ALLA RICERCA DEL VALORE

Con i tassi di interesse che salgono sui mercati anglosassoni (e non solo) e le prospettive di ulteriori guadagni futuri che scendono, molti investitori stanno “ruotando” i loro titoli in portafoglio (cioè sostituendoli con altri), tanto per posizionarsi in maniera più prudenziale nei confronti dei rischi che corrono sui mercati finanziari quanto per prendere periodicamente beneficio delle posizioni che hanno loro fruttato un bel guadagno.

 

Nessun “guadagno” infatti in Borsa è mai davvero certo sino a quando non lo si è realizzato a titolo definitivo e a titolo definitivo significa solo quando l’investimento è stato liquidato.

Anche per questo motivo stiamo osservando da diversi mesi una certa volatilità sulle borse e -in media- un loro riassestamento: dopo le ascese stellari dell’anno scorso è normale che più di un investitore abbia deciso di prenderne beneficio o semplicemente di cambiare “asset class” (ovvero: categoria di investimenti). Se i titoli che erano cresciuti più velocemente di valore erano quelli cosiddetti “growth” (crescita): tipicamente titoli legati allo sviluppo delle tecnologie e delle vendite online di beni e servizi, oggi quelli che gli investitori cercano nelle loro (prudenti) politiche di reinvestimento sono viceversa principalmente “value” cioè capaci di esprimere intrinseco valore nel lungo termine indipendentemente dalle mode e dalle aspettative dei mercati.

TITOLI “VALUE” E TITOLI “GROWTH”

Non è facile però definire “value” un titolo azionario, dal momento che la sola non appartenenza alla categoria “growth” non lo qualifica per la precedente. Fiumi di parole sono stati spesi negli ultimi cinquant’anni tanto in dottrina quanto nelle analisi finanziarie per cercare di precisare cosa si intende per investimenti “value” senza quasi mai riuscire a sancire principi generali validi, semplici e facilmente riconoscibili.

Uno dei più grandi assertori delle politiche di “value investing” è sempre stato Warren Buffett, il quale tuttavia per primo ha riconosciuto che nelle sue scelte di fondo a volte le sensazioni hanno contato più della razionalità. E poi a lui è andata decisamente bene e oggi, dopo cinquant’anni di attività, egli è uno dei tre o quattro uomini che risultano più ricchi al mondo.

Ma moltissimi altri seguaci delle suddette politiche di investimento hanno dovuto amaramente pentirsi di non aver scelto azioni con forte potenziale di crescita quali ad esempio i titoli “tecnologici”, per poi scoprire che lo stesso Warren Buffett ha scommesso molti miliardi di dollari sulle azioni Apple (forse il più celebre di questi ultimi) e proprio adesso che -con l’approcciarsi della fine di un lunghissimo ciclo di ripresa economica americana- molti si chiedono quanto a lungo le valutazioni di quelle azioni resteranno alle stelle!


REGOLE SPANNOMETRICHE

Dunque se non ci sono (o quasi) regole che aiutino a definire quali aziende possono essere considerate “value” e quali no, come cercare di procedere nella loro selezione ?

Un primo criterio generale può essere quello della prudenza nel tipo di business aziendale e nei criteri di valutazione comunemente applicati a determinate azioni. Se dunque le valutazioni che il mercato esprime si fondano su aspettative stratosferiche o su aree di business non eticamente adamantine o ancora, se il management delle società risulta essere problematico e con idee discutibili e fortemente anticonvenzionali (anche se magari hanno ragione loro, come dimostra il caso di Steve Jobs) , ecco allora che l’investimento in quel titolo può essere considerato speculativo e a rischio. Dunque non necessariamente rispondente a criteri di ordine prudenziale.

Un secondo possibile criterio prudenziale può riguardare il livello di indebitamento delle aziende in questione. Se è molto alto è evidente che è in corso una scommessa: quella che gli investimenti effettuati più che ripagheranno il debito contratto. E’ stata svolta di recente da un analista finanziario (Travis Fairchild per conto della sua casa di investimenti O’Shaughnessy Asset Management) una ricerca sui titoli quotati che esprimevano, in venticinque anni di storia di Walls Street, un patrimonio netto negativo (cioè i debiti superavano gli attivi): ebbene se un investitore dal 1993 al 2017 li avesse evitati avrebbe perduto -in media- un’ottima opportunità di guadagno. Quello che conta, dice Fairchild, è la “qualità “ dei margini aziendali, misurata (nel grafico qui sotto riportato) secondo tre criteri generali: capacità finanziaria, crescita e sostenibilità.


Un modo diverso di approcciare al tema della stima dei valori immateriali -tutt’altro che certo e anzi spesso contraddittorio- può risiedere nella misurazione dell’effettivo valore dei beni posseduti dall’azienda o, più in generale, di quanto si discosta la valutazione complessiva della medesima da quella dei singoli beni che ha in pancia.

IL “CASO” McDONALD

Ma nemmeno in questo caso vi sono grandi certezze, come dimostrano le numerose grandi aziende che esprimono forti valutazioni di beni immetariali, come il marchio o l’avviamento. L’esempio riportato da Fairchild di McDonald è forse il più eclatante: il valore del suo marchio è riportato in bilancio per un misero paio di miliardi di dollari ma è stimato valerne all’incirca quaranta!


Il punto è che le politiche di bilancio (che non possono che rispettare le regole contabili) spesso spingono le imprese a sottostimare il valore dei beni immateriali. Dunque e tiare le aziende che esprimono forti valutazioni di beni immateriali può non essere una regola generale di stima della rischiosità implicita dell’investimento.

E’ probabilmente questa intrinseca difficoltà a definire i criteri di selezione delle aziende “value” (cioè che esprimono maggiormente un valore intrinseco sottostante e una miglior sostenibilità nel lungo termine della loro posizione competitiva) e a separare questi criteri da quelli, molto meglio individuabili, della ciclicità o anti-ciclicità del loro business, che fa si che la ricerca del valore nascosto resti soprattutto un’arte, non una scienza.

Il che non toglie il fatto che, quando le nuvole si addensano sulle borse di tutto il mondo e si tende a prepararsi al peggio, quest’arte sia la più richiesta…

Stefano di Tommaso




AMAZON FA SOLDI CON IL WEB (E NON CON L’E-COMMERCE)

Dopo tutto il polverone sollevato dallo scandalo Facebook sui cosiddetti titoli “tecnologici” (i cui ricavi appaiono fortemente legati all’uso di internet), sembrava segnato il destino delle spropositate valutazioni che il mercato finanziario ha loro sinora attribuito. E invece no. Amazon mostra da inizio 2018 un progresso superiore al 30%!

 


Mostrando i suoi risultati trimestrali infatti Amazon ha battuto ogni aspettativa degli analisti rivelando numeri mai così buoni in precedenza e progressi tali da riuscire a rafforzare del 7% la sua capitalizzazione già elevatissima. Ma anche il fatto che il 10% del suo fatturato e buona parte dei suoi margini provengono dai servizi di rete e dalla pubblicità su Internet.

Per intenderci sul concetto di valutazione elevatissima del titolo, ricordiamoci che Amazon capitalizza in borsa oltre 4 volte il suo fatturato, oltre 26 volte il suo patrimonio netto e oltre 240 volte i suoi profitti, mentre brucia cassa netta tendenziale per circa 12 miliardi di dollari (3 miliardi di dollari nell’ultimo trimestre). Non esattamente quella che si dice una valutazione prudenziale!

Tutti i giornali riportano oggi i numeri roboanti di Amazon e pertanto vorrei evitare di annoiare i miei lettori facendolo anch’io: di seguito ho raccolto solo un paio delle diapositive che sono state proiettate alla presentazione, nelle quali si vede sì quasi un raddoppio nel reddito operativo, ma anche un flusso di cassa netto che, in funzione della crescita roboante di capitale circolante e investimenti, si è rivelato invece incrementalmente negativo a partire da metà 2017 sino ad oggi.

 

 

Eppure si deve ammettere che la gestione del colosso mondiale del commercio elettronico si è rivelata oculata, che ha battuto ogni attesa degli analisti -in particolare riguardo al numero di iscritti ai suoi servizi “Amazon Prime”: ben 100 milioni di individui, quasi due volte la popolazione italiana- e soprattutto per due elementi che hanno ricollegato più decisamente al rapporto con internet la vera natura del suo business:

  1. Amazon è riuscita ad incrementare a oltre 8 miliardi di dollari annui suoi introiti pubblicitari tendenziali del 2018, quella stessa categoria di entrate che ha letteralmente crocifisso le sue cugine più strette, come Google e Facebook, finite sotto inchiesta per uso improprio delle informazioni personali raccolte dai loro utenti. Questi introiti costituiscono il 4% circa del fatturato e sono più che raddoppiati rispetto allo scorso anno;
  2. Il 5 e mezzo per cento del suo fatturato e ben tre quarti del reddito operativo provengono dagli incassi per i servizi di rete (“Amazon Web Services”) e non dal commercio elettronico!


In pratica Amazon trae quasi il 10% dei suoi ricavi e forse quattro quinti del suo reddito operativo (il dettaglio non mi è noto) da attività di rete non troppo diverse da quelle di Netflix, Google, Facebook e Microsoft.

Il concetto è importante per cogliere la vera natura di Amazon ed è confermato dal confronto tra I multipli di mercato di Amazon e quelli degli altri operatori, tanto nel commercio quanto nei servizi di rete:Come si vede quasi tutti gli altri operatori attivi nella distribuzione di prodotti mostrano moltiplicatori pari a un decimo di quelli di Amazon e Netflix. Cioè questi ultimi sono ancora una volta basati sulle più rosee aspettative. Se si cercava una prova del fatto che il mercato è ancora sopravvalutato eccone trovate due. Evidentemente la liquidità in circolazione è ancora tanta…

Stefano di Tommaso 




È IL MOMENTO DELL’ORO?

Nonostante l’acuirsi dei rischi geopolitici, i mercati finanziari sono rimasti fino a ieri relativamente calmi e le quotazioni dell’oro di conseguenza, anche. Questo perché gli investitori tendono a rimanere neutrali sino a quando un serio rischio di escalation della tensione non è comprovato.

Ma qualora la situazione progredisca negativamente (come temo) e il rischio di un ritorno dell’inflazione si fa più concreto, allora i rendimenti reali dei principali titoli espressi in Dollaro e Euro non potranno che ridursi e, al tempo stesso, le quotazioni di azioni e obbligazioni non potranno che adeguarsi ad uno scenario deteriorato di futuri profitti.

Molti investitori paventano da tempo la supervalutazione dei molti titoli tecnologici che affollano i principali listini borsistici globali, nonché il timore di una fiammata inflazionistica e di conseguenza la possibilità che le borse alla fine scendano ancora e che il Dollaro si svaluti. Tuttavia chi sino ad oggi ha venduto azioni e obbligazioni per timore degli eventi ha -nella quasi totalità dei casi- scambiato quei titoli con liquidità, il che significa in genere che costoro hanno scelto di conseguenza (spesso involontariamente) di detenere una posizione al rialzo nelle valute forti.

Però, a meno che non si ritenga che il Dollaro e l’Euro subiranno delle forti rivalutazioni a seguito dell’acuirsi delle tensioni militari nel prossimo futuro, è più probabile che in uno scenario quantomeno di guerra fredda le aspettative di inflazione e quelle della programmata riduzione della liquidità disponibile (ad opera delle banche centrali) non arrivino a compensarsi completamente, lasciando ancora molta liquidità disponibile sul mercato, sempre più in cerca di impieghi alternativi, e uno spazio di manovra decisamente ampio per gli investitori per allocare qualche buona scommessa sulle quotazioni dei beni rifugio, primo fra tutti ovviamente il metallo giallo.

Se si guarda poi alla situazione delle posizioni speculative costruite sulla quotazione dell’oro a partire dai fondi ETF quotati ad essa collegati, si può notare un lento ma costante incremento della medesima, a partire da tutto il 2017:

L’oro fino ad oggi non ha brillato però anche perché forti quantità del metallo giallo sono detenute dalle banche centrali di tutto il mondo e queste ultime hanno mostrato un deciso interesse a calmierarne le quotazioni.

Ma se la domanda di oro fisico da parte degli investitori istituzionali (tramite I fondi quotati: gli Exchange Traded Funds, detti anche ETF) continuerà a progredire come è successo negli ultimi tempi, allora sarà sempre più difficile tamponarne l’ascesa del prezzo con altre vendite, a fronte delle quali nella quasi totalità dei casi le banche centrali si troverebbero in mano il biglietto verde. Siamo sicuri che è ciò quello che esse vogliono ?

Probabilmente no, ed è questo il motivo per cui potrebbe farsi invece strada una tendenza rialzista.

Nel grafico che segue la domanda di oro fisico da parte degli ETF:

Di qui l’intuizione che c’è forse dello spazio per un movimento al rialzo delle quotazioni dell’oro, che fino ad oggi non si è quasi visto.

Stefano di Tommaso




I TAMBURI DI GUERRA FANNO TREMARE LE BORSE

Non bastavano le guerre commerciali a rovinare le prospettive della crescita economica globale e, ovviamente, quelle dei mercati finanziari. Adesso sono arrivati anche i missili. E per non farci mancare niente persino lo spettro del terrorismo sembra resuscitare dal passato.

 

LA MISURA È COLMA

Se fino a ieri c’erano ancora speranze sulla possibilità che gli ottimi risultati della crescita economica globale potessero fare da contraltare al forte deterioramento del panorama geopolitico globale, adesso ci può essere soltanto un atto di fede: l’innalzamento oltre ogni recente limite del prezzo del petrolio che ne consegue è destinato a portare decise ripercussioni sull’inflazione, i tassi di interesse e persino sulla possibile evoluzione debiti pubblici, sufficientemente alti già prima di quello che sta accadendo in questi giorni.

Questo perché l’ondata di riduzione della tassazione delle attività economiche che stava soltanto iniziando negli ultimi mesi presupponeva di provocare di conseguenza una sostenuta crescita dei prodotti interni lordi affinché non generasse una voragine nei conti pubblici. Ma se invece il rilancio dell’economia con stimoli fiscali (dopo che quelli monetari sono stati usati anche oltre il loro limite naturale) non dovesse avere effetto a causa di fattori “esterni” come le conseguenze di una situazione di guerra, ecco che le minori entrate generate dalla minor tassazione si ripercuoterebbero inevitabilmente in un aggravamento dei conti pubblici dell’intero Occidente.

LE CONSEGUENZE MACRO DELLE TENSIONI GEOPOLITICHE

Proviamo perciò ad elencare le “conseguenze” di una situazione di conflitto più allargata in Medio Oriente e dei timori di accrescimento delle tensioni geopolitiche: in questo caso dovremmo dare per decisamente probabili tanto la maggior risalita dei prezzi di energie e materie prime quanto la rivalutazione del dollaro, con i rischi che ne conseguono di vedere accendersi oltre misura le aspettative di inflazione, di una risalita dei tassi di interesse più brusca di quanto in precedenza prospettato e, dulcis in fundo, un probabile conseguente calo delle quotazioni delle principali borse mondiali.

Perché le borse dovrebbero crollare? Non soltanto perché le attese di profitti futuri che determinano le valutazioni aziendali andrebbero scontate a tassi di interesse più elevati, ma anche perché al peggiorare delle prospettive economiche complessive anche la profittabilitá stessa delle imprese non potrebbe che ridursi, alimentando un circolo vizioso delle aspettative di mercato.


Ora, se vogliamo essere più realisti, il mondo sembra essere già caduto nella trappola di una “guerra fredda”, dove stavolta il conflitto oriente-occidente rischia di coinvolgere anche la Cina e quindi di penalizzare fortemente il commercio internazionale, uno dei motori dell’attuale crescita globale e uno dei maggiori veicoli di rilancio delle aspettative per i paesi emergenti, i veri protagonisti dell’ultimo biennio. Anche le valute meno “forti” hanno subìto un ridimensionamento negli ultimi giorni e il petrolio ha già superato la soglia dei 70 dollari al barile, un livello ritenuto da molti impensabile ancora poche settimane fa.

Nel grafico sotto riportato vediamo il recente andamento e le previsioni della domanda e produzione di petrolio (linee) e delle scorte (istogrammi):


Ma fino ad oggi la reazione dei mercati finanziari si è mantenuta decisamente equilibrata e priva di ondate di irrazionalità.

IL PROBLEMA DELLE ASPETTATIVE

Ciò che invece veramente può fare davvero la differenza per i mercati finanziari non è il picco delle quotazioni di una o due settimane, quanto il rovesciamento dello scenario di relativa stabilità che sembrava fino a ieri inscalfibile. Se la prospettiva di una nuova guerra del golfo dovesse insediarsi stabilmente nelle previsioni allora dovremmo aspettarci un rapido deterioramento della situazione generale delle borse e il rischio di un deciso avvitamento dell’economia dell’intero Occidente perché anche i forti investimenti in tecnologia e nuovi prodotti che fino a ieri erano previsti da buona parte delle aziende nel mondo potrebbero di conseguenza venire posticipati.

La posta in gioco per i mercati sembra dunque decisamente elevata nelle prossime ore e i rischi di una escalation del confronto ancora maggiori, in un momento nel quale si evidenziavano già talune difficoltà per la prosecuzione del ciclo economico positivo, che sembrava essersi sincronizzato per buona parte delle economie mondiali ma non aveva ancora prodotto un significativo incremento nel reddito disponibile dell’uomo della strada.

Oggi quell’equilibrio delle aspettative (crescita economica da un lato, inflazione e aumento dei tassi dall’altro) sembra essersi rotto. Non c’è da stupirsi pertanto se da lunedì gli investitori istituzionali approfitteranno di ogni possibile movimento delle borse per alleggerire le loro posizioni fino ache le cose non miglioreranno decisamente!

Stefano di Tommaso