L’ECONOMIA ACCELERA, O FRENA?

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La domanda può sembrare bislacca ma non è priva di fondamento, dal momento che ci sembra di assistere ad una sorta di “guerra delle statistiche”. L’economia italiana a leggere le prime pagine dei giornali non ha quasi mai avuto prospettive così floride, mentre i governi di tutto il resto del mondo sembrano essere sull’orlo di una crisi di nervi. Come interpretare il clamoroso divario? Per chi ha pazienza di arrivare a leggere l’articolo fino in fondo, un paio di spiegazioni ho provato a fornirle…

 

CINA E AMERICA FRENANO

Il Sole 24 Ore di Domenica 17 Ottobre‘21 titola a tutta pagina: “nel 2021 il Pil cresce oltre quota 6%“ mentre da ogni parte del mondo arrivano preoccupazioni e segnali d’allarme circa la brusca frenata che sta avendo l’economia mondiale. Da ultima quella della Cina, la cui economia è cresciuta meno delle attese nell’ultimo trimestre soltanto dello 0,2% sul trimestre precedente. L’economia americana, ad esempio, è di nuovo quasi al palo, come si può leggere inequivocabilmente dal grafico qui sotto riportato:

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Questo grafico, pubblicato da Bloomberg il 14 ottobre scorso ma riferito alla settimana precedente è addirittura superato: l’aggiornamento del 15 Ottobre rileva infatti che il medesimo indice è ulteriormente sceso di un altro 0,1% . Il cosiddetto “GDPNow”, relativo alla crescita economica Usa del terzo trimestre che due mesi fa era al 6%, oggi è all’1,2% e si teme che sia in ulteriore contrazione. Se poi vogliamo guardare al di quà dell’oceano nella vicina Germania, le prospettive non vanno molto meglio: l’attesa per fine anno del Pil tedesco sono già passate dal +3,7% al +2,4% e anche qui si teme di dover segnare presto altre riduzioni nell’ultimo periodo dell’anno.

L’ITALIA SI LIMITA AL RIMBALZO

In Italia siamo in un’isola felice allora? La risposta è francamente no, dal momento che l’eredità negativa che il governo Conte ci ha lasciato per il 2020 (quasi meno 9% del PIL e una serie infinita di problemi irrisolti e soltanto rinviati) forse la recupereremo soltanto verso la fine del 2022, come si può leggere dalle stime del Centro Studi di Confindustria, riportate nella tabella qui sotto:

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Stiamo infatti semplicemente rimbalzando dopo il tonfo dell’anno precedente, come farebbe persino un gatto morto lanciato dalla finestra. Altri Paesi nel mondo sono caduti meno di noi con il lockdown (ad esempio la Germania) e hanno fatto prima di noi il rimbalzo, guadagnando posizioni preziose nella competizione internazionale, quella che forse ai politici interessa poco ma all’economia nazionale invece si, dal momento che l’economia del nostro Paese si regge soprattutto sulle esportazioni.

Ma oggi quegli stessi paesi che hanno performato meglio di noi fino all’estate, hanno di nuovo il fiato corto, a causa di una combinazione di fattori negativi quali: l’inflazione, la scarsità i ritardi e i maggiori costi nella fornitura di materie prime e semilavorati, la nuova frenata dei consumi individuali e una maggior cautela negli investimenti industriali. Tutte cose che si può ragionevolmente temere siano presto in arrivo anche a casa nostra. Siamo soltanto sfasati dal punto di vista temporale e questo, per una volta, ci favorisce (almeno nelle statistiche).

UNO SFORZO MEDIATICO

È evidente tuttavia che Confindustria, come pure il Governo, stanno facendo uno sforzo per infondere ottimismo e invitano le imprese a investire il più possibile, segnalando la congiuntura favorevole. E’ un lodevole tentativo di propagare il rilancio (e soprattutto la sua percezione) cui deve andare il plauso degli Italiani se vogliamo tornare a sperare di dimenticare gli anni bui che ci hanno appena lasciato.

In effetti l’Italia era rimasta così tanto indietro negli anni precedenti che oggi è lecito sperare -con gli opportuni scivoli e incentivi- che la ripresa in corso non si fermi tanto in fretta. E poi stavolta le politiche economiche sembrano rivolte nella direzione più corretta, che è quella di favorire gli investimenti (essenziali per alleviare la disoccupazione) e di detassare le innovazioni e le ristrutturazioni.

Anche dal punto di vista del rilancio degli investimenti energetici, della transizione ecologica e dell’innovazione tecnologica le risorse del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) sembrano accompagnate da una indubbia mano forte nelle politiche del governo affinché le risorse europee non vengano sprecate ancora una volta.

I PROFITTI NON CRESCONO PIÙ

Dunque niente male. Ma l’economia globale lancia al tempo stesso segnali di forte preoccupazione, tali da rischiare di mandare all’aria buona parte degli sforzi in corso. Non soltanto l’economia ha frenato bruscamente in quasi tutto il resto del mondo già alla fine del terzo trimestre dell’anno, ma anche il sistema industriale, rappresentato innanzitutto dai colossi multinazionali quotati a Wall Street, mostra segnali di stanchezza, con la previsione di una decisa riduzione della crescita dei profitti alla fine di Settembre, che fino all’inizio dell’estate sembrava invece impetuosa, come si può leggere nel grafico qui riportato:

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I motivi della frenata sono numerosi ed eterogenei (dalla compressione dei margini industriali derivante dal rialzo dei costi -anche energetici- e dai ritardi nei processi produttivi, fino alla scarsità di disponibilità di manodopera qualificata e al rallentamento degli investimenti che ne consegue).

Pertanto difficilmente si può classificare tali motivi come “passeggeri”: sono soprattutto le filiere di fornitura di materie prime e semilavorati ad essere sempre più sotto pressione, anche in funzione delle tensioni geopolitiche, che con l’arrivo di Biden alla presidenza americana si sono soltanto moltiplicate, facendo temere il peggio per il prossimo futuro.

In effetti i tempi di attesa nelle forniture industriali non soltanto si sono dilatati moltissimo a partire dall’estate, ma hanno poi continuato ulteriormente a crescere, come si può leggere dal grafico qui riportato (relativo ai soli microchip, i quali però sono oramai dappertutto):

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A Settembre eravamo arrivati a quasi 22 settimane di arretrato e non ci sono al momento segnali di miglioramento, nonostante il rallentamento nel frattempo intervenuto nella produzione e dunque anche nei loro ordinativi. L’industria automobilistica, come pure quella degli elettrodomestici e degli articoli elettronici, è in ginocchio per questa ragione. E le consegne di prodotti finiti sono calate di circa un quinto del totale!

IL RISCHIO DI STAGFLAZIONE

Del pari, come non bastasse, il costo delle materie prime continua a crescere, come rivela il grafico qui riportato, relativo all’indice dei prezzi delle materie prime (il“Commodity Research Bureau BLS/U.S. Spot Raw Industrials Index”):

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Se ci aggiungiamo che l’indice medesimo è relativo ai prezzi espressi in Dollari americani, i quali si sono rivalutati anche loro, si può comprendere il livello di allarme che, oltralpe e oltreoceano, viaggia sulla bocca di tutti. Di seguito l’andamento dell’Euro contro il suddetto Dollaro, che si è rivalutato del 6-7%, dopo il doppio massimo (classica figura che segnala l’inversione di un trend) segnato durante l’estate:

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Per non parlare della recrudescenza pandemica in corso (di cui da noi stranamente non sembra esserci traccia), in certa misura ampiamente attesa per l’autunno (per fattori stagionali) ma che stavolta sembrava dovesse invece risparmiare almeno una parte della popolazione mondiale a causa dell’incremento di vaccinati. È evidente che -in tutto il mondo- i vaccini sono un bel business ma non funzionano sempre, e che di conseguenza le assenze sul lavoro e i ricoveri ospedalieri contribuiscono anch’essi a frenare la crescita economica e i profitti aziendali!

I timori complessivi fuori dei nostri confini nazionali insomma non sono soltanto relativi ad una possibile precoce inversione del ciclo economico, ma addirittura di arrivare a piombare in una vera e propria trappola da “stagflazione” (stagnazione+inflazione) che spiazzerebbe completamente la posizione delle banche centrali, fino a ieri i principali alfieri degli stimoli alla ricrescita economica. Come si può leggere dal grafico qui riportato, in Germania i prezzi all’ingrosso sono arrivati a crescere del 13% al 30 Settembre (e del 18% rispetto ai minimi dell’anno):

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In Italia invece il presidente di Confindustria -Carlo Bonomi- parla di “rischio prezzi per ora contenuto”! Cosa sta succedendo? L’ondata di buone notizie, persino talvolta false e tendenziose (come quella relativa alle materie prime) fa pensare ad un supporto senza quartiere all’attuale governo Draghi, già da tempo definito “il migliore di quelli possibili”, onde evitare di perdere i contributi europei.

LE RIFORME ANCORA DA FARE

Sono infatti 42 le riforme ancora da far passare in Parlamento negli ultimi due mesi e mezzo dell’anno, sperando che nel frattempo le tensioni politiche in crescita dopo le elezioni amministrative non arrivino a bloccarle del tutto. Senza quelle riforme è piuttosto probabile che succeda all’Italia ciò che la Commissione Europea ha già fatto con l’Ungheria di Orban: bloccare i fondi! E quelle riforme corrispondono ad una cura da cavallo per il nostro Paese, utile si, ma non priva di ripercussioni anche sociali (si pensi solo all’allungamento dell’età pensionabile, all’incremento degli estimi catastali e all’inasprimento delle normative sulla crisi di impresa).

D’altra parte con l’arrivo del nuovo governo in Germania gli acquisti di titoli di stato da parte della Banca Centrale Europea sono di nuovo messi in discussione e l’Italia è tornata ad essere un sorvegliato speciale. E Draghi vuole evitare che qualcuno al nord del continente pensi che non stia facendo tutto il possibile. La grancassa che stiamo ascoltando insomma sembra da un lato ricordare al resto d’Europa i clamorosi risultati di questo governo “di transizione” e dall’altro lato sembra preludere alla necessità di provocare ancora una volta uno scossone importante non appena si materializzeranno anche nelle statistiche le problematiche già viste all’estero, pur di mantenere la rotta sul fronte delle riforme necessarie per portare a casa i contributi europei!

Stefano di Tommaso




IL PRIVATE EQUITY PAGA PIÙ CARO

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Il Private Equity paga di più in tutto il resto del mondo. Succederà anche da noi? L’auspicio nasce dalla considerazione -generalmente valida- che ciò che succede altrove nel mondo prima o poi accade anche a casa nostra. Ebbene: le grandi case di investimento di capitali privati negli ultimi mesi hanno alzato la posta in gioco pur di aggiudicarsi il controllo delle società quotate e investire la grande liquidità di cui dispongono. E probabilmente ciò risponde tanto alla logica del mercato finanziario quanto all’esigenza di un cambio di passo perché il Private Equity e il Venture Capital crescano anche in Italia come hanno già fatto nei paesi più sviluppati.

 

Su questo tema un recente articolo del Financial Times parla molto chiaro (qui sotto il grafico pubblicato insieme all’articolo dove si fa notare che in media (tanto per l’Europa quanto per l’America) il prezzo offerto in operazioni di buy-out per le società quotate è intorno al 45% più alto rispetto alla media delle quotazioni dell’ultimo mese.

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UNA FORTE CAPACITÀ DI GENERARE VALORE

Il fenomeno è vistoso perché rivela innanzitutto una forte capacità di generare valore da parte dei gestori dei fondi di private equity (p.e.) rispetto a quella del management delle imprese-obiettivo, e anche rispetto alla capacità di intervenire nella governance delle società quotate da parte degli investitori istituzionali che normalmente investono. Il rischio evidente che emerge dal forte premio che spesso viene pagato è quello di una bolla speculativa, derivante dalla necessità per il p.e. di investire i capitali ottenuti in gestione e dunque dalla propensione a pagare di più.

Ovviamente si potrebbe obiettare che tali proposte (quelle di buy-out) vengono rivolte alle imprese quotate laddove c’è un’occasione da cogliere, un prezzo troppo basso espresso dal mercato azionario che non rispecchia i fondamentali dell’impresa, un’arbitraggio da effettuare. Il p.e. normalmente acquisisce imprese non quotate oppure le “de-lista” dopo l’acquisizione, perché solo in tal modo può aver le mani libere per creare valore o riscoprire qualità nascoste delle imprese.

LE VALUTAZIONI TORNANO A MOLTIPLICATORI CRESCENTI

E a ragione, ma certo negli ultimi anni i prezzi riconosciuti dal p.e. per acquisire la maggioranza delle imprese-obiettivo è risultato man mano crescente, e non soltanto a causa del fatto che la liquidità a disposizione del private equity continua ad aumentare ma anche perché i tassi d’interesse scendono e dunque salgono più che corrispondentemente le valutazioni aziendali.

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A metà Luglio 2021 si è registrato un record di operazioni di fusioni e acquisizioni: 826 secondo l’osservatorio della SDA Bocconi, di cui 268 condotte da fondi di p.e., contro un totale del 2020 di 1025 con 274 condotte dal p.e. Anche i prezzi pagati sembrano in crescita con un valore mediano (il più numeroso) pari a 7.5 volte il margine operativo lordo (ebitda) per il totale delle operazioni osservate, ma il p.e. sembra aver pagato in media 9 volte l’ebitda, dunque significativamente di più. Gli investimenti del p.e. in Italia nel primo semestre del 221 si concentrano in due fasce di valora d’azienda (enterprise value): quella tra i 25 e i 50 milioni dove si sono rivolti capitali per il 20% del totale, e quelle tra i 50 e i 100 milioni, per le quali si sono effettuate operazioni nel 19% dei casi.

È da considerare normale questo maggior valore? Probabilmente si: quando il p.e. investe crea numerosi condizionamenti nel management e nella governance della società (o per gli azionisti originari, che spesso rimangono in quota) : la leva finanziaria cui sono sottoposte le imprese acquisite, la necessità di accelerare e fare acquisizioni per creare valore, la necessità di pianificare il disinvestimento e dunque spesso la cessione integrale dell’azienda acquisita. Tutto questo ha inevitabilmente un prezzo.

Ma c’è anche un’altra ragione: il p.e. ha messo oramai a punto una serie di metodologie per generare nuovo valore nelle imprese acquisite che permette di proiettare il valore pagato in acquisizione come parte del valore totale che ritiene di poter generare dalle imprese-obiettivo. Dunque il riferimento che gioca l’investimento dei p.e. sembra essere più il valore-obiettivo che ritiene possibile generare a 4-5 anni data, che non quello di mercato al momento dell’acquisizione. Talvolta questi due valori possono divergere sensibilmente.

E C’È SPAZIO PERCHÉ LE VALUTAZIONI CRESCANO ANCORA

Lo sconto rispetto al valore-obiettivo costituisce la plusvalenza teorica del p.e., vale a dire il rendimento del capitale investito. Ma anche quest’ultimo inizia a ragionare su valori più limitati quando il panorama dei tassi d’interesse scende ai livelli attuali! Se i tassi d’interesse privi di rischio erano in passato intorno al 3-4% e il p.e. si poneva un rendimento-obiettivo del capitale di rischio del 20-25% annuo nei 4-5 anni (cioè più del raddoppio in totale), oggi che i tassi d’interesse sono scesi all’1% in media nel mondo, anche il rendimento-obiettivo dovrebbe corrispondentemente ridursi.

Difficile dire di quanto, ma certo gli investitori che scelgono di allocare parte dei loro capitali in un fondo di private equity possono ugualmente dirsi più che soddisfatti se il premio per l’illiquidità e il rischio restano ugualmente 8-10 volte superiori al rendimento privo di rischio, anche se questo significa ottenere un rendimento del capitale investito decisamente inferiore agli obiettivi del passato. Soprattutto i privati, che stanno progressivamente incrementando questa asset class e che in passato hanno sempre avuto alternative inferiori a quelle a disposizione degli investitori istituzionali.

Di seguito un grafico che indica la crescente liquidità disponibile (dry powder) del Private Equity in Europa:

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Dunque per per il p.e. non soltanto si pone la possibilità teorica di pagare di più di quanto è disposto a riconoscere il resto del mercato per le aziende-obiettivo, in funzione delle attese di creazione di valore, ma ciò è anche giustificato sia perché talvolta serve la leva del prezzo per potersi aggiudicare un affare, sia per il fatto che può oggi far felici i propri investitori con una plusvalenza teoricamente inferiore a quella che necessitava in passato.

Quello che segue è un grafico relativo all’andamento del CAMBRIDGE ASSOCIATES PRIVATE EQUITY INDEX, che indica il tasso interno di rendimento del capitale basato su dati trimestrali forniti da quasi 2.300 fondi di private equity (buyout e growth) tra il 2000 e il 2020. Il paragone è con lo STANDARD&POOR TOTAL RETURN INDEX:

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SOPRATTUTTO IN ITALIA

D’altronde nel nostro Paese il p.e. deve ancora svilupparsi davvero. Per fare qualche paragone: secondo l’Aifi – l’associazione che raduna i principali operatori di venture capital e di private equity – i soggetti economici nostrani che stanno dietro a tutti i fondi basati in Italia sono soltanto una trentina, contro i 150 della Gran Bretagna, i 110 della Francia e i 160 della Germania (molti dei quali operano anche stabilmente in Italia).

E tra il 2016 e il 2020, nel nostro Paese l’ammontare complessivamente investito da questi investitori è stato soltanto di 1,2 miliardi di euro, a fronte di 6,4 miliardi nel Regno Unito, 8,3 miliardi in Francia e 8 miliardi in Germania. Nel 2021 dovrebbe finalmente essere superato il miliardo di euro di investimenti in venture capital. La storia è, dunque, ancora tutta da scrivere.

La nostra vera rivoluzione industriale probabilmente è ancora da scrivere. Gli investitori di venture capital così come di private equity possono oggettivamente essere protagonisti tanto di una nuova stagione di start-up innovative quanto del cambiamento di paradigma delle vecchie imprese familiari italiane. E per finanziare le vere innovazioni scongiurando il pericolo che corrano all’estero appena vedono che ce la possono fare o per convincere chi deve cedere l’impresa che la famiglia controlla da due generazioni, è piuttosto normale dover alzare il prezzo!

Stefano di Tommaso




FOTOGRAFIA: INVESTIRE COLLEZIONANDO

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Il mercato dell’arte e fotografia dipende da una serie di molti fattori. Possiamo definirlo un mercato complesso e particolarmente diverso da quello finanziario. Per investire in arte, pertanto, non è sufficiente saper riconoscere un’opera e stimarne il possibile valore economico, ma bisogna soprattutto conoscere il mercato e comprendere i meccanismi economici su cui si regola.

 

Per quanto concerne la fotografia, anch’essa è una forma d’arte nota e apprezzata, ma più recente nel mercato,  anche se l’interesse sta crescendo notevolmente e sempre più nuovi collezionisti considerano questo settore una nuova opportunità di investimento. Se per le opere d’arte si parla di autentico, in fotografia – essendo riproducibile – si parla di edizione limitata, ossia quante volte è stata stampata un’immagine, meglio se le copie sono firmate o timbrate dall’artista che ne autenticano la paternità. Mentre le prove d’artista sono quelle copie che non entrano prettamente nel mercato, ma vengono utilizzate a scopi personali, queste a differenza delle precedenti, vengono indicate con numeri romani da I al massimo di III. Poi dobbiamo dividere le foto in quelle storicizzate o vintage e quelle che entrano nel settore dell’arte contemporanea. Due settori ben precisi con stime e investimenti diversi tra loro.

In Italia, solo negli ultimi anni, il mercato della fotografia ha iniziato ad entrare nel collezionismo d’investimento, preferendo immagini di noti fotografi storicizzati, meglio se di moda o comunque immagini di celebrità come quelle del cinema. Allo stesso tempo si registra una crescita verso la fotografia contemporanea con autori più o meno noti grazie anche alle esposizioni internazionali sempre più frequenti, meglio se raccontano un momento storico, reportage dal tema sociale o immagini ambientali contestualizzate ad un messaggio preciso, come nel caso della mostra “Amazõnia” di Sebastião Salgado, che si tiene a Roma al Maxxi dal 1 ottobre 2021.

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Di seguito alcuni esempi di fotografia storicizzata (dove in questo momento si evidenzia un minore interesse o stabilità) e altri di contemporanea (con valori in crescita).

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Henri Cartier-Bresson (1908 – 2004) Siena, Italy. Stima 4,000 – 6,000 USD – aggiudicazione Sotheby’s (2020) 5,292 USD. Gelatin silver print, signed in ink in the margin, framed, a Ginny Williams Collection label on the reverse, 1933, printed later image: 14 by 9 1/2 in. (35.6 by 24.1 cm.

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Henri Cartier-Bresson (1908-2004) Bruxelles. Stima 6,000 – 9,000 – aggiudicazione Sotheby’s (2020) 6,300 USD – ferrotyped gelatin silver print, the photographer’s credit stamp and annotated in pencil by Martine Franck, president of the Fondation Henri Cartier-Bresson, on the reverse, framed, 1932, printed circa 1960 image: 6¾ by 9¾ in. (17.1 by 24.8 cm.

Per questo artista vi è stato un picco del valore 2012 per poi scendere gradualmente fino ad oggi (vedi grafico). I valori di oggi rendono appetibile per un investimento a lungo periodo. I grafici sono riferiti all’opera * (fonte artprice) 

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Diane Arbus, Untitled (8) 1970-1971– stima 10,000- 15,000 – aggiudicazione Phillips (2021) 27,500 USD Gelatin silver print, printed later by Neil Selkirk. 14 5/8 x 14 1/2 in. (37.1 x 36.8 cm) Stamped ‘A Diane Arbus photograph’, signed, titled, dated, numbered 49/75 by Doon Arbus, Executor, in ink, two copyright credit stamps and a reproduction limitation stamp on the verso.

Anche in questo caso il valore è sceso negli anni, confermando il cambiamento del collezionismo dalla foto storicizzata a quella – che vedremo dopo – contemporanea o di moda.

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Vivian MAIER (1926-2009) New York Public Library, New York (c.1952)
Stampa alla gelatina ai sali d’argento. Printed posthumous, 2011 Ed. 15 30,8 x 30,6 cm Prezzo di aggiudicazione: 2.800 € Stima: 2.500 € – 3.000 € Asta Photographie 09/06/2021 Grisebach, Berlino, Germania (Dettagli: Timbro successione Copyright “Vivian Maier […] © Maloof Collection / All Rights Reserved” / verso)

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Saul LEITER (1923-2013) Snow (1970). Stampa cromogenico, printed later.
Ed. AP 3. 48,2 x 32,3 c, Prezzo di aggiudicazione: 17.407 € (15.000 £ , Prezzo incluso spese : 21.932 € (18.900 £ ), asta Photographs 20/05/2021 Phillips, Londra, Regno Unito. Dettagli Firmato alla mano / verso. Provenienza: The Estate of Saul Leiter. Per Saul Leiter i valori sono stabili ma con una prospettiva di rivalutazione.

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Horst P. HORST (1906-1999), Mainbocher Corset, Paris (1939)
Stampa alla gelatina ai sali d’argento. Printed later 32,2 x 24,3 cm. Prezzo di aggiudicazione: 5.272 € (4.500 £ ).Prezzo incluso spese : 6.642 € (5.670 £ ). Stima: 7.029 € – 9.372. Works from the David Ross Collection Dal 07/09/2021 al 15/09/2021. Asta online Sotheby’s Regno Unito. Dettagli: Firmato alla mano.

La Compagnia

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Frank HORVAT (1928-2020) “Givenchy Hat A, Paris, for Jardin des Modes” (1958)
Stampa alla gelatina ai sali d’argento, printed in 1994, 31,1 x 44,1 cm. Prezzo di aggiudicazione: 10.940 € (13.000 $ )Prezzo incluso spese : 13.784 € (16.380 $ ) Stima: 5.890 € – 8.415 € (7.000 $ – 10.000 $ )
Asta Photographs Dal 29/03/2021 al 07/04/2021, Sotheby’s Stati Uniti
Dettagli: Firmato alla mano Datato Iscritto Titolo / verso
Provenienza: Acquired from the photographer, 1997 ; Sotheby’s Paris, 12 May 2012, Sale PF1220, Lot 87

Un capitolo a parte per fotografi come Irving Penn, Helmut Newton, Richard Avedon e altri fotografi che hanno lavorato per testate internazionali nel fashion e che oggi destano sempre molta partecipazione dei collezionisti con aggiudicazioni record.

LA COMPAGNIA

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Irving Penn ‘Mouth (for L’Oreal), New York’, 1986. Dye transfer print, edition 23
Image 47,3 x 46,6 cm, feuille 57,7 x 49,6 cm. Stima 150,000 – 200,000 € Aggiudicazione 289,500 € Sotheby’s

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Helmut Newton, Yves St. Laurent, Rue Aubriot, French Vogue, Paris 1975
Gelatin silver print, printed 1981. 46 x 31 cm (18 1/8 x 12 1/4 in. Signed, titled, dated by the artist in pencil/ink and numbered 3/10 in another hand in pencil, with copyright credit reproduction limitation stamp on the verso. This print was awarded to Corinne Day as the 1992 young talent winner at the Festival of Fashion Photography in Monaco, which attracted high-powered attendance from Helmut Newton and Karl Lagerfeld to co-presenter Naomi Campbell. Stima £25,000 – 35,000 Aggiudicazione £47,880 Phillips Londra 2021

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Richard Avedon, Dovima with elephants, Evening dress by Dior, Cirque d’Hiver, Paris, August, 1955 Gelatin silver print, printed later. 23 1/8 x 18 3/4 in. (58.7 x 47.6 cm). Signed, numbered 24/50 in pencil, title, date, edition and copyright credit reproduction limitation stamps on the reverse of the linen flush-mount. Stima $150,000 – 250,000. Aggiudicato $189,000 Phillips Londra

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Peter Lindbergh. Amber Valletta, New York, USA 1993. Baryte print, printed later and flush-mounted. 223 x 148.5 cm (87 3/4 x 58 1/2 in). Signed, titled, dated and numbered on a label affixed to the reverse of the frame. One from an edition of 1 plus 1 artist’s proof. Stima £80,000 – 120,000. Aggiudicazione £115,20 Phillips Londra

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David LACHAPELLE (1963) Angelina Jolie In Poppy Field (2001)
Stampa cromogenico, face-mounted and mounted. Ed. AP 1 / 4, 74,2 x 100,4 cm. Prezzo di aggiudicazione: 9.284 € (8.000 £ ). Prezzo incluso spese : 11.697 € (10.080 £ ) Stima: 11.605 € – 17.407 € (10.000 £ – 15.000 £ ). Asta Photographs, 20/05/2021Phillips, Londra, Regno Unito. Provenienza: Maruani & Noirhomme Gallery, Knokke, 2006

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DAVID YARROW B. 1966, HELLO
Mural-sized archival pigment print, signed, dated, and editioned ‘AP3.’ in ink in the margin, mounted, framed, 2015; accompanied by a Certificate of Authenticity from the photographer’s studio (2). 56 by 91 in. (142.2 by 231.1 cm.) Stima 30,000 – 35,000 Aggiudicazione 35,000 $ Sotheby’s.

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ANNIE LEIBOVITZ B. 1949, DAN AYKROYD AND JOHN BELUSHI, HOLLYWOOD
Mural-sized archival pigment print, 1979, printed in 2010; accompanied by the photographer’s ‘The Master Set’ label, signed in ink (2) 37 by 37½ in. (94 by 95.3 cm.) Stima 30,000 – 50,000 Aggiudicazione 50,000 $.

E infine un omaggio a Giovanni Gastel, il grande fotografo italiano da poco scomparso, nipote di Luchino Visconti. Ritrattista d’eccezione e che qui proponiamo accanto a due delle sue opere della serie: Angeli Caduti.

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Marika Lion

Per informazioni: marika.lion@lacompagnia.it




AUTUNNO CALDISSIMO

La Compagnia Holding
Petrolio a 80 dollari al barile, il massimo da sette anni! E il bello è che non è finita.il prezzo del gas è cresciuto molto di più, spingendo svariati produttori di energia elettrica a spostarsi sul petrolio per limitare i danni: solo questo fatto ha aggiunto circa mezzo milione di barili al giorno alla domanda mondiale di petrolio, tornata dopo il crollo pandemico a crescere negli scorsi mesi più di quanto è tornata a crescere l’attività estrattiva.

 

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IL RUOLO DELL’OPEC+

C’è dunque da attendersi nuove tensioni sui prezzi perché ieri l’OPEC+ (l’organizzazione dei produttori di petrolio che include anche la Federazione Russa) ha sì acconsentito ad accrescere la produzione di greggio, ma moderatamente e gradualmente, fino a raggiungere un incremento di 400mila barili, dunque meno dell’ accresciuta domanda.

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Se a questo ragionamento si aggiunge la considerazione del fatto che le scorte strategiche di petrolio e gas sono quasi dappertutto molto basse e che dunque governi, produttori e distributori stanno soltanto aspettando il momento buono per ricostituirle, ecco che non si intravede la fine del tunnel che sta portando verso la soglia psicologica dei 100 dollari al barile il prezzo del petrolio.

MA IL GAS È CRESCIUTO DI PIÙ

D’altronde se volessimo fare un paragone, il prezzo del metro cubo di gas naturale è cresciuto fino ad un livello equivalente a circa 180-190 dollari al barile di petrolio (cioè di circa il doppio della crescita del prezzo del petrolio sul mercato), seminando il panico persino tra gli intermediari, molti dei quali potrebbero rischiare il tracollo finanziario perché, di fronte a una tale impennata, avevano nei giorni scorsi scommesso su un ribasso.


La stessa America, che produce più materia prima energetica di quanta ne possa consumare (e dunque la esporta) è preoccupata per le conseguenze dolorose che ciò potrebbe scatenare sull’economia reale (l’incremento quasi scontato della velocità di circolazione della moneta), che rischia di trovarsi di fronte all’ennesima fiammata inflazionistica dopo che le autorità monetarie e politiche si erano sperticate sulla “temporaneità” del rialzo dei prezzi.

E ARRIVA LA SVALUTAZIONE MONETARIA

In un precedente articolo avevamo fatto notare che era andata più o meno nello stesso modo all’inizio degli anni ‘70, quando però il mondo non affogava nei debiti e in una marea di derivati finanziari come oggidì, con i quali stavolta si può “scherzare” molto meno di allora nel lasciare che i tassi di interesse rincorrano la svalutazione monetaria.

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Non a caso il Dollaro è risalito bruscamente la scorsa settimana e rischia di proseguire la tendenza al rialzo. Questo rischia di indurre ulteriore tensione sul prezzo delle materie prime, paradossalmente più preoccupando che facendo gioire i paesi emergenti, i debiti finanziari dei quali rischiano di rivalutarsi più dell’incremento dei ricavi da export.

I media ne parlano assai poco ma i governi di tutto il mondo sono in allarme, e stanno correndo ai ripari in ordine sparso, senza un opportuno coordinamento. Soprattutto dopo aver strombazzato ai quattro venti la necessità di ridurre le emissioni nocive, sostituendo le fonti energetiche di origine fossile con quelle da fonti rinnovabili.

BORSE GIÙ-PREZZI SÙ E, TUTTAVIA…

Concludiamo con due grandi -ma non scontate- ovvietà: 1) l’economia globale rischia ulteriori rallentamenti che sono l’esatto opposto di ciò che poteva sperare sino a pochissimi mesi fa, e 2) le borse (come anche le quotazioni dei titoli a reddito fisso) non potranno che accusare il colpo, quantomeno a livello psicologico.

Dunque ciò che è destinata ad amplificarsi è principalmente la volatilità, sebbene non necessariamente possa essere a rischio il livello finale dei listini (quello di fine anno, utile per calcolare la performance di chi amministra patrimoni), dal momento che c’è pur sempre in circolazione molta liquidità ancora a caccia di occasioni.

LA PROBABILE RINCORSA DEI SALARI

Un’ultima considerazione riguarda l’economia de’noantri: l’Italia ha sino ad oggi sperimentato una forte deflazione salariale, che ha compresso i consumi e trattenuto la risalita dei prezzi al consumo. Il paragone con gli altri paesi industrializzati lo si può leggere da questo grafico ed è impietoso: nel periodo dì riferimento il nostro potere d’acquisto si è praticamente dimezzato rispetto agli Stati Uniti d’America.

La Compagnia Holding
Ma l’arrivo probabile dell’inflazione a due cifre porrà più dì un problema dì rivalutazione dei salari e della conseguente tenuta dei conti pubblici, dal momento che una parte importante (più dì un terzo) dì tutti gli assunti sono dipendenti della pubblica amministrazione!

Stefano di Tommaso