LA FORMIDABILE ASCESA DELLE NUOVE IMPRESE IN ITALIA – TERZA PARTE: LA VALUTAZIONE DELLE IMPRESE INNOVATIVE

La Compagnia Holding
Startup è bello. Soprattutto quando attraverso l’innovazione gli imprenditori in erba (giovani o anziani che siano) contribuiscono a renderci la vita migliore con le loro innovazioni, e con sistemi diversi per fare -più comodi o più velocemente o a più basso costo- ciò che facevamo prima con più fatica. L’America come al solito lo ha scoperto prima degli altri e ha sviluppato (soprattutto in California, che è l’America dell’America) un ecosistema idoneo a far nascere, crescere e portare in Borsa le iniziative migliori. Anche per questo le valutazioni sono più alte laggiù. A volte molto più alte: quando gli investitori fanno a gara per sottoscrivere quote di minoranza del tuo capitale soltanto perché sono molti e ben attrezzati a lavorare sulle innovazioni tecnologiche, non c’è da stupirsi se le valutazioni lievitano. Ma come si giunge a formulare queste ultime?

 

INAPPLICABILITA’ DEI NORMALI METODI DI STIMA DEL VALORE

E, in generale, come si fa a valutare un’impresa in erba? Una che non fattura ancora niente o quasi e che promette soltanto di cavalcare un’innovazione, un’intuizione, o un modo diverso di fare le cose? Con i metodi tradizionali non si va molto lontano: inutile parlare di moltiplicatore dei profitti (che per alcune startup non valgono nemmeno quando sono quotate in Borsa: si pensi al caso Tesla, che ha continuato ad accumulare perdite per oltre un quinquennio dopo essere sbarcata al NASDAQ eppure oggi vale oltre un trilione di dollari). Così come è improbabile usare il metodo dei multipli del margine operativo lordo se quest’ultimo ancora non c’è (o quasi); ancor peggio è parlare del patrimonio netto o del valore del brand, dal momento che -per definizione- devono ancora crescere. Forse un po’ meglio sarebbe stimare l’azienda sulla base dei flussi di cassa prospettici, ma con il limite che deriva dal fatto che all’inizio questi saranno negativi, e poi mancano quasi del tutto gli strumenti per identificarli con un minimo di realismo.

LE ALTRE METODOLOGIE

Ma se i metodi tradizionali per valutare un’azienda poco si adattano a quelle che devono ancora nascere, l’industria del “capitale di ventura” ha invece sviluppato delle altre metodologie che, pur ammettendo di essere tutt’altro che una scienza esatta, aiutano nell’esercizio mentale necessario a mettere a fuoco un valore ipotetico. Ovviamente sulla base innanzitutto del Piano di Business che la Startup sarà in grado di pubblicare. Di seguito potremo provare a farne una breve elencazione, anche allo scopo di esplorarli meglio, ma innanzitutto bisogna dare un’occhiata ai fattori più importanti che intervengono nel processo di valutazione di un’impresa innovativa che si accinge a prendere il volo.

GRANDI POTENZIALI E FORTI RISCHI

Il primo criterio che accomuna tutti i metodi di valutazione è quello relativo alle caratteristiche tipiche delle Startup: la potenzialità di generare molto valore in futuro e, possibilmente, capacità di accrescere quest’ultimo nonché la velocità di questa crescita. Si pensi a casi di scuola che oggi costituiscono il grosso del valore di capitalizzazione del listino di borsa americano: Apple, Microsoft, Amazon, Google, Facebook, Tesla… che hanno raggiunto valutazioni elevatissime (sono tutte sopra il trilione di dollari di capitalizzazione di borsa ) soprattutto a causa della loro grande capacità di crescere velocemente e arrivare a dominare ciascuna il proprio mercato.

Accanto alle forti potenzialità però si trovano anche grandi rischi. Le startup per definizione devono ancora mostrare la loro capacità di poter “funzionare” senza fermarsi per strada (come succede a molte di esse) per i motivi più banali: scarsa capacità di pianificazione, lite o separazione dei fondatori, eccesso di concorrenza, difficoltà nel processo di industrializzazione, incapacità di gestire adeguatamente la dinamica finanziaria… quelli qui elencati sono solo alcuni dei numerosissimi motivi per i quali le nuove iniziative non diventano degli “unicorni” (quelle ex-Startup che arrivano a valere almeno un miliardo di dollari).

NON GUARDATE AI PROFITTI FUTURI

In generale bisogna accettare il fatto che -anche le migliori- per un certo numero di anni a venire perderanno quattrini a tutto spiano e, in un certo senso, è anche logico che ciò possa accadere. Se l’impresa infatti ha successo e ha la possibilità di raggiungere il più ampio potenziale di mercato nel minor tempo possibile, dal punto di vista del mercato finanziario sarebbe un errore che il suo management si concentrasse sulla possibilità di portare a casa presto risultati economici positivi, perché ciò ne limiterebbe la capacità di creare molto valore.

Ovviamente ciò non può essere valido in eterno: tutte le imprese a un certo punto della loro vita iniziano a rallentare la crescita e, a quel punto, l’orizzonte di maggior creazione di valore perseguendo a tutti i costi obiettivi di crescita del fatturato incontrano due forti limiti: la capacità di procurarsi ulteriori risorse finanziarie per alimentare quella crescita (laddove i flussi di cassa prospettici non risultano sufficienti a pagare le rate dei debiti e a pagare dividendi a chi sottoscrive gli aumenti di capitale) e la possibilità che, a seguito del successo di mercato, si sviluppi una concorrenza tale da far assopire le speranze di trasformare il successo ottenuto in voluminosi profitti futuri. In fondo al lungo tunnel della crescita insomma i profitti devono pur sempre essere attesi: quanto non lo sono più non basta essere leader di mercato per essere capaci di generare valore per gli azionisti.

I PRIMI TRE FATTORI DI VALUTAZIONE : MANAGEMENT, CAPACITÀ DI CRESCERE E DIFENDIBILITA’ DEL BUSINESS

1) Per valutare perciò una Startup normalmente il primo fattore da considerare è la qualità dell’iniziativa ma anche quella delle persone che le danno vita. La corretta valutazione dell’esperienza, del “carisma” e delle capacità, complessive di cooperare tra tutti i protagonisti sono la base delle tecniche di stima del valore di mercato di una Startup.

2) Il secondo parametro da valutare per asserire la capacità di una Startup di assicurarsi un futuro radioso è la progressione possibile dei ricavi prospettici: la potenzialità di raggiungere presto il successo di mercato resta in molti casi un fattore imprescindibile per asserire la capacitò di quell’impresa di creare valore. E creare valore significa per la Startup essere capaci di generare in ogni istante del proprio percorso di sviluppo la percezione di un accrescimento del proprio valore prospettico, una percezione tale per cui chi si accinga ad acquistarne quote del capitale o a sottoscrivere aumenti di capitale sia disposto a valutarla ogni volta di più. E il primo fattore di verifica è la prima linea del bilancio: quella dei ricavi prospettici.

3) Il terzo e quarto fattore da monitorare nel leggere il piano di business sono fortemente complementari tra di loro: A) l’appetibilità e l’ampiezza del mercato potenziale (quando è possibile definirla) e B) la capacità (prospettica) di difendere il posizionamento di mercato che la Startup andrà a costruirsi e dunque le “barriere all’entrata” dei potenziali futuri concorrenti. Più queste ultime saranno elevate e maggiore sarà- il valore prospettico dell’impresa, atteso che il mercato potenziale che la Startup contribuirà a definire possa risultare sufficientemente ampio e promettente.

ALTRI DUE FATTORI: “TERMINAL VALUE” E ESIGENZE DI CASSA

Soprattutto se le risultanze del Piano di Business della Startup risulteranno positive e promettenti, un fattore di grande rilevanza per poter definire il valore prospettico della medesima consiste nel cosiddetto “Terminal Value”. Cioè quel valore che viene normalmente posto al termine della previsione esplicita dei flussi di cassa futuri e che si basa normalmente non più sulla previsione di altri flussi di cassa, bensì sulla comparazione con altre imprese (già mature) del mercato e con i loro multipli di valutazione.

I multipli a tal scopo più utilizzati sono i seguenti:

  • Rapporto Price-to-earnings (P/E)
  • Rapporto Price-earnings to growth (PEG)
  • Rapporto Price-to-book (P/B)
  • Rapporto Price to Sales (P/S)

Al temine di un periodo di previsione di crescita e sviluppo del mercato potenziale (che non può andare oltre i 5-10 anni, a seconda del mercato) ci sarà infatti una fase di consolidamento dei risultati raggiunti. L’impresa che ne risulterà sarà a quel punto sufficientemente grande da ridurre significativamente il proprio tasso di crescita e relativamente “matura” per essere comparata ad altre imprese oggi già mature del medesimo mercato.

Quel valore prospettico, elevatissimo perché derivante dall’ultimo anno di esplicita previsione del Piano, ma attualizzato ad oggi ad un tasso annuo molto elevato (dal 25% al 50% e a volte anche al 70%) che tenga conto dei notevoli rischi cui la Startup va incontro per arrivare fino a quel punto, è normalmente il primo metodo di valutazione utilizzato dagli investitori dei fondi specializzati nell’investimento del capitale di ventura (ed è per questo chiamato metodo del Venture Capital”).

L’ultimo (e il più difficile) elemento di discernimento che può derivare dalla lettera del Piano di Business messo a punto dagli animatori della Startup sono le esigenze finanziarie prospettiche, dal momento che qualora risultasse particolarmente cospicua la raccolta del capitale necessario ad effettuare tutti gli investimenti che richiede la strada che si intende percorrere, questo potrebbe essere un fattore di particolare attenzione che limita il valore potenziale del business!

Per capirci il caso Tesla è davanti agli occhi di tutti: per anni c’è stato un folto numero di osservatori che scommettevano sul fallimento di quest’ultima a causa degli ingentissimi investimenti che doveva effettuare per perfezionare il proprio piano industriale e dell’ancor più importante esigenza di capitale circolante che esso necessitava (ivi compresa la copertura delle perdite di periodo). E questo nonostante i suoi prodotti avessero già ottenuto un successo clamoroso e la società fosse già stat quotata in Borsa.

LA CHECKLIST

Spesso però chi valuta un’azienda (che intende raccogliere capitale nelle prime fasi della sua vita per sviluppare una significativa innovazione) non si basa soltanto sul Piano di Business, per quanto bene esso possa essere stato ideato.

Basandosi sull’assunto che soltanto una bassissima percentuale delle Startup realizza davvero la crescita dei ricavi e i guadagni previsti nel business plan, occorre contemperare -ai fini della valutazione- le proiezioni finanziarie che derivano dal Piano per la valutazione (in quando è molto probabile che si tratti di numeri poco realistici) con altri metodi di stima del valore, basati su quello che c’è già oggi. Stiamo parlando del cosiddetto “Metodo Berkus” dal nome di chi lo ha proposto per primo.

Egli ritiene che per valutare correttamente una startup sia necessario dare un valore economico a quei fattori che sono già inseriti nella Startup al momento della sua partenza e che, qualora risultino ampiamente positivi, ne riducano il rischio di fallimento. I 5 fattori di rischio per le startup secondo Berkus sono:

  • Proposta di Valore (Basic Value, ovvero Rischio prodotto)
  • Prototipo Funzionante (Technology, ovvero rischio tecnologico)
  • Qualità Manageriali del team (Execution, ovvero rischio di esecuzione)
  • Prodotto lanciato e/o venduto (Production and Sales, ovvero rischio relativo alla capacità effettiva di produrre e vendere)
  • Relazioni strategiche (Market, ovvero rischio di mercato e relativo alla concorrenza).
    A ciascuno di questi elementi si attribuisce un valore attuale (tipicamente 1/2 milione di Euro in caso di pieni voti per ciascuna categoria) ovvero un fattore di rischio.

Ciò significherebbe che il valore di partenza di un’iniziativa che ancora non fattura niente può andare da un minimo di 0,5 milioni ad un massimo di 2,5 milioni. Ovviamente ci sono Startup che, specialmente nelle elevate tecnologie e nel medicale, valgono -già in partenza- infinitamente di più, in funzione del valore del brevetto, o della tecnologia oppure di determinate privative di mercato (accordi esclusivi, joint venture, diritti di opzione così via).

Evidentemente in questi ultimi casi bisognerebbe riuscire ad attribuire un valore patrimoniale agli elementi suddetti apportati alla Startup e i valori risultanti dal metodo Berkus essere piuttosto considerati come valore dell’ “avviamento” al tempo zero, cui sommare il valore risultante dai suddetti elementi patrimoniali (anche immateriali).

Una seconda “check-list” può derivare dal fornire un peso massimo ai suddetti fattori di rischio per compilare una “tabella punti” (Scorecard) da utilizzare, ad esempio, per moderare il valore risultante dal cosiddetto “metodo del venture capital”.

I parametri principali del metodo Scorecard, in ordine di importanza e con il loro rispettivo peso, sono normalmente:

  • Forza del Team (da 0 al 30%)
  • Dimensione del Mercato (da 0 al 25%)
  • Prodotto/Tecnologia (da 0 al 15%)
  • Vendite/Marketing (da 0 al 10%)
  • Contesto Competitivo (da 0 al 10%)
  • Necessità di Ulteriori Investimenti (da 0 al 5%)
  • Miscellanea (da 0 al 5%)

Il totale delle percentuali realizzate costituisce la percentuale di valore prudentemente applicabile al valore risultante da altri metodi complessivi, in funzione dei fattori di rischio percepiti.

Stefano di Tommaso




LA FORMIDABILE ASCESA DELLE NUOVE IMPRESE IN ITALIA – SECONDA PARTE: ANALISI & SELEZIONE –

La Compagnia Holding
Molti di noi sono stati sollecitati a contribuire al lancio di imprese innovative, a supportare la diffusione di nuove tecnologie, oppure a sostenere in qualche modo nuove metodologie medicali o nuove modalità di utilizzo di internet per telecomunicazioni, acquisti, o iniziative benefiche. Quasi tutte appaiono caratterizzate da ottimi spunti, tecnologie rivoluzionarie, idee geniali, o meravigliose intuizioni. Come selezionare quelle con maggiori probabilità di successo?

 

LA DIFFERENZA TRA FARE INNOVAZIONE E FARE BUSINESS

Inutile precisare che solamente alcune di esse sono destinate ad avere effettivamente successo commerciale e un numero ancora minore di queste a reperire capitali e finanziamenti per poter sostenere i loro progetti. il lancio dì una nuova impresa non riesce a molti. Come mai? È un problema dovuto all’arretratezza del Paese in cui viviamo o ci sono altri più solidi motivi? La risposta nella maggioranza dei casi è: entrambe le ragioni. È vero che il mercato dei capitali in Italia ha pochi incentivi fiscali a sostenere delle startup e si scontra con un notorio eccesso di burocrazia, con la concorrenza sleale dello Stato medesimo e, in molti casi, con una mentalità da anni ‘70 e ‘80 dovuta -tra l’altro- al forte invecchiamento della popolazione. Ma è anche vero che c’è una differenza abissale tra la capacità di realizzare nuove tecnologie e nuove iniziative degne della massima attenzione internazionale e la capacità -invece- di fare business.

Molti inventori non sono affatto capaci di organizzare e gestire un’impresa, pur avendo generato idee rivoluzionarie! Anzi: quasi mai il profilo psicologico dell’inventore coincide con quello dell’imprenditore. Quest’ultimo deve riuscire a poggiare le proprie iniziative su solide fondamenta, a scegliere collaboratori capaci e affidabili, validi partner di business e a reperire fornitori che credono profondamente in lui e nella sua capacità di concludere e restare al tempo stesso in piedi. Un’imprenditore deve poi essere sostanzialmente in grado di vendere agli altri la sua idea, i suoi prodotti e servizi e la sua immagine. Senza questa capacità di riuscire a vendere sé stesso, i suoi prodotti e la sua capacità di generare profitti, l’impresa che lui guida può soltanto finire a testa in giù.

IL PUNTO DI VISTA DI CHI INVESTE

Chi valuta se fornirgli capitali, lavoro, tempo e attenzione, deve tenere necessariamente conto di ciò, oppure deve riuscire a convincerlo a farsi affiancare da validissimi soci e partner di business, a concedere spazi decisionali a soggetti terzi e a capaci organizzatori. E anche qualora ciò fosse possibile, deve poter scorgere nell’impresa che nasce un piano organico sostenibile, un’analisi validissima del mercato che si intende aggredire, un’attenta valutazione delle risorse necessarie (umane e finanziarie), e della capacità di ottenerle o metterle a disposizione in tempi congrui con le esigenze dell’iniziativa. Oppure deve affidarsi a un validissimo advisor finanziario in grado di farlo per lui.

Normalmente la modalità naturale per compiere le valutazioni e i discernimenti sopra accennati è la disamina del Piano di Business. Il confronto che esso deve mostrare tra i risultati attesi per la futura impresa e gli scenari di mercato devono poter rassicurare. È anche questo il motivo per cui spesso chi investe nelle startup innovative deve potersi fidare quasi ad occhi chiusi dell’advisor finanziario che è capace dì portare a termine quelle verifiche. Ed è altresì il motivo per il quale normalmente ha senso che gli investitori vengano reperiti e convinti dal medesimo advisor, o intermediario finanziario, o anche coinvestitore, che deve rassicurare gli altri investitori sulla capacità dell’iniziativa di avere successo.

LE CARATTERISTICHE DEGLI “STARTUPPER”

Si dice che il denaro, per quanto valida possa essere l’iniziativa imprenditoriale, lo si dà alle persone, non all’azienda. Bisogna che qualcuna di esse riesca ad esprimere autorevolezza e affidabilità. E bisogna che al tempo stesso mostri capacità dì fare business. Attenzione: non dì fare profitti (subito) o anche solo margini operativi. Questi verranno a tempo debito e se li si cerca troppo presto molto probabilmente si sta rischiando dì azzoppare l’iniziativa. Ma dì fare business, cioè in ogni istante che passa bisogna riuscire a dimostrare che si sta creando valore.

Quella dì creare valore è una capacità che hanno pochi grandi organizzatori, gestori, capitàni d’impresa capacità di tenere la bussola e saper navigare sopra le ondate delle difficoltà operative e dì andare oltre gli errori commessi. Da chiunque. La capacità dì mantenere il sorriso, l’armonia e la motivazione dì tutti coloro che sono coinvolti è sì rara, ma deve anche accompagnarsi ad una buona dose di realismo nel giudicare gli ostacoli e le possibilità. Quando ciò accade -spesso ad opera dì un “team” e non di una sola persona, allora l’impresa compie effettivi passi in avanti.

Allora gli investitori sono contenti e possono anche accettare i rischi che -immancabilmente- sono in agguato a prescindere da tutto il resto. Le startup (anche quelle più valide) sono caratterizzate da una forte rischiosità intrinseca e ineluttabile, oltre che dalla capacità di generare rapidamente valore (quelle che lo sono davvero). Chi investe deve potersi aspettare grandi risultati (altrimenti -letteralmente- la spesa non vale l’impresa) ma deve accettare al tempo stesso grandi rischi. Che ovviamente sarebbe bene elencare pedissequamente nel prospetto informativo onde evitare di ricevere dagli investitori facili accuse di raggiro.

Stefano di Tommaso




LA FORMIDABILE ASCESA DELLE NUOVE IMPRESE IN ITALIA – PRIMA PARTE: LO SCENARIO DI MERCATO NEL NOSTRO PAESE –

La Compagnia Holding
Il nostro paese è interessato più che mai alla ventata di globalizzazione e innovazione tecnologica che pervade l’intero pianeta e sta rispondendo con una grande massa di imprese neo-costituite che vanno quasi sempre a cogliere le nuove possibilità di fare affari determinate dallo sviluppo scientifico e tecnologico. Ovviamente il mercato dei capitali guarda con attenzione in questa direzione perché costituiscono una buona opportunità: qualcuna di esse emergerà come nuovo “unicorno” (nel gergo finanziario, supererà il miliardo di dollari in valore). Il problema è che l’Italia brilla per numerosità e qualità delle Startup ma scarseggia nella capacità di veicolare loro la dotazione iniziale di capitali.

 

LA BORSA LE ACCOGLIE MA… DOPO !

La Borsa Valori è molto recettiva nei confronti delle imprese innovative (ovviamente quelle che hanno superato la fase pionieristica) e mostra un deciso appetito per esse. Nell’ultimo anno e mezzo ovviamente il numero di “matricole” si è ridotto per via della pandemia, ma costituisce comunque la stragrande maggioranza delle operazioni di “Initial Public Offerings” (IPO), cioè di nuove quotazioni. Il segmento di mercato delle imprese innovative vale oggi alla Borsa di Milano (che da quando è stata incorporata da quella francese ha assunto il nominativo di Euronext Growth Milan – EGM) circa 150 imprese, su un totale di circa 350 società quotate in Italia, ma è destinato a crescere esponenzialmente. Solo in Francia ce ne sono infatti tre volte tanto, sia delle une che delle altre.

Il confronto nell’Unione europea sull’innovazione delle piccole imprese evidenzia che l’Italia è quinta in classifica, con una quota di piccole imprese con attività innovative pari al 60,9% del totale. Superiore di 14,9 punti percentuali alla media europea (46,0%), poco distante dalla Germania (62,3%) e ampiamente superiore a quella di Francia (45,9%) e Spagna (26,9%).

Esploreremo il fenomeno delle nuove imprese in Italia sotto due punti di vista: i numeri del macro settore delle neo-costituite e le loro modalità di finanziamento, aiutandoci con le poche risultanze statistiche disponibili nel nostro paese, la prima delle quali è fornita dal Ministero per lo Sviluppo Economico, che pubblica un rapporto trimestrale (realizzato con Unioncamere, Infocamere e Fondo di Garanzia del Mediocredito Centrale) utile a comprendere la vertiginosa ascesa delle Startup Innovative.

IL RAPPORTO DEL M.I.S.E.

Alla data dello scorso 1 Ottobre 2021 queste ultime erano divenute più di 14.000 di cui 2600 quelle a prevalenza giovanile (sotto i 35 anni) e delle quali piu di 10.000 nei servizi digitali. Tra tutte quasi il 13% è costituito in prevalenza da donne. Ma l’imprenditoria corre in Italia più di quanto si pensi non soltanto per le Startup innovative: le società di capitali di recente costituzione sono infatti la bellezza di circa 100.000.

Delle 14.000 Startup Innovative registrate già più di 6.000 hanno ricevuto l’autorizzazione del Fondo di Garanzia per quasi 2 miliardi mentre le PMI Innovative che hanno ricevuto una garanzia sono state poco più di 1.200 e il Fondo medesimo ha garantito prestiti nei loro confronti per un totale di 1,3 miliardi .

Singolare il fatto che la maggior parte delle Startup Innovative abbia sede in Lombardia (oltre il 26%) e addirittura quasi il 19% sia a Milano, contro il quasi 12% del Lazio e il quasi 9% della Campania, cosa che sta a significare soltanto che chi ha una buona idea di business se può viene nelle città dove è più sviluppata la capacità di incubarla e finanziarla per farla diventare un’impresa.

I REQUISITI PER RIENTRARE TRA LE “STARTUP INNOVATIVE”

Ma chi sono le Startup Innovative? Il Ministero dello Sviluppo economico risponde così: Possono ottenere lo status di Startup Innovativa le società di capitali costituite da meno di cinque anni, con fatturato annuo inferiore a cinque milioni di euro, non quotate, e in possesso di determinati indicatori relativi all’innovazione tecnologica previsti dalla normativa nazionale“. Che poi sarebbe il possesso di almeno 1 di questi 3 requisiti:
A)sostiene spese in ricerca e sviluppo per più del 15% del valore della produzione, B) impiega personale altamente qualificato (almeno 1/3 dottori di ricerca o ricercatori o almeno 2/3 con laurea magistrale), C) è titolare di un brevetto o di un software recentemente registrato.

A queste imprese sono state rivolte significative agevolazioni, introdotte con il decreto-legge “Rilancio” del 19 maggio 2020, n.34 :

  • Incentivi fiscali all’investimento nel capitale di startup innovative
  • Accesso gratuito e semplificato al Fondo di Garanzia per le PMI
  • Smart & start Italia (finanziamenti agevolati per startup innovative localizzate sul territorio nazionale)
  • Trasformazione in PMI innovative senza soluzione di continuità
  • Esonero da diritti camerali e imposte di bollo
  • Raccolta di capitali tramite campagne di equity crowdfunding
  • Servizi di internazionalizzazione alle imprese (ICE)
  • Deroghe alla disciplina societaria ordinaria
  • Disciplina del lavoro flessibile
  • Proroga del termine per la copertura delle perdite
  • Deroga alla disciplina sulle società di comodo e in perdita sistematica
  • Remunerazione attraverso strumenti di partecipazione al capitale
  • Esonero dall’obbligo del visto di conformità per compensazione dei crediti IVA
  • Fail Fast (procedure semplificate in caso di insuccesso della propria attività)

Inoltre in risposta all’emergenza COVID sono state introdotte ulteriori misure a loro favore:

  • Contributi a fondo perduto per acquistare servizi per lo sviluppo delle imprese innovative
  • Sostegno al Venture Capital
  • Credito d’imposta in ricerca e sviluppo
  • Proroga del termine di permanenza nella sezione speciale del registro imprese
  • Estensione della garanzia per il fondo centrale di garanzia per le Pmi
  • Ulteriori incentivi all’investimento in Startup Innovative
  • Programma Investor Visa for Italy: dimezzamento delle soglie minime di investimento
  • Agevolazioni per le Startup Innovative localizzate in zone colpite da eventi sismici

MA I CAPITALI NON ARRIVANO DAL MISE. NÈ DAL MEDIOCREDITO

Ovviamente le suddette agevolazioni hanno contribuito in parte a stimolare la nuova imprenditoria, in particolare quella giovanile (poco meno del 20%) ma, evidentemente il grosso è costituito soprattutto da quella “di riflusso” degli “adulti (che va ben oltre l’80%), derivante dalla cancellazione di numerosissimi posti di lavoro a causa della crisi economica o della delocalizzazione all’estero delle imprese. Lo testimonia il fatto che una percentuale quasi uguale alla proporzione tra adulti e giovani nuovi imprenditori è quella delle 100.000 imprese neo-costituite, delle quali oltre l’80% non ha i requisiti di startup innovativa.

Bisogna dire che il Decreto Rilancio costituisce nel complesso una vera e propria manna per le giovani iniziative innovative. Una manna spesso ignorata da coloro che vogliono mettersi ”in proprio”, ma sulla quale si sono buttate orde di professionisti, consulenti e intermediari che in qualche modo vantano “agganci” presso il Ministero per lo Sviluppo Economico e il Mediocredito Centrale. Una manna che però evidentemente è stata meglio sfruttata in quei luoghi (come Milano) ove è più facile creare, finanziare e condurre un’impresa. Un’informazione questa che impone una riflessione ulteriore a proposito degli altri fattori (diversi da agevolazioni e incentivi ai finanziamenti di Stato) che risultano essenziali affinché l’imprenditoria si sviluppi ulteriormente in Italia, prima fra tutti la disponibilità di capitali di rischio, oltre che di finanziamenti.

Praticamente infatti nessuna delle misure previste recentemente dal Governo riguarda il capitale di rischio (tipicamente gli proveniente da Family&Friends e Venture Capital), la cui presenza peraltro risulta essenziale anche nella normativa prevista per attivare i finanziamenti e i contributi di Stato. E senza capitali di rischio le nuove imprese non riescono a partire. L’italiano medio insomma, quando non riesce a tenersi il proprio posto di lavoro, se può se lo crea di sana pianta, e questo gli fa onore. Ma poi sconta il fio della ristrettezza e poca trasparenza del mercato dei capitali italiano, che oltretutto resta negli ultimi anni particolarmente arretrato rispetto al resto d’Europa.

EPPURE IL RISPARMIO DEGLI ITALIANI È INGENTE

Basti pensare che oltre 3/4 dei risparmi italiani (ingenti e in crescita) che vengono investiti sul mercato dei capitali prende la strada degli investimenti esteri. Una vera e propria iattura per il sistema delle imprese, che dipende dal fatto che non esistono strumenti (privati e pubblici) per veicolare loro a sufficienza la disponibilità di risparmio fresco.

I depositi bancari italiani peraltro crescono anche loro (siamo a quota 1.700 miliardi di euro), ma sempre più difficilmente si trasformano in finanziamenti alle imprese. Da dieci anni a questa parte le banche italiane hanno ridotto di circa 275 miliardi di euro il credito alle imprese mentre hanno incrementato di 185 miliardi l’investimento in titoli pubblici italiani. Lo Stato cioè, per ogni euro garantito alle imprese italiane (circa 3,4 miliardi in totale) ne ha assorbiti 55 dal mercato dei capitali, spiazzando di fatto le imprese.

COSA FARE

L’auspicio è perciò che il governo attuale possa finalmente muoversi anche nella direzione dello sviluppo del mercato dei capitali, prima che l’ondata di nuove iniziative si sgonfi per impossibilità di reperire adeguate risorse. Perché senza che quest’ultimo raggiunga anche nel nostro paese maggiori dimensioni e articolazioni, buona parte delle 100.000 nuove imprese costituite alla fine si spegnerà.

Le banche d’affari come la nostra fanno il possibile per mettere insieme i capitali di rischio , assicurandosi prima che il Piano di Business sia concreto e che impedisca di sprecare risorse, costituendo e registrando la Startup come “innovativa”, reperendo idonee risorse umane con competenze qualificate, per renderle capaci di fare davvero business e trovando talvolta loro uno spazio di mercato anche attraverso accordi commerciali e collaborazioni industriali.

Altre volte viene costituito un “Club Deal” guidato dalle stesse banche d’affari che raccoglie intorno a sè capitali di rischio provenienti da uno sparuto gruppo di investitori professionali (per quasi il 70% i cosiddetti “Ángel Investor” i quali -giustamente- pretendono di partecipare anche alla conduzione aziendale, qualche “Family Office” (cioè gli uffici che si occupano di investire per conto dei più ricchi) e qualche (raro) investitore di Venture Capital.

Ma la sproporzione tra domanda offerta, così come tra le risorse complessivamente reperibili in Italia rispetto a quelle degli altri paesi avanzati, è notevole!

Stefano di Tommaso




INVESTIRE COLLEZIONANDO: Dove sta andando il mercato? Top lots delle aste di orologi di Novembre

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Il termometro delle aste si è espresso anche questo autunno, decretando un mercato forte e capace di coinvolgere sempre più marchi e modelli in ascesa. Il segnale forse più importante riguarda il ritorno di segnatempo, quali i tasca complicati o gli ovettoni di Rolex, molto in voga negli anni 90 ma da tempo rimasti in sordina. La testimonianza di un mercato maturo e diversificato, composto da una vasta pletora di acquirenti con gusti differenti, i quali coesistono e si influenzano vicendevolmente.

Uno dei marchi uscito a testa altissima dalle aste di Ginevra è A. Lange & Soehne, certamente non una sorpresa per gli addetti ai lavori che sin dal principio conoscono la cura e la sostanza che si celano dietro a tali orologi. L’attenzione dei collezionisti è stata catalizzata maggiormente dai primissimi esemplari prodotti nel 1994, già rari di per sé e che alla porte del 2022 possono essere di diritto annoverati nella categoria “new vintage”. In particolare, un Lange referenza 101.005 in platino del 1994 ha conseguito 103.000 euro

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A. Lange & Soehne 101.005 in platino del 1994. Venduto da Phillips per 103.000 euro

Ma le sorprese in casa Lange non sono finite qui, infatti un Lange referenza 730.048, prodotto in soli 30 pezzi, ed andato in asta da Phillips ha raggiunto la cifra di 598.000 euro. Un segnatempo con tutte le caratteristiche per diventare una futura icona, grazie al movimento a tourbillon perfettamente rifinito, al quadrante lavorato a mano da un artigiano del reparto Handwerkskunst ed alla tiratura estremamente limitata.

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A. Lange & Soehne 730.048 edizione limitata a 30 pezzi del 2016. Venduto da Phillips per 598.000 euro.

Sempre restando sul moderno, l’orologeria indipendente si riconferma un ramo trainante nel mercato, grazie ai molteplici capolavori messi all’incanto. L’estetica che si amalgama con la tecnica affascina sempre di più, soprattutto i collezionisti orientali che sono pronti a pagare cifre molto alte per aggiudicarsi creazioni che, spesso, rappresentano quasi dei pezzi unici.
Ben cinque indipendenti fra FP Journe, Roger Smith e Philippe Dufour hanno sforato i due milioni, con quest’ultimo testa di serie a 4.5 milioni di euro grazie ad un esemplare unico con grande e piccola suoneria.

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Philippe Dufour Grande & Petite Sonnerie del 1992. Venduto da Phillips per 4.5 milioni di euro

Fp Journe dal canto suo vanta un rarissimo Chronomètre à Résonance, facente parte della primissima produzione con una tiratura di 20 esemplari, battuto a 3.7 milioni di euro.

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FP Journe Chronomètre à Résonance realizzato in 20 esemplari del 2000. Venduto da Phillips per 3.7 milioni di euro

Venendo ai grandi classici del collezionismo, ormai divenuti altresì sicuri asset da investimento, notiamo anche in questo caso degli ottimi risultati garantiti dalla qualità dei lotti in palio. Qualità a cui si aggiunge la quantità, infatti nella tornata di novembre vi erano numerosi lotti “da copertina”, nonostante si tratti di segnatempo normalmente difficili da reperire.
Patek Philippe ha segnato svariati risultati degni di nota, presso tutte le case d’asta. Phillips ha battuto due importanti 2499 degli anni 50 a 3.4 e 1.4 milioni di euro rispettivamente.

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Patek Philippe 2499 prima serie del 1952. Venduto da Phillips per 3.4 milioni di euro

 

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Patek Philippe 2499 seconda serie del 1954. Venduto da Phillips per 1.4 milioni di euro

Sempre da Phillips è andata in scena l’aggiudicazione di un rarissimo Patek Philippe 2497 in oro bianco, configurazione prodotta in soli tre esemplari. L’orologio, molto atteso, non ha di certo deluso le aspettative conseguendo 2.7 milioni di euro

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Patek Philippe 2497 in oro bianco realizzato in 3 esemplari del 1954. Venduto da Phillips per 2.7 milioni di euro

Christie’s invece ha proposto un segnatempo quasi unico ed uno dei più amati dai collezionisti. Si tratta di un Patek Philippe ore del mondo, referenza 2523, aggiudicato alla cifra di 2.5 milioni di euro.

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Patek Philippe Ore del Mondo del 1953. Venduto da Christie’s per 2.5 milioni di euro

Accanto alle grandi perfomance di Patek Philippe, marchio che nonostante sia da sempre sulla cresta dell’onda dagli albori non smette di regalare soddisfazioni ad appassionati ed investitori, anche Rolex ha dato importanti conferme.
Come sempre il Rolex Daytona, ed in particolare il Paul Newman, rappresenta un cavallo sicuro su cui puntare, e non solo nella classica veste in acciaio. L’oro, infatti, si sta sempre più riaffermando e riesce a spuntare ottime aggiudicazioni, come nel caso del 6265 in asta da Phillips che, grazie alla grande qualità dell’oggetto, è arrivato a 156.000 euro.

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Rolex daytona 6265 in oro giallo del 1977. Venduto da Phillips per 156.000 euro

In generale, il grande leitmotiv delle aste è stata la qualità, ovvero colei che decreta una differenza finanche del 100% fra un oggetto in discrete ed eccellenti condizioni. Un esempio è il Rolex 6263 in asta da Christie’s, il quale forte di un eccezionale stato di conservazione, è riuscito ad ottenere un risultato molto più alto rispetto ai suoi simili, di 130.000 euro.

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Rolex Daytona 6263 ” big red” in acciaio del 1978. Venduto da Christie’s per 130.000 euro

Anche in casa Audemars Piguet non sono mancati i colpi di scena con il Royal Oak e, specialmente i calendari perpetui, in ulteriore aumento dopo il grande balzo degli ultimi anni.
Il Royal Oak calendario perpetuo scheletrato ha catalizzato l’attenzione dei compratori, con Phillips che ha venduto due esemplari con referenza 25829, sia in acciaio per 383.000 euro che in platino per 371.000 euro.

Christie’s ha proposto la stessa referenza anche in oro rosa, battuta 321.000 euro.

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Audemars Piguet 25829or in oro rosa calendario perpetuo scheletrato del 2005. Venduto da Christie’s per 321.000 euro

 

Ricerca svolta daLorenzo Rabbiosi (The Watch Boutique)

Per informazioni marika.lion@lacompagnia.it