LA GRANDE TRANSIZIONE

L’ECONOMIA GLOBALE SI ACCINGE AD UNA GRANDE TRANSIZIONE VERSO L’INDUSTRIA “VERDE” E L’EFFICIENZA ENERGETICA. QUALI OPPORTUNITÀ PORTA E COME CAMBIANO LE VALUTAZIONI D’AZIENDA ?

DOPO LA PANDEMIA

La pandemia COVID-19 ha fatto tanti morti, ha distrutto interi settori economici e confinato in casa per un po’ di tempo buona parte dell’umanità. Soprattutto tra le classi sociali più disagiate molti hanno subìto umiliazioni, perduto il lavoro e con esso quel minimo di dignità che assicurava loro un ruolo nella società. Ma, un po’ come succede con le guerre, le carestie e i disastri naturali, indubbiamente le precauzioni imposte dalla pandemia hanno scatenato l’attenzione collettiva alla casa, alla famiglia, alla salute e i ai valori fondamentali della vita. Hanno accelerato i processi di cambiamento e fatto tornare prepotentemente in luce l’attenzione all’ambiente, alla sanità e al progresso (anche tecnologico) dell’umanità.

Anche l’attenzione alle responsabilità sociali di chi dirige la società civile è divenuta oggi più diffusa, gettando una luce nuova sulle tipologie di business che sono più sensibili a questo tema, o che sono di più sulla bocca di tutti, e sulla necessità che le nuove normative facciano tutto il possibile per contribuire alla preservazione dell’ambiente.

UN NUOVO ORIENTAMENTO

I governi hanno ripreso con decisione i grandi progetti infrastrutturali su alcuni dei quali hanno addirittura dovuto riscoprire il ruolo imprenditoriale dello Stato e la necessità di collaborare con l’industria, incentivando talune attività e penalizzandone altre.

È nota ad esempio la decisione della nuova Commissione Europea di ridurre progressivamente le emissioni che provocano l’effetto-serra, con vaste conseguenze per tutti i mezzi di trasporto, per le attività fortemente energivore e persino per gli allevamenti animali, ed è recentissima la decisione europea di mettere al bando tutti gli articoli in plastica monouso e tutte le produzioni basate su materiali che verranno poi dispersi nell’ambiente. Giustamente, le associazioni degli industriali hanno fatto notare che in tal modo interi settori economici verranno cancellati o fortemente ridimensionati, e che il costo sociale di tali scelte deve essere opportunamente considerato.

Al tempo stesso un’altra filiera industriale, quella collegata al concetto di mobilità sostenibile, ha avuto fortissimo impulso e sta godendo di generosi incentivi pubblici. Lo stesso vale per la produzione e la conservazione di energia da fonti rinnovabili e -ancor più- per la ricerca, la produzione e la distribuzione di farmaci e integratori alimentari che possono dare sollievo o fornire sicurezza.

I TEMPI SONO MATURI PER UNA GRANDE TRANSIZIONE

Tutto questo accelera processi iniziati già da tempo ma che oggi stanno finalmente venendo alla luce: il progressivo invecchiamento della popolazione, la diffusione delle nuove forme di telecomunicazione e dei mezzi informatici, le prime applicazioni dell’intelligenza artificiale, le prime manipolazioni genetiche e le nuove stimolazioni immunitarie, così come le prime applicazioni di arti e organi bionici a quelle parti del corpo che non sono guaribili o non sono adeguate alle necessità di assicurare una vita attiva più lunga e un forte miglioramento delle condizioni di vita del genere umano (sempre più caratterizzato da forte sedentarietà). Le premesse tecnologiche per una nuova rivoluzione industriale c’erano insomma già tutte, ma lo shock post pandemico ne ha esaltato pervasività e velocità di diffusione.

IL GREEN NEW DEAL

Oggi a tutto ciò si aggiunge la grande sfida del “Green New Deal”: un insieme di riforme sociali ed economiche intraprese dal presidente Roosevelt in risposta alla grande depressione di un secolo fa. Esso combina l’approccio economico interventista di Roosevelt con concetti fortemente ambientalisti, l’efficienza energetica, l’economia circolare e la produzione di energia da fonti rinnovabili.

La sfida, lanciata dai soliti americani ma immediatamente raccolta dai governi di tutto il resto del mondo è in apparenza soltanto uno slogan. Ma l’attenzione alle attività economiche che rispondono ai criteri “ESG” (acronimo che sta per Environmental, Social, Governance: si utilizza in ambito economico/finanziario per indicare tutte quelle attività legate all’investimento responsabile che tengono in considerazione aspetti di natura ambientale, sociale e di correttezza della governance) sta contribuendo a focalizzare l’attenzione degli investitori sui titoli quotati di imprese che hanno abbracciato criteri di rispetto per l’ambiente e relative certificazioni, come il bilancio sociale, o il rendiconto sulla Corporate Social Responsibility, conosciuto in Italia come Bilancio di sostenibilità.

VERSO L’ECONOMIA CIRCOLARE

Una tendenza, quella verso l’economia “verde”, che oggi si è quasi liberata da connotazioni politiche e sociali, e che a maggior ragione sembra destinata a incidere nelle nostre vite e sui nostri portafogli ben al di là di quanto ancora riusciamo ad immaginare, anche perché -appunto- non è soltanto uno slogan: l’esigenza di proteggere la natura (e con essa l’ambiente in cui viviamo) è davvero divenuta pressante. In queste condizioni (cioè con il rischio che incombe di possibili disastri ambientali) è normale che si generi una profonda transizione verso scelte “ecologiche” e che questa transizione possa modificare parecchio i mercati di sbocco di prodotti e servizi, così come l’approvvigionamento delle materie prime o delle risorse finanziarie.

COME CAMBIA IL MONDO DI CONSEGUENZA?

Non che non vi risiedano intorno dei rilevantissimi interessi economici, anzi! Probabilmente sono proprio loro alla regia di buona parte delle scelte più importanti di governi e organizzazioni internazionali ma, prima ancora di decidere se si vuole filosofeggiare al riguardo, occorre chiedersi come cambia di conseguenza il mondo e come si può reagire in maniera proattiva a queste tendenze. Occorre chiederselo in qualità di cittadini, di consumatori, di membri di nuclei familiari, di comunità urbane e di aggregati sociali, così come occorre chiederselo nella veste di operatori economici di ogni genere, e in quella di professionisti, dirigenti, intellettuali, imprenditori e investitori del risparmio e della previdenza.

La “nuova normalità” è sì già dappertutto, ma è altresì anche appena arrivata. Non ha ancora fatto in tempo a penetrare in profondità nella coscienza collettiva, non ha ancora rivoluzionato seriamente l’industria, i consumi, gli investimenti e le modalità di vita quotidiana. E questo genera grandissime opportunità. La transizione all’economia “verde” richiederà di rinnovare su vastissima scala l’industria, il commercio, i servizi, l’intrattenimento, l’alimentazione, i trasporti, le abitazioni e tutte le attività sociali. I programmi del “Green New Deal” -nella loro aspirazione ideale- tendono a combinare l’innovatività industriale e tecnologica con la tutela dei lavoratori, della loro salute e dell’ambiente che li circonda, e con la riduzione delle barriere che limitano la diffusione delle informazioni, delle conoscenze e del benessere. E se tutti (o quasi) i governi li adottano, allora anche produttori e consumatori dovranno prenderne atto.

NUOVE FORME DI COLLABORAZIONE CON LO STATO

Per raggiungere tali risultati le pubbliche amministrazioni non potranno che promuovere nuove forme di collaborazione con le imprese e con le istituzioni finanziarie. Anche perché essi richiedono investimenti stratosferici e grandissima mobilitazione generale. E questa volta tutti sembrano volere (e dovere) fare molto sul serio perché in gioco è il futuro del pianeta. I complottisti avranno molto da commentare ma indubbiamente non è soltanto un’urgente esigenza collettiva: è anche un’occasione di quelle che si presentano poche volte nella storia: la mobilitazione di enormi forze in campo genera grandissime opportunità d’affari e generosissime opportunità di investimento. A tutti i livelli. La collaborazione delle banche centrali e i nuovi orientamenti della fiscalità a favore delle scelte ecologiche liberano anche le risorse per riuscirci e l’euforia dei mercati finanziari a sua volta traduce queste opportunità di business in condizioni di migliore fattibilità di praticamente qualsiasi progetto che vada a inserirsi nel solco e nella direzione del “green new deal”.

COME CAMBIANO LE VALUTAZIONI DELLE IMPRESE

Anche le valutazioni delle imprese che meglio rispondono ai criteri che oggi vanno per la maggiore possono risultare molto generose, molto più di quanto sarebbe stato in tempi di normale ripresa economica e di tassi temporaneamente bassi. Questo comporta anche taluni eccessi, come certe famigerate “meme stocks”, le cui quotazioni risultano estremamente elevate ed estremamente speculative. Ma è ciò che succede quando c’è euforia sui mercati e non è detto che qualcuna di esse (ad esempio: “beyond meat”) non possa risultare in un buon investimento nel lungo termine, così come lo sono stati Google e Tesla.

Oggi sappiamo che la mobilitazione generale verso la grande transizione ecologica potrà favorire l’immissione di ancora molta liquidità sui mercati e probabilmente ancora molto a lungo. Questo farà si che le nuove tecnologie “verdi” saranno ancora una volta probabilmente le più favorite, insieme a tutto ciò che accompagna la trasformazione digitale, la cura della salute, la prevenzione delle disgrazie, la realizzazione di grandi progetti infrastrutturali e di nuovi sistemi di convivenza civile improntati al controllo di emissioni nocive, al riciclo delle scorie, delle materie prime e delle risorse primarie, come l’acqua e l’ossigeno.


Occorre tenerlo presente non soltanto perché tutto questo potrà generare ottime opportunità d’affari, ma anche perché tutto ciò che viceversa non potrà rispondere ai criteri ESG sarà necessariamente e inevitabilmente penalizzato, svalutato, destinato a subire normative più stringenti, e sarà soggetto a sempre minore consenso da parte dei consumatori più giovani, che risultano più sensibili al cambiamento di paradigma. Sotto il profilo degli svantaggi che la transizione comporterà occorre poi ricordare che per molte imprese l’accesso al mercato dei capitali e quello alle contribuzioni pubbliche risulterà fondamentale onde poter reperire le risorse necessarie per supportare gli importantissimi investimenti necessari.

LA NECESSITÀ DI FORTI INVESTIMENTI

La barriera finanziaria potrà dunque di per sé costituire un micidiale setaccio per comprendere quali attività saranno favorite e quali svantaggiate. Anche quella dimensionale risulterà altrettanto terribile: al di sotto di determinate dimensioni aziendali le imprese (già oggi sottoposte alla concorrenza globale) non potranno mai qualificarsi per i fondi che investono in titoli ESG o non riusciranno a fare il salto tecnologico e strutturale che le nuove tendenze richiedono. Anche questo congiurerà perché si moltiplichino le opportunità di compravendita delle stesse, come quelle di aggregazioni e collaborazioni esterne onde evitare di soccombere. Il problema, già grande di per sé, sarà particolarmente importante per il frastagliatissimo panorama industriale italiano.


Ma le fusioni e acquisizioni tra imprese sono da sempre anche un’ottima occasione di profitto, di liberazione di nuove risorse, di generazione di sinergie e nuove opportunità, di crescita del valore dei relativi titoli quotati in borsa e di finanziamento del rinnovamento. E quest’anno le statistiche indicano che saranno battuti tutti i record in tal senso. Sarà probabilmente l’anno record per le fusioni e acquisizioni d’azienda, anche se non è detto che la tendenza di limiti soltanto all’anno in corso.

MA LA TRANSIZIONE PORTA GRANDI OPPORTUNITÀ

Dunque anche per le imprese italiane la minaccia può divenire un’opportunità. La necessità una virtù. Ed è anche per questo motivo che restiamo tutto sommato ottimisti sulla tenuta delle mirabolanti quotazioni delle borse valori: le opportunità di crescita economica derivano anche dai profondi processi di razionalizzazione che non potranno che essere provocati dal cambiamento!

Il percorso verso la grande transizione ovviamente non sarà perfettamente lineare. Anzi! Come tutte le rivoluzioni anche quella “verde” comporterà un bel numero vittime, di nodi da sciogliere, di problemi conseguenti, di incidenti di percorso e di battaglie senza quartiere. L’impetuosa crescita economica in corso (di rimbalzo dopo il pesante stop) ha generato un’inflazione che minaccia di incombere e offuscarla, i debiti crescono e quelli pubblici preoccupano, le diseguaglianze tendono a prevalere, la scarsità di determinate risorse (come l’acqua e i terreni agricoli) si accentua. Nel frattempo i disastri naturali si moltiplicano, anche a causa della tropicalizzazione del clima. Il sistema sanitario tende a cedere sotto i colpi delle conseguenze della pandemia.

Eppure accanto a tutti questi problemi risiedono grandi opportunità, grandi miglioramenti complessivi sono in arrivo per tutti, con la speranza che essi si traducano anche in maggior benessere collettivo. La transizione è in atto, ed è inesorabile. Conviene orientarsi di conseguenza, invece di farsene travolgere.

Stefano di Tommaso




IL RISCHIO DI “STAGFLAZIONE”

È sempre più difficile fare il punto su dove va l’economia, innanzitutto perché i suoi cicli, che una volta duravano anni e adesso soltanto mesi, oggi non sono sincronizzati tra un continente e l’altro o tra un settore industriale e l’altro, e tendono a sovrapporsi influenzandosi, in modo da rendersi poco distinguibili. Ma anche perché le nuove ondate pandemiche e le continue rivoluzioni tecnologiche possono arrivare minare la fiducia degli operatori economici fino a fargli rinviare quelle scelte di investimento e di ripresa delle attività che sono essenziali per alimentare l’attuale ciclo espansivo. Nemmeno in questo caso -però-l’inflazione tornerà a calare.

 

BIDEN E I NUOVI CONTAGI POSSONO LIMITARE LA RIPRESA

I paesi più tecnologicamente avanzati (quelli anglosassoni e quelli dell’estremo Oriente) hanno vissuto un’euforica primavera all’insegna del ritorno alla normalità dopo la pandemia e della conseguente ripresa delle attività all’aperto, basandosi essenzialmente sulla fiducia nell’efficacia dei vaccini e sul rimbalzo dell’economia dopo il crollo dello scorso anno.

Le borse avevano anticipato tale euforia fin dallo scorso anno, anche perché erano sostenute dai continui interventi delle banche centrali a supporto della liquidità fino al mese di Maggio. Poi la Federal Reserve Bank of America ha paventato un’eccessiva fiammata inflazionistica e la giostra dei rialzo borsistici si è bruscamente fermata.

A ciò si è unita negli ultimi giorni una nuova ondata di contagi dovuta alle mutazioni del virus e ha contribuito a porre un freno a quell’ondata di ottimismo che si era portata dietro -assieme alla ripresa della domanda- anche il rialzo dei prezzi delle materie prime. La brusca frenata oggi pone nuovi interrogativi ma c’è il rischio che invece il rialzo dei prezzi prosegua ugualmente.

Occorre anche ricordare il fatto che l’America ha inaugurato -dopo le elezioni presidenziali- un nuovo corso politico (con l’avvento dei Democratici al potere) che spinge verso una maggiore tassazione delle attività economiche ed una maggiore spesa pubblica, soltanto parzialmente orientata a colmare i divari sociali. In realtà il grosso della spesa e delle nuove politiche fiscali dei Democratici vuole indirizzare maggiori risorse verso la tutela dell’ambiente (tutela anche solo apparente, come nel caso delle vetture elettriche) e verso le nuove infrastrutture.

Come sempre succede dopo che si muove l’America, tutto il mondo si appresta a seguire le medesime tendenze di fondo (soltanto le tempistiche saranno differenti da Paese a Paese). Maggiori tasse e nuovi vincoli ambientali però potrebbero congiurare in direzione di una forte moderazione dell’attuale ciclo espansivo dell’economia. E se gli altri fattori della crescita (le riaperture e gli stimoli monetari) vengono parzialmente meno, allora anche le attuali prospettive di crescita economica globale possono venire ridimensionate.

Nei paesi europei il ciclo economico é oggi appena giunto a rivedere il segno positivo, e l’ondata di nuovi contagi pandemici dovuti all’ultima variante del virus rischia di rovinargli la festa prima ancora che sia iniziata. Nel vecchio continente almeno i prezzi di molti beni e servizi non sono ancora tornati vistosamente a crescere, anche perché i consumi sono depressi per effetto della disoccupazione, che è a livelli ben maggiori che oltreoceano e della scarsa velocità di circolazione della moneta, che ha molto ridotto l’effetto espansivo indotto dalle facilitazioni monetarie della banca centrale europea, limitando sino ad oggi anche l’inflazione.

MA IL PETROLIO SALE UGUALMENTE

Ma il rialzo del costo del petrolio è il medesimo a livello planetario ed è sospinto principalmente da una precisa volontà delle grandi multinazionali americane (l’America ne è esportatrice netta). Già soltanto questo fattore può concatenare anche dalle nostre parti una serie di conseguenti rincari dei prezzi che, senza un’adeguata crescita dell’economia nel secondo semestre dell’anno, potrebbe palesare il rischio di una pericolosa stagnazione pur in presenza di un rigonfiamento dei prezzi importato dall’estero. Senza poi che la disoccupazione venga adeguatamente riassorbita da una nuova stagione di investimenti produttivi il reddito disponibile rischia di ridursi e nuovi sussidi pubblici rischiano di riportare tensioni sulla sostenibilità del debito.

I mercati finanziari oggi scontano già un rialzo dei tassi d’interesse a breve termine a causa dell’inflazione e della possibile riduzione degli interventi delle banche centrali ma, consci della limitatezza della visibilità sulle condizioni economiche globali, non hanno visto alcun significativo rialzo per i tassi a lungo termine, soprattutto nel vecchio continente dove l’assurdità dei tassi negativi in presenza di seri rischi inflattivi continua a perpetuarsi.

Nemmeno le banche centrali vedono di buon occhio lo schiacciamento dei tassi intorno allo zero e contrastano questa tendenza alimentando prospettive crescenti di inflazione dei prezzi. E questo è il vero motivo per il quale riteniamo che l’inflazione salirà: sono loro stesse che la pilotano, nella speranza di monetizzare progressivamente buona parte dei debiti pubblici, senza curarsi troppo dell’effetto distorsivo nei confronti dell’esercito di risparmiatori che ne subirà conseguenze pratiche.

ANCHE L’ETERNO LIMBO CREATO DALLE NUOVE TECNOLOGIE CREA PROBLEMI SOCIALI

Il mondo economico globale sembra dunque subìre con molto disagio lo iato tra le prospettive di inflazione e i rischi di mancata ripresa economica, ma c’è un ulteriore fattore distorsivo che rischia di contare più di tutti altri nel ridurre le attese per la crescita dell’economia reale: l’eterna transizione tecnologica.

Il continuo flusso di innovazioni e la prospettiva dell’avvento dei nuovi sistemi intelligenza artificiale proseguono a ritmo incalzante e rischiano oggi di rendere vana qualsiasi certezza relativamente alla continuità del business e alla durata dei posti di lavoro. Il mondo potrà senza dubbio beneficiare in futuro di tali grandi innovazioni, ma chi per il momento ne sta beneficiando di più sono coloro che ci hanno investito sopra. Chi ne soffre sono i milioni di esseri umani che si vedono costretti a riconvertire le proprie attività in funzione dei grandi mutamenti indotti.

Le nuove tecnologie creano molta incertezza, andando ad aggredire e soppiantare le attività industriali obsolete. Quando ciò accade sistematicamente e per quasi qualsiasi settore economico si genera il rischio di lasciare il mondo produttivo in un eterno limbo, senza permettergli mai di trovare un nuovo duraturo equilibrio. Ciò è naturale ma può essere “gestito” senza creare voragini nel mercato del lavoro soltanto in presenza di cospicui “ammortizzatori sociali”, deputati ad evitare vere e proprie catastrofi occupazionali derivanti dalle nuove tecnologie.

Oggi però il forte indebitamento pubblico riduce la capacità dei governi di intervenire appieno e fa sì che il cittadino medio sia costretto a risparmiare di più a causa della riduzione della consistenza concreta della previdenza e della sanità pubbliche. Ciò deprime i consumi e crea nuove forme di povertà.

I CONSUMI CAMBIERANNO PARECCHIO

Anche per questi motivi (l’effetto delle nuove tecnologie) i consumi stanno cambiando vistosamente. Persino le normative, la burocrazia, le vecchie abitudini sociali e alimentari, le abitazioni e i nuovi sistemi di mobilità sono destinati ad essere ancora numerose volte rivoluzionati dagli effetti diretti e indiretti delle nuove tecnologie. Non è difficile perciò prevedere che queste ultime, nel breve termine, genereranno inevitabilmente nuova disoccupazione, frammentazione sociale, nuovi modelli di povertà e maggiori divarî tra le classi sociali, nonché nuove insoddisfatte esigenze mediche e previdenziali da parte dei segmenti più deboli della popolazione.

In questa situazione i consumi -soprattutto quelli europei dove la ripresa stava facendo capolino soltanto adesso- diventano più volatili, meno prevedibili, meno razionali e ancor più basati sul credito di quanto lo fossero prima della grande crisi del 2008-2009 (con il rischio che una nuova valanga di debiti insoluti possa travolgere nuovamente i mercati finanziari). La situazione economica reale insomma è abbastanza pesante, soprattutto a casa nostra, mentre in estremo Oriente e in America è sicuramente migliore.

MA LE BORSE NON TEMONO LA MANCATA RIPRESA

Il clima dI incertezza che si respira tra gli operatori economici tuttavia non sembra essere in grado di fare significativi danni agli indici borsistici, che sono per la magggior parte dipendenti dall’andamento dei profitti delle grandi società quotate, spesso multinazionali e per una parte significativa per-tecnologiche. Le maggiori imprese costituiscono buona parte del totale della capitalizzazione delle borse valori e, nonostante qualche difficoltà oggettiva, esse dovrebbero continuare a sovra-performare rispetto a quelle più piccole e meno capaci di significativi investimenti nelle nuove tecnologie, dal momento che hanno già dimostrato di saper cavalcare il cambiamento più delle altre e spesso di esserne addirittura protagoniste.

Questa situazione favorisce anche quelle imprese che sono meno importanti ma sono esportatrici di macchinari, tecnologie e sistemi infrastrutturali, delle quali hanno spesso più bisogno le grandi corporations che non le piccole realtà. L’elettronica, la meccanica di precisione e i produttori di macchinari per l’industria vedono perciò volare il loro portafoglio ordini, anche se fanno più fatica di prima ad assicurarsi un margine positivo sulle vendite, dal momento che i prezzi dei fattori produttivi rischiano di salire più di quelli dei prodotti finiti.

Lo stesso vale per le startup innovative: anche di queste le grandi corporations hanno molto bisogno e sono disposte a strapparsele di mano a colpi milionari. La creazione di ricchezza dunque oggi passa molto di più per la finanza che non per la crescita industriale.

I listini azionari però, se a rigore dovrebbero addirittura salire, di fatto probabilmente resteranno soltanto al palo, a causa della possibilità che le condizioni generali dell’economia possano tornare a peggiorare, ma comunque difficilmente scenderanno. Le borse perciò potrebbero riflettere assai poco il clima di incertezza generale in cui il mondo sembra essersi cacciato. Clima che resterà pesante almeno sino a quando il mondo non riuscirà a liberarsi stabilmente dalle minacce pandemiche.

Anche in Europa, dove il numero di società multinazionali e fortemente tecnologiche è assai ridotto rispetto a nord-America ed estremo Oriente, dovrebbe esserci una notevole stabilità dei listini e fors’anche addirittura qualche passo in avanti delle quotazioni borsistiche. Per molti motivi, tra i quali il divario nella ripresa dei corsi azionari, non ancora colmato con i mercati anglosassoni e asiatici, nonché una maggiore appetibilità in funzione della maggior mancanza di alternative per i risparmiatori europei (oramai poco inclini a sottoscrivere titoli a reddito negativo quando è chiaro che l’inflazione è solo all’inizio).

SE NON ARRIVERANNO “CIGNI NERI”

Ovviamente questo scenario è valido soltanto “coeteris paribus” (cioè a parità di altri fattori) dal momento che nessuno è in grado di prevedere eventuali instabilità geo-politiche, che potrebbero giocare quasi solo al ribasso dei mercati, anche se è relativamente poco probabile che ciò accada nel breve termine.

È il trionfo dell’economia di carta, anzi oramai dell’economia completamente digitalizzata, su quella reale e sulle effettive sorti del benessere economico collettivo. Le disparità sociali, di reddito e di patrimonio, con l’attuale congiuntura tendono perciò inesorabilmente ad ampliarsi. E nessuno prende ancora seriamente in considerazione il rischio di forti scollamenti sociali o di grandi sommovimenti politici.

CHI CI GUADAGNA SONO I POTENTI DEL MONDO

Ma se lo facesse non potrebbe che fuggire lontano con i propri quattrini e finire per accentuare questa tendenza alle disparità, facendo migrare i propri capitali ancor più verso l’America e le regioni asiatiche, che tendenzialmente sono a minor rischio di sommovimenti sociali e anzi, con la crescita demografica che esse esprimono, sono anche le meglio messe dal punto di vista del rischio di stagflazione. |

Ragione per cui possiamo facilmente prevedere che l’immissione di liquidità da parte delle banche centrali occidentali (e soprattutto di quella europea) continuerà nonostante gli effetti negativi che comporta sulla crescita dei prezzi e sulle disparità sociali. Possiamo inoltre facilmente prevedere che, con l’arrivo dell’inflazione, anche i tassi d’interesse dalle nostre parti risaliranno più che in America o in estremo Oriente e che in Europa l’inflazione potrà crescere ancor più dei tassi d’interesse, pur senza che la ripresa economica dell’Euro-zona possa eguagliare le attuali (elevate) aspettative.

Tutto questo porta a ritenere che noi europei siamo a rischio di precipitare in un miscuglio di stagnazione e inflazione allo stesso tempo e, senza una reale volontà politica di evitarlo, di accentuare il nostro svantaggio nei confronti delle altre regioni del mondo.

Stefano di Tommaso




TAPER TANTRUM ?

L’altro ieri un cliente che attendeva una proposta di finanziamento mi ha fatto fretta dicendo: “non vorrei che il costo del finanziamento fosse più alto dopo l’estate” . Come lui, l’intero mondo degli operatori economici oggi si interroga sul medesimo argomento: i tassi saliranno? Se la risposta è positiva allora effettuare investimenti costerà di più, tenere denaro liquido sui conti correnti sarà più svantaggioso. Ma soprattutto dipenderà dalle ragioni: se i tassi saliranno perché l’inflazione prenderà stabilmente piede allora c’è la possibilità che tutto, dopo l’estate, costerà un po’ di più.

 

La risposta è in teoria assai semplice: “probabilmente si”, ma è il motivo per il quale i tassi saliranno che rischia di essere molto più incerto e di implicare delle conseguenze pratiche non così ovvie: è l’eccesso di liquidità che spinge le banche centrali a tornare sui loro passi (deprimendo le borse), oppure è l’economia che corre e quindi è l’inflazione che morde e che costringe a rivedere i rendimenti che i titoli a reddito fisso devono avere? In questo secondo caso le borse potranno probabilmente superare l’empasse iniziale e tornare a correre, sulla scia di aspettative incrementali per i profitti delle imprese.

ALLORA BISOGNA AFFRETTARSI

Soprattutto in questo secondo caso chi deve fare delle scelte dovrà giocoforza decidersi a farlo in anticipo. Pena pagare dopo prezzi più alti per qualsiasi fattore di produzione. Con l’arrivo dell’inflazione infatti gli immobili costeranno di più ivi comprese le prime abitazioni e i terreni. Ma anche i macchinari necessari a imprenditori e artigiani, le autovetture e le imbarcazioni e, probabilmente, anche i generi alimentari e di prima necessità, cosa che non potrà che stimolare a sua volta un rialzo dei salari (almeno quelli di base). Questo sì che riproporrebbe l’inflazione a livello strutturale!

D’altra parte tanto l’anticipazione degli investimenti quanto la ricostituzione di scorte strategiche di magazzino sono elementi che possono stimolare decisamente la ripresa economica, così come sta già succedendo in America. E possono favorire l’inflazione.

La fiammata inflazionistica partita alla grande dagli Stati Uniti ci metterà probabilmente qualche mese a trasmettersi appieno nel resto del mondo, quantomeno a causa del rialzo dei prezzi dell’energia e della tecnologia.

Ma oltreoceano l’inflazione dei prezzi è certamente arrivata, a livello mensile tra Aprile e Maggio, a livelli che non si vedevano dagli anni ‘80 (il tasso annualizzato di Aprile ha toccato il 9% e quello di Maggio il 7%).

MA I TASSI D’INTERESSE CI METTERANNO DEL TEMPO

I tassi d’interesse di mercato non potevano non risentirne, e tuttavia non si sono mossi moltissimo rispetto ai livelli di inflazione che si sono visti in questi due mesi. Dunque se i mercati obbligazionari non hanno preso paura perché gli operatori economici dovrebbero? Se i tassi impliciti dei titoli a reddito fisso di largo mercato non sono quasi cresciuti ci sono soltanto due possibilità: o l’inflazione è destinata a rientrare rapidamente oppure il mercato finanziario non ne sta ancora tenendo conto.

Storicamente, in effetti, i mercati finanziari non sono stati capaci di prevedere con largo anticipo quel che sarebbe successo in termini di inflazione. Anzi nelle stagioni precedenti sono stati piuttosto i mercati finanziari a muoversi al seguito dell’andamento dell’inflazione che non il contrario. Dunque potrebbero essere semplicemente un po’ in ritardo, causa la grande liquidità immessa ancora oggi dalle banche centrali che spinge a comperare a prezzi più alti di quanto sarebbe logico dei titoli a reddito fisso la cui offerta resta limitata. E prezzi più alti significano rendimenti più bassi.

Bisogna però anche aggiungere che la fiammata inflazionistica è ancora vista da tutti come un fenomeno non strutturale, trainato oggi principalmente dalla scarsità temporanea di offerta dei beni (a partire dal petrolio) più che da una forte domanda degli stessi. Ecco allora che la risposta al dilemma uovo-gallina del collegamento tra tassi di mercato e inflazione è comunque di per sé una via di mezzo: se tutti si aspettano che l’ìnflazione sia temporanea appare corretto che i tassi a lungo termine non reagiscano più di tanto.

Ma i mercati borsistici nei giorni scorsi hanno preso paura, in particolare lo scorso giovedì, dopo il discorso del governatore della Federal Reserve Bank of America, Jerome Powell. E questo nonostante il fatto che ad acquistare i titoli a reddito fisso non è soltanto la banca centrale americana, anzi: come si vede dal grafico qui accanto, essa conta soltanto per circa la metà del totale.

 

IL MESSAGGIO DI POWELL

Powell ha voluto lanciare un segnale che può aver cambiato l’orientamento degli operatori finanziari: la FED ridurrà in anticipo i suoi interventi sul mercato e non resterà a guardare se l’inflazione si dimostrerà strutturale, e ha anticipato che rialzerà i tassi entro il 2023.

Ovviamente il fatto che il governatore possa anche soltanto nominare un aumento dei tassi spinge chi lo ascolta a pensare che probabilmente è quello che succederà (molto prima). Anche perché se davvero la liquidità in circolazione sarà ridotta allora sì che i tassi dovranno necessariamente salire. Il gioco delle aspettative che si auto-realizzano funziona sempre.

Di seguito un grafico che compara la forte frenata dei mercati dopo il “meeting” della FED ad altri “sell-off” (svendite) sui mercati borsistici degli anni precedenti:



La prospettiva della più grande banca centrale al mondo che “spezza le reni” dell’inflazione sul nascere non poteva però che avere anche numerosi effetti positivi: i prezzi dei metalli e di molte altre materie prime sono stati colpiti dall’ondata di ribassi, probabilmente a causa della presa di beneficio da parte degli speculatori, timorosi del fatto che la giostra al rialzo sia già arrivata al capolinea. Da questo punto di vista Powell ha fatto bene ad agire prima che poteva.

I CAMBI NE HANNO RISENTITO

Il dollaro peraltro ne ha tratto giovamento, rivalutandosi soprattutto sulle divise dei paesi emergenti. Un po’ come era successo nel 2013 quando si era parlato per la prima volta del cosiddetto “Taper Tantrum”, cioè degli effetti negativi di un atteggiamento più restrittivo delle banche centrali. Una situazione che non poteva che danneggiare fortemente le valute dei mercati emergenti: ne hanno risentito soprattutto le divise monetarie del Brasile, dell’India, dell’Indonesia, del Sudafrica e della Turchia. Ma questo dopo che avevano beneficiato di quasi un anno di crescita.


C’è però una differenza tra allora e oggi: le prospettive di crescita dell’economia americana (ma anche di quella globale) sono oggi molto maggiori di quanto lo fossero otto anni fa: il Prodotto Interno Lordo degli Stati Uniti d’America è previsto crescere del 7% quest’anno è del 3,3% nel 2022, mentre nel 2013 la crescita del PIL si attestò soltanto al 2,6% per giungere al 2,9% l’anno dopo.

NON TUTTO VIENE PER NUOCERE

Da questo punto di vista la FED ha probabilmente ottenuto quello che voleva: correggere ciò che si andava delineando come una bolla speculativa e spaventare preventivamente i mercati per prevenire situazioni peggiori e tornare a conferire forza al biglietto verde. Lo spettro di un altro Taper Tantrum dunque oggi spaventa molto meno, tanto per la forza della ripresa globale in corso, quanto per il fatto che la FED non ha perso tempo.

Queste prospettive particolarmente favorevoli si accompagneranno nel tempo a qualche punto in più di inflazione, ma l’andamento complessivamente positivo dell’economia aiuterà a prevenire altri vistosi cali borsistici e potrebbe invece addirittura far recuperare ai mercati azionari tutto il terreno perduto. Cosa che probabilmente significherà che mentre i tassi a breve potranno salire, quelli a lungo termine non li seguiranno di pari misura.

Ma chi sta pensando di attendere a finanziare oggi la propria impresa farà bene a rivedere per tempo le sue idee: la sveglia suonata dalla Federal Reserve americana vale anche per le piccole e medie imprese italiane: la liquidità in eccesso non durerà per sempre, e i tassi di interesse ne risentiranno.

Stefano di Tommaso




TUTTI I NUMERI DELLA RIVOLUZIONE ELETTRICA

L’anno 2021 sembra essere davvero l’anno di svolta per la mobilità sostenibile. La mobilità è alla base della civilizzazione moderna e la sua progressiva elettrificazione tende ad impattare profondamente usi e costumi. La prospettiva oggi è quella di una crescita davvero importante nei numeri dei veicoli elettrici immatricolati ma la prospettiva non potrebbe essere diversa se l’obiettivo condiviso dai governi di tutto il mondo resterà quello di raggiungere la neutralità delle emissioni di anidride carbonica entro il 2050.

 

Anzi, probabilmente per cogliere tale obiettivo i legislatori dovranno fare di più a livello di incentivi e regolamentazioni, non soltanto con strumenti tradizionali relativi alla mobilità privata, bensì anche e soprattutto per l’adozione di veicoli merci nonché incoraggiando di conseguenza lo sviluppo della rete elettrica, il riciclo delle batterie, l’adozione di nuovi modelli di trasporto e di logistica. Persino gli spazi urbani stanno cambiando velocemente, per privilegiare i percorsi pedonali, ciclistici e dei mezzi pubblici e per,far spazio alle aree di ricarica delle batterie.

L’ELETTRICO È ANCORA POCO DIFFUSO NEI VEICOLI COMMERCIALI

Nell’immagine che segue quattro scenari relativi alla progressiva adozione dei veicoli elettrici: quello relativo all’attuale tendenza registrata (il c.d. scenario ETS) e, con la linea tratteggiata, quello relativo alla tendenza che deve prendere piede se vorremo rispettare, a livello globale, l’obiettivo di neutralità delle emissioni carboniose. Come si può vede dai grafici, ci siamo quasi per i veicoli a due o tre ruote e per gli autobus, c’è un certo scostamento rispetto alla traiettoria ideale per le automobili e i veicoli commerciali leggeri, e c’è ancora molto da fare per quelli di medio e rilevante peso.


SI PREVEDE UNA CRESCITA TUMULTUOSA

Alla data attuale circolano già all’incirca 12 milioni di veicoli “a 4 ruote”, che rappresentano circa l’1% del totale, ma sono destinati a crescere a circa 54 milioni entro il 2025. All’incirca il 44% di questi si trovano in Cina, il 35% in Europa, il 17% in America e soltanto il 4% nel resto del mondo. La metà del totale di quei 12 milioni è stata venduta nell’ultimo anno e il 70% negli ultimi tre anni. Alla data attuale inoltre circolano 1 milione di veicoli commerciali elettrici e 260 milioni di veicoli elettrici “leggeri” come monopattini, motociclette, motoscooter e biciclette con pedalata assistita. Di quest’ultima categoria quelli elettrici rappresentano già il 44% del totale a livello globale.

Le vendite annue di nuovi veicoli elettrici sono però destinate a crescere fortemente nel quinquennio in corso, passando dai 3,1 milioni di veicoli elettrici a quattro ruote del 2020 a ben 14 milioni di veicoli nel 2025. Questo significherà -per quella data- una quota di mercato di quelli elettrici di circa il 16% del totale a livello globale. Ci saranno tuttavia nazioni come la Germania dove si prevede che le vendite di auto elettriche raggiungano nel 2025 circa il 40% del totale e altre, come la Cina, dove si prevede che la quota di vendite di auto nuove elettriche arrivi “soltanto” al 25% ma che tuttavia, date le dimensioni di quel mercato, ne costituiranno la quota maggiore di incremento.

Il controvalore delle vendite cumulative di veicoli elettrici si stima che ammonterà a 7mila miliardi di dollari nel decennio che va dal 2021 al 2030. Non soltanto tale cifra mette i brividi, ma la vera sfida sarà probabilmente quella relativa al ventennio successivo (cioè fino al 2050), nel quale essa potrà raggiungere quasi 40mila miliardi di dollari. Un mercato molto ricco dunque, che stimolerà non poco la crescita dell’economia globale anche per tutte le attività indotte dalla rivoluzione elettrica, a partire dall’intelligenza artificiale applicata alla guida autonoma e all’efficienza di marcia.

Ad esempio in paesi come la Germania le vendite di auto elettriche si pensa che potranno raggiungere il 90% del totale entro il 2040 (cioè in meno di vent’anni), e forse negli altri paesi dell’Europa del nord ancora molto prima di tale data.


ANCHE IL PANORAMA URBANO STA CAMBIANDO

Il panorama urbano é perciò destinato a cambiare drammaticamente nei prossimi trent’anni, in funzione dell’obiettivo finale della neutralità di emissioni carboniose entro il 2050. Non soltanto si vedranno sempre meno veicoli a combustione interna che non siano almeno “ibridi-elettrici” o “ibridi ricaricabili con la presa elettrica” (plug-in), ma soprattutto si vedranno quasi soltanto veicoli elettrici all’interno delle città. Saranno inoltre progressivamente adottate ad un ritmo più veloce anche tecnologie diverse da quelle che prevedono l’uso delle attuali batterie (motori a cellule combustibile, a idrogeno eccetera).

L’utilizzo di tali tecnologie alternative alle batterie si prevede che investirà assai poco le automobili ad uso privato (la stima attuale è dell’1% entro il 2050), ma che potrà costituire una fetta rilevante del trasporto commerciale medio-pesante (all’incirca il 10% del totale entro il 2050) e che potrà essere adottato ancora più massicciamente negli autobus (circa il 16% del totale entro il 2050).


La disponibilità di “colonnine per la ricarica” condizionerà poi non poco anche lo sviluppo del “car sharing” elettrico (cioè della condivisione degli automezzi), che dovrà tornare a crescere decisamente negli ambienti urbani più popolosi, dopo la pausa dovuta all’esplosione pandemica. I maggior centri urbani probabilmente saranno di gran lunga i luoghi dove sarà più probabile che essi saranno maggiormente adottati, a causa delle difficoltà di parcheggio e della maggior probabilità per gli utenti di trovare un veicolo elettrico pronto all’uso nelle vicinanze.


UNA RIVOLUZIONE CHE ESIGERÀ INGENTI INVESTIMENTI

Ovviamente anche lo sviluppo dei sistemi di ricarica e delle reti elettriche intelligenti che li alimenteranno costituirà un passaggio essenziale nella transizione verso l’elettrificazione della mobilità globale, e si prevede che gli investimenti privati e infrastrutturali in tal senso potranno essere molto ingenti. Ad esempio si stima che entro il 2040 i sistemi di ricarica delle auto elettriche dovrà crescere a circa 290 milioni di unità, delle quali l’87% per uso domestico (250 milioni), mentre le colonnine pubbliche dovrebbero arrivare a 24 milioni di unità, oltre a circa 12 milioni di sistemi “aziendali” e 4 milioni di sistemi dedicati ad autobus e camion.


Nel totale gli investimenti cumulativi che si prevede saranno necessari per l’elettrificazione della mobilità di persone e merci dovrebbero arriva a quasi 600 miliardi di dollari. Per fare un paragone: nel mondo gli investimenti complessivi per la produzione di energie da fonte rinnovabile sono stati pari a 300 miliardi di dollari nel 2020. Ma il vero salto quantico negli investimenti per l’elettrificazione ci saranno soprattutto a partire dal 2040, quando gran parte del parco automezzi sarà cresciuto al punto da rendere completamente obsolete le attuali reti elettriche.

Le previsioni come si può vedere appaiono decisamente rosee per i produttori di veicoli, accessori, batterie e sistemi di ricarica. Persino per le infrastrutture necessarie a soddisfare la maggior domanda di elettricità ci sarà probabilmente un vero e proprio salto in avanti. Una forte discontinuità inoltre che potrebbe lasciare spazi di mercato a nuovi operatori industriali e creare opportunità d’affari irripetibili.

Mercati ricchi dunque, che però esigeranno ingenti investimenti da parte degli operatori che vorranno approfittarne, a causa delle fortissime economie di scala che sarà probabilmente necessario attuare per tenere testa al cambiamento. Non esattamente ciò che le imprese del nostro paese sono abituate a fare, raccogliendo le grandi risorse finanziarie che risulteranno necessarie e pianificando meticolosamente e per tempo gli sviluppi.

Stefano di Tommaso