LA LIQUIDITÀ SOSPINGE AGGREGAZIONI, VALUTAZIONI E DIMENSIONI DELL’INDUSTRIA

Chi ricorda il motto degli anni ‘80: “piccolo è bello”? Più nessuno ormai, a giudicare dai fatti! La grande liquidità in circolazione fornisce munizioni alla grande finanza che a sua volta provoca un vero e proprio terremoto nell’industria dove -come si soleva dire con un sorriso- le dimensioni contano! Quest’anno le fusioni e acquisizioni prendono il volo, ma buona parte sono generate dall’intensa attività del “venture capital” (il capitale di rischio destinato dai fondi d’investimento a sostenere le “start-up” e le innovazioni tecnologiche) e del “private equity” (il capitale di rischio destinato dai fondi d’investimento all’investimento in società non quotate).

 


La parte del leone quindi non la fanno le imprese, bensì la grande finanza, che seleziona e sostiene i fondi d’investimento privati destinati alle imprese piccole, medie o addirittura neonate. I listini azionari delle borse valori sono spesso una cosa completamente diversa perché i fondi d’investimento oltre a investire nel capitale delle imprese, nel giro di qualche anno devono anche disinvestire con un bel guadagno, cosa sempre più difficile quando si intensifica la concorrenza per acquisire le aziende migliori.


La compravendita delle aziende dunque accelera con l’ampliamento dell’attività del Private Equity, per due grandi motivi:1) i fondi oltre che acquisire le partecipazioni devono anche cederle, e 2) per riuscire a creare valore che permetterà di accrescere quello delle imprese partecipate il private equity deve inventarsele tutte, e in particolare deve poter beneficiare dell’efficienza che si genera nell’ambito delle aggregazioni industriali .


Con la crescita delle dimensioni aziendali crescono di conseguenza anche le valutazioni d’azienda, tanto perché molti dei capitali investiti dai grandi operatori di Private Equity sono di fatto disponibili soltanto per le imprese di grandi dimensioni, quanto per il principio generale della maggiore efficienza che può generarsi dalle aggregazioni industriali. Ma le valutazioni d’azienda crescono anche per un altro semplice motivo : la domanda di quote di capitale delle migliori imprese supera ampiamente l’offerta, facendone innalzare i prezzi.


A prima vista sarebbe difficile prendersela con questo processo: chi investe vede che il modello di business del Private Equity funziona e gli affida sempre più risorse. Chi opera nel Private Equity investe quei capitali e, dopo aver individuato business interessanti, inizia ad aggregare altre imprese intorno alla prima per fare efficienza e accrescere il valore delle società su cui ha investito. La concentrazione industriale provoca indubbi benefici ed è altrettanto indubbio che la grande finanza fornisca munizioni ai fondi d’investimento per guadagnare dalla creazione dei nuovi campioni industriali dell’efficienza e dei profitti. Il punto però è che gli investimenti nel capitale di rischio delle imprese lontane dai riflettori della borsa sono indubbiamente a rischio e che le scommesse industriali non sempre hanno successo. L’incremento delle disponibilità dei fondi d’investimento insomma accresce la propensione al rischio degli investitori e delle imprese, limitando la possibilità di riuscire ad acquisire soltanto i business migliori.


E se ciò è vero per l’industria in generale, è ancor più vero per i comparti super-tecnologici, dove non soltanto si sono già creati i maggiori giganti del mondo (le tre più grandi imprese del mondo sono tutte iper-tecnologiche: Apple, Microsoft e Google), ma anche le valutazioni delle imprese high-tech sono schizzate alle stelle. Il comparto delle tecnologie indubbiamente promette molto bene e quindi in parte le valutazioni riflettono prospettive migliori, ma c’è anche il rischio che si crei una bolla speculativa oltre le ragionevoli attese.


E quali sono le ragionevoli attese? Oggi non lo sa più nessuno: le prospettive per molti settori industriali più tradizionali non sono buone ma ci sono ugualmente ottimi guadagni da andare a fare aggregandole fino a creare dei campioni di efficienza o per altre caratteristiche, per ciascun settore. Poi c’è la variabile distributiva che normalmente avvantaggia le maggiori dimensioni aziendali: molte imprese soffocano perché stanno perdendo lo sbocco al mercato, a favore di quelle che cavalcano i nuovi canali distributivi. Infine ci sono le imprese che utilizzano nuove tecnologie: neanche per loro la vita è facile perché in mercati in grande fermento la velocità di accadimento delle cose è massima! Idem dicasi per le cessioni e fusioni tra imprese: il panorama competitivo evolve molto velocemente con il rischio di lasciare indietro le imprese che non si muovono alla stessa velocità.

Ecco perché si incrementano il numero ed volume delle Fusioni & Acquisizioni: il capitale di rischio non manca ma funge da forte stimolo alle trasformazioni del business, all’integrazione verticale, alla ricerca spasmodica dell’efficienza. Il valore si crea soprattutto smontando e rimontando filiere di business e accordi distributivi, oltre che sperimentando e applicando nuove tecnologie! Chi si ferma muore.


Qual è il rischio di tutto ciò? Ovviamente è quello dell’eccessiva concentrazione settoriale, che tende a creare monopoli e oligopoli a sfavore dell’utente finale. Ma il rischio è anche quello dell’eccessiva concentrazione della ricchezza in poche mani: molto spesso il ritorno del capitale investito nelle operazioni di aggregazione industriale è altissimo anche laddove i redditi delle imprese non sono ancora cresciuti proporzionalmente. Il risultato è che qualche altra impresa è costretta a chiudere e licenziare mentre la parte del leone la fanno coloro che hanno investito.


Il limite a questa giostra dovrebbero essere le autorità anti-trust, che devono vigilare affinché le concentrazioni di potere finanziario non uccidano l’economia reale e non conferiscano troppo potere in poche mani, ma sappiamo come è andata sino ad oggi: esse hanno sostanzialmente abdicato al loro ruolo! In molti si sono chiesti quale sia il limite ma la verità è che non lo conosce nessuno: un distretto industriale in cui esistano soltanto piccole e medie imprese è indubbiamente meno efficiente di quello in cui si provocano concentrazioni industriali e si attragga capitale di rischio per tentare nuove strade e fare efficienza su quelle vecchie.


Dunque entro certi limiti le concentrazioni industriali giovano persino alla società civile. La lotta al “trust” cioè ai cartelli oligopolistici in passato era più che altro rivolta ad impedire situazioni di monopolio che permettevano ai produttori di accrescere artificialmente i prezzi a danno del consumatore finale. Oggi il problema non è quasi più quello: il vero problema sono le filiere di produzione e distribuzione, che controllano indirettamente il mercato e spiazzano chi non ne è parte. Dunque bisognerebbe rivedere anche il concetto di “Anti-Trust”.

Ma il mondo intanto va avanti, e se nel corso del processo evolutivo dell’economia si genera più polarizzazione tra povertà e ricchezza, qualcuno se ne rattrista (come il sottoscritto) ma per le mani forti che governano il mondo ciò appare come un prezzo da pagare in nome del progresso. Un progresso che indubbiamente ha generato tanta ricchezza sino ad oggi, ma che rischia tuttavia di sollevare immense tensioni sociali se non verrà ”gestito” anche da altri punti di vista.

Stefano di Tommaso




IL BAROMETRO DELL’ECONOMIA

La transizione post-pandemia (sempre che l’avremo davvero messa alle spalle) appare quantomai confusa e le previsioni economiche che accompagnano l’attuale congiuntura sembrano altrettanto vaghe e disparate. Si va dall’ottimismo più sfegatato propinato dagli organi di stampa “governativi” di tutto il mondo fino al deciso pessimismo (spesso ben motivato) di taluni economisti giunti agli onori della cronaca per aver previsto le precedenti crisi economiche e che prevedono una lunga stagnazione dopo il rimbalzo attuale. Non mancano numerose sfumature di grigio da parte di analisti finanziari e strateghi degli investimenti, che fanno notare che l’inflazione potrebbe persistere sinanco in caso di mancata crescita. Chi ha ragione? Ovviamente non lo sa nessuno ma qualche suggerimento pratico potrebbe provenire dalla disamina dell’andamento di taluni settori industriali, particolarmente sensibili ai cicli economici.

 

QUALI PREVISIONI?

Cominciamo con il dire che la divergenza degli scenari economici che si prospettano non riguarda soltanto la positività o la negatività delle previsioni, bensì anche le relative motivazioni, le modalità di sviluppo degli eventi nonché la loro velocità e l’ampiezza delle loro ricadute. Non si può insomma bollare l’attuale ripresa economica con una semplice convalida o un sostanziale rifiuto (asserendo che si tratti di mero rimbalzo tecnico). La questione è molto più complessa e alla fine rischia di essere irrilevante il risultato cumulativo netto dei molteplici “trend” macroeconomici che si sono sviluppati nell’ultimo anno e mezzo, mentre ciascuno di essi comporta importanti conseguenze pratiche.

Vediamo perciò quali sono, a partire dall’ovvia e incontrovertibile ripresa dei consumi che ha accompagnato la fine della “serrata” (traduzione letterale dell’abusatissimo termine straniero “lockdown”) indotta dalla necessità di contrastare la pandemia.

In molti casi i consumi non sono soltanto di natura voluttuaria, bensì derivano da importanti esigenze pratiche, o dal cambio delle abitudini e delle prospettive. Tale appare principalmente la decisa ripresa delle vendite di beni durevoli: più importante della ripresa dei consumi di accessori, abbigliamento e beni alimentari, ma soprattutto fortemente indotta dal cambio di prospettive.

I FATTORI DI TENDENZA

Il contenuto tecnologico dei beni di consumo durevoli è peraltro molto più elevato di quello relativo agli altri consumi e, se andiamo a scavare sulla forte ripresa delle vendite dei primi, è spesso proprio la necessità di aggiornamento tecnologico la principale motivazione di acquisto. Ciò vale per le automobili come per le abitazioni (entrambe le categorie molto toccate inoltre dalla necessità di rivedere l’efficienza energetica e la sostenibilità ambientale), ma vale anche per gli elettrodomestici, l’elettronica di consumo e i numerosissimi servizi online, tutti ampiamente al di sopra della media delle vendite di altri beni. Persino il settore delle costruzioni ha beneficiato della necessità di ridurre i consumi energetici (in Italia ad esempio con il famoso contributo del “110%” all’efficienza energetica degli edifici).

La diffusione delle più moderne tecnologie ha peraltro pervaso e modificato non soltanto la tipologia di consumi e di applicazioni residenziali, bensì anche e soprattutto gli investimenti strutturali, infrastrutturali e produttivi che la loro adozione comporta necessariamente. Tutto il comparto delle tecnologie ha quindi ricevuto dalle tendenze in corso un duplice impulso (dai consumi come dagli investimenti) che lo ha posto ai vertici della classifica dei settori industriali.

L’altro grande fattore di tendenza è stato la crescita a doppia cifra dell’attenzione ai contenuti salutistici dei consumi: la scarsa accessibilità ai servizi di medicina e chirurgia che la pandemia ha provocato ha fatto alzare le antenne alla popolazione, che ha iniziato a prendere in maggior considerazione la cura del corpo e la prevenzione dalle malattie, i comportamenti e i consumi di tipo salutistico, l’acquisto di integratori alimentari, di cibi sani, di oggetti caratterizzati da minore tossicità e da minori emissioni nocive.

Ultimo elemento che è necessario prendere in considerazione per analizzare l’andamento dell’economia globale quest’anno è stato il deciso contributo pubblico, fiscale e normativo all’adozione di determinati consumi, investimenti e ammodernamenti, fatto di elargizioni monetarie ma anche di sgravi, incentivi o obblighi di legge (a partire dall’acquisto di mascherine, farmaci e vaccini) che ha indubbiamente influito sugli sviluppi economici ed industriali dell’umanità. L’ampio interventismo di stato ha modificato decisamente la propensione alla spesa della gente

Se vogliamo perciò chiederci se l’economia andrà bene o male nel prossimo futuro e se i mercati finanziari e le principali variabili macroeconomiche ne risulteranno avvantaggiati o appesantiti, non possiamo prescindere dai tre fattori sopra indicati:

1) i contributi e gli orientamenti governativi (ivi compresa l’ampia adozione di musare rivolte all’aumento dell’efficienza energetica),

2) l’avanzata delle nuove tecnologie e delle nuove esigenze che da esse derivano (ad esempio le infrastrutture di telecomunicazioni),

3) l’incremento della spesa per la salute, ivi compresi i farmaci, i servizi sanitari, le cure mediche e quelle per prevenzione e diagnostica.

IL PUBLIC BIAS

La forte contribuzione governativa a supporto di queste tre macrotendenze fa peraltro intuire che l’economia globale difficilmente potrà fare nel prossimo anno dei passi indietro, poiché l’intera umanità sarà ancora per qualche tempo decisamente stimolata a spendere ed investire di più per effetto delle politiche monetarie e fiscali. Difficile dunque pensare che l’impatto complessivo di tali maxi-stimoli sarà negativo per l’andamento economico globale.

Più probabile sarà invece la preoccupazione che complessivamente si svilupperà in relazione alle forme di copertura di tali interventi delle pubbliche amministrazioni: il maggior indebitamento e l’ampliamento della repressione monetaria (cioè della stampa di moneta di stato ben oltre la misura fisiologica dell’accompagnamento alla crescita dell’economia). Altri freni allo sviluppo economico provengono dalla disoccupazione (che deriva tanto dal distanziamento sociale quanto dallo “spiazzamento” dei settori tradizionali che viene operato dalle imprese che propongono nuove tecnologie), e dalla necessità di risparmiare di più e spendere meno, in funzione di aspettative di vita più lunga e dalla maggior incertezza per il futuro indotta dalla sostanziale disfatta del “public welfare”.

IL BAROMETRO DELL’ECONOMIA

C’è tuttavia un settore industriale che meglio di altri può aiutare ad interpretare l’esito cumulativo delle attuali tendenze economiche: quello dell’automobile, innanzitutto perché le sue vendite avvengono nei confronti dei consumatori finali ma riguardano consumi durevoli e valutazioni ben meditate, dunque l’andamento delle vendite di auto risulta fortemente legato ai cicli economici. In secondo luogo nell’industria dell’automotive nessun produttore di veicoli è mai completamente autosufficiente nella componentistica: dunque se ci sono tensioni nelle filiere di fornitura (dalle materie prime a numerosi semilavorati) il settore ne risente immediatamente. In terzo luogo il settore ha appena conosciuto un importante risveglio legato all’introduzione massiccia delle più moderne tecnologie nella produzione, dall’ “information and communication technology” sino all’uso dell’intelligenza artificiale per la navigazione, la guida autonoma e la prevenzione incidenti. Infine il settore è fortemente monitorato per via delle emissioni inquinanti dei veicoli ed è pertanto soggetto agli incentivi e ai vincoli imposti dalle pubbliche amministrazioni

Ebbene la ripresa del 2021, che è stata soprattutto segnata dal risveglio dei consumi e da tensioni nelle filiere di fornitura che non hanno potuto reagire al risveglio della domanda con medesima celerità nell’offerta, ha coinvolto in pieno -nel bene e nel male- il settore dell’auto fino a spingermi a considerarlo quale ideale indicatore delle possibili tendenze future di tutta l’economia!


Mentre non è possibile fare previsioni precise per l’andamento del prodotto globale lordo è invece possibile farlo per le vendite del settore auto (che sembrano poter procedere in crescita ancora a lungo a motivo del sostanziale aggiornamento delle tecnologie), per i prezzi (che sono già saliti negli ultimi mesi e che si prevede possano ancora crescere per effetto del rincaro della componentistica) e anche per la necessità di rinnovare il parco auto esistente alla luce dell’esigenza di ridurre le emissioni di gas-serra. L’acquisto dovuto alla necessità di aggiornamento tecnologico probabilmente riguarderà anche molti altri investimenti e beni di consumo durevole costituirà altrettanto probabilmente una delle principali leve della domanda.

PROFITTI IN CRESCITA

Ma non sono soltanto costi e prezzi di vendita a crescere in questo scorcio d’anno per l’industria automobilistica, bensì anche i profitti delle imprese. È notizia di questi giorni il pre-consuntivo di metà anno del gruppo Stellantis (Fiat-Chrysler + PSA) che ha totalizzato 5 miliardi in più di profitti nella prima metà del 2021 soltanto a causa degli aumenti dei listini di vendita!

Dunque se il settore dell’auto può funzionare da barometro dell’economia globale ecco che le previsioni per il prossimo anno possono diventare più puntuali: i prezzi finali saranno probabilmente in crescita più di quanto cresca effettivamente la domanda (causa rincari dei costi di materie prime e semilavorati: dunque inflazione), profitti però decisamente in crescita e dunque anche le valutazioni d’azienda potrebbero essere destinate a crescere.

Ma chi ne trarrà più profitti saranno proprio i produttori di tecnologie, che saranno imprescindibili fornitori praticamente di tutte le altre industrie.

In effetti gli stimoli monetari e fiscali hanno influito non poco nelle decisioni d’acquisto del cittadino moderno, così come è aumentata la quota di credito al consumo. Nell’auto ciò si è visto prima ma probabilmente anche negli altri settori il contenuto intrinseco di nuove tecnologie sta crescendo, così come la sostenibilità ambientale è divenuta più importante. Il mondo insomma continua ad accelerare il nostro cambiamento di abitudini e comportamenti: prima a causa della pandemia e oggi a causa della ripresa dei consumi.

Se vale per l’auto, allora probabilmente lo scenario ottimistico può valere anche per il resto dell’economia: moderata crescita, necessità di finanziamenti per sostenere nuove forme di condivisione della proprietà dei beni (pay-per-drive, leasing, noleggio operativo e car-sharing), inflazione dei prezzi, maggior attenzione all’ambiente e trionfo delle tecnologie. Grandi profitti per i produttori e grandi sussidi pubblici. Ma i consumi energetici dovrebbero crescere meno di quanto si possa oggi ritenere, ragion per cui il costo dell’energia non potrà mai andare alle stelle! Ecco il mix che potremo probabilmente osservare per l’economia globale nel corso del 2022.

Stefano di Tommaso




LA RIPRESA È GIÀ ALLE SPALLE ?

Segnali di ripresa dell’economia nazionale e di tutta quella europea arrivano un po’ da ogni dove in questi giorni e contribuiscono a migliorare le aspettative degli operatori economici, ancora fortemente provati dagli esiti del prolungato e ripetuto “lockdown”. L’Italia in particolare sta riprendendo fiato non soltanto al sud per il turismo trainato dai connazionali che non vanno all’estero, ma anche al nord, dove a farla da padrona ci sono soprattutto le imprese esportatrici delle cosiddette “4emme e 4effe”.
Anche l’indice PMI europeo lascia pensare che ce la stiamo mettendo tutta per riprenderci, ma le statistiche guardano soltanto il passato, rilevando una prima parte dell’anno in corso indubbiamente andata molto bene. Qualche considerazione di prudenza è invece d’obbligo per il prossimo futuro, in particolare per i mercati finanziari.

 

LA CLASSIFICA DELLA FONDAZIONE EDISON

La Fondazione Edison ha provveduto a stilare una sorta di classifica tra le principali economie mondiali, relativamente agli otto settori industriali qui citati:

Le quattro “F”: Fashion, Furniture, Food&Wine, Ferrari (cioè auto e moto sportive).

Le quattro “M” : Machinery, Metal products, Medicaments, Motor Yachts.

La classifica qui sotto riportata vede la Cina protagonista globale assoluta in questi settori (anche perché nel 2020 aveva ripreso a funzionare molto prima degli altri paesi e ha poco subìto la seconda ondata pandemica) ma al secondo posto c’è l’Italia, protagonista nelle produzioni più pregiate e a maggior valore aggiunto, e viene addirittura prima della Germania (che nel 2020 ha avuto meno morti e meno blocchi alla produzione delle merci).

La bilancia commerciale relativa ai settori industriali delle quattro effe e quattro emme per il primo trimestre del 2021 segna poi un ulteriore progresso del nostro paese, con 36,2 miliardi di attivo commerciale per il nostro Paese (se moltiplicato per 4 farebbero 145 miliardi di avanzo commerciale tendenziale nell’anno in corso) contro i 168,1 della Cina (che farebbero un avanzo tendenziale di 672 miliardi in totale nell’anno).

Occorre infine notare che le 4f+4m lasciano fuori dalla classifica molte altre attività economiche in cui l’Italia eccelle (e dove registra altri avanzi commerciali), a partire dalle attività di costruzioni generali fino alle specialità chimiche e alla cosmetica. Un bel risultato insomma rispetto alle drammatiche indicazioni degli economisti emesse negli anni precedenti, i quali davano per spacciata l’industria nazionale.

L’INDICE P.M.I.

L’industria insomma anche per quest’anno promette di portare buoni risultati alla bilancia commerciale dell’Europa (e auspicabilmente anche del nostro Paese) e ciò viene ulteriormente certificato dall’ultima rilevazione “flash” dell’indice P.M.I. (Purchasing Manager’s Index) che lo conferma: a Luglio esso indica una crescita economica in corso su base mensile al ritmo più alto che si è registrato da oltre un ventennio a questa parte. L’indice ha segnato per Luglio il valore cumulato di 60,6 per l’intera Eurozona, in rialzo rispetto al valore di 59,5 di Giugno.

Gli indici PMI costituiscono un indicatore economico rilevato mensilmente molto significativo dell’andamento dell’economia poiché è basato su rapporti e sondaggi raccolti dall’ “Institute for Supply Management” che per elaborarlo contatta ogni mese i responsabili degli acquisti, ovvero coloro che ordinano materiali e servizi destinati alla produzione aziendale, recapitando loro un questionario mensile ed elaborandone le risposte che riceve. La richiesta viene inviata ad alcune centinaia di imprese private di ogni settore dell’economia per ogni paese del mondo.

Per quanto riguarda l’Eurozona, gli indici PMI vengono rilasciati dall’istituto IHS Markit per ciascuna delle singole economie e relativamente al blocco complessivo dei Paesi dell’Unione. Come spesso accade anche per altri indici, sono talvolta rilasciati in versioni differenti (generalmente 2) in cui la prima, detta anche versione “flash”, che rappresenta una “stima” (e che generalmente tende ad essere la più impattante sui mercati finanziari) e la seconda volta in una versione “rivista” e più precisa.

A seconda della fiducia nell’andamento del mercato e dei relativi prezzi, i responsabili degli acquisti (talvolta sono gli imprenditori stessi) essi si orientano nei loro ordini e, rispondendo al questionario dell’ISM, forniscono un quadro molto aggiornato delle aspettative diffuse tra le imprese. Le domande poste includono il numero dei nuovi ordini, della produzione del settore, delle consegne dei fornitori, delle merci in magazzino e i dati relativi all’occupazione. Le risposte vengono ponderate e forniscono un punteggio medio sul PMI mensile. Un punteggio superiore a 50 indica una crescita del settore, inferiore a 50 indica una decrescita, mentre un punteggio pari a 50 indica che la situazione è rimasta identica al mese precedente. Il valore rilevato di quasi 61 punti non soltanto è tra i più alti registrati, ma è anche molto superiore a quello medio di 50, indicando con ciò una forte fiducia degli operatori per il prossimo futuro.

A livello settoriale il PMI dei servizi europei è salito parecchio a luglio toccando il livello (che non si vedeva da 15 anni) di 60,4 punti contro i 58,3 punti di Giugno, mentre quello manifatturiero ha rintracciato leggermente con 62,6 punti contro il record di 63,4 di giugno, anche a causa dei tempi e delle difficoltà registrate nelle filiere globali di fornitura di materiali e semilavorati. Record per la Germania, dove l’indice complessivo è arrivato a Luglio a 62,5 contro i 60,1 punti del mese precedente, mentre a sorpresa fa molta fatica la ricrescita economica delle imprese in Francia, con un 56,8 complessivo contro i 57,4 punti di Giugno.

In difficoltà anche l’economia britannica, probabilmente a causa delle nuove ondate di contagio, con una rilevazione di 57,7 punti, in discesa rispetto ai 62,2 di Giugno. Per l’Italia invece io non sono riuscito a trovare alcuna indicazione (ed è strano perché è necessariamente noto se è stata diffusa la media europea), ma il buon senso porta a pensare che evidentemente la rilevazione “flash” (come sopra definita) sarà probabilmente una via di mezzo tra quella tedesca e quella francese.

LE PROSPETTIVE DI CRESCITA

Secondo le fonti ufficiali la crescita economica per il nostro Paese sarà del 4,7% nel 2021 e del 4,6% nel 2022, con un più modesto 2,1% previsto per il 2023. Il ministro Franco invece proietta la crescita del Prodotto Interno Lordo (P.I.L.) Italia del 2021 “oltre il +5%” ma non cita né fonti ufficiali né il paragone con la ben più importante decrescita subìta l’anno precedente (-8,9%). Ma la variante Delta del Covid e le nuove misure restrittive che i vari Paesi dell’Unione stanno tornando a introdurre potrebbero guastare la festa per i successi relativi alla prima parte dell’anno in corso. Inutile dire perciò che, con i nuvoloni che si addensano all’orizzonte, quel +5% del PIL resterà probabilmente solo una bella speranza.

C’è però da far notare che se il P.I.L. italiano non crescerà tanto quanto vogliono farci credere, invece l’industria nazionale può fare meglio. Anche perché storicamente mostra forte interdipendenza con quella tedesca di cui è spesso fornitrice o concorrente: se le prospettive della Germania non sono malvagie, allora probabilmente anche le imprese manifatturiere italiane se la caveranno. Anche per questo si prevede che la disoccupazione terminerà l’anno 2021 con una discesa all’ 8,1% complessivo (ma ricordiamoci che è calcolata sul rapporto tra coloro che cercano lavoro e il totale della forza lavoro, non corrisponde dunque al totale complessivo degli inoccupati che è molto più alto), e dovrebbe flettere ancora al 7,8% nel 2022 e al 7,5% l’anno dopo.

L’inflazione stimata a fine 2021 è stata simbolicamente rivista all’1,9% (ma è una media ISTAT, cioè molto edulcorata) e poi di nuovo in lieve ribasso (all’1,5%) l’anno dopo. Questo è quindi un dato che probabilmente verrà presto corretto all’insù dalle future rilevazioni.

Al di là perciò di quello che scrivono i ministri dei governi, gli istituti di statistica, gli economisti e le banche centrali, la sensazione oggi è quella di una rapida accelerazione del susseguirsi dei cicli economici in questo periodo storico. Dopo la lunga ondata di ricrescita economica globale che abbiamo visto negli anni 2010-2019 è seguìto un crollo al fulmicotone dell’output produttivo nella prima parte del 2020, poi un rapido rimbalzo tra la fine dell’anno e l’inizio del 2021 ma questo rischia tuttavia di esaurirsi quasi altrettanto in fretta. È lecito chiamare “cicli economici” tali grandi oscillazioni ? Difficile dirlo oggi, soprattutto con i rischi espliciti di dover ricadere sotto il peso di ulteriori ondate pandemiche e conseguenti nuove restrizioni alla libera circolazione.

COME POTRANNO REAGIRE I MERCATI?

Inutile dire che i mercati finanziari tendono ad anticipare decisamente gli andamenti dell’economia reale, come si può ben leggere nel grafico didascalico qui sotto riportato:

Se dunque siamo oggi già nella fase in cui sono le materie prime a crescere di prezzo, probabilmente ci stiamo avvicinando rapidamente al picco di periodo (il “ciclo” in corso dunque è estremamente veloce, come si può dedurre dal fatto che la rapidissima decrescita del P.I.L. mondiale 2020 è stata seguìta da un mero rimbalzo nel 2021 il quale sembra oggi già in corso di esaurimento).

E se ci avviciniamo troppo in fretta al massimo di periodo della crescita dell’economia reale, allora altrettanto probabilmente ci stiamo avviando verso una fase di instabilità per i mercati finanziari per la seconda parte dell’anno, perché questi ultimi non potranno che anticipare la fine della fase espansiva in corso.

Instabilità però non vuol dire declino, anzi: è possibile che per una serie di motivi già indicati nei miei articoli precedenti (ma soprattutto perché continuerà l’immissione globale di liquidità sui mercati) i listini azionari possano ancora guadagnare fino a fine anno qualche punto in media, nonostante l’economia reale possa non proseguire la sua crescita e nonostante l’accresciuta volatilità.

Ancor peggio si può dire però delle quotazioni dei titoli a reddito fisso: più probabilmente che non i listini azionari esse dovranno ritracciare parte del loro recente percorso di crescita perché le prospettive d’inflazione globali porteranno quasi di necessità ad una crescita dei tassi d’interesse. Si potrà perciò vedere nei prossimi mesi molta volatilità (che in certi casi potrebbe significare tempesta, ma anch’essa al massimo di breve periodo) e qualche calo per il comparto obbligazionario.

L’orizzonte visibile però si ferma probabilmente a fine anno, perché quel che succederà poi dipenderà molto dall’andamento dell’economia reale: tornerà a stagnare (nonostante l’inflazione dei prezzi) oppure a crescere nuovamente? I profitti delle imprese saranno cospicui? E in quali settori saranno migliori? I listini azionari dipendono certamente dall’andamento dei tassi di interesse e della liquidità in circolazione, ma anche e soprattutto dalle attese generali sui rendimenti delle società quotate e, ultimamente, sempre più anche dai loro dividendi. Che sino ad oggi non hanno deluso nessuno.

Stefano di Tommaso




LAMPI E TUONI DI MEZZA ESTATE

Mentre il numero di contagi da COVID torna nuovamente a crescere nel mondo fino a far ipotizzare una nuova grande ondata pandemica, le borse valori sono tornate a scendere, nonostante le apparenze di buone notizie per l’economia globale e di un’inflazione galoppante. Al tempo stesso i tassi di interesse a lungo termine sono addirittura in flessione. Come interpretare questi fatti così discordanti? Probabilmente in modo neutrale, sebbene questa sia soltanto l’incerta conclusione di una lunga serie di ragionamenti…

 

LA STAGNAZIONE È ALLE PORTE


Sebbene nessuno possa affermare certezze in una congiuntura così articolata anticipiamo qui la conferma dei sospetti già avanzati su queste colonne alla fine dello scorso mese di Giugno: siamo probabilmente sull’orlo di una rara combinazione di prospettive di stagnazione economica nel medio-lungo termine che, miscelate con quelle piuttosto evidenti di rialzo dei prezzi (e cioè di svalutazione monetaria) configurano il pericolo della “stagflazione”. Ovviamente questa di per sé è una prospettiva poco allettante.

Le premesse perché ciò avvenga ci sono tutte: lo shock da eccesso di domanda di beni e servizi, verificatosi dopo la cessazione delle restrizioni alla libera circolazione delle persone è stato accompagnato da una certa rigidità della loro offerta, dai numerosi effetti degli stimoli monetari messi da tempo in campo dalle banche centrali e dalla scarsa corrispondenza alle medesime di altrettante politiche fiscali espansive da parte dei governi dei principali paesi industrializzati.

La perversa combinazione che si è conseguentemente creata, di ritorno alla crescita della domanda, di relativa scarsità dell’offerta, contemporanea alle transizioni tecnologica ed ecologica in corso, con le ovvie tensioni sul fronte della disoccupazione che cresce e dello spiazzamento di interi comparti industriali dovuto alla necessità di ridurre le emissioni inquinanti, e dunque con le preoccupazioni per un incerto futuro per buona parte della popolazione attiva, ha fatto il resto.

E LE BORSE SCENDONO

I mercati finanziari non possono non prendere atto della difficile congiuntura economica e non possono che comportarsi di conseguenza, registrando ovvie incertezze per i posti di lavoro e dunque per le prospettive di reddito disponibile, ma anche quelle altrettanto ovvie di risalita dei prezzi, che hanno portato in apparente leggera crescita i consumi globali, ma al tempo stesso conteggiando correttamente i medesimi, al netto dell’inflazione attesa, a vederne l’andamento negativo.

Anche il mercato dei titoli a reddito fisso ha mostrato aspetti in apparenza contrastanti: da un lato la discesa dei rendimenti poteva far immaginare la possibilità di un ulteriore avanzamento dei corsi azionari, ma dall’altro lato il motivo per cui ciò sta avvenendo in realtà ne ha provocato l’arretramento, dal momento che la discesa dei tassi a lungo termine incorpora attese di sostanziale debolezza dell’economia nel lungo termine.

Nemmeno l’aspettativa di ulteriori miglioramenti dei profitti aziendali delle principali società quotate in borsa (che normalmente è una notizia positiva per i titoli delle medesime e dunque per i listini azionari) deve farci illudere: la lettura del fenomeno da parte della maggioranza degli analisti ed osservatori (il cosiddetto “consensus” di mercato) è purtroppo all’opposto.

PROFIT TAKING

La perversa combinazione dell’elevatissimo livello già raggiunto in precedenza dai listini borsistici (più che altro dovuto all’eccessiva liquidità in circolazione), ma in particolare per la sua articolazione che ha forse eccessivamente favorito il comparto tecnologico, del rischio percepito che tali profitti non possano continuare molto a lungo se il quadro economico complessivo volgerà al ribasso, e del fatto che tali profitti -una volta scontati dell’inflazione in arrivo- sono meno rosei, ha portato il “consensus” di mercato a porsi più domande che risposte e a prendere beneficio dei guadagni fino a ieri realizzati in attesa di miglior chiarezza circa le prospettive.

Occorre infatti tenere presente che a fine giugno 2021, dopo gli ultimi ribassi delle borse, l’indice globale complessivo risultava decisamente al rialzo rispetto all’inizio dell’anno (+ 13%).

L’INFLAZIONE SARÀ ANCHE TRANSITORIA, MA…

L’inflazione viene definita “transitoria” dalle banche centrali ma d’altra parte nessuno è davvero pronto a metterci la mano sul fuoco! Gli ultimi numeri disponibili parlano di una fiammata inflazionistica media dell’ultimo mese intorno allo 0,5%, pari a circa il 6% annuo. Anche se nei prossimi mesi tale cifra tornerà a scendere, non è escluso che il prezzo del petrolio resti intorno ai livelli già raggiunti (con la conseguente pressione inflazionistica che si propagherà a causa del rialzo del costo dell’energia) e che comunque -se anche i prezzi continueranno a crescere molto meno in futuro- difficilmente questi torneranno indietro rispetto ai livelli attuali. Se dunque l’economia americana davvero crescerà dell’8% quest’anno c’è il serio rischio che in termini reali tale numero strabiliante sia da limare di quasi due terzi!

Proviamo ora a paragonare il 4-6% di inflazione attesa in America (più bassa nel resto del mondo, ma ciò dipende anche dallo sfasamento temporale e dalle modalità di rilevazione dell’andamento dei prezzi) con il rendimento tendente allo zero dei titoli a reddito fisso con le migliori caratteristiche di “rating” (cioè con il minor rischio) e con i livelli intorno all’1,3% dei titoli di stato americani a 10 anni.

Quel ne salta fuori da tale comparazione è da un lato la percezione di un rendimento reale (cioè al netto dell’inflazione) fortemente negativo per l’anno in corso, ma dall’altro anche il fatto che il mercato finanziario non crede in una crescita economica significativa nei prossimi anni! In questa ottica l’attuale crescita economica potrebbe configurarsi come un mero rimbalzo tecnico, cui non seguirà una continuità dei principali indicatori dell’economia bensì addirittura forse il contrario: una nuova contrazione.

Ovviamente tali estrapolazioni vanno prese molto con le pinze, anzi a pensarci bene sarebbero quasi da rigettare, se comparate ad altre considerazioni, meno tragiche di quelle indotte dall’analisi dei prezzi sui mercati obbligazionari: l’eccessiva liquidità immessa dalle banche centrali ha sicuramente distorto le prospettive, riducendone al ribasso i rendimenti. Inoltre il mercato azionario scende più per il timore che i prezzi dei titoli tecnologici e bio-medicali abbiano corso troppo negli ultimi tempi (e per il fatto che la loro presenza stia divenendo maggioritaria nei listini borsistici) che non perché qualcuno si aspetti davvero un grande crollo delle quotazioni dei titoli azionari. Anzi: nessuno se lo aspetta davvero.

I MOTIVI DI OTTIMISMO

Gli analisti sanno che le banche centrali non potranno smettere facilmente di intervenire sui mercati comperando titoli a reddito fisso (e dunque limandone i rendimenti) per molti motivi: dalla necessità di sostenere i debiti pubblici a quella di mantenere una rotta costante in presenza di ancora grande disoccupazione e relativa debolezza dei prodotti interni lordi delle principali nazioni. E sanno che alle politiche di stimolo monetario dovranno accompagnarsi anche quelle fiscali delle nazioni, con i relativi investimenti pubblici e infrastrutturali, che controbilanceranno le potenziali tendenze negative del ciclo economico.

Gli analisti sanno anche che di conseguenza saranno principalmente i dividendi promessi dai titoli azionari a generare in futuro un reddito adeguato per i fondi pensione, piuttosto che le magrissime cedole, soprattutto al netto dell’inflazione. E sanno anche che il flusso costante di innovazioni tecnologiche e biomediche continuerà a indurre crescita economica e -probabilmente- ulteriori ribassi nei prezzi di beni e servizi che oggi non vengono ancora forniti in maniera completamente automatizzata: una cosa che può essere percepita come elemento deflattivo ma in realtà provoca un implicito miglioramento nella capaciti reddito dell’uomo della strada.

Gli analisti si aspettano inoltre una serie importante di investimenti -pubblici e privati- sul fronte delle energie rinnovabili, dell’ecologia e della transizione “verde” che indubbiamente porteranno uno stimolo positivo all’economia globale. E si aspettano che, di conseguenza, l’economia planetaria ridurrà in futuro la sua dipendenza dai combustibili di origine fossile e dall’andamento dei loro prezzi.

IL PROGRESSO È SOLTANTO TECNOLOGICO?

Anche i progressi tecnologici contribuiranno -nel lungo termine- a far scendere il prezzo delle cure mediche e dei trattamenti farmacologici, apportando miglioramenti impliciti al tenore di vita dell’umanità che probabilmente saranno difficilmente registrati dalle statistiche economiche.

Dunque le prospettive reali dell’economia non sono affatto così grigie, né quelle delle borse sono necessariamente in discesa per i prossimi mesi, anzi! L’ennesima ondata pandemica farà forse altri danni, alcuni dei quali non sono ancora stati correttamente previsti dagli economisti. Ed è altrettanto probabile che la grande incertezza generale possa alimentare nuova volatilità sui mercati finanziari. Ma questo non significa che gli stessi dovranno subire tracolli, anzi! È relativamente probabile che in media possano tornare al segno positivo da qui a fine 2021.

L’unica cosa che perciò è certa è l’odierna incertezza generale, unita ad una relativa instabilità di fondo e ad una maggiore difficoltà nell’interpretare correttamente l’andamento dei cicli economici e quello delle tendenze generali delle borse. Ma da qui ad affermare che perciò tutto andrà a rotoli ce ne passa…

Nel 1836 Giacomo Leopardi (La ginestra) dubitava con malinconico sarcasmo delle “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità. Ma non era soltanto un suo scetticismo nella generale glorificazione del “progresso” come soluzione di tutti i problemi e portatore di universale felicità, bensì lucido realismo circa la condizione umana: il progresso incede nel bene e nel male, e con esso avanza nel tempo anche l’economia. E questo non significa necessariamente un maggior benessere ma con ogni probabilità nemmeno il contrario.

Stefano di Tommaso