saltare facilmente e costringere tutta l’Asia a un riarmo generalizzato, che aspirerebbe risorse da investimenti infrastrutturali.

IL RISCHIO DI SPECULAZIONE SELVAGGIA

Dunque il contesto generale appare preoccupante e, si sa, le guerre -che siano militari o commerciali- potrebbero risvegliare l’inflazione dei prezzi di energia e materie prime, compromettendo lo scenario roseo di tagli dei tassi che oggi sorregge le attuali quotazioni delle borse. Non è un caso che oro, bitcoin e altri beni rifugio restino molto appetiti, mentre i debiti pubblici continuano a crescere e di conseguenza il differenziale tra tassi d’interesse a breve e a lungo termine continui ad aumentare, accrescendo le opportunità di arbitraggio e, in definitiva, di speculazioni selvagge.

La morale perciò di questa panoramica sui mercati è che probabilmente le previsioni degli analisti non stiano tenendo in gran conto i numerosi rischi “sistemici” che potrebbero anche ribaltare le borse e generare ulteriore prudenza negli investitori. Né sembrano tenere in considerazione l’elevata probabilità che, a fronte di tutte queste incertezze, la volatilità dei corsi possa tornare a crescere, almeno sino a quando non si individueranno sui mercati delle tendenze più chiare.


Ma se nel corso dell’anno appena iniziato dovesse essere la speculazione a prevalere allora si porrebbe un gigantesco problema relativo alla stabilità finanziaria, con il rischio di radicalizzazione dell’attuale eterogeneità di cause ed effetti per chi investe. Che non sia poi questo il vero obiettivo di chi tira le fila della grande finanza: cioè generare un bel pandemonio? E lucrarne profitti. Ma ci riusciranno, senza ammazzare la gallina dalle uova d’oro?

Stefano di Tommaso




APPUNTI DI TRADING

N. 104 – sa 4 gen 2025

Operazioni in essere : nessuna

GOLD FEB 25

Il grafico di GOLD certamente è meno brutto di quello di SILVER, ma non tira una bella aria.

Ci troviamo da 15 gg nella parte bassa del range dal top assoluto di 2790 e il successivo minimo di 2536, con minimi crescenti, ma di poco.

Quanto sopra vale con un orizzonte a un mese, ma il grafico giornaliero sembra consentire un acquisto; poiché l’obiettivo di salita appare contenuto ( intorno a 100 usd ), lo stop loss che mi posso permettere non deve superare un terzo di tale obiettivo.

Osservando i recenti minimi a 2596 cash ( circa 11 usd in più per il future febbraio ) da martedì 7.1 ( ripresa della pubblicazione ) inserirò i seguenti ordini :

compero 1 FEB MICRO GOLD a 2620 con stop loss a 2590 e, solo in caso di eseguito,

compero 1 FEB MICRO GOLD alla rottura del massimo del giorno in cui vi sarà il primo acquisto, sempre con stop loss a 2590

Il secondo acquisto non sarà inserito se il massimo da rompere sarà sopra 2660 del future febbraio.

Quando la singola posizione raggiungerà 40 usd di profitto, alzerò lo stop in pari ( al prezzo di acquisto ).

SILVER MARZO 25

SILVER ci presenta un grafico settimanale molto debole.

– Dopo la rottura di 4 top settimanali uguali intorno a 31,5 – SILVER è salito istantaneamente a 32,32 cash ( 33,33 future ) e poi è subito sceso a 28,75
– Il doppio minimo a 29,65 è stato sbriciolato
– Il top dell’ultima settimana sembra un pull back in tale area

L’unico aspetto positivo è che abbiamo un doppio minimo intorno a 28,75

Devo attendere.

DOW JONES INDU CASH

Nella settimana 2 – 6 dic in cui vi era un ciclo temporale di medio – alto significato DJ ha ritoccato il massimo storico da 45071 a 45073 cash, senza trend.

DJ è sceso per 11 gg consecutivi, salvo un enorme outside ribassista il 18 dicembre, sulle parole di J. Powell

Osservate le molte candele nere del grafico giornaliero allegato.

Poi DJ ha rimbalzato per 1200 punti in 4 gg e ha riperso tutto, delineando nei primi gg del 2025 un possibile doppio minimo a circa 42150 cash, poco sopra i prezzi ante elezione di TRUMP

Siamo vicini al precipizio e quindi ritengo di acquistare e da martedì 7.1 inserirò i seguenti ordini :

compero 1 MARZO MICRO DJ a 42500 con stop loss a 42300 e, solo in caso di eseguito,

compero 1 MARZO MICRO DJ alla rottura del massimo del giorno in cui vi sarà il primo acquisto, sempre con stop loss a 42300

Il secondo acquisto non sarà inserito se il massimo da rompere sarà sopra 43000 del future marzo.

Quando la singola operazione raggiungerà 500 punti di profitto, alzerò lo stop in pari.

NASDAQ 100 CASH

Sol per ricordare ai lettori che questo mercato ha moltiplicato per 22 volte in 15 anni dai minimi del 2009, allego un grafico mensile di lungo periodo

Il grafico giornaliero evidenzia che, diversamente da DOW JONES, NAS 100 ha intaccato il minimo mensile di dicembre e ciò mette all’erta.

Mi attendo un rimbalzo, ma il minimo del 20 dic è il primo swing che viene rotto al ribasso dopo le presidenziali.

Supporti a :

– 20315 che fu il minimo della settimana ciclicamente importante
– 19880 che fu l’ultimo minimo prima delle presidenziali

Tutti pensiamo che TRUMP abbia giovato più al NASDAQ che a DOW JONES e quindi la eventuale rottura di 19880 non andrebbe sottovalutata

Leonardo Bodini

 

 




ECONOMIA REALE

Com’è andato per il nostro Paese l’anno appena concluso? Probabilmente la risposta dipende molto dai punti di vista. Però se guardiamo all’economia reale del nostro Paese, allora occorre ammettere che sia andata piuttosto male, soprattutto per le fasce di popolazione con i redditi più bassi, i quali sono in buona parte rimasti fermi ai livelli pre-inflazione, pur dovendosi confrontare con importanti rincari per la maggior parte dei consumi (a partire dal 20-30% medio del carrello della spesa al supermercato). Non c’è dunque da stupirsi del fatto che i consumi nazionali risultino quest’anno particolarmente depressi e che ciò abbia implicazioni negative tanto per il commercio (spiazzato inoltre dalla mancata tassazione delle multinazionali che vendono “online”) quanto per i valori immobiliari del nostro Paese. E non c’è da stupirsi della crescente richiesta di sussidi pubblici, sempre meno gestibile dal governo in carica.

 


L’INDICE DELLA PRODUZIONE INDUSTRIALE

Se poi guardiamo alla produzione industriale è andata forse ancora peggio, dal momento che l’industria nazionale si deve confrontare con un calo medio dell’ordine del 3-4% annuo che oramai va avanti da prima dell’era “covid” (cioè da 3-4 anni) e che solo una piccola parte delle produzioni nazionali può godere di una miglior situazione delle esportazioni verso Asia e Medio Oriente. L’export inoltre non sembra orientato a “tenere” dal momento che l’elevatissimo costo nazionale dell’energia e gli altrettanto elevati “oneri sociali” legati al costo del lavoro tendono a comprimere ulteriormente la competitività delle nostre fabbriche.


CRESCITA ECONOMICA & “VERA” INFLAZIONE

La propaganda mediatica governativa continua invece a dichiarare per l’Italia una crescita del prodotto interno lordo, ma è oramai chiaro a tutti che quel +0,5% del PIL che registra l’Istituto di Statistica deriva quasi soltanto da una distorta contabilizzazione dell’inflazione dei prezzi, rimasta a livelli relativamente limitati (3-4% annuo) per taluni beni considerati nel “paniere” dell’inflazione ufficiale (quali ad esempio i derivati del petrolio e taluni prodotti di largo consumo) e schizzata letteralmente alle stelle (+30-40%) se consideriamo invece il costo dei beni più cospicui, dei servizi, delle costruzioni, dei viaggi e dei beni di lusso. Occorre poi ricordare che ben oltre la metà del prodotto interno lordo è “consumato” dalla pubblica amministrazione, che è arrivata a imporre livelli record (tanto storici quanto geografici) di tassazione e sembra orientata ad inasprirli ulteriormente!


Anche il dato sull’occupazione italiana sembra di non facile interpretazione: apparentemente in crescita, ma in realtà ciò che cresce davvero è soltanto il numero di posti precari e sottopagati, mentre decrescono tanto le pensioni quanto i redditi (da lavoro dipendente) più elevati. Si badi peraltro che la suddetta considerazione prescinde da qualsiasi opinione politica sull’operato del nostro governo, quantomeno fortemente zavorrato tanto da problemi sempre crescenti di deficit fiscale (durante la pandemia siamo arrivati a ridosso del 10% del PIL per poi ridurre a poco meno del 4%, cioè ancora oggi l’8% del bilancio pubblico è senza copertura) quanto dalla giungla normativa, tanto nazionale quanto comunitaria.


Ed è una magra consolazione sapere che -dal punto di vista strettamente industriale- sia andata ancora peggio per le economie europee più vicine a noi come la Francia e la Germania. Dal momento che entrambe le loro economie hanno potuto sostenere una miglior dinamica salariale rispetto a quella italiana (e di conseguenza consumi complessivamente meno depressi), anche per il fatto che tanto le imprese quanto le unità familiari hanno potuto beneficiare di minor tassazione e minor costo dell’energia (la prima per le proprie centrali nucleari e la seconda anche per le proprie centrali a carbone). Dunque per l’uomo della strada dell’Europa continentale la congiuntura sembra invece migliore della nostra.


L’AMERICA VA MOLTO MEGLIO

E’ andata invece parecchio meglio per gli Stati Uniti d’America dove non soltanto il PIL ha registrato una crescita media del 3%, ma anche l’ottima dinamica salariale ha potuto ampiamente sopravanzare il calo iniziale dei redditi dovuto alla svalutazione monetaria e di conseguenza i consumi hanno registrato in media delle ottime performances. Gli USA possono inoltre contare su una tassazione molto ridotta dei redditi (tanto personali quanto di impresa) rispetto agli standard europei e su una spesa pubblica in grande crescita che costituisce un formidabile stimolo alle attività economiche interne senza che ciò costituisca (almeno per il momento) un problema. In America infatti il deficit di bilancio viene puntualmente controbilanciato dal forte afflusso di capitali provenienti dal resto del mondo, grazie ai quali non è mai stato un problema il finanziamento del debito pubblico, arrivato oramai al 120% del PIL e orientato ad ulteriori impennate.


LE DISUGUAGLIANZE CONTINUANO A CRESCERE

Ovviamente anche in America la crescente “polarizzazione” dei redditi (sempre migliore per quelli da capitale e non ottimale per quelli da lavoro dipendente) ha creato una spaccatura profonda, che si è riflessa nel risultato delle ultime elezioni politiche. Ma l’economia appare solida -anche in prospettiva- non soltanto perché gli USA sono grandi esportatori di tecnologia, armamenti ed energia. Anche la crescente incidenza degli investimenti sul prodotto interno lordo sembra destinata a far proseguire lo sviluppo, tanto per il fatto che -grazie all’automazione industriale- molte produzioni stanno tornando negli USA dopo che in passato erano state delocalizzate, quanto per la crescente influenza degli investimenti informatici nei sistemi di nuova generazione collegati allo sviluppo dell’intelligenza artificiale.


Investimenti per il momento realizzati quasi solo dalle grandi multinazionali tecnologiche e ben poco dalle piccole e medie imprese americane. Che tuttavia non solo trainano il PIL degli Stati Uniti, ma sembrano anche destinati a dare ulteriori frutti negli anni a venire. L’ottima dinamica dei mercati dei capitali in America infatti permette di destinare quote crescenti di risorse finanziarie agli investimenti delle grandi imprese a stelle e strisce e consente dunque uno stimolo ulteriore allo sviluppo economico di quel Paese.

LA FORZA DEL DOLLARO

Non c’è dunque da meravigliarsi della forza crescente del Dollaro americano rispetto a quasi tutte le altre divise valutarie, sospinta non soltanto da buone prospettive economiche, ma anche dalla crescente attrazione dei capitali da parte dei mercati finanziari a stelle e strisce e dai rendimenti elevati offerti dal biglietto verde. La Cina ad esempio sembra aver goduto anche quest’anno di una congiuntura economica persino migliore dell’America (nonostante ciò che raccontano i “media” il PIL del paese pare essere cresciuto di quasi il 5% anche nel 2024), ma i propri mercati finanziari non destano molta attrattiva per i capitali stranieri e il cambio dello Yuan resta ai minimi storici contro il Dollaro (probabilmente anche per motivi strategici di sostegno alle esportazioni e di contrasto alla minaccia dei dazi alle importazioni americane).

Dal punto di vista globale poi il 2024 sembra poter consolidare una crescita economica molto simile a quella del 2023, anche grazie alla crescita demografica di buona parte delle economie emergenti, in particolare quelle asiatiche. Dunque il fanalino di coda dell’economia mondiale possiamo con pochi dubbi affermare che sia stata l’Europa.

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IL COSTO DELL’ENERGIA

Le cause sono da ricercarsi in varie direzioni, molte delle quali sono ben note: una forte rigidità del mercato del lavoro, orientata al ribasso anche a causa di un modello industriale obsoleto, la forte dipendenza dalle risorse energetiche importate, un sistema politico oneroso, macchinoso e corrotto che ha generato un debito pubblico in buona parte fuori controllo e, al tempo stesso, il crescente onere degli armamenti, buona parte dei quali importati dal resto del mondo.


Tendenze che potrebbero produrre -a partire dal prossimo anno- anche una riduzione dell’occupazione, con possibili conseguenze in termini di crescenti tensioni sociali, mentre cresce anche il rischio di ulteriore coinvolgimento dei Paesi dell’Eurozona nei conflitti mediorientali, est europei e addirittura africani (con il conseguente onere che ne può derivare). Senza contare il rischio di ulteriori divergenze politiche all’interno della macchina comunitaria, divenuta elefantiaca in termini di costi e vincoli, ma che è risultata decisamente incapace di produrre, in contropartita, un vero ”mercato unico“ né crescita economica o stabilità finanziaria.

LA DEBOLEZZA DELLA DIVISA UNICA EUROPEA CONTINUERÀ

In queste condizioni appare difficile prevedere buone prospettive per la divisa unica europea, i cui rendimenti finanziari non potranno che restare limitati a causa della pessima performance dell’economia reale, e il cui cambio contro Dollaro non potrà che accusare il colpo di conseguenti probabili ulteriori deflussi di capitali dal vecchio al nuovo continente, nel prossimo futuro. Almeno sin tanto che le attuali (forti) contrapposizioni geopolitiche limiteranno gli investimenti asiatici nel vecchio continente e sinanco gli scambi commerciali con i Paesi aderenti ai BRICS.


CIGNI BIANCHI E NERI

Da tutti i punti di vista sino qui passati in rassegna peraltro appare difficile poter scorgere per il nuovo anno significative variazioni delle attuali tendenze. Un possibile “cigno bianco” (cioè una buona notizia) potrebbe provenire dall’eventuale riduzione dell’intensità dei conflitti oggi in corso tra i Paesi membri della NATO e la Federazione Russa, nonché tra Israele e praticamente tutti gli altri Paesi del Medio Oriente. Ma anche se ciò accadesse appare difficile immaginare la fine dell’emorragia finanziaria che tali conflitti oggi procurano ai Paesi Occidentali. Così come sarebbe improbabile che l’instabilità politica dell’intero continente africano possa portare qualche futuro beneficio ai paesi europei nel prossimo anno (anzi!). Dunque nel migliore dei casi la congiuntura attuale sembra destinata a variare piuttosto poco nel primo scorcio del nuovo anno.

Un vero e proprio “cigno nero” per l’economia europea invece si materializzerebbe se le tensioni geopolitiche continentali dovessero addirittura peggiorare, dal momento che il primo rischio di un’escalation militare nel 2025 sarebbe quello di una seconda ondata di inflazione dei prezzi, tanto energetici quanto industriali. Un rischio assai poco gestibile dal momento che appare già in atto un deciso “debasing” (cioè in soldoni: svalutazione) del valore intrinseco delle cosiddette “fiat currencies” dei principali paesi occidentali, misurato principalmente dal crescente prezzo dell’oro e degli altri metalli preziosi e in parte anche dal rialzo dei prezzi di quasi tutti i prezzi dei beni reali.

LO “SVUOTAMENTO” DEL VALORE INTRINSECO DELLA MONETA

Anzi: il contrasto tra la dinamica dell’inflazione dei prezzi dei beni di prima necessità e quella dei prezzi dei beni-rifugio (come l’oro e gli altri preziosi appunto) appare sempre più marcato, delineando di fatto una svalutazione ”reale” delle principali divise di conto valutario, che corre molto più velocemente di quanto le statistiche ufficiali lascino credere e che investe sinanco il valore delle imprese, quantomeno di quelle che sembrano poter esibire modelli di business adeguati al mondo che cambia. Addirittura si potrebbe affermare che la salita generalizzata delle quotazioni di borsa come pure dei beni reali cospicui sia sostanzialmente dovuta non tanto all’apprezzamento intrinseco quanto alla svalutazione della moneta in cui il loro valore è misurato.


D’altra parte non è mai stata una vera novità la profonda divaricazione tra l’andamento dell’economia reale e quello dei mercati finanziari. Ma negli ultimi anni più che un divario sembra si sia creato un vero e proprio abisso, che poi si riflette nelle crescenti disuguaglianze tra percettori di salari e percettori di redditi da capitale.

 

Stefano di Tommaso




LA DIVERGENZA DEI MERCATI AUMENTA

Le Borse europee non sono mai state così divergenti da Wall Street. Pur essendo un anno positivo per entrambe il divario delle performance non può passare inosservato. L’indice Eurostoxx 600 (nel grafico qui sotto) è salito in un anno soltanto del 4,7%. L’S&P 500 del 26%. Cioè più di cinque volte tanto. Ma il rischio è soprattutto che la divergenza di performance tra le borse americane e quelle europee prosegua anche nell’anno che sta per entrare.

 


WALL STREET SI È’ GIA’ RIPRESA

Wall Street Sembra avere voglia di accelerare anche nel 2025 a causa delle ottime variabili macroeconomiche degli Stati Uniti d’America e della novità di un’inflazione che sembra oramai domata.

Solo pochi giorni fa il governatore della FED aveva messo in guardia gli investitori dei rischi legati ad una recrudescenza dell’inflazione. Ma le ultime statistiche sembrano smentire questa prospettiva e ora gli analisti finanziari si attendono che la banca centrale americana possa viceversa continuare ad espandere la propria politica monetaria.

LE BORSE EUROPEE MANCANO DI LIQUIDITA’

L’Europa viceversa, nonostante i ribassi recenti (e quelli attesi) dei tassi d’interesse, rischia di ripiegarsi ancora di più su sé stessa. Soprattutto per la scarsa liquidità che attanaglia i mercati europei (complice tanto la Banca Centrale Europea quanto il drenaggio di capitali operato dall’America), ma anche perché le condizioni economiche prospettiche del vecchio continente non sembrano promettere niente di buono.


MOLTIPLICATORI A CONFRONTO

Ovviamente le prospettive contano, e si riflettono sui moltiplicatori di valore. L’indice Msci Europe vale 13,6 volte gli utili attesi per il 2025. Quasi ai livelli delle borse dei paesi emergenti, che capitalizzano tra le 9 e le 12 volte gli utili (ma che in compenso hanno anche migliori prospettive di crescita). L’indice Msci Usa invece è a quota 22,6, cioè circa il doppio.

Talvolta si pensa che le azioni con un multiplo più basso siano più convenienti, ma se quest’ultimo riflette basse attese relative all’evoluzione dei profitti, allora gli investitori preferiscono scommettere sulle società che mostrano le migliori performances piuttosto che cercare di speculare sui titoli più a sconto. Spesso questi ultimi hanno modelli di business superati o scarse capacità di crescere.

IL DIVARIO E’ AUMENTATO DI RECENTE

La vera svolta nel divario delle quotazioni borsistiche tra gli Stati Uniti d’America e il resto del mondo è però arrivata solo con la pandemia. In quel momento c’è stato il “trionfo” delle imprese a forte contenuto digitale e hanno letteralmente preso il volo i cosiddetti titoli azionari “growth“ (crescita).

Poi è stata la volta della “bolla speculativa” dell’Intelligenza Artificiale, cioè dei titoli emessi dalle grandi multinazionali super-tecnologiche che possono trarre profitto dalla diffusione dell’utilizzo di quest’ultima per scopo di business, oramai tra le più grandi corporation al mondo.

POCHI TITOLI “GROWTH” IN EUROPA

In Europa si trovano quasi soltanto aziende della old economy (meccaniche, automobilistiche, moda-lusso-abbigliamento, banche e società finanziarie, grandi multi-utilities parastatali, aziende energetiche, e società farmaceutiche). E di grandi multinazionali super-tecnologiche non ce ne sono quasi. La crisi del settore industriale automobilistico in Germania ha poi avuto ricadute praticamente in tutta Europa nelle sue filiere dirette e indirette di terzisti che lavoravano per l’auto tedesca.

Ma sono diverse nelle due sponde dell’Oceano Atlantico anche e soprattutto le aspettativa di crescita dei redditi, dei consumi e del prodotto interno lordo. Se l’economia europea tirasse di più ci potrebbero essere migliori prospettive anche per le aziende della “old economy” che in Europa sono prevalenti.

L’INFLAZIONE NEGLI U.S.A. SCENDE DI PIÙ’

Non soltanto il P.I.L. americano corre, ma ci sono sorprese anche a proposito dell’inflazione. Fino a qualche giorno fa negli Usa gli analisti ipotizzavano ancora che, con una dinamica del prodotto interno lordo molto più elevata, anche l’inflazione potesse risultare più elevata. Di conseguenza la banca centrale (le FED) ha sino ad oggi ridotto di poco il costo del denaro lasciando in essere tassi d’interesse più elevati rispetto all’Europa.

Anzi: il governatore della FED Jerome Powell nell’ultima settimana ha sì abbassato i tassi (di un quarto di punto), ma ha anche avvisato che per un po’ avrebbe potuto restare d’ora in avanti fermo. Fornendo dunque ai mercati un’indicazione contrastata che li aveva gettati nel panico.

Ma ciò che nell’ultima parte della settimana è venuto fuori è viceversa l’esatto opposto: l’inflazione americana sembra proprio continuare a scendere, mentre quella europea rischia di rialzare la testa, complice il forte divario tra Europa e USA relativo al costo delle materie prime energetiche (soprattutto il gas naturale), che fa decollare i costi di produzione e riduce i margini industriali.

I CAPITALI VANNO IN AMERICA

Dunque i capitali che si rivolgono ai mercati finanziari americani non soltanto ottengono una remunerazione maggiore, ma rischiano anche una minore erosione della valuta (il Dollaro) in cui sono investiti. Il “Dollar Index” è giunto ai massimi di periodo, come si può leggere dal grafico:

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LE BORSE SCENDERANNO ANCORA?

Non per niente l’Euro continua a svalutarsi nonostante una bilancia commerciale dell’Europa con gli USA in deciso avanzo. Perché i capitali preferiscono attraversare l’oceano.

Del resto il 71,5% (in valore) dei titoli che compongono l’indice delle borse internazionali ”MSCI World” è composto da titoli americani. Come dire che ben oltre i due terzi dei titoli di qualsiasi portafoglio che voglia risultare perfettamente diversificato a livello internazionale devono essere a stelle e strisce. E questo fa affluire liquidità sul sistema finanziario americano rendendolo liquido e tonico.

LE COSE POTREBBERO CAMBIARE

Le cose potrebbero cambiare non poco per le prospettive economiche europee se davvero si avvicinasse a grandi passi la fine della guerra in Ucraina.

Oggi la minaccia di Trump di sanzionare le nazioni europee che non accrescono il budget militare rischia di veder peggiorare i nostri conti pubblici o, peggio, di veder accrescere oltre misura la tassazione. Anche questo scenario peggiora la percezione dei mercati finanziari continentali. Se il “pericolo” bellico dovesse tuttavia ridursi la situazione potrebbe migliorare e magari il costo dell’energia per l’Europa potrebbe ridursi.


Ma al momento la cosa sembra tutt’altro che certa. E poi non è detto che un tale evento possa generare conseguenze positive per il costo delle materie prime energetiche per il vecchio continente.

L’EXPORT VERSO LA CINA POTREBBE TORNARE A CRESCERE

Anche l’eventuale miglioramento delle performances dell’economia cinese (la quale comunque rischia di chiudere l’anno con una crescita del prodotto interno lordo più che rispettabile: +5%) potrebbero dare nuovo impulso alle esportazioni europee.

Ma anche questa cosa è tutt’altro che certa perché l’America vuole limitare la capacità interscambio della Cina con i paesi OCSE. Con il rischio dunque che se la Cina dovesse accelerare chi ne beneficierà di più non sarebbero i paesi d’Europa bensì quelli aderenti ai BRICS (che oramai superano la ventina).


L’INSTABILITÀ POLITICA

Sinanco dal punto di vista politico tra l’America e l’Europa non potrebbe esserci un divario più netto: assai stabile l’assetto politico degli USA dopo che il partito conservatore di Trump ha praticamente vinto tutto (presidenza, camera e senato) che hanno dunque davanti a loro diversi anni per consolidare le nuove politiche.

Mentre rischia di essere sempre più frammentato e dunque instabile il quadro politico europeo, con pesanti problemi soprattutto nei due paesi che sino a ieri sono stati di guida all’intera Unione (Francia e Germania), e una dinamica salariale generalmente piuttosto pesante (anche a causa dell’inflazione dei prezzi) che rischia di scatenare nuovo scontento sociale.


Questo si traduce in ulteriore debolezza della Divisa Unica e in una dinamica riflessiva dei consumi europei a causa dell’incapacità di varare misure espansive per rilanciare gli investimenti continentali.

Con il rischio che le imprese quotate in Europa, per quanto siano tra le migliori nel contesto industriale complessivo , non tengano minimamente il passo con la crescita degli utili di quelle americane. E dunque che il divario delle performances delle borse americane rispetto a quelle europee continui ad aumentare.

Stefano di Tommaso