DAVOS CELEBRA IL GRANDE “RESET”

Senza l’ abituale passerella di vip e leader del mondo il forum di Davos celebra, un po’ alla chetichella anche riguardo alla sua copertura mediatica (niente immagini glamour, niente colpi di scena e niente interviste hanno ridotto moltissimo la copertura dell’evento da parte dei “media”) il più importante dei temi socio-economici e politici dai tempi dell’ultima guerra mondiale: il Grande Reset! Ma mentre è chiaro che bisogna fare qualcosa, ciò che si farà davvero si guardano tutti dallo spiegarlo, dal momento che è ben chiaro che ci saranno delle pesanti conseguenze, di cui ovviamente nessuno parla.

 

LA PANDEMIA È STATA UN ACCELERATORE DEGLI EVENTI

Se la necessità di qualche cambiamento si sentiva già nell’aria, la pandemia ha sicuramente agito come un potente acceleratore degli eventi, costringendo l’umanità a drastiche modificazioni nello stile di vita, alcune delle quali destinate a restare per sempre.

Nel suo discorso introduttivo il fondatore del Forum, Klaus Schwab avverte che “le ricadute economiche e sociali della pandemia rischiano di portare a disordini, frammentazione e tensioni geopolitiche”.

Ma più che una previsione questa è già una constatazione, se si guarda ai numeri impressionanti che ne derivano: 90 milioni di nuovi poveri insieme alla recessione più grave da quella del 1929 e ancora chissà quanti morti oltre ai 2,2 milioni di poveretti che ci hanno già lasciato le penne (su un totale di 103 milioni di contagiati, con guarigioni complete soltanto nella metà dei casi).

IL BILANCIO DELLA PANDEMIA

Il nodo centrale del Forum più importante e più silenzioso della storia di Davos tuttavia non è la pandemia, bensì il “great reset” ovvero il grande azzeramento del corso della storia attuale, anch’esso -probabilmente- già una realtà in corso d’opera.

LA NECESSITÀ DEL CAMBIAMENTO

Da un certo punto di vista è divenuto necessità: il mondo avrebbe bisogno di un coordinamento tra le principali nazioni per invertire la rotta su una serie di contraddizioni che l’umanità non può continuare a sostenere se non vuol distruggere l’abitabilità del pianeta terra, arrivare al caos assoluto sui mercati finanziari e tornare al “tutti contro tutti” geopolitico, cioè tra un Paese e l’altro, un’etnia e l’altra, una religione e l’altra.

Sono almeno vent’anni che sentiamo dire che l’inquinamento da ossido di carbonio sta arrivando al “punto di non ritorno” e già ne avvertiamo numerose spiacevoli conseguenze, come la tropicalizzazione del clima (cioè la maggior violenza e la minor prevedibilità delle tempeste), lo scioglimento dei ghiacci e l’ innalzamento delle acque, la desertificazione di vaste aree del pianeta e l’estinzione conseguente di numerose razze animali e vegetali.

Per non parlare dell’eccesso di debito che affligge il mondo, e che sta cambiando drasticamente i connotati della finanza internazionale, con una tendenza che -senza grandi interventi- è destinata ad accrescere fuori misura la bolla speculativa dei mercati e di conseguenza la loro stabilità. Nel grafico qui accanto si è estrapolata la tendenza alla crescita drammatica del debito per il prossimo 2030, con particolare riguardo a quello pubblico (in verde) e a quello delle aziende (in viola).

D’altra parte ci sono però le vere -e altrettanto silenziose- protagoniste di questa tendenza, le banche centrali di tutto il pianeta (in particolare la federal reserve bank of america e la banca centrale europea) che stanno da tempo e senza tregua lavorando alla “monetizzazione” dei debiti pubblici, riacquistandolo, come si può leggere da questa statistica trovata in rete:


Il punto però è che gli interventi al Forum dei grandi leader del mondo, nel momento più truce della recente storia e di fronte alla necessità dei cambiamenti più radicali da parte dell’umanità, sono apparsi decisamente “leggeri”, nonché diversi e scoordinati tra loro, evidenziando una delle due possibilità: o che non c’è speranza nell’indurre le nazioni a coordinarsi tra loro per reagire al rischio imminente, oppure che la regia (sottobanco) c’è ma per qualche motivo non se ne può parlare apertamente.

COSA DICONO I GRANDI LEADERS POLITICI

Ecco una panoramica a volo d’uccello dei messaggi lanciati dai principali capi di stato:

  • Xi Jimping propone un mondo più multilaterale possibile, a patto che nessuno si permetta di dire alla Cina cosa deve o non deve fare;
  • Narendra Modi si è complimentato con sé stesso per la crescente importanza dell’India nell’economia globale affermando che il suo paese se l’è cavata molto bene nella lotta al virus (peccato che al numero di morti da questo dichiarato non creda proprio nessuno);
  • la presidentessa dell’Unione Europea Von der Leyen ne ha invece approfittato per ribadire la rivoluzione verde che porterà il vecchio continente a superare tutti nelle politiche che la riguardano, peccato che tra i più colpiti dalla,recessione pandemica sono proprio i paesi membri di questa unione, come dimostrano le recenti previsioni per il prodotto interno lordo del 2021 avanzate da Bloomberg. Una cosa giusta però la Ursula l’ha detta, peraltro in assonanza con
  • Emmanuel Macron: il mondo è stato soggiogato dallo strapotere delle grandi multinazionali della tecnologia (da Google a Microsoft, da Amazon a Netflix passando per Intel, AMD, eccetera) cosa che costituisce una minaccia per la democrazia e la diffusione della ricchezza. Il capitalismo cioè è a un bivio: o riesce a moltiplicare le opportunità per la gente o si avvita in un tetto oligopolismo che non potrà che generare pesanti tensioni sociali. Belle parole che però contrastano con le politiche che tutti i giorni quegli stessi leaders mettono in atto, a favore dei pochi vera ma ricchi e a sfavore di tutti gli altri.
  • Sulla stessa piega anche Putin, seriamente (e forse anche più sinceramente) preoccupato per la pericolosa china presa dallo strapotere delle grandi corporation tecnologiche sulle istituzioni politiche e sovranazionali, una cosa che può distruggere la stabilità sociale e politica dell’Occidente. La sua conclusione è stata peraltro realistica: non si potrà vincere contro i poteri economici più forti se non lo vorranno anche gli altri paesi del mondo!

Grandi slogan, come sempre nei forum internazionali, ma nessuno che si metta davvero a parlare delle conseguenze pratiche del grande reset, dal momento che i suoi principali artefici non sono eletti dal popolo (i banchieri centrali) e la loro mera elencazione risulterebbe un filino impopolare.

Ragion per cui nessuno si azzarda ad anticipare quel che succederà davvero, se non attraverso iperboli, come quelle (numerose) contenute nel video d’apertura dei lavori:

IL VIDEO INTRODUTTIVO DEL WORLD ECONOMIC FORUM

Se vogliamo poi parlare delle possibili conseguenze del grande azzeramento successivo alla pandemia, esse rischiano di sembrare troppo radicali per poterle esporre pubblicamente: si va infatti dalla scomparsa del denaro contante e completa finanziarizzazione dell’economia, al declino della proprietà privata della maggior parte dei beni fisici, sostituita dall’effimero possesso dei medesimi beni (sintantoché essi risultino utili), alla forte riduzione di buona parte delle libertà individuali (ovvero sempre più limitazioni normative a queste ultime, seppur spesso dettate da sacrosante motivazioni), mentre il reddito delle persone oramai non si dice più che dovrebbe essere equamente distribuito, dal momento che superiori esigenze di sicurezza, ambiente, stabilità finanziaria e prevenzione dell’evasione fiscale suggeriscono la più completa tracciabilità dei movimenti di denaro per tutti coloro che non possono viaggiare “sopra le nuvole” ed una conseguente forte concentrazione della ricchezza a favore di questi ultimi.

IL RISCHIO È CHE PREVALGANO I GRANDI INTERESSI

Quello appena tracciato appare dunque un quadro più realistico e meno favoleggiato del “grande azzeramento” cui stiamo andando incontro: sull’altare delle politiche di contenimento del debito, dell’inquinamento, della sicurezza della persona e dell’ordine pubblico, sul fronte della sicurezza dei pagamenti e su quello della prevenzione delle rivolte sociali (come ad esempio la manifestazione davanti al Campidoglio USA in realtà doveva essere), molte libertà individuali saranno ulteriormente compresse, in una sorta di distopico “grande fratello” che si occupa di tutti (salvo ovviamente di coloro che riescono a “volare più in alto”).

Le malattie del pianeta verranno forse almeno parzialmente contenute ma il loro più diretto interessato (l’umanità stessa) rischia di morire soffocato dall’eccesso di regole, controlli, prevenzioni e cautele.

Il grande reset può insomma nascondere minacce peggiori -per l’umanità- di quelle che andrebbe a sconfiggere, e sull’altare di un mondo “migliore” probabilmente anche le più banali forme di democrazia possono venire compresse. Una prospettiva ovviamente non proprio gradevole, sebbene -se si guarda alla storia dell’umanità- non sia poi così diverso da quel che d’altronde è quasi sempre accaduto.

Stefano di Tommaso

 




LA FAVOLA DI GAMESTOP

Le autorità di vigilanza delle principali borse mondiali non sono mai state così in allerta: non lo sono state per la crisi dei mutui sub prime e nemmeno per l’esorbitante crescita del debito globale, ma lo sono per l’impennata delle azioni di una (relativamente) piccola società quotata a Wall Street che esercisce negozi su strada che vendono videogiochi. Un business in sicuro declino non soltanto a causa della crescita dell’online, ma anche a causa della pandemia, che ha ridotto le possibilità per la gente di riversarsi nei negozi. Il declino di GameStop evidentemente ha attirato però l’attenzione di chi ne osservava l’eccessivo declino in borsa, contribuendo a provocarne la riscossa, con acquisti generalizzati, soprattutto da parte dei privati speculatori della notte tramite piattaforme di “trading online”.

 

LA PREMESSA

Le azioni di GameStop avevano visto decrescere forse un po’ troppo rapidamente il loro valore in borsa, probabilmente anche a causa di pesanti scommesse al ribasso operate dai grandi “Hedge Funds”. Il gioco di chi aveva deciso di specularci al ribasso in apparenza era semplice e diretto: se quel business era destinato al declino allora conveniva “shortare” (cioè vendere allo scoperto) quel titolo, ricoprendosi più avanti quando le sue quotazioni sarebbero tracollate.

Entro certi limiti la vendita allo scoperto dei titoli è considerata una pratica normale, soprattutto sulle borse anglosassoni, i cui regolatori vedono nella speculazione la possibilità per il mercato di prevenire ciò che sta accadendo, nonché di fornirgli liquidità. Quando anche un piccolo titolo (in termini di capitalizzazione di mercato) attira le scommesse degli speculatori in realtà vede esaltati i suoi volumi di scambio, cioè la liquidità intrinseca del titolo stesso, eccessi a parte.

L’ARRIVO DEI “DAY TRADERS”

E probabilmente è proprio ciò che è successo stavolta: il cieco cinismo della speculazione doveva forse averla fatta un po’ troppo grossa sul titolo GameStop, attirando l’attenzione di una categoria di piccoli e piccolissimi operatori che comperano e vendono tramite piattaforme di “trading online”, cioè spesso dal computer di casa propria. Una categoria non soltanto di operatori, ma anche sociale e politica evidentemente, per la propria potenza collettiva e per aver attirato così tanta attenzione da parte delle autorità di mercato.


E cosa hanno fatto questi operatori che spesso comprano e vendono tramite piattaforme quasi gratuite? Si sono passati la voce tramite i “social networks” magari all’inizio ricevendo la “dritta” da qualche analista di Wall Street e passandola di bocca in bocca, e hanno deciso di comperare tutti insieme massicciamente quel titolo, il medesimo che quasi tutti i grandi operatori stavano invece vendendo allo scoperto, ribaltandone l’andamento e provocando una delle maggiori impennate nelle quotazioni di borsa che la storia ricordi.

LE GIGANTESCHE PERDITE DEI GRANDI FONDI

Nelle prime tre settimane di gennaio le azioni di GameStop sono salite del 1200 per cento, e alcuni hedge funds come Melvin Capital hanno perso 2,3 miliardi di dollari mentre le perdite complessive dei grandi fondi su quel titolo avrebbero superato i 5 miliardi di dollari! Denaro che i day traders hanno guadagnato. Una redistribuzione della ricchezza dai grandi ai piccolissimi operatori mai vista sul mercato. E soltanto nell’ultima settimana il titolo ha guadagnato un altro +700% !


Il fenomeno non è divenuto solo macroscopico, ma ha costretto tutte le grandi case d’investimento (che evidentemente non se lo aspettavano) a fare marcia indietro: cioè a precipitarsi a ricomperare le azioni vendute allo scoperto, onde evitare di aggravare le loro perdite. Con ciò stimolando di fatto le ulteriori ascese del titolo in borsa.

QUALCHE PARALLELO CON LA TESLA

Una storia non troppo diversa da quella accaduta alla Tesla di Elon Musk: venduta allo scoperto dalle grandi case d’investimento è divenuta la favorita dei piccoli risparmiatori che evidentemente si erano passati la voce circa la possibilità di un ritorno all’utile. Il loro intervento è stato provvidenziale affinché la società non finisse a terra sul listino di Wall Street. Oggi è entrata nell’albero dei titoli più scambiati di New York ed ha finalmente consolidato le proprie quotazioni. Grazie forse a quella democrazia finanziaria che oggi rischia di essere sotto accusa.


Ma nel caso di GameStop ogni cosa è stata esagerata dalle circostanze: l’eccessivo rialzo, l’assenza di profitti, la presa di posizione di politici e grandi burocrati di stato: una manfrina infinita di commenti circa la “libertà finanziaria” ed altri concetti di chi si oppone alla concertazione tra i poteri politici e quelli finanziari!

In fondo in passato una storia del genere si era già vista molte volte prima di questa (si ricordi il film del 1983 denominato “Trading Places” con Dan Aykroid e Eddie Murfy) e forse sarebbe successo ancora, se non fossero intervenute le autorità di controllo a indagare e, nel frattempo, decretando lo stop alle contrattazioni del titolo in questione, reo apparentemente di essere cresciuto in borsa troppo in fretta (o di aver pestato i piedi di qualcuno che conta davvero).

LE PROTESTE DEI PICCOLI OPERATORI

Apriti cielo! Il popolo degli scommettitori notturni in borsa dal proprio computer è letteralmente sceso in rivolta, ricoprendo di insulti i regolatori di mercato e segnalando il sospetto di un atteggiamento “di favore” delle autorità nei confronti dei soli noti: i grandi operatori Wall Street, quasi gli unici danneggiati dalla vicenda.

Difficile infatti sospettare manovre illecite da parte di una marea di piccoli e piccolissimi risparmiatori. Anche il possibile reato di aggiotaggio (cioè di aver cospirato per movimentare artificialmente il titolo) sembra stemperarsi davanti ad i numeri della vastissima platea di micro-speculatori!

E IL BLOCCO DELLE CONTRATTAZIONI

Ma dallo scorso giovedì alcune note piattaforme di brokeraggio, come Charles Schwab, eToro ed ETrade, hanno cominciato a impedire la compravendita di azioni e altri prodotti di investimento di titoli come GameStop. Anche Robinhood, che è l’app di brokeraggio di gran lunga più usata dagli investitori amatoriali, cioè quelli che stanno provocando i grossi rivolgimenti sul mercato di questi giorni lo ha fatto, rendendo impossibile fare qualsiasi tipo di operazione, a parte vendere tutto (che è esattamente il contrario di quello che gli utenti vorrebbero fare).

La ragione ufficiale di questo blocco è che le piattaforme di brokeraggio, che sono quelle che effettivamente fanno a nome degli utenti l’acquisto di azioni e altri prodotti di investimento, devono depositare una certa quantità di denaro presso istituzioni finanziarie che si chiamano “camere di compensazione”, per limitare i rischi di default. Le fluttuazioni del mercato avrebbero aumentato a tal punto i rischi che il denaro versato non sarebbe bastato, e Robinhood e gli altri avrebbero dovuto depositarne altro prima di riprendere le transazioni. Al tempo stesso è stato notato che Robinhood ha tra i suoi principali investitori uno dei fondi di investimento che hanno perso miliardi nelle operazioni di questi giorni, la piattaforma è stata dunque accusata dai piccoli traders di aver impedito l’acquisto di azioni per ragioni di convenienza: alcuni utenti, perciò le hanno chiesto i danni e molti politici statunitensi hanno definito la situazione inaccettabile.

LE IMPLICAZIONI POLITICHE DELLA VICENDA

Anche soltanto quello stop imposto dalle autorità ha fatto in realtà una grossa cortesia ai grandi fondi che stavano perdendo quattrini sulle proprie posizioni allo scoperto, concedendo loro del tempo andare a cercare qualcun altro che potesse consegnargli fisicamente il titolo. Una cortesia decisamente sgradita ai “traders” online, che evidentemente sanno che la crescita in borsa di GameStop non può andare avanti indefinitamente.

Come finirà è difficile prevederlo, perché il dibattito politico che ne è derivato può far guadagnare nuova linfa all’intera vicenda, alla base della quale c’era una piattaforma di scambi in borsa il cui nome è tutto un programma: Robin Hood. Gran parte dei day trader sono infatti cresciuti acquistando o scambiando videogames nei negozi di GameStop: l’idea di interrompere il suo declino e far girare la ruota della fortuna a favore di questa impresa, dunque, li ha entusiasmati, facendoli sentire i Robin Hood della finanza!


Stefano di Tommaso

 




ASPETTANDO L’ULTIMO BALLO

Le borse di tutto il mondo, ma in particolare quelle americane, sono decisamente sopravvalutate. Ma quanto lo sono? E quanto ancora durerà la bolla speculativa che ne ha rigonfiato i valori oltre misura? A questi livelli ogni affermazione può essere arbitraria e ogni saggezza del passato è stata superata dai fatti. Ciò nonostante, se si vuol dormi sonni tranquilli, bisogna avere il coraggio di guardare in faccia la realtà è aspettare tempi migliori…

 

Che i valori aziendali non rispecchino più quelli espressi dalle borse non lo dicono oramai più soltanto gli analisti finanziari e i più o meno illustri commentatori, bensì anche i grandi gestori di patrimoni e lo confermano per di più i principali indici di paura. A partire da quello del solito Warrren Buffet, (l’ “Oracolò di Omaha” che ha visto per primo lo scoppio della bolla delle “dot.com.).

GLI INDICATORI CHE SEGNALANO TEMPESTA

Il suo indicatore misura il rapporto tra la capitalizzazione di Wall Street e il prodotto interno lordo degli U.S.A. (qui sotto riportato). Ebbene, pur tenendo conto del fatto che il listino di Wall Street è “inquinato” dalla presenza di titoli stranieri, siamo comunque ad un eccesso senza precedenti: poco meno del doppio della prima sul secondo (191%)! Un indicatore che non soltanto lo ha messo in guardia dagli eccessi della “new economy”, ma che gli ha anche suggerito di rimanere investito nel 2008, quando le borse sono crollate si, ma per poi riprendersi abbastanza in fretta più forti che mai.


Per non parlare dell’indice del più famoso premio nobel per l’economia: lo Shiller Cape Index, che segnala eccessi di valore rispetto all’andamento dell’economia. Ebbene, pur non segnando ancora un massimo assoluto (ma ce n’è stato uno superiore soltanto nel 2000 poco prima del crollo della borsa del 2001 e dello scoppio della bolla da “new economy”) comunque tocca un picco assai preoccupante: pari soltanto a quello del 1929 (cioè poco prima del maggior crollo della storia)!


L’altra informazione rilevante fornita dal grafico sopra riportato è la fortissima discesa dei tassi di interesse a lungo termine, cui evidentemente è molto correlato il “rally” azionario in corso. Proprio quei tassi a lungo termine che segnalavo nel mio precedente articolo essere (forse) sul punto di riprendere forza!

Se poi vogliamo divertirci a guardare i numeri nella loro semplicità, ecco l’andamento assoluto dell’indice S&P Composite (deflazionato) messo a paragone a quello degli utili per azione:


Difficile non rimanere impressionati di fronte a questi sconfinati eccessi! A gridare “al fuoco!” sono stati peraltro nelle ultime settimane anche due “guru” di Wall Street, Carl Icahn e Jeremy Grantham, che hanno parlato di una “bolla (speculativa) epocale”che sarà ricordata tra le maggiori della storia finanziaria.

CON GLI INTERESSI A ZERO PERÒ I VALORI SONO MAGGIORI

In effetti non è tanto il livello assoluto degl’indici di Wall Street a preoccupare un po’ tutti, dal momento che il livello straordinariamente basso dei tassi di interesse e quello straordinariamente elevato di risparmio individuale determinano la necessità un adeguamento all’insù molto rilevante circa la valutazione delle aziende. Si veda ad esempio la tabella qui riportata riguardante il valore del denaro nel tempo a seconda del livello del tasso di interesse:


Bensì ciò che spaventa di più gli osservatori è la speculazione selvaggia che si è abbattuta su alcuni titoli più bersagliati di altri dai cosiddetti ”day traders” non professionisti, determinando fenomeni a dir poco vistosi come la rimonta senza precedenti del titolo Tesla, i cui 800 miliardi di capitalizzazione equivalgono a un valore d’azienda di oltre 1,6 milioni di dollari per ciascuna auto venduta nell’ultimo anno, contro i 9000 dollari di General Motors (e quello di Tesla è solo per fare uno dei tanti esempi).

CIÒ CHE FA PAURA È LA SPECULAZIONE SELVAGGIA

È dunque il possibile tracollo di alcuni titoli tra i più diffusi tra i piccoli investitori che può determinare il panico generale del resto del listino è una significativa correzione al ribasso non soltanto dell’intera Wall Street, bensì anche di tutte le altre borse del mondo. La speculazione insomma in alcuni comparti ha superato ogni limite del buon senso ed è stata alimentata da un eccesso di liquidità che oggi come oggi non può che riversarsi sulle azioni dal momento che le obbligazioni sono -se possibile- ancora più care!

Il puto è che giunti a questi livelli qualsiasi orizzonte temporale (tra quelli di buon senso: per esempio un settennato) sembra promettere un risultato segativo per un investimento in titoli fatto oggi. Ci sono stati degli analisti (quelli della GMO per esempio) che hanno infatti provato a fare qualche paragone con periodi storici precedenti (ciascuno subito prima di alcuni grandi crolli di borsa). Si veda la tabella qui sotto:

GUADAGNI PER ASSET CLASS AL NETTO DELL’INFLAZIONE

E cosa ne concludono gli stessi analisti? Che se non si vuole giocare alla roulette russa delle borse dei vari paesi emergenti (senza peraltro alcuna certezza che siano meno correlate all’andamento delle altre borse) allora sarebbe meglio che per i prossimi sette anni si liquidassero in cassa tutti gli investimenti! Come mostra la tabella qui riportata:


DIFFICILE RESTARE INVESTITI E LIMITARE IL RISCHIO

Il punto -come sempre- è la tempistica: ogni investimento va rapportato al momento in cui viene effettuato (o liquidato). Ma sul fatto che -ad oggi- non sia ancora giunto il momento di vendere ogni azione, paradossalmente, sembrano tutti d’accordo!

Ma come si può fare a sapere quando sarà “il momento” di vendere davvero? Oggettivamente, nessuno può dirlo. Quello che si può cercare di fare è posizionarsi in modo più prudente allo scopo di limitare i danni passando a titoli molto liquidi molto sottovalutati.

Ma sino ad oggi questo genere di titoli (detti “value”) è stata una delle “asset class” che hanno performato peggio, come si può vedere dal grafico qui riportato.


Dunque possiamo tranquillamente affermare che non esiste un investimento azionario davvero prudente, dal momento che ai titoli con maggiore distribuzione di dividendi spesso si è abbinata una minor performance del valore del titolo.

Si può pensare di vendere azioni americane per comperarne sulle borse asiatiche o di Londra, o ancora cercando titoli di mercati emergenti particolarmente liquidi e sottovalutati, legati alle materie prime (che con inflazione e dollaro debole dovrebbero crescere di valore) ma soprattutto con la logica di ammortizzare meglio il rischio di crollo generalizzato delle borse, poiché sono tutte piuttosto correlate tra di loro.

IL FALÒ DELLE VANITÀ

Oppure si può accettare il rischio di perdersi gli ulteriori rialzi dei mercati che potranno probabilmente susseguirsi e farci rodere il fegato (magari per molti mesi) prima che arrivi qualche importante correzione generale dei mercati, per dormire sonni più tranquilli. In fondo sono stati noiosi ed infiniti i “finti guru” che da anni predicano (sbagliandosi) l’imminenza di un forte ridimensionamento delle borse! Come si può vedere dal grafico qui riportato…


Il punto perciò sta tutto nella tempistica della prossima possibile correzione delle borse, e la risposta non è così scontata.

IN ATTESA DELL’ULTIMO BALLO

Certo, c’è un limite a tutto, e quello buono sembra oramai veramente vicino. Perciò il dilemma se aspettare l’ultimo ballo oppure vendere tutto dipende dalla forza delle proprie coronarie, oppure dal non voler eccedere quando sino ad oggi magari sono già stati ottenuti generosi profitti, dal momento che peraltro le notizie sul fronte pandemico sono ancora una vola pessime e che di conseguenza si allungano decisamente i tempi per un ritorno alla normalità nel mondo e ad una conseguente ripresa economica generalizzata.

E poi vale sempre l’adagio: “quando spengono la luce non ti avvertono prima” come diceva un famoso procuratore alle grida nella pittoresca Piazza Affari degli anni ‘80… Meglio cercare le luci d’emergenza!

Stefano di Tommaso




SI RIVEDE L’INFLAZIONE?

La decisione della nuova amministrazione Biden negli Stati Uniti d’America di sparare immediatamente quasi tutte le proprie munizioni in termini di stimolo ai consumi: 750 miliardi di dollari erogati non a rate bensì tutti insieme alla popolazione dovrebbe, nell’intenzione di chi guida Biden sul fronte dell’economia, rilanciare il prodotto interno lordo e la fiducia dei cittadini. Il punto però è che adesso i mercati finanziari temono un’inflazione al 3% entro la fine dell’anno e, di conseguenza, i tassi d’interesse stanno tornando a salire. E se con i tassi salirà anche il costo del debito pubblico, la frittata sarà servita.

 

I MERCATI INIZIANO A TEMERE IL PEGGIO

Nel grafico di copertina si vede infatti la decisa correlazione, nei decenni, tra l’offerta di moneta (linea più scura) in America e l’andamento conseguente dell’inflazione, che ha seguito sempre di qualche tempo la prima, salvo che nell’ultimo quadriennio, anche grazie ad un limitato dosaggio degli stimoli monetari e al coordinamento di questi ultimi con le altre politiche economiche.

L’amministrazione di matrice repubblicana era insomma riuscita a limitare l’impatto in termini di inflazione degli stimoli fiscali all’economia, abbassando la tassazione più che incrementando la spesa pubblica. Il programma del nuovo titolare della Casa Bianca tende a rovesciare tale equazione, incrementando fortemente (e molto improvvisamente) tanto la spesa pubblica quanto l’offerta di moneta.

Ma la manovra rischia di essere maldestra -soprattutto per l’avventatezza- non soltanto poiché di norma, se i tassi salgono, i corsi dei titoli scendono, dal momento che si suppone che il loro rendimento diventi inadeguato all’accresciuta esigenza del mercato di remunerare il denaro (le quotazioni Wall Street nelle ultime sedute sono scese e gli uffici studi sono adesso all’opera per riuscire a prefigurare come cambieranno di conseguenza gli scenari economici), ma anche perché la misura di tale intervento è stata giudicata eccessiva dagli analisti.

IL CONTRASTO CON LE POLITICHE MONETARIE

Per di più la banca centrale americana aveva appena ripetuto fino alla noia la sua volontà di non far crescere la parte dei tassi d’interesse che essa può controllare meglio (cioè quelli a breve termine) ottenendo come risultato una forte crescita delle quotazioni di borsa. Ora farà molta fatica a fare marcia indietro generando un’aspettativa diffusa di tassi d’interesse reali (cioè al netto dell’inflazione) negativi: un elemento assai poco attraente per gli investitori.

Ma soprattutto si è generata una circostanza in grado di far crescere il costo del denaro per il tesoro americano, dal momento che le emissioni programmate di titoli di quest’ultimo erano in prevalenza a lungo termine. Per tenere fede alla propria “forward guidance” la Federal Reserve sperava di centellinare l’immissione di nuova liquidità scaglionandola nel tempo senza risvegliare l’inflazione. Adesso, per assecondare le esigenze dell’amministrazione Biden, dovrà rivedere la sua posizione.

Insomma se l’idillio tra il nuovo presidente degli Stati Uniti d’america e i mercati si vede dai suoi primi passi, allora non ci siamo proprio! E non è detto che la minore attrattiva degli investimenti in Dollari comporti necessariamente una discesa del cambio del biglietto verde (cosa che farebbe comodo alle esportazioni americane).

LA CATENA DI TRASMISSIONE ALL’ESTERO

Perchè non è detto che il Dollaro si svaluti? Intanto i tassi americani -seppur nominali- sono cresciuti più rapidamente di quelli asiatici ed europei e questo ha temporaneamente rafforzato le quotazioni del biglietto verde. Poi non è escluso che il movimento al rialzo dei tassi d’interesse non riguardi anche gli altri mercati finanziari, con il risultato che -almeno l’Europa- potrebbe cadere in una trappola perfetta chiamata “stagflazione”: si troverebbe cioè con un’economia ancora in recessione e al contempo con il problema di una fiammata inflazionistica che nasce oltreoceano ma che può propagarsi molto in fretta a causa del fatto che i prezzi di buona parte di commodities, materie prime, derrate alimentari e idrocarburi sono denominati sempre in dollari.

Se ci aggiungiamo che anche altrove nel mondo le banche centrali stanno programmando nuovi e più corposi interventi monetari, quantomeno per supportare le emissioni dei debiti pubblici dei rispettivi governi, ecco che lo sgradevole olezzo della svalutazione monetaria prende sempre più corpo nell’intero pianeta e che -del pari- tornano a volare le quotazioni dei beni rifugio, a partire da quelle monete elettroniche che non è possibile inflazionare, come il Bitcoin.

E DI WELFARE CI SARÀ ANCORA BISOGNO

La forte crescita dei debiti pubblici e il conseguente rialzo del costo del denaro rischia di essere un bel problema da gestire, tenendo conto del fatto che i nuovi lockdown provocati in giro per il pianeta dalla terza ondata pandemica stanno lasciando sul tappeto molti milioni di posti di lavoro e che dunque c’è una rinnovata esigenza di politiche di “welfare” (sussidi pubblici) per le vittime. Se (come è probabile) i consumi non torneranno a correre, dovranno essere effettuati forti investimenti pubblici per poter evitare una nuova e più pesante recessione. I nuovi interventi pubblici saranno peraltro tutti rigorosamente in deficit, e per alimentare il debito che li finanzia la giostra delle banche centrali non potrà certo fermarsi.

Ecco che la rosea prospettiva di “monetizzare” i debiti pubblici con un lungo periodo di tassi bassi e inflazione sotto controllo rischia oggi di svanire così rapidamente che nessuno, al momento, è in grado di individuare efficaci correttivi che non passino da importantissimi interventi pubblici e investimenti infrastrutturali. Una leva quest’ultima che sino ad oggi, e per motivi incomprensibili ai più, i governi occidentali si sono rifiutati di azionare. Una leva che non è così importante nemmeno nel programma economico dei democratici americani.

LE BORSE POTREBBERO TEMERE IL PEGGIO

La nuova amministrazione americana a trazione democratica sperava quindi sì in una ripresa dei consumi, ma non si era preoccupata troppo del possibile caos che deriverebbe dal dover tenere a bada i nuovi focolai d’inflazione attraverso la forzosa riduzione degli interventi monetari e fiscali. Se tale scenario dovesse materializzarsi le borse andrebbero a picco e sarebbe difficile dare la colpa a qualcun altro.

Negli USA (ma in misura crescente anche altrove nel mondo oramai) i risparmi della gente -anche quando sono poca cosa- sono investiti prevalentemente in azioni e obbligazioni quotate in borsa e dunque il tenore di vita di chi li detiene o di chi ha programmato su quella base il proprio ritiro dalla vita lavorativa, risente delle loro oscillazioni di prezzo. Una feroce decurtazione dei valori dei titoli non verrebbe vissuta affatto bene da buona parte del ceto medio, che ha aiutato non poco a far eleggere il presidente in carica ma ne sarebbe la prima vittima.

LE POSSIBILI CONSEGUENZE A CASA NOSTRA

Per assurdo chi potrebbe sortire dalla svalutazione monetaria meno danni potrebbero essere proprio quelle economie meno forti e meno sviluppate finanziariamente come la nostra, dal momento che potrebbero cogliere l’occasione per recuperare competitività nelle esportazioni. Per un ventennio sino ad oggi l’Italia ha sofferto ferocemente dell’austerità monetaria di fatto imposta dall’Unione Europea. Se dunque l’inflazione arrivasse a lambire anche le nostre sponde teoricamente l’Italia ne sarebbe anche l’economia meno danneggiata.

Ma ricordiamoci anche che abbiamo giurato fedeltà alla moneta unica. Dunque la conseguenza per noi di uno scenario inflattivo rischia di essere quella di una nuova fuga dei capitali verso l’estero, e l’effetto netto di impoverimento del Paese con ulteriori tagli agli investimenti sarebbe di fatto devastante. La morale è purtroppo sempre la stessa: quando gli elefanti litigano sono le formiche quelle che rischiano di dolersene!

Stefano di Tommaso