LAMPI E TUONI DI MEZZA ESTATE

Mentre il numero di contagi da COVID torna nuovamente a crescere nel mondo fino a far ipotizzare una nuova grande ondata pandemica, le borse valori sono tornate a scendere, nonostante le apparenze di buone notizie per l’economia globale e di un’inflazione galoppante. Al tempo stesso i tassi di interesse a lungo termine sono addirittura in flessione. Come interpretare questi fatti così discordanti? Probabilmente in modo neutrale, sebbene questa sia soltanto l’incerta conclusione di una lunga serie di ragionamenti…

 

LA STAGNAZIONE È ALLE PORTE


Sebbene nessuno possa affermare certezze in una congiuntura così articolata anticipiamo qui la conferma dei sospetti già avanzati su queste colonne alla fine dello scorso mese di Giugno: siamo probabilmente sull’orlo di una rara combinazione di prospettive di stagnazione economica nel medio-lungo termine che, miscelate con quelle piuttosto evidenti di rialzo dei prezzi (e cioè di svalutazione monetaria) configurano il pericolo della “stagflazione”. Ovviamente questa di per sé è una prospettiva poco allettante.

Le premesse perché ciò avvenga ci sono tutte: lo shock da eccesso di domanda di beni e servizi, verificatosi dopo la cessazione delle restrizioni alla libera circolazione delle persone è stato accompagnato da una certa rigidità della loro offerta, dai numerosi effetti degli stimoli monetari messi da tempo in campo dalle banche centrali e dalla scarsa corrispondenza alle medesime di altrettante politiche fiscali espansive da parte dei governi dei principali paesi industrializzati.

La perversa combinazione che si è conseguentemente creata, di ritorno alla crescita della domanda, di relativa scarsità dell’offerta, contemporanea alle transizioni tecnologica ed ecologica in corso, con le ovvie tensioni sul fronte della disoccupazione che cresce e dello spiazzamento di interi comparti industriali dovuto alla necessità di ridurre le emissioni inquinanti, e dunque con le preoccupazioni per un incerto futuro per buona parte della popolazione attiva, ha fatto il resto.

E LE BORSE SCENDONO

I mercati finanziari non possono non prendere atto della difficile congiuntura economica e non possono che comportarsi di conseguenza, registrando ovvie incertezze per i posti di lavoro e dunque per le prospettive di reddito disponibile, ma anche quelle altrettanto ovvie di risalita dei prezzi, che hanno portato in apparente leggera crescita i consumi globali, ma al tempo stesso conteggiando correttamente i medesimi, al netto dell’inflazione attesa, a vederne l’andamento negativo.

Anche il mercato dei titoli a reddito fisso ha mostrato aspetti in apparenza contrastanti: da un lato la discesa dei rendimenti poteva far immaginare la possibilità di un ulteriore avanzamento dei corsi azionari, ma dall’altro lato il motivo per cui ciò sta avvenendo in realtà ne ha provocato l’arretramento, dal momento che la discesa dei tassi a lungo termine incorpora attese di sostanziale debolezza dell’economia nel lungo termine.

Nemmeno l’aspettativa di ulteriori miglioramenti dei profitti aziendali delle principali società quotate in borsa (che normalmente è una notizia positiva per i titoli delle medesime e dunque per i listini azionari) deve farci illudere: la lettura del fenomeno da parte della maggioranza degli analisti ed osservatori (il cosiddetto “consensus” di mercato) è purtroppo all’opposto.

PROFIT TAKING

La perversa combinazione dell’elevatissimo livello già raggiunto in precedenza dai listini borsistici (più che altro dovuto all’eccessiva liquidità in circolazione), ma in particolare per la sua articolazione che ha forse eccessivamente favorito il comparto tecnologico, del rischio percepito che tali profitti non possano continuare molto a lungo se il quadro economico complessivo volgerà al ribasso, e del fatto che tali profitti -una volta scontati dell’inflazione in arrivo- sono meno rosei, ha portato il “consensus” di mercato a porsi più domande che risposte e a prendere beneficio dei guadagni fino a ieri realizzati in attesa di miglior chiarezza circa le prospettive.

Occorre infatti tenere presente che a fine giugno 2021, dopo gli ultimi ribassi delle borse, l’indice globale complessivo risultava decisamente al rialzo rispetto all’inizio dell’anno (+ 13%).

L’INFLAZIONE SARÀ ANCHE TRANSITORIA, MA…

L’inflazione viene definita “transitoria” dalle banche centrali ma d’altra parte nessuno è davvero pronto a metterci la mano sul fuoco! Gli ultimi numeri disponibili parlano di una fiammata inflazionistica media dell’ultimo mese intorno allo 0,5%, pari a circa il 6% annuo. Anche se nei prossimi mesi tale cifra tornerà a scendere, non è escluso che il prezzo del petrolio resti intorno ai livelli già raggiunti (con la conseguente pressione inflazionistica che si propagherà a causa del rialzo del costo dell’energia) e che comunque -se anche i prezzi continueranno a crescere molto meno in futuro- difficilmente questi torneranno indietro rispetto ai livelli attuali. Se dunque l’economia americana davvero crescerà dell’8% quest’anno c’è il serio rischio che in termini reali tale numero strabiliante sia da limare di quasi due terzi!

Proviamo ora a paragonare il 4-6% di inflazione attesa in America (più bassa nel resto del mondo, ma ciò dipende anche dallo sfasamento temporale e dalle modalità di rilevazione dell’andamento dei prezzi) con il rendimento tendente allo zero dei titoli a reddito fisso con le migliori caratteristiche di “rating” (cioè con il minor rischio) e con i livelli intorno all’1,3% dei titoli di stato americani a 10 anni.

Quel ne salta fuori da tale comparazione è da un lato la percezione di un rendimento reale (cioè al netto dell’inflazione) fortemente negativo per l’anno in corso, ma dall’altro anche il fatto che il mercato finanziario non crede in una crescita economica significativa nei prossimi anni! In questa ottica l’attuale crescita economica potrebbe configurarsi come un mero rimbalzo tecnico, cui non seguirà una continuità dei principali indicatori dell’economia bensì addirittura forse il contrario: una nuova contrazione.

Ovviamente tali estrapolazioni vanno prese molto con le pinze, anzi a pensarci bene sarebbero quasi da rigettare, se comparate ad altre considerazioni, meno tragiche di quelle indotte dall’analisi dei prezzi sui mercati obbligazionari: l’eccessiva liquidità immessa dalle banche centrali ha sicuramente distorto le prospettive, riducendone al ribasso i rendimenti. Inoltre il mercato azionario scende più per il timore che i prezzi dei titoli tecnologici e bio-medicali abbiano corso troppo negli ultimi tempi (e per il fatto che la loro presenza stia divenendo maggioritaria nei listini borsistici) che non perché qualcuno si aspetti davvero un grande crollo delle quotazioni dei titoli azionari. Anzi: nessuno se lo aspetta davvero.

I MOTIVI DI OTTIMISMO

Gli analisti sanno che le banche centrali non potranno smettere facilmente di intervenire sui mercati comperando titoli a reddito fisso (e dunque limandone i rendimenti) per molti motivi: dalla necessità di sostenere i debiti pubblici a quella di mantenere una rotta costante in presenza di ancora grande disoccupazione e relativa debolezza dei prodotti interni lordi delle principali nazioni. E sanno che alle politiche di stimolo monetario dovranno accompagnarsi anche quelle fiscali delle nazioni, con i relativi investimenti pubblici e infrastrutturali, che controbilanceranno le potenziali tendenze negative del ciclo economico.

Gli analisti sanno anche che di conseguenza saranno principalmente i dividendi promessi dai titoli azionari a generare in futuro un reddito adeguato per i fondi pensione, piuttosto che le magrissime cedole, soprattutto al netto dell’inflazione. E sanno anche che il flusso costante di innovazioni tecnologiche e biomediche continuerà a indurre crescita economica e -probabilmente- ulteriori ribassi nei prezzi di beni e servizi che oggi non vengono ancora forniti in maniera completamente automatizzata: una cosa che può essere percepita come elemento deflattivo ma in realtà provoca un implicito miglioramento nella capaciti reddito dell’uomo della strada.

Gli analisti si aspettano inoltre una serie importante di investimenti -pubblici e privati- sul fronte delle energie rinnovabili, dell’ecologia e della transizione “verde” che indubbiamente porteranno uno stimolo positivo all’economia globale. E si aspettano che, di conseguenza, l’economia planetaria ridurrà in futuro la sua dipendenza dai combustibili di origine fossile e dall’andamento dei loro prezzi.

IL PROGRESSO È SOLTANTO TECNOLOGICO?

Anche i progressi tecnologici contribuiranno -nel lungo termine- a far scendere il prezzo delle cure mediche e dei trattamenti farmacologici, apportando miglioramenti impliciti al tenore di vita dell’umanità che probabilmente saranno difficilmente registrati dalle statistiche economiche.

Dunque le prospettive reali dell’economia non sono affatto così grigie, né quelle delle borse sono necessariamente in discesa per i prossimi mesi, anzi! L’ennesima ondata pandemica farà forse altri danni, alcuni dei quali non sono ancora stati correttamente previsti dagli economisti. Ed è altrettanto probabile che la grande incertezza generale possa alimentare nuova volatilità sui mercati finanziari. Ma questo non significa che gli stessi dovranno subire tracolli, anzi! È relativamente probabile che in media possano tornare al segno positivo da qui a fine 2021.

L’unica cosa che perciò è certa è l’odierna incertezza generale, unita ad una relativa instabilità di fondo e ad una maggiore difficoltà nell’interpretare correttamente l’andamento dei cicli economici e quello delle tendenze generali delle borse. Ma da qui ad affermare che perciò tutto andrà a rotoli ce ne passa…

Nel 1836 Giacomo Leopardi (La ginestra) dubitava con malinconico sarcasmo delle “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità. Ma non era soltanto un suo scetticismo nella generale glorificazione del “progresso” come soluzione di tutti i problemi e portatore di universale felicità, bensì lucido realismo circa la condizione umana: il progresso incede nel bene e nel male, e con esso avanza nel tempo anche l’economia. E questo non significa necessariamente un maggior benessere ma con ogni probabilità nemmeno il contrario.

Stefano di Tommaso




L’INFLAZIONE PERSISTE (E I TASSI ALLA FINE RISALIRANNO)

La ripresa post-pandemica sta assumendo un sapore amaro per i cittadini di tutto il mondo, a partire da quelli americani: la rapida risalita dei prezzi di praticamente qualsiasi cosa fa ancora fatica ad essere incorporata dalle statistiche ma appare persistere ed estendersi a tutti i settori dell’economia.

IL PREZZO DELL’ENERGIA È L’ASSE DI TRASMISSIONE

Tra le motivazioni possiamo immaginare che un ruolo importante l’abbia avuto la rapida risalita dei prezzi dell’energia, ma anche la relativa rigidità dell’offerta di beni e servizi rispetto alla crescita della domanda e forse anche le aspettative di ulteriore domanda generate dai programmi di supporto sociale e di incremento della spesa e degli investimenti pubblici stanno letteralmente mandando a ferro e fuoco i mercati di sbocco di buona parte di ciò che non è prodotto in Asia.

Il ruolo delle aspettative tende sempre ad essere sottostimato perché difficilmente misurabile on parametri ufficiali e incontrovertibili, ma quel ruolo nel determinare l’andamento dei mercati è del pari incontrovertibile e, stavolta, quelle aspettative di ripresa e di ritorno alla crescita rischiano di creare molti più problemi di quanti ne possano risolvere configurando la possibilità di un’inflazione che prescinde quasi completamente dall’effettiva crescita dell’economia.

IL COSTO DEL LAVORO SALE PER MOTIVI TECNICI

La spirale potrebbe iniziare ad avvolgersi con la brusca risalita del costo del lavoro, soprattutto in quei comparti (come le tecnologie e in generale la manodopera digitalizzata e qualificata) la cui domanda rischia di superare di molte volte l’offerta. Il meccanismo è alimentato anche dal fatto che una parte della popolazione attiva risulta poco idonea per motivi di età, o poco qualificata o infine anche poco motivata, anche a causa dei sussidi alla disoccupazione e della necessità di maggiori cure mediche.

Il mondo anglosassone insomma sta vivendo un’inflazione (anche salariale) che rischia di riverberarsi globalmente sulla crescita complessiva dei prezzi dei fattori di produzione, persino in campi storicamente poco toccati dal fenomeno come l’agricoltura o le costruzioni.

Se è difficile sperare che tali tendenze non si estenderanno anche al continente europeo, possiamo iniziare a notare una significativa deriva in tal senso anche in Cina e in India, che da sole costituiscono più di metà della popolazione mondiale industrializzata. Anche perché il costo del petrolio e quello delle derrate alimentari cresce anche lì.

LA PAROLA ALLA FED

La parola però qualche giorno fa l’ha ripresa il governatore della Federal Reserve americana: l’inflazione è transitoria! Non preoccupatevi. Ovviamente dunque la FED non alzerà i tassi, né vorrà cambiare atteggiamento, almeno sino a quando la disoccupazione si sarà ristretta un altro po’, oppure sino a quando altri fatti (dopo i numerosi mesi in cui si registra un’inflazione media che in America ha superato il 5%) le avranno dato nuovamente torto. E scommesse contro la Banca Centrale più potente del mondo -si sa- sono una bella sfida. La FED vuole compiacere un’amministrazione Biden che deve finanziare ancora le grandi opere che ha promesso e che vuole risparmiare suo costo del denaro del maggior indebitamento che necessariamente andrà a fare per riuscirvi.

Ciò detto però i tassi praticati alle imprese stanno andando su ugualmente, almeno in Europa. Alla chetichella, quantomeno quelli praticati dalle banche e dai fondi che investono in obbligazioni. Mentre quelli dei titoli di stato a lungo termine restano ancora bassi.

Ma è più probabile che la ripresa tenga duro oltre il mero rimbalzo post-restrizioni pandemiche (in un mio precedente articolo c’è una disamina più puntuale al riguardo) che non che l’inflazione torni a languire intorno allo zero, come dovrebbe essere con gli attuali tassi d’interesse. Perciò la FED sbaglia, probabilmente sapendo di sbagliare. E chi deve fare i conti con i programmi d’investimento è meglio che si affretti!

Stefano di Tommaso




I MERCATI SI INTERROGANO

I mercati finanziari stanno mostrando negli ultimi giorni molto scetticismo a proposito della retorica politica e giornalistica sulla ripresa economica e lo fanno nell’unico modo loro consentito: con una correzione dei listini azionari. I corsi dei titoli a reddito fisso, conseguentemente, salgono e trascinano i rendimenti reali dei bond di miglior qualità in territorio negativo, cioè ben al di sotto delle stime del tasso di inflazione. Lo scenario dunque è quello tipico da trappola della liquidità: le banche centrali registrano una scarsa reattività dell’economia reale si loro interventi di politica monetaria e, al tempo stesso, fanno i conti con un’inflazione che è molto più certa della ripresa. La volatilità ne trae beneficio.

 

TIMORI DI RICADUTA

Il prodotto interno lordo di buona parte delle economie del mondo è senza dubbio tornato a salire nella prima parte del 2021, ma mentre la nuova domanda di gas, petrolio ed energie da fonti rinnovabili ha sicuramente scatenato una rincorsa al rialzo dei prezzi di beni e servizi che fa ben sperare per una risalita dei consumi, oggi invece, con le notizie che fioccano da tutto il mondo (Cina compresa), non ci sono certezze al riguardo della tenuta della ripresa economica complessiva. Le notizie riguardano soprattutto l’inflazione, la disoccupazione, gli investimenti e il rischio di ulteriori misure cautelari per contrastare una potenziale terza ondata pandemica.

Il mondo è insomma davanti a un grande dubbio: continuerà la ripresa economica riassorbendo occupazione e scetticismo oppure ciò che hanno mostrato le statistiche è soltanto un rimbalzo tecnico ancora lontano dal mostrare vigore e resistenza? La risposta, anticipiamolo pure, è probabile che sia positiva: continuerà quasi per certo, seppure non ai ritmi che esperti, politici e giornalisti hanno pronosticato frettolosamente fino a ieri.

GLI STIMOLI ALL’ECONOMIA

Per quale motivo però la crescita economica non sarà così vigorosa come potevamo aspettarcela? La risposta risiede principalmente nella scarsità di fiducia degli operatori e quindi nell’accresciuta prudenza che stanno mostrando incrementando la liquidità detenuta cautelarmente e comperando titoli che possano assicurare invece un reddito fisso. Reddito che rimane così basso (anche perché i corsi dei bond stanno crescendo) che quasi certamente mostrerà di essere stato negativo al netto dell’inflazione. Così facendo gli investitori sperano di ormeggiare in porti sicuri e al riparo dall’impennata di volatilità che le borse sembrano promettere per l’estate. Volatilità, si badi bene, non crolli repentini, ma che rischia ugualmente di travolgere i naviganti meno esperti.


Perché però le borse valori allora (oggi ancora ai massimi di sempre) non dovrebbero scendere se l’umore generale resta dubbioso? Le risposte sono ovviamente soltanto degli auspici, ma di motivi ce ne potrebbero essere eccome: Innanzitutto perché i profitti delle principali società quotate sembrano essere tutti in crescita nel corso dell’anno. Se ciò sarà confermato anche come dato medio tendenziale e le borse manterranno i medesimi livelli complessivi, allora è possibile che vedremo di fatto ridursi i moltiplicatori di valore (cosa rassicurante) ma non necessariamente le valutazioni assolute delle società quotate.

VOLATILITÀ MA NON CROLLI DELLE BORSE


Le borse non scenderanno nel loro complesso poi anche perché è difficile ritenere che le banche centrali smetteranno di pompare liquidità per timore dell’inflazione quando quest’ultima ha soltanto cominciato a fare capolino e viceversa l’economia reale sembra ancora lontana dal riprendere la corsa agli investimenti e alle assunzioni e, conseguentemente, di poter mostrare il medesimo livello dei consumi registrato prima della pandemia.

E se le banche centrali non prenderanno paura e non si fermeranno di colpo allora sarà difficile che investitori e risparmiatori continueranno senza limiti a comperare titoli a reddito fisso reale negativo. È più realistico pensare che ritorneranno invece con moderazione anche sui listini azionari.

Ma non è finita qui: il prezzo dell’energia sale perché la domanda è cresciuta più dell’offerta, ma quanto a lungo potrà durare? Prima o poi l’offerta di petrolio riguadagnerà vigore e agirà da calmiere sul prezzo del greggio. Anche il “green new deal” che promette di supportare forti investimenti in campo ambientale ed energetici, potrà anche venire ridimensionato nel prossimo futuro, ma è difficile pensare che verrà messo da parte e farà indubbiamente crescere la produzione di energia da fonti rinnovabili nonché il livello degli investimenti complessivi.

Altri stimoli all’economia proverranno ancora dalla trasformazione digitale, ben lungi dall’essersi esaurita, provocando anch’essa una mole di investimenti che non potrà non registrarsi tra gli indicatori dell’andamento industriale, tra l’altro fornendo ancora vigore a tutto il comparto dei titoli tecnologici. E dai grandi investimenti infrastrutturali annunciati un po’ in tutto il mondo, che prima o poi cominceranno a prendere corpo, sebbene non nella misura strombazzata dalla politica, perché di essi c’è forte necessità.

UNA GRANDE TRANSIZIONE È IN CORSO

Il risultato in termini di profitti aziendali prima ancora che in termini di ripresa economica perciò riteniamo che non potrà farsi attendere troppo, sebbene quest’ultima -più che prendere la forma di un grande nuovo ciclo espansivo- potrà assomiglierà invece ad un grande movimento di traslazione laterale verso un ambiente industriale profondamente diverso da quello attuale. Con tutti gli effetti collaterali che questo potrà comportare, limitando in ciò decisamente i suoi aspetti positivi.


Nemmeno i timori pandemici pensiamo che potranno far ricadere il mondo verso nuovi lockdown generalizzati, innanzitutto perché l’umanità ha imparato oggi a curare meglio le conseguenze da COVID limitandone la capacità di fare vittime, ma anche perché la diffusione dei vaccini continuerà a lungo. E sebbene questi ultimi siano soprattutto un grande business per le multinazionali farmaceutiche, qualche effetto positivo lo porteranno di sicuro.

Gli eventi che osserviamo nelle borse e sui mercati sono dunque quasi solo dei temporali estivi, a volte impetuosi ma anche passeggeri e probabilmente privi di grandi conseguenze che permangano nel tempo. Bisogna soltanto disporre di qualche riparo e di nervi saldi durante la sfuriata. Cosa che non potrà che alimentare la richiesta di valori immobiliari e beni rifugio, già di per sé sospinta dai timori d’inflazione. Mali minori rispetto ai rischi che il ciclo economico volga nuovamente al ribasso…

Stefano di Tommaso




LA GUERRA DELLE MONETE DIGITALI

A partire dal 2008, con la diffusione di internet tra i privati, sono nate monete “digitali” (dette “criptovalute” perché la loro gestione decentralizzata online ne permette l’assoluta riservatezza) la più diffusa delle quali, il Bitcoin, usa una tecnologia che esclude la necessità di Banche Centrali né prevede controlli da parte di Autorità monetarie. La loro diffusione -inizialmente utilizzate per pagare i giochi online e i loro premi- ha provocato brusche reazioni da parte delle autorità monetarie, che in molti casi sono intervenute per contrastare il fenomeno, tanto a motivo dell’impossibilità di controllarne la circolazione, quanto per la segretezza degli effettivi detentori. Inutile dire che le vicende hanno preso pieghe diverse in diverse parti del mondo: in alcuni paesi (i meno democratici) le criptovalute siano addirittura state messe al bando, in altri paesi sono invece state di fatto legalizzate!

 

BLOCKCHAIN

Il “conio” delle criptovalute è effettuato collettivamente dalla rete: non necessita di alcuna autorità centrale perché la blockchain (la tecnologia di tenuta dei suoi registri digitali, che permette di certificarne la validità delle transazioni) venne diffusa in rete nel 2008 da Satoshi Nakamoto (un personaggio misterioso di cui si dubita persino l’effettiva esistenza) in modalità “open-source” vale a dire che la proprietà intellettuale della sua progettazione è stata rinunciata dal suo autore. Di conseguenza nessuno la possiede e nessuno può influenzare il corso del Bitcoin se non comprandolo o vendendolo.

Ogni nodo della rete partecipa attraverso le proprie transazioni al conio di nuova moneta e quindi la creazione della base monetaria che avviene secondo regole matematiche automatizzate e non modificabili da nessuno. La tracciabilità delle transazioni è riferita a una identità digitale che può rimanere completamente segreta e soprattutto non c’è la necessità -né è compatibile con il meccanismo- l’esistenza di un’autorità monetaria.

La necessità di trovare una regolamentazione di questo fenomeno si è imposta successivamente, con l’ampliarsi della sua diffusione. Qualcuno afferma che essa è la più importante rivoluzione nella storia della moneta. Ma è proprio questo successo a spingere alcune Banche Centrali a limitarne la circolazione, o addirittura anche a creare in alternativa le proprie divise monetarie digitali, come ad esempio è accaduto in Cina, nella speranza di cavalcarne l’onda senza lasciarsi spiazzare. È tuttavia piuttosto improbabile che le banche centrali vi riusciranno davvero, dal momento che è proprio a causa loro che oggi non è più necessario che esista un “istituto di emissione”.

BRETTON WOODS E I CAMBI FLESSIBILI


La conferenza di Bretton Woods, che si tenne dal 1º al 22 luglio 1944 nell’omonima località del New Hampshire per stabilire le relazioni commerciali e finanziarie internazionali tra i principali paesi industrializzati del mondo occidentale, ha generato un sistema di regole e procedure atte a controllare la politica monetaria internazionale, che stravolgeva il sistema previgente, denominato “Gold Standard”. Con gli accordi di Bretton Woods si è deciso di passare dalla stampa di moneta legata alla quantità di riserve auree di ciascuna nazione, a un nuovo ordine monetario, più flessibile e concordato tra le singole nazioni e gli Stati Uniti d’America, quali custodi globali di tali riserve, gli unici a continuare a mantenere la convertibilità del Dollaro in oro.

Il sistema monetario divenne così un “Gold Exchange Standard”, cioè basato sulla definizione dei rapporti di cambio tra le valute e il Dollaro sulla base delle riserve auree di ciascun paese emittente moneta. Il sistema garantiva la convertibilità del solo Dollaro con l’oro ma impediva da parte delle altre nazioni un controllo sulla quantità dei Dollari stampati. Negli anni ‘60 il mondo visse un boom economico senza precedenti e, con la guerra del Vietnam ed il programma di welfare chiamato Grande Società, gli USA aumentarono molto la spesa pubblica finanziandola con la stampa di nuovi Dollari.

Il timore per il crescente indebitamento degli USA aumentò le richieste di conversione dei Dollari nell’oro detenuto dalla Federal Reserve Bank of America. Ciò spinse il presidente statunitense Richard Nixon, il 15 agosto 1971, ad annunciare, a Camp David, la sospensione della convertibilità del dollaro in oro. Le riserve statunitensi si stavano pericolosamente assottigliando: il Tesoro degli USA aveva già erogato oltre 12.000 tonnellate di oro.


Presso il Fondo Monetario Internazionale erano già operativi i Diritti Speciali di Prelievo con un valore puramente convenzionale di un dollaro. Nel dicembre del 1971, il gruppo dei Dieci firmò lo Smithsonian Agreement, che mise fine agli accordi di Bretton Woods, dando inizio alla libera fluttuazione dei cambi. Nel febbraio del 1973 -a causa di un’inflazione galoppante- ogni legame tra oro e dollaro e tra quest’ultimo e le altre valute nazionali venne definitivamente reciso, così che il Gold Exchange Standars fu abbandonato e sostituito dal sistema attuale di cambi flessibili e dalla sparizione del riferimento della moneta emessa da ciascuna nazione ad un valore tangibile, quale l’oro detenuto dalla banca centrale.

LA FINE DELL’EGEMONIA DELLE BANCHE CENTRALI

Dunque storicamente la funzione di conio della moneta è sempre stata privilegio degli Stati Sovrani prima, e delle Banche Centrali poi. Queste ultime nel tempo si sono inoltre sottratte al controllo dei rispettivi Stati in nome della necessità di una rigorosa autonomia, attribuendosi funzioni anche parzialmente diverse tra loro e diventando nel tempo un sistema di potere parzialmente svincolato dagli altri.


Per esempio la Banca Centrale Europea, per la particolare circostanza che a fronte una moneta unica non vi siano un governo e un sistema economico unico sottostanti, ha ridotto i suoi compiti a quello esclusivo della stabilità monetaria, a differenza di altre principali banche centrali, che hanno quale prima funzione quella di monitorare e sostenere l’economia del paese e negli USA addirittura anche la disoccupazione.

Qualunque sia la loro ragion d’essere, le determinazioni delle banche centrali sono chiaramente state guidate da una precisa volontà egemonica. Erano fino a ieri le uniche a diffondere moneta per legge e le uniche ad avere riconoscimento internazionale per farlo. Poi sono arrivate le criptovalute, destinate a diventare nel tempo un’ordinario strumento di pagamento e -conseguentemente- una riserva di valore, svincolata dai poteri centrali.

DIFFICILE IMPEDIRE LA DIFFUSIONE

Alla luce di questa “lesa maestà” si può comprendere per quale motivo il fenomeno delle Criptovalute abbia fatto sorgere i divieti e i sospetti che sino ad oggi ne hanno frenato -ma non impedito- lo sviluppo. E non è difficile immaginare che, in futuro, esse possano addirittura diventare la vera misura dell’indebitamento degli Stati Sovrani.

D’altronde l’avvio delle monete digitali da parte di taluni Paesi, ossia delle monete elettroniche da affiancare alla moneta tradizionale (come lo Yuan Digitale), comporta anch’essa l’uso della blockchain e ne deriva l’impossibilità di stampare moneta a go-go per finanziare il debito pubblico.


Cercando poi di eliminare alcuni aspetti non graditi del Bitcoin sono nate anche altre criptovalute diverse dal Bitcoin, ancora oggi la più diffusa. Al momento la più nota è Ethereum, che nasce per consentire la tracciabilità delle transazioni. Oggi sempre più gente ha iniziato ad usare le criptovalute come strumenti di pagamento come si trattasse di dollari, euro, sterline o yen, ma è evidente che così le banche centrali sono diventate solo uno dei potenziali fornitori di moneta.

LE REAZIONI DELLE AUTORITÀ MONETARIE

Oggi sempre più soggetti economici si attrezzano per accettare criptovalute in pagamento, ma non è ancora chiaro che cosa succederà con le nazioni che emettono loro stesse delle criptovalute. La dottrina economica è in subbuglio e stanno cadendo talune certezze: non è un caso che il premio Nobel Joseph Stiglitz, in occasione del World Economic Forum di Davos del 2018, abbia auspicato che le criptovalute siano messe fuori legge. In effetti, dal 30 gennaio 2019 sono entrate in vigore nuove norme nella Corea del Sud che obbligano le banche locali a vietare operazioni provenienti da conti anonimi per il trading in criptovalute, con l’obiettivo di poter rendere tracciabili e trasparenti le transazioni e mettere un freno al riciclaggio e alle attività criminali, oltre che alla speculazione e all’evasione fiscale.

Pechino, invece, ha deciso di boccare i siti web che consentono di fare trading e di raccogliere fondi mediante criptovalute, inaugurando lo Yuancoin o Yuan digitale. Vietando in particolare la registrazione e il trading delle criptovalute e di accettarle o utilizzarle nei pagamenti, e bloccando circa il 90% della capacità “estrattiva” di criptovalute nel Paese, come riportato dal quotidiano del partito Comunista, il Global Times, la Cina non soltanto ha attuato una delle più violente “repressioni finanziarie” della storia, ma ha anche sviluppato propri servizi di cambio valuta digitale. Grazie al fatto di averla già stata testata in progetti pilota su larga scala, la Cina risulta oggi decisamente in vantaggio rispetto all’euro e al dollaro digitale.

Il contrario è accaduto con Giappone e Corea. Il Giappone nel 2018 era la terza economia più grande del mondo per l’uso dei Bitcoin. Ciò significa che spesso, quando un Bitcoin viene scambiato, viene utilizzato anche lo Yen giapponese. L’11% del volume globale di trading di BTC è in yen. Questo è seguito molto da vicino dai won sudcoreani. Mentre il trading globale è dominato dal dollaro statunitense. Tenendo conto delle dimensioni e della popolazione del Giappone (l’1,8% della popolazione mondiale), l’11% del volume di trading globale è un risultato enorme. Inoltre, il 56,2% di Bitcoin è concentrato in Giappone secondo il sito web Forex Brokers List. Tuttavia, dopo la recente pandemia del coronavirus, sembra che qualcosa sia cambiato negli investitori giapponesi.

DOPO LA PANDEMIA

Un recente rapporto, che è stato aggiornato dall’organismo di autoregolamentazione giapponese Japan Virtual Currency Exchange Association, o JVCEA, sta dimostrando che il numero totale di trader attivi nel Paese è diminuito in modo significativo.

Questo evento si è verificato prima che l’effettivo stato di emergenza fosse dichiarato nel paese. La politica è stata attuata per arrestare il più possibile la diffusione del coronavirus. Di conseguenza, molti exchange crypto hanno registrato un’attività molto inferiore da parte degli utenti rispetto al normale. Ciò è generalmente causato dal picco dei depositi di valuta fiat (quella emessa dalla banca centrale).

Dato che le crypto non sono garantite da nessuna organizzazione governativa o istituzione finanziaria, la volatilità, così come la liquidità degli asset, è sempre piuttosto elevata. Ciò significa che molte persone sono divenute diffidenti circa le criptovalute di fronte all’instabilità del mercato. I timori di un calo del prezzo delle criptovalute hanno spinto la popolazione a investire in monete fiat che hanno un qualche tipo di protezione da parte del governo e quindi sono in grado di essere scambiate dalle principali banche anche se il prezzo di mercato scende.

Con l’esclusione perciò di Giappone e Corea del Sud (che hanno riconosciuto il Bitcoin come strumento di pagamento ma le cui banche centrali hanno anche ufficialmente iniziato a sperimentare la fattibilità di emettere una propria criptovaluta digitale), molti altri stati asiatici -tra cui l’India- hanno messo al bando il Bitcoin e tutte le altre criptomonete, imponendo di fatto una vera e propria limitazione della libertà valutaria! È oggi possibile dunque misurare la repressione monetaria nei vari Stati nazionali in funzione inversamente proporzionale alla diffusione della democrazia al loro interno.

WALL STREET E ALCUNI EMERGENTI CAVALCANO LA TIGRE

Intanto però, a Wall Street la Security and Exchange Commission ha autorizzato da tempo la quotazione del primo Exchange Traded Fund (un fondo dì investimento quotato in borsa) che investe in Bitcoin. L’America ha di fatto legalizzato l’investimento in Bitcoin (accettando implicitamente l’esistenza delle criptovalute). E i portafogli di molte grandi corporations quotate in Borsa hanno iniziato a denominare in criptovalute parte delle loro disponibilità (è noto il caso di Tesla). Anche se non è ancora chiaro se la loro rivalutazione rispetto alla moneta nazionale sia considerata tassabile, cosa che ne limita l’uso nei pagamenti correnti.

Certo è che il loro prezzo è cresciuto in parallelo alle grandi quantità di nuova moneta immessa sui mercati finanziari, generando anche un’impennata della volatilità.


È poi notizia del mese scorso che El Salvador sia diventato il primo paese al mondo ad adottare formalmente una criptovaluta come moneta nazionale. Il Congresso ha approvato una legge che rende il Bitcoin moneta legale, ha annunciato il presidente Nayib Bukele. Un’iniziativa per aumentare gli investimenti esteri, migliorare l’inclusione finanziaria e generare posti di lavoro. Come altre piccole economie emergenti, El Salvador ha utilizzato come valuta ufficiale dal 2001 il dollaro americano. A questo si aggiungerà (non sostituendolo) il bitcoin.

È una pietra miliare nella storia monetaria e potrebbe essere un punto di svolta per tutto il mondo poiché accelera la diffusione popolare dell’uso del Bitcoin e lo stato centroamericano diviene un suo hub. Il sostegno di uno stato nazionale potrebbe anche aiutare a dissipare il diffuso scetticismo sull’utilità e sull’accettazione a lungo termine dei bitcoin, anche se rimarranno i timori sulla sua volatilità. Non è noto se i piani di El Salvador possano interferire con le ambizioni di ottenere dal Fondo Monetario internazionale, un programma di supporto per investimenti da 1 miliardo di dollari.

In futuro, altri paesi e banche potrebbero iniziare ad adottare bitcoin o altri token di criptovaluta. Un certo numero di paesi dell’America Latina, come Brasile e Panama, hanno espresso interesse a seguire le orme di El Salvador.

Stefano di Tommaso