L’INFLAZIONE NON ARRIVA

Secondo l’Economist il livello dei tassi di interesse reali non è mai stato così basso dall’epoca della grande crisi finanziaria del 2008. Questa sarebbe la prima ragione per cui le banche centrali starebbero tornando a far crescere i rendimenti nominali, dolcemente ma continuamente e per la quale continueranno a farlo ancora per molo tempo in avanti. Ma di certezze riguardo alla misura dell’inflazione in giro ce ne sono davvero poche. Anzi, ancora una volta come già era successo a Ottobre, l’allarme inflazione almeno negli Stati Uniti d’America sembra di nuovo essere rientrato. L’inflazione avanza si, ma con grande moderazione.

LA RICERCA DI BAIN & Co SUL FUTURO DELL’AUTOMAZIONE

Questa volta a sostenere che -almeno nel breve termine- i tassi cresceranno anche più di quanto oggi ci si possa attendere è l’autorevole società di consulenza e investimenti americana Bain&Co. che afferma che sarà proprio lo sviluppo dell’automazione e della robotica a premere per un nuovo rialzo dei tassi, dal momento che sempre più aziende cercheranno di spingere sull’accelerazione degli investimenti in tal senso, facendo innalzare la domanda dei capitali oltre il limite della loro offerta.

Non importa invece all’Economist che Bain affermi altresì che tali investimenti innalzeranno la produttività del lavoro (e dunque l’offerta di beni e servizi) nonché la disoccupazione (almeno quella di breve termine), due fattori fondamentali per il loro effetto deflattivo, né conta il fatto che gli investimenti industriali si portano dietro un sempre maggiore livello di investimenti collaterali in software, di ingegneria, di finanza e di altri servizi accessori, i quali tutti insieme dovrebbero dare una spinta considerevole tanto al livello di output industriale (che è ancora la prima componente del Prodotto Lordo dell’economia) quanto all’occupazione giovanile, alla creazione di start-up tecnologiche, e alla domanda di nuovi investimenti infrastrutturali, proprio quelli che -dipendendo fortemente dalla politica- a tutt’oggi ancora non si sono visti sullo scenario globale.

L’ECONOMIST CI RICAMA SOPRA

Secondo l’Economist invece l’innalzamento della domanda di investimenti, unita a quello dell’inflazione, procurerà stress ai mercati finanziari, che potrebbero reagire nervosamente. Potrebbero, certo, così come molti altri fattori fondamentali dell’economia potrebbero determinare sfiducia negli operatori economici, ma fino ad oggi l’Economist lo ha scritto da almeno un anno e mezzo e quello che è accaduto è sotto gli occhi di tutti: l’esatto opposto.

NON SARÀ LA DOMANDA DI CAPITALI A FAR CRESCERE I TASSI, BENSÌ LA POLITICA DELLE BANCHE CENTRALI

Quantomeno bisogna osservare che -se la domanda di capitali e finanziamenti per sostenere gli investimenti sarà elevata- per osservare un’eventuale innalzamento del loro prezzo bisognerà guardare anche a cosa succede alla loro offerta, vale a dire all’ammontare complessivo di liquidità in circolazione e alla capacità del sistema finanziario di convogliarla in direzione dell’economia reale. E la liquidità in circolazione -è ben noto- è governata dalle politiche monetarie delle banche centrali. Se queste ultime risulteranno inutilmente o eccessivamente restrittive è certo possibile che la domanda di capitali ne supererà l’offerta, portando al rialzo i tassi di interesse reali. Quelli cioè che vengono misurati dopo aver depurato l’effetto dell’inflazione.

Ma abbiamo appena visto che tra i Paesi maggiormente sviluppati nel mondo l’inflazione non corre, anzi si limita all’intorno del tasso fisiologico lungamente auspicato sino ad oggi dalle banche centrali, quel famoso 2% considerato -non si sa bene perché- “salutare” per l’economia. Dunque se i tassi reali sono rimasti fino ad oggi così bassi un motivo ce lo avranno avuto. Questo motivo è stato l’elevato livello di liquidità immesso sul mercato globale dei capitali proprio dalle banche centrali, perché almeno una piccola parte di essi sgocciolasse più a valle, a stimolare l’economia reale. Ciò confermerebbe l’assunto che, se i tassi saliranno o meno, dipenderà assai poco da domanda e offerta di capitali, e assai più dalle politiche monetarie delle banche centrali, le quali a tutt’oggi non avrebbero molte ragioni per andare a guastare la sincronia meravigliosa che, complice il Dollaro debole, si è creata attorno al mondo nella crescita economica.

I ROBOT PORTERANNO L’AUMENTO DELLE DISUGUAGLIANZE SOCIALI

In una cosa l’Economist sembra invece aver ragione da vendere: in assenza di politiche fiscali incisive e mirate l’incremento degli investimenti in automazione industriale porterà un incremento delle diseguaglianze economiche e della necessità di politiche mirate di sussidio. Secondo Bain lo sviluppo dell’automazione e dell’intelligenza artificiale porterà infatti entro il 2030 alla cancellazione del 20-25% degli attuali posti di lavoro, soprattutto tra quelli meno qualificati, mentre saranno ancor meglio pagate le professionalità più richieste per permettere di funzionare ad un sistema industriale sempre più automatizzato.

L’INFLAZIONE NON CRESCERÀ PIÙ DI TANTO

Ma c’è da scommetterci che i consumi non cresceranno altrettanto quanto i Prodotti Lordi dell’economia, perché chi già si trova nel benessere tende a risparmiare molto più di quanto facciano le classi meno agiate, con il risultato che potremmo trovarci nella stessa situazione vista negli ultimi anni di “congestione dei risparmi” (savings glut) che ha contribuito a determinare la discesa dei rendimenti e la cavalcata delle borse negli ultimi anni. Come dire che ci sono buone ragioni per credere che, al contrario di quanto affermino ripetutamente da qualche anno le cornacchie dei mercati finanziari, l’inflazione non salirà significativamente e i rendimenti reali potrebbero riprendersi solo un po’, ma non troppo.

I TASSI NON POTRANNO CRESCERE TROPPO

Un ulteriore motivo per rimanere relativamente ottimisti sul fatto che, a maggior ragione se ci si aspetta che l’inflazione possa crescere leggermente, i tassi di interesse reale potrebbero salire si, ma di molto poco, è anche quello dell’eccesso di debito che affligge da almeno un decennio l’economia globale. Per non parlare dei debiti pubblici, i quali a tutt’oggi continuano a crescere e se- come sembra- le necessità di sussidi pubblici non si ridurranno bensì saranno affiancate dalle esigenze di investimenti pubblici infrastrutturali, quei debiti continueranno a restare eccessivi, rendendo politicamente inaccettabili le velleità odierne delle banche centrali di ridurre la liquidità in circolazione e far crescere molto gli interessi.

Come dire che le attese dei mercati sono quelle di molta moderazione nella crescita dei tassi di interesse e, di conseguenza, non troppo negative per le Borse e anzi tutto sommato positive per le banche italiane, che della moderata risalita dei tassi beneficeranno decisamente, erogando più prestiti alle imprese senza che ciò arrivi deprimere le proprie ragioni di credito. Cosa che aiuterà la nostra economia a riavvicinarsi ai ritmi di crescita del resto dell’Unione.

Stefano di Tommaso




L’ORACOLO DI OMAHA

Sono 53 anni che, una volta l’anno di questi tempi, uno degli uomini più riservati (e potenti) del pianeta prende carta e penna e racconta ai suoi azionisti com’è andato l’anno per la sua società di investimento e cosa pensa delle borse e della finanza. Non ci sarebbe niente di strano e non è certo l’unico grande investitore a farlo, se non fosse che sono appunto 53 anni che lui porta ottimi risultati e che in questi egli si è dimostrato il più grande di tutti i tempi: il guadagno che ha procurato a chi ha investito con lui rasenta infatti il 20% composto annuo (senza mai fare un buy-back delle azioni) e le sue partecipazioni spaziano dalle banche alle assicurazioni, passando per l’informatica, l’edilizia, l’elettronica e l’assistenza sanitaria.


UNA LETTERA ATTESA DA TUTTO IL MONDO

I brillanti risultati della sua società holding di investimento, la Berkshire Hathaway, sono soltanto una delle ragioni per le quali oramai a leggere la lettera annuale di questo arzillo 87enne non sono solo i suoi azionisti ma è il mondo intero, per cercare consigli, ispirazione e saggezza.

Le altre ragioni della sua fama stanno nella particolarità del soggetto: oltre che schivo e riservato egli è famoso per la prudenza dei suoi giudizi e la conservativitá dei suoi orientamenti (pur essendo un democratico) oltre che per talune singolari prese di posizione, sulle quali difficilmente sino ad oggi si può affermare che abbia avuto torto. Vediamo perciò insieme quali messaggi Warren Buffett ci lancia questa volta.

IL REGALO DI TRUMP

La lettera esordisce con un esplicito (e ironico) ringraziamento al governo nuovo Presidente americano: dei 65 miliardi di dollari guadagnati nel corso del 2017 Buffett afferma di averne meritati con il suo lavoro soltanto 36. Gli altri 29 miliardi di maggior valore sono dovuti alla riduzione della tassazione sui profitti aziendali, manovra che egli scrive di non condividere, dei quali può tuttavia soltanto ringraziare Donald Trump.

Bisogna per tutta onestà far notare che Buffett è forse ancora più nazionalista di Trump, dal momento che oltre il 90% dei suoi investimenti è effettuato in America.

L’ENORME LIQUIDITÀ ACCUMULATA

Proseguendo nella narrativa, il miliardario segnala chiaramente la questione più macroscopica che riguarda il bilancio della sua holding, che è ovviamente quella dell’enorme liquidità accumulata a fine 2017 sui propri conti bancari: 116 miliardi di dollari (in crescita del 35% sull’anno precedente) che, rapportata ai 490 miliardi di dollari della propria capitalizzazione di mercato, fa il 24% del totale e, soprattutto, è un’enormità se viene rapportata al valore di mercato al 31.12.2017 del totale dei suoi investimenti in azioni (191 miliardi: il 61% di questi ultimi) e al totale di quelli in azioni di aziende quotate in borsa (170 miliardi: il 68%). Un forte segnale di prudenza rivolto al mercato, o un‘ attesa di grandi turbolenze o infine la possibilità che egli stia preparando una grandissima acquisizione.

LE (POCHE) AZIENDE SELEZIONATE

Un’altra chiave di lettura relativa al perché di tutta quella liquidità in cassa risiede infatti nell’accenno che egli fa alla sua preferenza per acquisizioni di società se possibile molto grandi, temperata tuttavia dal fatto che agli attuali prezzi di mercato nel corso dell’anno appena concluso non ne ha ritenuta soddisfacente alcuna. Una costante delle sue (rare) uscite è infatti ripresa anche stavolta nel cenno che riguarda la condanna dell’iperattivismo e i vantaggi del fare poche intelligenti mosse negli investimenti azionari. “Non c’è bisogno di grandi lauree o del linguaggio forbito degli analisti finanziari per selezionare i migliori investimenti, quanto piuttosto di mantenere la calma e la lucidità nel misurare pochi, semplici valori fondamentali nel tempo delle aziende da scegliere” sentenzia l’Oracolo. Molto spesso altrove egli ha precisato che -non importa quanto sforzo venga impiegato- per fare buoni investimenti ci vuole tempo, così come per fare un figlio ci vogliono comunque nove mesi e non si riesce a farlo in un mese mettendo incinte nove mamme!

QUALCHE “COLPO GROSSO” O ECCESSO DI PRUDENZA?

Così vedremo se sta preparando un “colpo grosso” oppure sta solo posizionandosi in una logica di maggior prudenza. Tra le aziende preferite da Buffett quest’anno si è decisamente imposta la Apple, di cui oramai detiene il 3,3% e dove ha investito quasi 21 miliardi di dollari che a fine 2017 ne valevano già più di 28, il più elevato investimento azionario dopo la banca Wells Fargo, di cui detiene quasi il 10% per un controvalore a fine anno di oltre 29 miliardi. Certo le sue scelte hanno quasi sempre fatto centro, facendo della Berkshire una delle poche società che ha battuto la crescita dell’indice di borsa e con una più limitata volatilità (vedi il grafico).

ANCHE I TITOLI A REDDITO FISSO SONO RISCHIOSI

Uno dei principi più celebri e graffianti che l’Oracolo di Omaha ha stavolta voluto riaffermare è relativo al concetto di prudenza (che per lui riveste un aspetto fondamentale nel lavoro che svolge): spesso gli investitori istituzionali usano il rapporto tra reddito fisso e azioni per misurare la rischiosità del loro portafoglio ma non potrebbero commettere un errore peggiore: anche i titoli obbligazionari hanno il rischio delle oscillazioni di prezzo e per di più potrebbero essere non rimborsati. Concetto tanto più vero quanto più è probabile un rialzo dei tassi.

GLI AFORISMI, LE IRONIE E LE IDIOSINCRASIE (PER L’M&A)

Buffett è infine famoso per le sue brevi e graffianti sentenze, che usa intelligentemente per avere facile accesso alla comprensione di chi lo ascolta e riuscire a semplificare i concetti più difficili.

Anche stavolta ne dispensa di copiose, come : “Non è necessario fare cose straordinarie per avere risultati straordinari”, oppure : “devi fare solo poche cose buone nella vita e per tanto tempo, così non ne farai troppe sbagliate”.

Quest’anno la sua idiosincrasia si è concentrata sull’eccesso di fusioni e acquisizioni che spesso vengono sollecitate dagli stessi azionisti al management delle imprese: “è come chiedere a un adolescente immaturo di avere una vita sessuale normale” dice Buffett, “un istante dopo che il management sarà stato incitato a fare acquisizioni troverà sempre buone giustificazioni per farne una”. E non ha esitato a definire “un verme solitario affamato” per l’economia americana il crescente costo delle cure sanitarie (che in effetti negli U.S.A. è salito molto più dell’inflazione: vedi grafico qui sotto).

ALCUNE DELLE SUE FAMOSE MASSIME:
•Quello che abbiamo imparato dalla storia è che le persone non imparano nulla dalla storia

•Le catene delle abitudini sono troppo leggere per essere avvertite finché non diventano troppo pesanti per essere spezzate

•Niente distrugge la capacità di ragionare come grandi dosi di denaro ottenute senza sforzi

•Nel breve periodo il mercato azionario è una macchina elettorale, nel lungo periodo è una bilancia che pesa il valore reale dell’azienda

•La qualità più importante di un investitore è il temperamento, non l’intelletto. Hai bisogno di temperamento per non provare grande piacere né nel seguire la folla, né nell’andare controcorrente

•Non amo saltare un ostacolo di tre metri. Preferisco guardarmi intorno e cercare un ostacolo di un metro che posso scavalcare

•Nel breve periodo il mercato azionario è una macchina elettorale, nel lungo periodo è una bilancia che pesa il valore reale dell’azienda».

•Le opportunità arrivano raramente. Quando piove oro, metti fuori un secchio, non una ciotolina

•Se non vuoi essere proprietario di un’azione per dieci anni, non pensare nemmeno di impossessartene per cinque minuti. Metti nel tuo portafoglio titoli di aziende i cui guadagni complessivi sono destinati a incrementare negli anni. Così anche il valore di mercato del tuo portafoglio aumenterà

•La chiave per investire non è valutare quanto un’industria può cambiare la società, o quanto è destinata a crescere. Ma è determinare il vantaggio competitivo di ogni azienda e, soprattutto, la durata di quel vantaggio

•È decisamente meglio comprare una società meravigliosa a un prezzo discreto che una società discreta a un prezzo meraviglioso

•Come diventare ricco: sii timoroso quando gli altri sono avidi e avido quando gli altri sono timorosi

•Agli studenti dei licei dico : quando avrete la mia età avrete avuto successo se le persone che speravate vi amassero vi amano

•La differenza tra persone di successo e quelle di grande successo è che le seconde dicono no quasi a tutto

•Ho visto tante persone fallire per problemi di alcool e per i prestiti. Non hai bisogno di chiedere un prestito in questo mondo. Se sei intelligente, riuscirai a fare soldi anche senza.

QUANDO INVESTO È FISSA NELLA MIA MENTE L’IMMAGINE DEL PICCOLO AZIONISTA CHE RIPONE NEI TITOLI DELLA MIA SOCIETÀ UNA PORZIONE CONSISTENTE DEI SUOI RISPARMI. NON POSSO TRADIRLO!

“Ed è proprio su quest’ultimo punto (i rischi e la leva finanziaria che egli conclude la sua lettera on un ennesimo richiamo alla prudenza: non c’è niente di più importante per me che il piccolo azionista che ha fiducia in noi e ripone in titoli della società che io gestisco una quota consistente dei suoi risparmi: ogni giorno quando devo prendere delle decisioni ho fissa nella mia mente l’immagine di quell’azionista”. Signori, il capitalismo popolare americano ha ancora una volta il suo paladino ! (nell’immagine: il congresso dei suoi azionisti dello scorso anno).

Stefano di Tommaso




LA TRAHISON DES IMAGES (OVVERO: LE BANCHE CENTRALI SONO DAVVERO IN RITIRATA?)

Ci sono artisti che passano alla storia per le loro vite intense (si pensi al Caravaggio o a Van Gogh). E poi c’è René Magritte, un uomo elegante, come tanti, educato e distinto come un banchiere, ma capace di evocare la trasformazione della realtà come nessun’altro. In questo sta il suo genio: nell’invito a osservare il mondo con occhi diversi, a stupirci di ciò che è apparentemente banale, a scavare sotto la superficie per scoprire che la realtà è molto più affascinante di quanto non appaia. « Chi oserebbe pretendere che l’immagine di una pipa è una pipa? Chi potrebbe fumare la pipa del mio quadro? Nessuno. Quindi, non è una pipa»

 

La Trahison des images (la fuorvianza delle immagini) è un suo dipinto realizzato nel 1928-29 (l’anno della più grande delle crisi di Borsa della storia). L’opera, contestando la raffigurazione della pipa (non si tratta di fatto di una pipa, bensì di una sua immagine), mira a mettere in risalto la differenza di tangibilità e consistenza che il mondo della realtà ha con quello dei segni, invitando alla riflessione sulla complessità del linguaggio. A cinquant’anni dalla morte di Maigritte il messaggio della filosofia surrealista lanciato con forza proprio dalla pittura di grandi evocatori di concetti astratti come lui (ma anche da Miró, Ernst, Dalí, de Chirico ecc…), non poteva essere più attuale nel contesto odierno dei mercati finanziari.

L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DEL TAPERING

Sono quasi due anni che I banchieri centrali ci raccontano della loro volontà di procedere a una graduale ritirata da quello che è stato forse il loro più vasto e profondo intervento nella storia dell’economia: il Quantitative Easing (l’allentamento della politica monetaria seguìto alla brusca riduzione della liquidità in circolazione dopo la crisi borsistica del 2008). All’epoca si rischiava di ripercorrere pedissequamente gli otto anni di crisi economica che erano seguiti alla crisi finanziaria del 1929 e i principali banchieri centrali nel mondo, capitanati da quelli anglosassoni, decisero nel 2008 di controbilanciare con vigore la riduzione del moltiplicatore monetario del credito (e della velocità di circolazione della moneta) con l’acquisto sul mercato di grandi quantità di titoli e dunque con la conseguenza di affogarli di liquidità. I tassi di interesse discesero perciò più o meno bruscamente intorno allo zero e questo fatto risultò a sua volta essenziale per rendere sostenibile un altro macigno che rischiava di schiacciare per sempre l’economia mondiale: l’eccesso di indebitamento generale (tanto privato quanto degli Stati sovrani).

Che la manovra di Quantitative Easing (di stampo chiaramente keynesiano) sia risultata ex-post fortemente appropriata, nonostante le numerosissime critiche che piovevano soprattutto da economisti conservatori, lo dimostra il periodo di eccezionale crescita economica che oggi -a nove anni di distanza- il mondo intero sta vivendo in forma per di più sincrona: tanto per le economie più sviluppate quanto per quelle emergenti.

Il “Tapering” però (che dal punto di vista economico dovrebbe essere l’esatto opposto della manovra espansiva) sbandierato da due anni a questa parte dagli annunci dei medesimi banchieri centrali, preoccupati dall’incessante e dilagante crescita dei valori azionari e obbligazionari, è risultato tuttavia così prudente e graduale da apparire sostanzialmente inesistente. Un caso così estremo da risultare sostanzialmente illusorio di quella “Forward Guidance” (anticipazione verbale delle future manovre) che le banche centrali amano utilizzare per indirizzare i mercati quando vedono degli eccessi che potrebbero trasformarsi in futuri disastri.

Ecco allora che oggi si materializza una fuorviante rappresentazione della realtà: quella che tocchiamo con mano appare molto diversa da quella che ci viene comunicata dalla Yellen (governatrice della Federal Reserve bank of America), da Zhou Xiaochuan (presidente della banca centrale cinese) da Mark Carney (presidente della banca centrale inglese) e via dicendo, sino all’ultimo arrivato nella lista degli “annunciatori”: Mario Draghi (governatore della banca centrale europea).

NESSUNO PUÒ PERMETTERSI UN’IMPORTANTE RISALITA DEI TASSI DI INTERESSE

Ad ascoltare gli annunci bellicosi di aumenti dei tassi di interesse della Yellen sembrava che una nuova crisi dei mercati potesse arrivare solo per effetto di tale manovra, attuata invece sino ad oggi in forma quasi simbolica, perché lo sanno tutti che un vero rialzo dei tassi di interesse I governi di tutto il mondo non possono permetterselo, fino a quando non saranno riusciti a monetizzare buona parte del debito pubblico, cioè per molti anni ancora. Tanto per fare due numeri, dal 2007 i debiti globali (pubblici e privati) sono infatti aumentati di oltre il 70%, arrivando a sfiorare i 140mila miliardi di dollari secondo il Fondo monetario internazionale. E’ chiaro anche a un bambino che -se un’importante risalita dei tassi si materializzasse- il maggior costo del servizio del debito non farebbe che incrementare I disavanzi pubblici e dunque la massa del debito stesso, impedendone il rientro a volumi più fisiologici. Ecco dunque che si procede sistematicamente a graduali rinvii dei rialzi annunciati e a piccoli passi di un quarto di punto percentuale alla volta, augurandosi che l’omeopatia funzioni davvero nel limitare gli eccessi dei mercati finanziari.

Calcola la Banca Pictet che, secondo gli annunci odierni dei loro governatori, dopo i 2.540 miliardi di dollari iniettati sui mercati dalle 5 maggiori banche centrali del mondo nel 2017, si scenderà a “soli” 510 miliardi nel 2018 per poi teoricamente azzerare la liquidità immessa a partire dal 2019. Dunque bisogna aspettare almeno un biennio per verificare se toccheremo con mano una riduzione della liquidità sui mercati.

Per quest’anno invece ancora due triliardi e mezzo di dollari continueranno ad affogare gli acquisti di azioni e obbligazioni.

Poi si vedrà, anche sulla base della misura dell’inflazione dei prezzi al consumo (quasi inesistente), mentre di quella dei prezzi degli “assets” non se ne infischia nessuno.

D’altra parte una fetta consistente di questa liquidità è affluita sotto forma di investimenti nei Paesi emergenti. Negli ultimi anni essi hanno attirato importanti flussi d’investimento (superiori a 300 miliardi di dollari nel solo 2017) e questo ha aiutato decisamente il sincronismo della crescita economica globale che oggi registriamo, unitamente alla loro crescita demografica. È altresì indubitabile che la crescita generalizzata dei profitti aziendali cui assistiamo negli ultimi mesi (che a sua volta traina la corsa delle borse) c’entra parecchio con le maggiori esportazioni che il mondo più industrializzato realizza nei confronti dei Paesi Emergenti.

CHI VUOLE FERMARE IL CAVALLO IN CORSA?

“Davvero qualcuno vuol fermare il galoppo dell’economia ?” (avrebbe chiesto Maigritte con ironia). Nessuno, davvero, nemmeno se “sospinto” da forze artificiali. Anche perché i Paesi OCSE sanno benissimo che senza la manna dell’accelerazione del prodotto globale lordo che oggi finalmente si dispiega essi non potrebbero sostenere le tensioni sociali interne che derivano dal fatto che le classi meno agiate dei paesi più ricchi hanno beneficiato sino ad oggi ben poco della ripresa economica. La crescita indotta dalle facilitazioni monetarie ha in prima battuta favorito i detentori di attività finanziarie. Cioè h ampliato la disuguaglianza economica. Ci vuole tempo perché i suoi benefici si trasmettano all’economia reale.

Lo scenario perciò di graduale riduzione delle facilitazioni monetarie che ci viene propinato va filtrato attentamente con la realtà, che sembra riferirci uno scenario diverso, che nessuno vuole vedere tramontare troppo in fretta. Non lo vuole l’America, che si prepara a controbilanciare il suo tapering (tutto da vedere se poi si materializzerà dopo la nomina del successore della Yellen) con un pacchetto di riduzioni fiscali e incentivi all’industria proprio orientato al miglioramento dei redditi più bassi. Non lo vuole la Cina, ancora pesantemente impegnata a finanziare il suo sviluppo anche per strappare alla fame qualche centinaio di milioni residui di propri cittadini ancora dediti all’agricoltura più retrograda.

Non lo vuole nemmeno l’Europa, preoccupata più di quanto si possa immaginare dalle tensioni interne e dalle spinte separatiste che potrebbero far tramontare presto la stagione di crescita in corso, minacciata dal potenziale tracollo del debito sovrano dei suoi membri più deboli.

“Non credete minimamente a ciò che dico. Non prendete nessun dogma o libro come infallibile” diceva Buddha. E “una volta eliminato l’impossibile, ciò che resta, per quanto improbabile, deve essere la verità”, gli faceva eco Sherlock Holmes nei romanzi di sir Arthur Conan Doyle. Forse un esercizio utile anche in economia.

Stefano di Tommaso




ALLA FINE UNICREDIT COMPRERÀ COMMERZBANK

Molte voci si sono rincorse quando è venuta fuori, all’attenzione della stampa, la notizia di una trattativa segreta tra Unicredit e Commerzbank.

 

SMENTITE E PRECISAZIONI

Innanzitutto sono corse le smentite, da entrambe le parti e addirittura con il commento che piuttosto l’azionista al 15% (lo Stato tedesco) della possibile preda avrebbe preferito una banca francese (BNP PARIBAS) come acquirente. I soliti simpaticoni!

Poi sono ancora in molti a ricordarsi l’avventura straniera del 2005 con la HypoVereinsbank poi divenuta Unicredit Bank AG e oggi significativamente ridimensionata ma pur sempre presente in Germania.

Infine sono arrivate le precisazioni, attraverso le quali si faceva notare che entrambe le banche sono nel bel mezzo dei rispettivi processi di ristrutturazione, ivi compresi tagli di spesa e riduzione del personale.

Dunque i sindacati non avrebbero gradito che da una parte si faccia economia e si dichiari di voler concentrare la propria attenzione sul mercato interno e sul core business e dall’altra si profondano risorse in una avventura oltre frontiera tutta da precisare, senza prima aver pubblicato un nuovo piano industriale (quello attuale ha come orizzonte il 2019) e poi consultato le parti sociali.

IL RUOLO DEI GOVERNANTI TEDESCHI

In Germania probabilmente la minor pressione della disoccupazione rende l’argomento molto più “morbido” da trattare, ma il problema di non poter procedere contemporaneamente alla messa in atto di una lenta ristrutturazione (va avanti dal 2010, dopo che l’anno prima il governo tedesco era entrato nel capitale per salvare la banca) ce l’ha anche Commerzbank e lo scenario ambientale è complicato dal fatto che il paese è in piena campagna elettorale.

La verità anzi è che i vecchi azionisti di Unicredit (a partire dalle fondazioni bancarie) si sono già ridimensionati con le perdite degli anni post-crisi e si sono diluiti con i decisi aumenti di capitale (l’ultimo di 13 miliardi ha spiazzato tutti e provocato il plauso degli analisti) mentre se oggi cedesse la sua partecipazione in Commerzbank il governo tedesco dovrebbe iscrivere al proprio stato patrimoniale una perdita decisa nel valore dell’asset, stimato dal mercato circa la metà di quanto ha investito. Un portavoce del governo lo ha già dichiarato: agiremo nell’interesse di chi paga le tasse.

Dunque ne hanno dedotto tutti gli osservatori che manzonianamente parlando “il matrimonio non s’ha da fare” e che l’argomento è quantomeno rimandato di un paio d’anni.

L’AMBIZIONE DI MUSTIER E LE PRESSIONI DEL MERCATO DEI CAPITALI

Ma sebbene sia entrato in azione solo un anno fa (nel 2016) chi conosce Pierre Mustier sa che è uomo di grandi ambizioni e poi molti investitori stanno concentrando le proprie attenzioni sui principali titoli bancari, scommettendo inizialmente un po’ su tutti ma si sa che alla fine essi preferiranno quelli che riescono ad esprimere una maggior crescita di valore. E -come direbbe Totò- qui casca l’asino!

Il mondo negli ultimi anni è cambiato a tal punto che l’attività creditizia è tornata in auge tra gli investitori, le economie del vecchio continente sembrano puntare a sempre migliori risultati man mano che l’Unione procede nel suo accidentato percorso di integrazione e la Germania resta il centro dell’attrazione dei capitali in fuga tanto dall’America quanto dalla Cina.

E nessuna grande azienda, nemmeno una banca “di interesse nazionale” (come si sarebbe detto in passato), nemmeno se sottoposta a un aspro confronto con i sindacati dei lavoratori, può sottrarsi alle pressioni dei propri azionisti e del mercato dei capitali, i quali possono risultare molto pazienti ma alla fine vogliono dire l’ultima parola.

Il boccone è goloso: la combinazione delle due realtà risulterebbe ai vertici delle classifiche bancarie europee e potrebbe vantare attivi totali per la bellezza di 1300 miliardi di euro (cioè ben oltre un trilione e mezzo di dollari).

Molte attività nelle quali le economie di scala contano (a partire dal “consumer business” ne risulterebbero avvantaggiate e la caratteristica he in passato ha reso debole Commerzbank: quella di avere una maggior clientela tra le piccole e medie imprese, per Unicredit risulterebbe invece di grande interesse per potersi piazzare come leader incontrastato di quel segmento nel continente europeo. L’unico nel quale la concorrenza delle grandi banche d’affari americane e asiatiche ha molto meno presa e capacità di attrazione.

SI FARÀ MA NON SUBITO

Solo che un orizzonte di un paio d’anni può risultare normale per la ristrutturazione di due grandi aziende ma appare come un tempo infinito a coloro che operano sul mercato dei capitali. Questi ultimi non aspetteranno così a lungo per emettere il loro verdetto e questo Mustier lo sa bene! Ecco allora che i tempi dovranno stringersi, magari già all’inizio del 2018 o nel corso dell’anno.

Dunque se fosse a Unicredit non converrebbe mollare l’osso nel frattempo, con il rischio che la potenziale sposa nel frattempo si accasi altrove. È più probabile che le trattative proseguano sotto traccia.

Mentre entrambe le banche provano a mettere a punto i rispettivi nuovi piani industriali magari ne abbozzano anche uno comune, magari con la complicità di qualche importante advisor, come Mediobanca di cui UniCredit è il primo singolo azionista, insieme a Vincent Bollorè. E non a caso Mediobanca che di solito tace sulla stampa invece resta, unica voce fuori dal coro, possibilista sul matrimonio.

E IL VALORE DEI RISPETTIVI TITOLI SALIRÀ

È solo il titolo di una favola oppure è realistico pensarlo? Si vedrà. Ma aspettiamoci che l’ultima parola la dicano i mercati, che hanno già premiato il titolo Unicredit con un +80% e che potrebbero adesso fare altrettanto con Commerzbank. Allora forse per il Governo tedesco sarebbe politicamente più accettabile dare il consenso, insieme alla necessità di fare cassa, mentre inizialmente si era parlato di un’operazione “carta contro carta” meno conveniente per lo stato germanico e per gli azionisti di minoranza.


Resta il fatto che la strategia di Mustier non sarà abbandonata così in fretta e che di conseguenza è piuttosto probabile che da oggi ai primi del 2018 entrambi i titoli potranno registrare prezzi più elevati degli attuali, anche perché i fondamentali si avviano ad essere molto migliori e di terreno, negli ultimi anni, ne avevano perduto parecchio. E questa sì che è una buona notizia per gli azionisti!

Stefano di Tommaso