CI VORREBBE UN MIRACOLO

I contorni di una recessione diventano sempre più nitidi in tutto l’Occidente, nonostante il fatto che l’Europa debba fronteggiare crisi energetiche senza precedenti e l’America no. La Banca Centrale Europea (BCE) stima una decrescita vicina all’1% del prodotto interno lordo per l’anno in corso nel caso di blocco delle importazioni di gas russo, che però è già una realtà, dal momento che la turbina che manca al North Stream 1 il Canada se la tiene stretta e nessuno preme il pulsante per l’utilizzo del North Stream 2, che anzi i media di tutto il mondo fingono di dimenticare.

 


UN DISASTRO ANNUNCIATO

Dunque si tratta di un disastro annunciato, e forse procurato inutilmente. Si calcola che soltanto in Italia nei prossimi 2 trimestri solari mancheranno all’appello ben 11 milioni di metri cubi di gas, con il rischio quindi che molte industrie si fermeranno e che, nell’ inutile tentativo di prolungarne le scorte, si arrivi a razionarlo, con molte famiglie che evidentemente resteranno in casa col cappotto.

C’è poi l’altra faccia della medaglia, e cioè il caro-bolletta, che porterà ugualmente molte imprese (soprattutto quelle artigiane) a fermarsi oppure ad imporre un forte rincaro. Il centro studi di confindustria ha stimato che la sua incidenza sui costi di produzione sia passata dal 4-5% degli anni precedenti al 9-10% di quest’anno (cioè il doppio) e possa arrivare al 14% nel 2023 (cioè a circa il triplo) se il gas russo continuerà a mancare. E questo con un prezzo di 235 euro quest’anno e 298 nel 2023: se dovesse crescere ancora sarebbe ancora peggio.


I guai però non sono confinati all’Europa cui manca il gas perché l’inflazione continua a incombere e, che abbia raggiunto o meno il suo picco, volteggia ben al di sopra dei tassi d’interesse nominali oggi in vigore (intorno al 9% per entrambe le sponde dell’Atlantico), ragion per cui tanto la Federal Reserve Bank of America (FED) quanto la BCE saranno costrette a continuare ancora a lungo ad alzare i tassi d’interesse, oggi ancora al di sotto del 2%, e saranno puntualmente seguite tanto dalla Banca d’Inghilterra quanto da quelle centrali del Canada e dell’Australia.

ASPETTANDO RI RIALZI DEI TASSI

Addirittura si parla di un incremento che potrebbe oscillare tra i tre quarti di punto percentuale e un punto intero per la FED che si riunirà il prossimo Giovedì, con l’ovvia conseguenza che anche le altre banche centrali seguiranno. Già così infatti il Dollaro continua a mostrare i muscoli sfondando tetti che non vedeva da vent’anni e più, figuriamoci se le altre banche centrali non dovessero alzare i tassi anche loro. Ovviamente il caro-gas si riflette in un petrolio più caro, e non soltanto per coloro che devono pagarlo in Dollari ma addirittura anche indipendentemente, visto che c’è il bando delle importazioni anche sul petrolio, se proviene dalla Russia (che però annovera una porzione consistente delle forniture mondiali di greggio). In pratica, scarseggiando anche questo, non è improbabile che le sue quotazioni (già risalite oltre i 90 dollari per barile) superino con l’arrivo dell’autunno di nuovo quota 100.


In pratica in tutta Europa si stima che la frenata indotta da costi e scarsità dell’energia nel prodotto interno lordo arrivi al 3% tra il 2022 e il 2023 con la perdita di ben oltre 1/2 milione di posti di lavoro. E sempre che il resto del mondo non si avviti di nuovo in una recessione feroce, perché sino ad oggi l’export continentale ha mostrato una decisa resilienza, la quale invece verrebbe meno nello scenario peggiore. Per l’America, il Regno Unito, il Canada, l’Australia e i paesi scandinavi la minaccia è meno feroce che per l’Europa continentale, dal momento che sono tutti estrattori in proprio di gas e petrolio e che quindi quantomeno le loro fabbriche più difficilmente si fermeranno. Come si può ben leggere nel grafico qui riportato, il peso dell’energia sul totale del prodotto interno lordo è cresciuto ben di più in Europa che in America.


VALE LA PENA DI INTESTARDIRSI?

  • Fin qui i fatti e i numeri, che risultano immancabilmente testardi anche quando si volesse provare a scompigliarli visto che quasi tutto l’occidente risulta in campagna elettorale. Anzi, questa coincidenza appare terribile, a ben guardarla, perché è la garanzia più forte del fatto che gli attuali governi faranno nel frattempo ben poco per contrastare l’orrenda deriva appena descritta, in attesa di essere sostituiti da quelli in arrivo.

E alla luce di questi fatti ben si comprende la gogna mediatica cui è stato sottoposto negli ultimi giorni il governo ungherese, reo di aver deciso che il carovita dei propri cittadini viene prima delle strategie di pressione internazionali sulla Russia. E scrivo di gogna mediatica perché, a quanto risulta, all’atto pratico la Commissione Europea ha partorito soltanto minacce nei confronti di Victor Orban e dei suoi ministri, che però il gas continuano a riceverlo a buon mercato dalla Russia. Mentre al resto d’Europa gli Stati Uniti (che il gas lo esportano con le navi in grande quantità) hanno fatto sapere che non interverranno con un maggior quantitativo di forniture. Dunque risulta anche piuttosto teorico il dibattito sui nuovi rigassificatori in Italia, dal momento che al momento rimarrebbero parzialmente inutilizzati.

Per non parlare delle politiche di transizione energetiche, delle quali -appunto- non parla proprio più nessuno in questo momento, dopo i grandi sbandieramenti cui abbiamo assistito fino a tutto il 2021. L’incremento della produzione di energia da fonti rinnovabili è sicuramente in corso, ma i suoi tempi non sono compatibili con il taglio repentino degli approvvigionamenti delle materie prime energetiche cui stiamo assistendo, ragione per cui il resto d’Europa continua a tenere accese le centrali nucleari e torna a bruciare il carbon fossile in grande quantità. In questa situazione chi rischia di pagare più salato il conto delle strategie geopolitiche messe in atto a livello atlantico è sicuramente il polo produttivo italiano della pianura padana e del circostante arco alpino, dove le temperature sono più rigide in inverno e dove si concentra la maggior parte delle produzioni industriali energivore.


CI VORREBBE UN MIRACOLO

Ci vorrebbe dunque un miracolo perché l’economia europea (e in particolare quella italiana) non prenda una nuova e più potente sbandata che la induca a subire ulteriori arretramenti nella classifica internazionale dei paesi più industrializzati. Qualcuno ha fatto notare che, in previsione di tutto ciò, è per questo motivo che le elezioni politiche sono state indotte così in fretta. Perché gli attuali governanti non debbano rispondere dei danni all’economia che si manifesteranno in autunno come conseguenza dell’aver accettato supinamente ogni richiesta atlantica, ivi compresi i 12-13 miliardi di euro di debito aggiuntivo per fornire nuove armi al governo di Zelenski.

La nostra borsa però non è destinata a riflettere il dramma che l’economia reale si accinge a subìre nei prossimi mesi. Innanzitutto perché i rialzi dei tassi d’interesse fanno bene ai conti delle banche, il cui peso sul totale del listino italiano non è affatto basso. E poi perché ha già forse subìto più delle altre borse internazionali il problema del caro-energia mentre il numero delle società quotate continua a diminuire per effetto delle migrazioni delle grandi imprese verso le borse più importanti del pianeta. Dunque a parità di domanda mancherà l’offerta.

Per cui è probabile che Piazza Affari si ridimensioni sì ancora un po’ ma non crolli affatto. Casomai il problema dei mercati finanziari al di quà delle alpi sarà quello dell’eccesso di debito pubblico pubblico, che con il rialzo dei tassi tornerà di grande attualità, e condizionerà non poco gli eventuali provvedimenti che il nuovo governo potrà adottare per stimolare la ripresa. Una situazione che non potrà non condizionare il risiko delle compravendite bancarie, desertificando ulteriormente il panorama delle alternative a disposizione delle piccole imprese per reperire credito. E spingendole ancora una volta a chiudere o ad aggregarsi oppure a reperire capitali di rischio.

MA QUEL MIRACOLO, FORSE, STA ARRIVANDO

Ma quel miracolo forse sta arrivando. Ci sono tuttavia dei segnali di distensione tra gli speculatori sui prezzi a termine (i “futures”) del gas i quali potrebbero indicare un’anticipazione di ciò che Russia e Cina potrebbero aver concordato nel vertice di Samarcanda: la riapertura del gasdotto North Stream 1 da parte della Russia. I motivi, politici, strategici o altro non è dato di conoscerli dal momento che non è nemmeno sicuro che succederà, ma il segnale fa il paio con la proposta di Putin di riaprire i negoziati di pace per l’Ucraina, segnale di fatto snobbata tanto da Zelenski quanto dai media nostrani ma che, se portato avanti con insistenza, non potrebbe essere ignorato. Se la Russia mostrasse infatti una forte volontà di ridurre la tensione in corso è piuttosto probabile che lo potrebbe fare accompagnando la strategia diplomatica con un gesto di “amicizia” verso l’Europa, e in particolare verso la Germania, che ha indubbiamente subìto il diktat americano e che rischia di stracciare il proprio tessuto manifatturiero.

Ora è evidente che, qualora la Russia mostrasse di voler fare sul serio, non solo non ci sarebbero i famigerati razionamenti, ma i prezzi dell’energia scenderebbero decisamente così pure come il cambio del Dollaro, che ha sino ad oggi indubbiamente beneficiato dei rischi di guerra. E chi ci guadagnerebbe di più potrebbe essere l’Europa, dal momento che è quella che ha più da perdere nello scenario opposto. Una mossa che indubbiamente scompiglierebbe gli alleati occidentali, alle prese con un’America che vuole vincere sempre e a prescindere e un’Europa continentale che, in preda alla crisi che sta arrivando, rischierebbe soltanto di accelerare le sue divisioni!

Stefano di Tommaso




DRAGHI E TRUMP POTREBBERO DELUDERE I MERCATI

Stavolta le borse sembrano più prudenti del solito, in attesa del Consiglio della Banca Centrale Europea di Giovedì, perché le quotazioni incorporano sì l’aspettativa di un giudizio più severo sulla salute dell’economia nell’Euro-Zona ma anche quella (non ovvia ma ugualmente attesa con ansia) che la BCE possa lanciare di conseguenza nuovi stimoli monetari, quantomeno per scongiurare un nuovo “Credit Crunch” nelle zone più svantaggiate. Se gli stimoli saranno annunciati, allora ne beneficeranno innanzitutto le banche e le quotazioni delle borse valori. Quel che non è così scontato però è che le due notizie (la rilevazione dell’andamento macroeconomico e il pacchetto di stimoli monetari) giungeranno nello stesso momento.

 

La BCE potrebbe infatti riservarsi di calibrarne meglio il lancio e rimandarlo ad Aprile. Ma se questo avvenisse non sarebbe un bel segnale per i mercati nè per lo spread tra i Bund e i BTP. Le pressioni dei mercati sul governo italiano e sulla sostenibilità del debito pubblico nazionale potrebbero accrescersi, generando di conseguenza nuovi timori e nuove fughe di capitali dal nostro Paese e, a volerci ricamare sopra, forse queste ultime avidamente agognate dai registi occulti dello spettacolo in scena.

E’ un po’ quel che è accaduto per la sorte del dialogo Cina-America tanto agognata dalle borse internazionali: ci si aspettava che Trump segnasse già nei giorni scorsi due goal spettacolari, tanto al tavolo da gioco dei rapporti commerciali quanto sullo scacchiere ancora più complesso dei negoziati strategici con la Corea del Nord (considerata ancora un vero e proprio satellite della politica estera cinese, che mira a porre una propria zampata significativa sulla futura Corea riunita): il successo probabilmente ci sarà, ma nessuno ne ha davvero fretta, e nel frattempo le borse non brindano. Ora si parla di un consenso generale per la firma dell’accordo commerciale con la Cina al 27 di Marzo, sebbene nemmeno quella data sia certa.

Sullo sfondo poi le preoccupazioni sull’andamento dell’economia nel suo complesso aumentano e molti si chiedono se la crescita economica che ci si attendeva si verificherà davvero, inducendo perciò l’esposizione degli investitori al rischio dei mercati verso atteggiamenti di maggior prudenza ma soprattutto generando un ovvio “volo verso la qualità” dei capitali che, nel dubbio, preferiscono spostarsi sulle piazze finanziarie più liquide e sicure, riducendo la loro presenza dunque nell’Europa periferica (dove siamo noi Italiani), nonché in Cina e in molti altri Paesi Emergenti. Questa tendenza può suggerire a Donald Trump di generare altra pressione sull‘interlocutore cinese attraverso la fibrillazione dei mercati finanziari, anche al fine di indurlo a più miti consigli.

Ma a ben vedere lo stesso concetto può valere anche per i Paesi partner dell’Unione che oggi più influenzano la Commissione Europea (leggi Francia e Germania), non esattamente allineati con l’idea di veder proseguire con successo la manovra del governo giallo-verde in Italia, e dunque meno inchine a vedere la BCE agire troppo prontamente per tutelare i titoli scambiati sulle piazze finanziarie periferiche come la nostra.

Non ci sarebbe da stupirsi dunque che l’attesa di nuovi spunti dei mercati finanziari si trasformi in un lento logorìo, o addirittura in un vero e proprio allarme, pur non potendo imputarne la colpa a Mario Draghi, che resta condizionato alle decisioni collegiali del Consiglio e rimane in uscita a breve termine.

Non è ovviamente questo l’unico scenario possibile: il super governatore potrebbe ugualmente tentare un colpo di scena dai risvolti patriottici o anche soltanto un commento più generoso, e in fondo gli osservatori un po’ ci sperano.

Così come a Wall Street l’attesa della fine delle guerre commerciali tra poco più di un paio di settimane tiene ancora gl’indici sui massimi. Le borse possono contare ancora su un’ottima liquidità e sull’ennesima aspettativa di buoni profitti industriali che saranno pagati a breve dalle imprese quotate, dunque la benzina non manca loro e non hanno troppi problemi anche a divergere vistosamente dall’andamento delle principali variabili macroeconomiche, tutte o quasi oramai orientate all’opposto degli indici di borsa e delle quotazioni dei titoli a reddito fisso.

È per tutti questi motivi che nulla è scontato, e che in queste ore la cautela regna sovrana. Ma in fondo l’attesa è breve. Tra Giovedì e Venerdì qualche carta verrà scoperta.

Stefano di Tommaso




ATTESE DELUSE !

Il mese di Settembre era iniziato sotto i peggiori auspici per i mercati finanziari ma nella seconda metà del mese le cose sembravano andare un filino meglio di ciò che si poteva temere. In particolare per la Repubblica Italiana, dopo lo shock della messa sotto osservazione da parte di Fitch, la prima delle Agenzie di Rating internazionali ad avere la revisione in scadenza, era iniziato a trasparire un moderato ottimismo, germogliato sulla linea della prudenza mostrata al mondo dal ministro dell’economia Giovanni Tria e a causa di una congiuntura internazionale favorevole. Ma era apparso chiaro a tutti che la positività dei mercati sullo spread, sull’appetibilità dei Buoni del Tesoro Poliennali e sulla borsa italiana (che contempla una forte presenza di banche, grandi detentrici di titoli di stato) era fortemente legata al deficit che sarebbe stato deciso nel Documento di Economia e Finanza, dunque nella data di Giovedì 27 Settembre, prevista per la sua pubblicazione.

BASTAVA IL 2%

I pronostici davano una decisa probabilità che quel deficit si sarebbe attestato al 2% del Prodotto Interno Lordo, o addirittura al di sotto di tale cifra, ma ciò derivava dall’aspettativa che avrebbe prevalso la linea del professor Giovanni Tria, che si era speso non poco nelle settimane precedenti a rassicurare i mercati. Bastava poco per dare loro soddisfazione e guadagnare tempo nel difficile rapporto dell’Italia con la finanza internazionale. Veniamo da anni molto peggiori, come si può vedere dal grafico qui allegato:

E invece la sorpresa generale, a mercati chiusi giovedì sera, nell’apprendere che quel numero (il 2% accettato dal consenso generale) era stato rivisto al rialzo (2,4%), è stata perciò grande! E per svariate ragioni:

I MOTIVI DELLA DELUSIONE DEI MERCATI

intanto se i nostri ministri dovevano proprio seguire la linea dell’incremento indiscriminato della spesa pubblica e dunque arrivare a scontentare i mercati finanziari al fine di prendere misure espansive di politica fiscale, potevano anche incrementarne la misura e cercare di ottenere in cambio un ulteriore obiettivo: quello di fare di più per far ripartire l’economia,
ma poi la situazione era così chiara circa la necessità di contrastare le incombenti difficoltà relative alla prossima revisione del rating da parte delle altre due Agenzie (Moody’s e Standard&Poor’s) come pure al futuro collocamento di titoli di stato a soggetti diversi dalla Banca Centrale Europea (che ha chiaramente lasciato intendere che con la fine del “Quantitative Easing” si avvia a non comperare più nuovi titoli italiani) che sarebbe bastato rimanere entro la soglia del 2% per fare tutti felici e contenti: il debito pubblico nazionale sarebbe cresciuto ancora ma in una misura considerata “accettabile” dal consenso generale.
La Banca Centrale Europea (BCE) è stata quasi l’unico acquirente dei titoli di stato negli ultimi due anni, come si può ben osservare dal grafico qui allegato:

Adesso se bisognerà emettere titoli di stato aggiuntivi rispetto a quelli in scadenza (il Ministro dell’Economia giura invece che la crescita programmata dalla manovra garantirà una discesa del debito dell’1% all’anno) nessuno sa come fare a collocarli senza che i tassi italiani tornino a crescere (in decisa controtendenza rispetto al resto d’Europa la cui banca centrale non prevedeva di lasciarli salire ancora per circa un anno) e che dunque il Paese rischi di avvitarsi nella spirale di maggiori tassi=maggiore spesa pubblica=minore sostenibilità del debito esistente.

IL DEBITO COSTA DI PIÙ

Ora per pareggiare il maggior costo del debito (già certo vista la brusca reazione dei mercati dello scorso Venerdì 28) nemmeno l’opzione di incrementare le tasse sembra oggi non percorribile se non addirittura in netto contrasto con tutte le misure previste del DEF, ma l’equazione in qualche modo dovrà quadrare, dunque il difficile equilibrio che sembrava accettare un deficit del 2% più per volontà politica internazionale che non per logica oggi sembra perduto. (Si veda il grafico qui allegato che riporta il calo dei corsi del Btp, che significa un incremento del,suo rendimento implicito):

Eppure bastava veramente poco, o forse basterà ancora veramente poco, per trovare a livello comunitario un punto di equilibrio rispetto alla linea politica del governo, e magari il falò delle risorse finanziarie che sono bruciate venerdì dopo l’annuncio verrà visto nelle prossime settimane come un fuoco di paglia, al quale seguiranno forse interventi dei vigili del fuoco, che potrebbero -controvoglia- essere proprio gli altri membri dell’Unione, pur di salvare quel che resta dell’Unione Europea. Che è anche Unione Monetaria. Venerdì infatti anche l’Euro è disceso così come tutte le borse europee (si veda il grafico allegato:)

I MERCATI NON ERANO COMUNQUE FAVOREVOLI

 


Ma se anche la tornata di fine settimana dei mercati fosse da considerare il prodotto di una serie di concause e si rivelasse alfine un fuoco di paglia, qualche bruciatura rimarrà comunque indelebile all’immagine di credibilità e autonomia che il ministro Tria stava cercando di costruirsi.

E se questo governo deve durare fino al 2023 sarà bene che la “chirurgia plastica” di qualche intervento dall’alto si mobiliti d’urgenza perché quello che Salvini e Di Maio hanno annunciato di voler fare era un’operazione di delicata affermazione della credibilità delle manovre espansive di politica fiscale, che andava ampiamente illustrata prima di tutto e, possibilmente, dopo aver passato il primo vaglio delle agenzie di rating.

Ora invece, per quanto Giovanni Tria possa illustrare il calcolo degli effetti espansivi sul Prodotto Interno Lordo della manovra (stimati nell’1,6% l’anno prossimo e nell’1,7% nel 2020), gli effetti positivi dei 15 miliardi di investimenti pubblici previsti ogni anno e la neutralità sui conti pubblici dell’operazione di rimozione della legge Fornero sulle pensioni, molti (strumentalmente oppure no) avanzeranno legittimi dubbi al riguardo. E nel frattempo rischiamo di beccarci qualche “downgrade” (abbassamento) del rating nazionale, con tutti i problemi che esso potrà creare.

LE ANALOGIE CON L’AMMINISTRAZIONE TRUMP

Donald Trump ha fatto in America un’operazione simile a quella che vogliono portare avanti i nostri nuovi governanti (fatta di stimoli all’economia di natura fiscale e sociale), che nonostante ricevesse le critiche di buona parte dell’intellighenzia e del “mainstream” (i media) che gli investitori hanno plaudito e che i mercati hanno gradito, ma l’Italia non è l’America e i predecessori degli attuali nostri ministri non hanno brillato per credibilità! Tanto più che i timori per l’eccesso di debito pubblico italiano sono comunque fondati perché senza l’ombrellone europeo i tassi dei nostri titoli di stato sarebbero più elevati.

I nostri ministri avrebbero dovuto curare molto di più la comunicazione con il resto del mondo.

IL BLUFF DELLA SPECULAZIONE “POLITICIZZATA”

Ciò detto bisogna anche spezzare una lancia contro la speculazione. All’estero tutti i commentatori indipendenti hanno notato che la reazione dei mercati è apparsa assolutamente eccessiva e fors’anche strumentale a chi vorrebbe ridurre il consenso dell’attuale maggioranza al governo. E così pure le parole del Presidente Mattarella non sono apparse esattamente scevre da ogni posizione politica, anzi!

Esiste tra l’altro una regola tra gli investitori: “Until support for the euro crumbles, here’s a rule of thumb for longer-term investors: If any eurozone bonds yield much more than Germany’s, buy them” riportata ieri dal Wall Street Journal, che quindi invita gli investitori a “scoprire il bluff” degli speculatori a matrice politica, perché la vera misura indicata dallo spread tra i titoli italiani e quelli tedeschi non è il rischio di default del nostro Paese, bensì quello di uscita dall’Euro. E sintantoché non sarà all’orizzonte una tale ipotesi, l’Unione Europea non può permettersi di far saltare il tavolo.


Anche Fidelity Investments scrive la stessa cosa. Se di rischio dobbiamo parlare, afferma, è quello di uscita dall’Unione, che però non è all’ordine del giorno, nemmeno nell’opinione pubblica, come mostra il grafico qui riportato:


L’USCITA DALL’EURO NON È IN VISTA

Con una certa probabilità dunque l’allarme sui mercati rientrerà presto, ma la vera questione è se fa bene il governo italiano a spingere sull’accelerazione della crescita invece che sulla leva del debito. E la risposta è probabilmente si. La leva da utilizzare oggi non può essere quella del rigore, che si è visto aver fatto solo danni, ma quella della crescita economica, senza la quale la mole del debito non sarà mai sostenibile. Ma ciò vale non soltanto per l’Italia, bensì per l’intera Europa, che sa che deve continuare a lungo con la sua politica di tassi bassi, e cerca scuse come questa per darne la colpa a qualcuno.

E’ il medesimo motivo per cui non è irragionevole supporre che le quotazioni delle banche nostrane, oggi fortemente penalizzate dai titoli pubblici in portafoglio, in realtà non torneranno a brillare ancora per un lungo periodo, seppure un rimbalzo potrebbero vederlo presto. Tassi bassi e “mercati sedati” dal mix probabile di politiche monetarie restrittive e politiche fiscali espansive è possibile che non gioveranno ai conti futuri degli intermediari finanziari.

Stefano di Tommaso




CHI COMPRERÀ TITOLI ITALIANI ?

La storia infinita della fondatezza (o meno) dei timori di insostenibilità del debito pubblico italiano secondo molti commentatori si avvia -con l’arrivo dell’autunno- verso un “momento della verità”. Non si tratta del solito complotto più volte denunciato da questa o quella forza politica bensì del combinato disposto di una serie di eventi che si apprestano ad accadere, dalla fine del Quantitative Easing europeo, alla disaffezione dei capitali verso le piazze finanziarie più marginali, fino al dilemma relativo a come finanziare il deficit nostrano in concomitanza con le promesse elettorali della nuova coalizione politica oggi al governo (che evidentemente non ha facili soluzioni).
 Adesso, dopo i fatti di Genova, ci si è messo anche il tormentone della crisi di affidabilità delle infrastrutture viarie, che richiederà una miriade di interventi in cui bisogna investire capitali, ma non è chiaro da dove arriveranno. La disponibilità di capitali per gli investimenti è funzione diretta dell’appetibilità degli stessi e, se un paese rischia di entrare in una fase di instabilità politica e finanziaria, il mercato si dilegua, come sta succedendo in questi giorni con la fuga dei capitali stranieri dai titoli italiani (tra maggio e giugno gli esteri hanno venduto 58 miliardi di euro di titoli di Stato).
LE RAGIONI DELL’ALLARME
Però bisogna doverosamente notare che, se qualcuno oggi vende i titoli di stato (i volumi di questo Agosto sono decisamente più alti del solito), questo significa per certo due cose:
– la prima è che evidentemente ci sono motivi per allarmarsi (e infatti lo “spread” dei loro rendimenti con i titoli tedeschi è al livello di guardia, poco sotto i 3 punti percentuali),
– la seconda è che evidentemente c’è anche qualcuno che acquista.
CHI COMPRA SONO SOLO LE BANCHE ITALIANE
 Il punto del ragionamento di chi oggi lancia l’allarme sulla possibilità che le cose peggiorino nettamente si basa proprio sulle due suddette considerazioni: i motivi di allarme che determinano il Sell-Off (la fuga) degli stranieri sono più che
oggettivi e poi se coloro che comprano tutto ciò che i primi (s)vendono sono -come sembra- solo le banche italiane (si veda il grafico qui sotto), ecco allora che l’Italia potrebbbe cadere in un “tranello” regolamentare, dal momento che il prestatore di ultima istanza di queste ultime è la Banca Centrale Europea, e non la Banca d’Italia, che ha abdicato alle sue prerogative.

LE BANCHE ITALIANE POTREBBERO ESSERE COSTRETTE A NON COMPRARE PIÙ TITOLI DI STATO ITALIANI

Se infatti il rischio Italia peggiora (a fine Agosto inizia la revisione del Rating Italia da parte di Fitch) e i titoli di stato vengono acquisiti soltanto dalle banche del medesimo Paese, ecco che il loro rating peggiora corrispondentemente, dal momento che sono più esposte al rischio di default del nostro Paese. Dunque, passato un certo limite, la banca centrale europea potrebbe decidere di non voler più rifinanziare le medesime, oppure le normative sulla convergenza bancaria potrebbero mettere uno stop all’acquisto dei titoli di stato oltre una certa quota del capitale “di vigilanza” di quelle banche.

E se ciò accadesse scomparirebbe chiaramente l’ultima specie vivente oggi disponibile ad acquisire, a prescindere da prezzi e rendimenti (siamo tornati sugli scudi), i titoli di stato che devono essere emessi in sostituzione di quelli in scadenza, oltre a quelli nuovi che vengono emessi per finanziare il deficit. La partita dunque diverrebbe molto aspra, e non bisogna faticare granché per prefigurare uno scenario visto già a lungo nell’incubo vissuto dalla vicina Grecia, dove persino gli sportelli bancari avevano smesso di funzionare data la corsa dei residenti a ritirare i depositi in contanti per poterli trasferire altrove.
ALLA RICERCA DI ALLEANZE
Resta perciò aperta la questione iniziale: chi comprerà i titoli italiani? I neo-ministri stanno agitandosi molto (e a ragione) al riguardo, tanto nel dialogo con la banca centrale (Savona è andato a trovare Draghi) e con le altre istituzioni europee (cui chiedono di prolungare il periodo di Q.E. e/o di mostrare se ci tengono alla permanenza dell’Italia nell’euro-zona) quanto con le possibili alternative: le potenze economiche del Pacifico (prima Conte in America e adesso Tria in Cina), cui stanno proponendo vantaggiosi accordi di collaborazione commerciale.
La logica non fa una piega: se i “partners” europei non ci ascoltano facendoci correre il rischio di insolvenza dei conti pubblici, allora magari possiamo aprire le nostre frontiere ad altri partners più generosi, chiudendole ai primi. À la guerre comme á la guerre, insomma!
D’altronde, comunque si giri la frittata, la partita d’autuno per il governo Savini-DiMaio è ardua, e il “ricatto dello spread” che si è già visto avere la capacità di riuscire a terminare il secondo governo Berlusconi, è un rischio che gli attuali leaders non vogliono correre senza provarle tutte, ivi compresa la carta delle alternative all’Unione Europea, se non collabora.
E qui la partita si fa delicata, perché se è vero che sulla parola di un Presidente americano perennemente sotto assedio non c’è da contare troppo, ecco che tornano d’interesse le alternative come la Cina (dove Tria, il ministro dell’economia pentastellato si è recato per un’intera settimana) dato anche il fatto che il fondo di investimento sovrano “Silk Road” possiede il 5% di Autostrade e potrebbe avere un deciso interesse strategico a soppiantare Atlantia e che tanto la Cina quanto la Russia potrebbero trovare interessante investire nelle infrastrutture viarie del nostro Paese (la partita sui titoli di stato si intreccia fortemente con quella della necessità di investimento nelle infrastrutture nazionali).

 
IL RISCHIO DI “CONTAGIO”
Insomma il “circolo vizioso” (doom loop) che rischia di ripetersi è quello già visto nel 2008/2009, quando la crisi di fiducia sulle banche (e tra le banche) aveva a sua volta alimentato le vendite sui titoli di stato fino a creare la voragine globale che ricordiamo.
Ora poiché nel medesimo autunno caldo che si appresta a vivere l’Italia c’è anche il rischio di un “sell-off” sulle borse europee ed americane (sia per i massimi toccati da Wall Street che per il rischio di contagio di quelle europee in caso di allarme sui titoli italiani), ecco che il debito italiano potrebbe avere tutte le caratteristiche per diventare il detonatore di una nuova crisi finanziaria globale e che anche su questo tavolo i ministri penta-leghisti cercheranno di vendere cara la pelle prima di ritrovarsi costretti al commissariamento europeo !
Stefano di Tommaso