LE VERE RAGIONI DELLE “GUERRE COMMERCIALI”

Nell’ultimo ventennio i commerci internazionali hanno evidenziato una trasformazione dovuta principalmente al processo di graduale ma pervasiva digitalizzazione del mondo. È tuttavia curioso notare che chi ne ha potuto profittare di più sono state le grandi imprese multinazionali Americane e Cinesi che hanno investito maggiormente per essere in testa nel processo di digitalizzazione e nell’efficienza della catena internazionale degli approvvigionamenti produttivi (la cosiddetta “supply chain”).

 

Le grandi corporation transnazionali contano oramai per l’80% degli scambi commerciali globali, per il 75% della ricerca e sviluppo (del settore privato) e per il 40% della crescita della produttività mondiale. La forte crescita dei profitti registrati dalle maggiori società quotate nel mondo si riferisce soprattutto al processo di progressiva digitalizzazione, non soltanto per lo sviluppo del commercio elettronico ma anche e principalmente nell’efficientamento della supply chain in quasi tutti i settori industriali.


LE MULTINAZIONALI RIESCONO A CONTROLLARE LA LORO “SUPPLY CHAIN” E A NON ESSERE COLPITE DAI DAZI

La maggioranza di queste multinazionali si trova in America e in Cina e molto spesso ciascuna di esse oltre ad avere sedi in tutto il mondo, ha anche stretto forti rapporti di collaborazione con aziende dell’altra superpotenza globale. La capacità di gestire la delocalizzazione, e di conseguenza di rendere più efficiente la supply chain e in generale di controllare meglio tutta la filiera produttiva-distributiva rappresenta dunque (e continuerà a rappresentare a lungo) un forte vantaggio per le imprese di maggiori dimensioni e maggiormente globalizzate, perché permette di supervisionare lo scenario competitivo internazionale e soprattutto di venire assai poco colpite dall’erezione delle nuove barriere commerciali, mantenendo un forte controllo sui costi di produzione.


IL SUCCESSO SENZA PRECEDENTI DEL COMMERCIO ELETTRONICO

La premessa è fondamentale prima di prendere atto della conseguenza più macroscopica della digitalizzazione dell’economia: lo sviluppo senza precedenti del commercio elettronico internazionale.


Gli scenari economici e geopolitici globali sembrano essersi totalmente modificati dopo che si è concretizzata la possibilità anche nei paesi più poveri del mondo di fare acquisiti online con un solo click dal proprio telefonino (o tablet/laptop).

LA MINACCIA CONCRETA DELL’E-COMMERCE DI RIUSCIRE AD ERODERE I PROFITTI DELLE GRANDI MULTINAZIONALI

Teoricamente nel medio termine lo sviluppo del commercio elettronico potrebbe riuscire ridurre decisamente i vantaggi attuali delle grandi società multinazionali. Grazie alla possibilità della vetrina di internet in un futuro assai prossimo qualsiasi piccola e media impresa basata nel più remoto dei paesi emergenti potrebbe sperare minacciare seriamente la più grande delle multinazionali ingaggiando una guerra di prezzi e/o di innovazioni di prodotto. Quelle stesse società multinazionali che attirano i migliori cervelli, che detengono il maggior potere finanziario e che sono oggi in grado di esercitare sui governi la maggiore influenza lobbistica. Difficile credere che possano restare a guardare…

Guarda caso nello stesso momento (il 2017) in cui si rendeva evidente che il commercio elettronico globale avrebbe potuto ridurre i loro margini di profitto e soppiantare la predominanza delle economie più avanzate, ecco vedere la luce l’ “invenzione” delle guerre commerciali, che sospinge in alto le tariffe doganali, fa crescere il peso delle “valute forti” e di fatto si oppone decisamente all’ampliarsi del libero scambio globale. La coincidenza è quantomeno sorprendente! Ed è un tema che fa riflettere perchè costituisce la prova che (dall’avanzata del commercio elettronico in un contesto di libero scambio internazionale) sono proprio le grandi corporations che potrebbero risultare i principali “perdenti”.

Alla lunga infatti, con la diffusa digitalizzazione, la crescita degli scambi internazionali e quella degli investimenti produttivi nei paesi emergenti, probabilmente assisteremo a un’evoluzione del commercio globale perché la digitalizzazione favorisce inoltre l’incredibile ascesa dell’automazione industriale. Questa riduce i vantaggi della delocalizzazione produttiva (il costo del lavoro conterà sempre meno)e viceversa spingerà le fabbriche (sempre più automatiche) a frazionarsi e, laddove possibile, a spostarsi in prossimità dei mercati serviti o dei distretti territoriali specializzati in determinati comparti produttivi, dove sarà più agevole reperire risorse umane super-specializzate in tecnologia. La creazione e la diffusione di know-how e di formazione professionale continueranno tra l’altro a esercitare un forte ruolo sui cambiamenti economici e commerciali e sulle politiche commerciali di ogni paese, ma sicuramente avvantaggeranno quelli che risulteranno più avanzati in tal senso. E chi sarebbero questi se non -ovviamente- America e Cina?


UN OSTACOLO INATTESO

Quel che si può notare invece è che oggi l’accresciuta frizione commerciale tra America e Cina sta creando un ostacolo apparentemente inatteso allo sviluppo del libero scambio globale di cui avrebbero beneficiato principalmente i paesi emergenti. America e Cina nell’ingaggiare quelle che i media definiscono “guerre commerciali” sono in realtà i due paesi che più stanno avvantaggiandosi delle barriere recentemente introdotte alle loro frontiere, servendole su un piatto d’argento alle loro maggiori imprese globali, a danno del resto del mondo e in particolare degli Europei (che in questo momento sono i più forti esportatori) e, ovviamente, dei Paesi Emergenti.

Le principali “corporation” delle due superpotenze globali appaiono inoltre sempre più interconnesse tra loro e anche per questo motivo sembrano molto attrezzate a limitare i danni che potrebbero derivare loro dagli incrementi delle tariffe doganali. La tesi qui sostenuta è che tanto le multinazionali americane quanto quelle cinesi avranno alla fine parecchio da guadagnare nel processo in corso di incremento delle tariffe commerciali, oltre che nello spartirsi di conseguenza le rispettive zone di influenza nell’ambito dei paesi emergenti loro satelliti.

 

Tra breve e lungo termine dunque si delinea un deciso dualismo: nell’immediato e dal lato produttivo, del know-how e dei diritti di proprietà intellettuale le grandi multinazionali occidentali sembrano le migliori candidate a trarre profitto dalle guerre commerciali in corso (a causa della loro capacità di produrre e approvvigionarsi tanto al di qua come al di là dell’Oceano Pacifico. Dall’altro lato, quello dei consumi e dei mercati di sbocco e soprattutto nel lungo periodo, i dazi e le limitazioni potrebbero danneggiare seriamente la crescita economica, in particolare quella dei paesi emergenti la cui forte dinamica demografica sospinge oggi i consumi globali. Questo ovviamente potrebbe danneggiare le prospettive di crescita dei profitti delle medesime multinazionali.

WHAT NEXT ? GLI INVESTIMENTI IN INFRASTRUTTURE

Ma la retorica della politica non potrà proseguire all’infinito sulle note del protezionismo e ci si aspetta che, quale antidoto agli effetti depressivi delle guerre commerciali, essa possa partorire presto l’avvio di grandi progetti infrastrutturali, alcuni dei quali già avviati.

Il che rappresenterà ancora una volta un’ottima possibilità di fare buoni profitti per le grandi multinazionali di quei paesi (Cina e America) che prima degli altri potranno vararli, magari utilizzando risorse pubbliche o stampando altra moneta, visto che le guerre commerciali rafforzano le loro divise.

Il che non potrà che contribuire ad aumentare il divario tra la crescita economica delle due superpotenze e quella di tutto il resto del mondo. Se fosse vero sarebbe un piano diabolico, senza dubbio. Ma se a pensar male si fa peccato, tuttavia spesso ci si coglie!

Stefano di Tommaso




GUERRE COMMERCIALI IMMAGINARIE

Ho appena letto l’articolo di Martin Wolf sul Financial Times di ieri (“TRUMP DICHIARA GUERRA COMMERCIALE ALLA CINA”) nel quale afferma che il Governo Americano è alternativamente matto o sfrontato nel richiedere alla Cina “concrete e verificabili azioni” per raggiungere risultati nelle seguenti direzioni (traduzione testuale):
•Ridurre lo squilibrio commerciale tra i due paesi di 100 miliardi di dollari nei prossimi 12 mesi e di altri 100 miliardi nei successivi 12 mesi

•Eliminare i sussidi di stato che distorcono la concorrenza delle imprese cinesi con quelle americane e conducono ad un eccesso di capacità produttiva delle prime

•Rafforzare la tutela in Cina della proprietà intellettuale straniera

•Eliminare l’obbligo delle imprese straniere di trasferire tecnologia alle imprese cinesi per ottenere il permesso di procedere a joint-ventures in Cina

•Cessare i cyber-attacchi alle imprese americane, il loro spionaggio, la contraffazione dei loro prodotti e la pirateria sui loro diritti

•Rispettare le leggi americane sul controllo delle esportazioni

•Ritirare la richiesta al WTO di imporre tasse sulla proprietà intellettuale straniera

•Cessare azioni di ulteriore rivalsa in risposta alle iniziative degli USA volte al riequilibrio dei rapporti commerciali e alla tutela della loro sicurezza militare

•Bilanciare in pari misura le restrizioni e le tariffe imposte agli scambi commerciali USA-CINA

•Permettere controlli sanitari e sulle condizioni umane di lavoro nelle imprese cinesi che vogliono esportare alimentari in USA.

Al di là della mia incondizionata condanna ai giornalisti ed intellettuali che ritengono di potersi permettere toni così dispregiativi delle istituzioni di paesi terzi che vantano governi davvero eletti democraticamente, ditemi Voi se le richieste di Trump, benché maledettamente dirette ed esplicite e dunque contrarie ai bizantinismi della diplomazia, possano risultare “ridicole” o “impossibili” !

 


A me viene da pensare il contrario e da rivolgere un applauso a chi ha avuto il coraggio di sfidare lo “status quo” e denunciare le disparità di trattamento che sembravano divenute normali sotto le precedenti amministrazioni governative americane.

Ma è chiaro che nel fare ciò, per qualche ineffabile motivo, il presidente americano ha contro l’intero establishment della stampa internazionale.

Il bello è che lo stesso autore sulla medesima testata afferma al termine dell’articolo che in effetti la Cina dovrebbe riconoscere di essere divenuta una superpotenza economica e militare e dovrebbe finalmente accettare i principi del diritto internazionale e quelli del libero commercio aprendosi ad una discussione franca e multilaterale sul commercio internazionale. Ma secondo il medesimo autore non dovrebbe essere l’America da sola e per prima che getta il sasso nello stagno bensì una commissione congiunta con l’Europa e il Giappone. Come dire che l’urgenza non esiste.

Difficile aggiungere commenti a quanto riportato senza rischiare di essere di parte. Basta solo leggere con autonomo giudizio quanto scritto dal medesimo defraudatore delle dignità altrui.

(le immagini riportate sono tratte dal medesimo articolo)

Stefano di Tommaso




IL PARTITO DELLA GUERRA

Dopo l’attacco alla Siria da parte delle forze congiunte di America Gran Bretagna e Francia, qualcosa di importante è cambiato -e in peggio- sullo scacchiere della geo-politica. Qualcuno parla di nuova guerra fredda, ma anche i tempi sono cambiati.

 

LA PROVOCAZIONE

Che sia vero o meno che il governo siriano volesse un attacco alla popolazione con armi chimico-biologiche a Duma (ed è fortemente discutibile che lo sia) oramai non è più così importante: quel che conta è che l’attacco alleato (piuttosto pesante e apparentemente assai inutile) è stato sferrato ugualmente, sfidando le ire di una Federazione Russa che aveva fatto sapere senza mezzi termini che difenderà il suo partner siriano addirittura colpendo le basi da cui sono partiti i missili.

E come se ciò non bastasse il governo americano ha deciso di infliggere alla Russia nuove sanzioni commerciali, che tra l’altro è vero che nuocciono soprattutto ai suoi alleati europei, ma alla lunga portano un danno non solo alla Russia, bensì anche a tutto l’Occidente, perché la obbligano a sostituire con i paesi del continente asiatico

i suoi partner commerciali europei. Non per niente la Germania si è voluta tenere fuori dall’iniziativa militare, ma è rimasta ugualmente colpita dalle sanzioni commerciali.

SPINGERE LA RUSSIA TRA LE BRACCIA DELLA CINA

Sembra al momento improbabile che la Russia reagirà alla tenaglia militare-commerciale. Se lo facesse trascinerebbe il mondo verso un forte rischio di terza guerra mondiale, ma questo non significa che non terrà conto dell’accaduto nelle sue alleanze internazionali (con la Cina, in particolare, oramai giudicata interlocutore altamente più affidabile dell’Occidente) e non è detto che gli attuali rapporti di forza (basati sulla supremazia della macchina militare della NATO), non possano presto arrivare a cambiare.

Spingere la politica estera della Russia ad abbracciare quella della Cina (riconosciuta dagli studiosi di relazioni internazionali come il vero problema dell’Occidente nel lungo termine) potrebbe sembrare una cosa semplicemente stupida, ma probabilmente è invece voluta ed anche assai folle, perché il rischio di spiazzamento dell’Occidente negli interscambi commerciali tra la nazione più ricca al mondo di risorse naturali e quella più popolosa e più dinamica nelle nuove tecnologie è elevato. L’unica vera contropartita di tale follia può essere l’allargamento delle occasioni per far nascere nuovi focolai di guerra.

Quel che sembra rispuntare vincente dalle ceneri della diplomazia in questi giorni è infatti il cosiddetto “partito della guerra”, cioè quella coalizione trasversale e ben occultata ai media di ogni parte del mondo costituita di produttori di armi, mercanti ed esportatori di materie prime, finanzieri d’assalto e lobbisti politici, uniti dal fatto che otterrebbero tutti dei grandi profitti dalla deflagrazione di nuovi conflitti e dalle spese straordinarie di cui essi necessiterebbero.

TRUMP È UN OSTACOLO

Nella stessa direzione va probabilmente l’attacco frontale al presidente Trump, reo di non essersi messo (completamente) a disposizione del partito della guerra, pur avendo ordinato egli stesso l’attacco siriano. Che i poteri forti vicini alla fondazione Clinton volessero farlo fuori è noto, ma è più probabile che l’interminabile processo giudiziario denominato “Russiagate” non abbia come obiettivo quello di dimostrare il suo connubio con Putin (impossibile, altrimenti le prove dopo un anno e mezzo sarebbero già saltate fuori), bensì quello più sottile di deterioramento della sua immagine sui media, per riuscire costringerlo -nel dubbio- a guerreggiare con quest’ultimo, anche per dimostrare la sua estraneità alle accuse.

Trump non è stupido e si rende perfettamente conto del pericolo di un conflitto allargato (a partire dagli effetti al rialzo che potrebbe avere sul prezzo del petrolio) e del fatto che ci sono dietro le quinte forti interessi economici in tal senso, ma resta tutto da vedere cosa possa farci per ostacolarne la possibilità.

Non per niente sulla vicenda della Corea del Nord Trump ha appena fortemente voluto e alla fine ottenuto una vittoria significativa proprio nel dialogo con la Cina (da sempre l’alleato occulto di Kim Yong Un), ed ha anche invitato Putin a sedersi ad un tavolo comune per evitare l’escalation militare.

Ma conciliare lo spirito patriottico (che ha sempre più necessità di dimostrare) con l’esigenza di ridurre le tensioni internazionali è un esercizio notoriamente assai difficile. E non è detto che gli porterà consenso aggiuntivo tra i suoi elettori alla prossima tornata…

Stefano di Tommaso




IL MESSAGGIO DEI MERCATI A TRUMP E FED

Fino al gennaio scorso la narrazione dei commentatori di tutto il mondo sembrava inequivocabilmente e stabilmente positiva: nonostante l’inflazione non si manifesti e i tassi d’interesse restino sostanzialmente bassi, la crescita economica globale stava incrementando il suo passo e questo non poteva che migliorare le prospettive per gli utili delle aziende americane, prospettive che sono alla base degli attuali livelli (stratosferici) delle valutazioni implicite nelle quotazioni delle borse valori (Wall Street e Nasdaq).
Il discorso non era proprio uguale per le altre borse, cresciute senza dubbio molto meno di quelle americane, ma in compenso le loro prospettive -almeno quelle europee- restavano anche più rosee.

 

Poi sono cominciati numerosi sussulti geo-politici, a partire dai primi segnali di una vera e propria guerra commerciale tra America e Cina, cui hanno fatto seguito altrettante oscillazioni delle borse di tutto il mondo le quali hanno riportato in forte ripresa l’indice della volatilità dei mercati borsistici, giunto ai nuovi massimi dell’anno, gli stessi toccati all’inizio di Febbraio, (VIX, detto anche “l’indice della paura”: vedi qui sotto).

LE PROSPETTIVE RESTAVANO BUONE

Tutti i commentatori ne avevano -correttamente- dedotto che i bei tempi in cui le borse che continuavano a crescere mentre la loro volatilità toccava nuovi minimi erano forse andati per sempre. Ciò nonostante quasi nessuno fino alla settimana scorsa aveva ancora preso sul serio la possibilità che i mercati finanziari potessero non solo avere aumentato la loro volatilità, ma anche essere giunti all’inizio di un percorso di discesa generale delle quotazioni, le cui avvisaglie registrate sino a quel momento non lasciavano ancora presagire importanti inversioni di tendenza.

Le prospettive di crescita dei profitti aziendali restavano infatti ancora positive, così come la crescita economica globale non ha fino ad oggi mostrato rallentamenti. Dunque non sembravano ancora esistere -tecnicamente parlando-  le condizioni perché potesse invertirsi la tendenza di fondo che ha sino a ieri animato i rialzi dei mercati finanziari negli ultimi anni.

LA SOPRAVVALUTAZIONE DI WALL STREET

Si veda tuttavia in proposito qui sotto il grafico fornito dall’Economist di questa settimana dell’indice CAPE (quello del rapporto medio prezzo/utili dell’indice della borsa americana ponderato sulla base della media mobile dei profitti degli ultimi dieci anni), pubblicato periodicamente dal gruppo del premio Nobel Robert Shiller per indicare l’andamento del rapporto prezzo/utili una volta smussare le valutazioni implicite espresse da Wall Street sulla base dell’andamento degli utili (se continuano a crescere abbassano il CAPE).

Dal grafico si legge bene che una settimana fa il rapporto tra l’indice SP500 e la media mobile a 10 anni degli utili delle aziende che ne fanno parte era arrivato quasi a 33volte, chiaramente un nuovo massimo, ai livelli della crisi del 1929 e poco sotto quelli dello scoppio della bolla della “New Economy”. Tanto per fornire una comparazione, quello della borsa canadese viaggia a 20volte, quello di Francoforte a 19volte e quello della borsa di Londra a 14volte.  Dunque Wall Street ha fatto molta più strada di tante altre borse, come si può vedere dell’indice cumulato delle borse europee qui sotto riportato (precipitato già a Gennaio e sceso ogni volta a nuovi minimi per ben due volte a Marzo:

GLI ELEMENTI DI “ATTENZIONE” DA PARTE DEGLI INVESTITORI

Se però fino alla settimana scorsa i principali investitori sui mercati borsistici globali restavano ancora moderatamente ottimisti, la loro prudenza era divenuta maggiore che non in passato, a causa della presa d’atto di numerosi fattori d‘ attenzione, quali:

– la maggior volatilità che avrebbe contraddistinto l’anno in corso,
 – la presumibile riduzione della liquidità in circolazione a causa della progressiva riduzione degli stimoli monetari introdotti dalle banche centrali,
 – la prospettiva di incremento dei tassi di interesse,
 – Il crescente costo di petrolio e energia, che fa temere un risveglio dell’inflazione,
 – la prospettiva di un generale ridimensionamento delle quotazioni dei principali titoli “tecnologici”, la cui capitalizzazione complessiva incide non poco sulla composizione degli indici delle principali borse americane e asiatiche,
 – la possibilità che il ciclo economico positivo sia giunto al momento di inversione.

Ecco al riguardo alcuni grafici:


Poi è arrivata l’ennesima manovra protezionista del presidente Trump, che ha generato il maggiore “sell-off” degli ultimi tempi delle borse americane, più intenso e violento del solito, con il quale sono stati interamente cancellati i guadagni registrati sino ad oggi nell’intera prima parte del 2018.

I “TIMORI” GEO-POLITICI

Contemporaneamente sono anche discese le quotazioni di numerose “commodities” (materie prime e derrate agricole) ed è invece ulteriormente salito il prezzo del petrolio, il primo di solito a prendere un balzo quando iniziano a fischiare venti di guerra o prospettive di disordine internazionale, che -indubbiamente- si sono manifestate al riguardo di:

 – timori di una guerra commerciale tra USA e Cina
 – Ipotesi di confronti più serrati sulle politiche commerciali con l’Europa
 – possibili nuove tensioni in Medio Oriente, e in particolare in Siria, dove la tensione con i paesi come l’Iran, storicamente collegati alla Federazione Russa sembra accrescersi giorno dopo giorno
 – ancora incerte prospettive sul confronto militare con la Corea del Nord
 – ulteriori tensioni commerciali con Messico e altri paesi americani aderenti al NAFTA.

Ecco un grafico che spiega i timori di Wall Street per una guerra commerciale:

IL ROVESCIAMENTO DELLE ASPETTATIVE

Alla fine della settimana scorsa quindi, dopo una delle peggiori settimane finanziarie di sempre,  i pareri degli investitori istituzionali e professionali hanno iniziato a cambiare, alcune loro certezze sono venute a mancare e le prospettive di proseguire la precedente direzione di rotta nella navigazione, seppur attraverso mari più increspati dalla crescente volatilità, sembrano alla fine infrangersi quando si sommano così tanti fattori di incertezza.

Per completare il quadro generale occorre ricordare che una crescita economica a pieno regime è contemplata tra le ipotesi fortemente necessarie perché gli attuali livelli di debito complessivo (privato e pubblico) siano compatibili con le prospettive di crescita dell’economia globale che sino a ieri erano tracciate dalla maggior parte degli economisti.

Il fatto che i mercati però stanno perdendo la loro fiducia, basata sino a ieri sulle aspettative di crescita economica globale, lo si può leggere dal fatto che negli ultimi giorni persino i titoli a reddito fisso vengono venduti per detenere liquidità o altri beni-rifugio, prendendo atto del sommarsi di un po’ troppe questioni economiche e geo-politiche che potrebbero congiurare tutte insieme per invertire lo scenario incantato che si era registrato in precedenza, proprio mentre la Federal Reserve (la Banca Centrale americana) sembra invece testardamente intenzionata a proseguire con il rialzo dei tassi e la cessione dei numerosi titoli acquisiti in portafoglio ai tempi del Quntitative Easing.

Si è detto che spesso le recessioni (o comunque le inversioni del ciclo economico) deflagrano a causa della scintilla delle politiche restrittive delle banche centrali, inultimente o tardivamente preoccupate per la possibilità che rispunti l’inflazione. Questa volta potrebbe essere assai poco diverso: a questo punto della storia i mercati sembrano non avere molto altro spazio per continuare a correre ancora, e le banche centrali (soprattutto quella americana, che è sempre anni avanti alle altre nella politica monetaria) farebbero bene a tenerne conto, vista la dimostrata forte influenza che le quotazioni dei mercati possono avere sull’economia reale.

Stefano di Tommaso