QUALE ITALIA DOPO DRAGHI?

All’occhio di un attento lettore non saranno sfuggite le battute conclusive di un bradisismo che oramai va avanti da oltre due anni: la fine dell’epoca degli stimoli monetari. L’annuncio di Mario Draghi che da Gennaio la Banca Centrale Europea non acquisterà più titoli di Stato è stato soltanto l’epilogo di una lunga vicenda iniziata dieci anni fa quando alla Federal Reserve (detta anche: FED, la banca centrale americana) individuarono -negli acquisti di titoli pubblici sul mercato aperto- un antidoto efficace a contrastare il crollo della velocità di circolazione della moneta e gli effetti recessivi della deflazione.

 

La manovra, all’epoca denominata per astruse ragioni tecniche “facilitazione quantitativa” (in Inglese “Quantitative Easing” detto anche: QE) ha avuto un indubitabile successo nel far riprendere vigore ai mercati finanziari subito dopo la crisi e ne ha generato il più potente rialzo della storia. Ma soprattutto ha permesso di abbassare fortemente i tassi d’interesse pagati dai titoli di stato e dunque di innalzare la sostenibilità del debito pubblico. La FED lo ha smantellato dal 2016 e dallo stesso periodo sta procedendo a rialzare gradualmente i tassi di interesse a breve termine, riuscendo contemporaneamente a mantenere bassi quelli a lungo termine (che rappresentano il grosso del costo del debito americano).

IL QE EUROPEO E’ ARRIVATO (VOLUTAMENTE) IN RITARDO

In Europa non si è fatto subito alla stessa maniera ma si è passati da una lunga pausa di riflessione, che ha generato un’emorragia di capitali dalla periferia verso i Paesi centrali dell’Unione e, parallelamente, un importante decadimento per le economie più deboli (si veda il grafico sottostante).

Si proceduto poi con una sorta di finanziamento temporaneo alle banche commerciali per acquistare titoli di stato a tasso agevolato (la LTRO ovvero “Long Term Refinancing Operation”, con le quali molte di esse hanno risanato i conti economici, lucrando sul differenziale tra i tassi pagati per l’LTRO e quelli percepiti sui titoli pubblici acquisiti) fino poi ad inaugurare il vero e proprio Q.E. Europeo, tutt’ora in corso, che si concluderà con la fine del 2018. In funzione di esso la Banca Centrale Europea ha acquistato sino ad oggi titoli di stato italiani per circa 350 miliardi di euro e questo ha impedito manovre speculative contro il nostro debito pubblico.

LA NASCITA DELLO SPREAD

Queste manovre hanno favorito sì la discesa dei tassi d’interesse ma, senza la prospettiva di un’unica nazione europea -e dunque senza solidarietà tra i debiti pubblici dei diversi paesi- si è lasciato che si generasse una forte divergenza (spread) tra i tassi pagati dai Paesi centrali dell’Unione (arrivati sotto lo zero) e quelli pagati dagli altri, come l’Italia, diminuendo per questi ultimi i vantaggi della manovra. Nel grafico un raffronto tra i debiti pubblici europei:



LA FINE DEL QE E I RISCHI DI FUGA DEI CAPITALI DALL’ITALIA

Oggi che i tassi nel resto del mondo tornano a crescere e gli stimoli monetari sono terminati, l’Euro non può permettersi di proseguirli da solo incrementando il differenziale dei propri tassi con quelli del Dollaro e alimentando di conseguenza la propria svalutazione (al momento peraltro ancora in corso). E così i tedeschi plaudono all’annuncio della fine del Q.E. (e alla susseguente fine dei tassi bassi) ma tutti si chiedono chi comprerà i titoli di stato italiani dal 2019. Lo stesso mandato di Mario Draghi (visto dai più come uomo poco incline allo strapotere germanico) si conclude a Ottobre del prossimo anno.

Nel frattempo in Italia si è anche insediata una nuova coalizione governativa sicuramente più refrattaria ai diktat di austerità dell’Unione Europea, cosa che teoricamente alimenta il rischio che l’Italia debba fronteggiare una nuova importante fuga dei capitali.

A Maggio infatti se ne è vista una decisa avvisaglia: il caos del mancato governo sollevato dal presidente Mattarella ha fatto sì che i flussi finanziari in uscita abbiano toccato il record di 40 miliardi di euro, portando a 465 miliardi il saldo del debito derivante dal meccanismo di bilanciamento monetario denominato “ TARGET 2” (in pratica quanto l’Italia dovrebbe ai paesi creditori dell’Unione in caso di fuoriuscita dall’Euro). Nel grafico che segue si vede un confronto tra il principale debitore (l’Italia) e il principale creditore (la Germania):

Ovviamente nel caso di ulteriori forti fughe di capitali dal Bel Paese questo divario non sarebbe sostenibile all’infinito, soprattutto se in parallelo c’è uno scontro politico in atto e poi tenendo conto del peso del sistema bancario nazionale, che raggiunge i 4mila miliardi di euro. L’Italia insomma non è la Grecia e il salvataggio, per quanto possa apparire per noi doloroso, non sarebbe nei fatti nemmeno possibile.

Dunque si è creata un’urgenza irrinunciabile di trovare in fretta soluzioni all’orizzonte degli eventi monetari del 2019 proprio nel momento che il nuovo governo intende fare la voce grossa con Bruxelles. Ma per completare con oggettività il quadro generale tuttavia bisogna prima prendere atto di cosa succede in Gran Bretagna dopo la “famigerata” Brexit.

LA BREXIT È ANDATA BENISSIMO

Ebbene: non solo la Sterlina negli ultimi mesi si è straordinariamente rafforzata ma la disoccupazione britannica nel primo trimestre del 2018 registra il minimo storico del 3% (non si vedeva dal 1991) e la corsa a sostituire la partnership con l’Unione Europea ha ampliato la collaborazione di Londra con l’Asia e l’estremo oriente è divenuto ied è divenuta il terminale della maxi-infrastruttura lanciata dalla Cina denominata “Nuova Via della Seta”, che vale 12 volte il Piano Marshall, coinvolge 65 paesi e I due terzi dell’economia globale. Il calo delle tasse dopo l’annuncio ha d’altra parte rilanciato gli investimenti interni nei porti, nella manifattura e nella digitalizzazione, rafforzando i legami con i paesi del Commonwealth quelli con gli Stati Uniti dell’era trumpiana, arrivando a rilanciare (per assurdo) il ruolo di Londra quale principale piazza finanziaria europea.

Esattamente l’opposto di quanto avviene nell’Unione, dove l’Euro è in caduta libera, la crescita economica è rallentata vistosamente nel primo scorcio del 2018 e le tensioni con Washington sono sempre maggiori. Ora si spera che la debolezza della moneta unica possa rilanciare le esportazioni del vecchio continente ma comunque i mercati finanziari sentono puzza d’incertezza nell’Unione e preferiscono rivolgere le loro attenzioni altrove. L’Italia insomma potrebbe anche pensare di uscire dall’Euro incoraggiata dall’esito positivo di chi l’ha preceduta, così come potrebbe trovare il modo di negoziare con i partner forti dell’Unione accordi più vantaggiosi per il rilancio della propria economia e il rimpatrio dei capitali, visto che lo spauracchio si è fatto concreto.

CHI COMPRERÀ I TITOLI PUBBLICI?

D’altra parte senza prendere alcuna iniziativa non si vede come potrà trovare il modo di sostenere in autonomia le sue finanze pubbliche per far sottoscrivere 201 miliardi di titoli di stato da emettere nel 2019, in crescita dai 165 del 2017 (si veda il grafico):

(nel grafico nell’anno 2019 si vedono ancora acquisti da parte della BCE per una ventina di miliardi a causa del fatto che essa prevede ugualmente di continuare a reinvestire i bond in scadenza)

Se le esportazioni continueranno (o addirittura si rafforzeranno) il nostro Paese può sperare di contrastare la fuga dei capitali con l’incremento della bilancia dei pagamenti correnti. Le previsioni infatti da questo punto di vista appaiono positive:

Il quadro perciò non è necessariamente così grigio per l’economia italiana, prevista in crescita quest’anno di almeno l’1,4%, se al tempo stesso in cui il rischio di una fuga di capitali si dovesse fare più forte il Paese dovesse parallelamente riuscire a mobilitare nuove iniziative imprenditoriali e un efficientamento della pubblica amministrazione così come promettono i nuovi leaders.

La fine dell’ombrello monetario europeo insomma è destinato a provocare un chiarimento nei rapporti con l’Unione (o si intensificano o si riducono). E non è detto che ciò non possa costituire un fatto in qualche modo positivo…

Stefano di Tommaso




BORSE: PREVISIONI&CONSIDERAZIONI PER IL 2018

(dopo il crollo del Bitcoin sarà la volta dei derivati?)

Più di un commentatore mi ha fatto notare quanto l’attuale fase dorata dei picchi borsistici che negli ultimi 12-15 mesi ci siamo abituati a vedere sia strettamente dipendente dalla forte liquidità ancora oggi immessa copiosamente in circolazione da parte delle Banche Centrali di tutto il mondo, a partire dalla Banca Centrale Europea.

Negli ultimi tempi ci siamo riposati sull’idea che l’attuale fase di euforia borsistica, per quanto quasi inspiegabile, possa durare per sempre. E che oramai l’andamento dei mercati dipenda da quello (positivo) dell’economia globale e dei profitti aziendali, più che da fattori distorsivi come il Q.E. (Quantitative Easing). Cosa peraltro parzialmente veritiera, dal momento che la crescita economica globale al di sopra del tasso tendenziale del 4%, così sincronizzata tra le principali economie del mondo, ha sicuramente dato fiducia agli investitori i quali, ovviamente, hanno ricambiato la cortesia ai mercati incrementando tanto l’acquisto di asset fisici quanti la loro quota di liquidità investita in strumenti borsistici.

I MERCATI TUTTAVIA HANNO PERFORMATO PRINCIPALMENTE A CAUSA DELLA FORTE LIQUIDITÀ IMMESSA DALLE BANCHE CENTRALI

Ciò che invece dovremmo forse osservare con più attenzione è quanti anni di espansione monetaria ci sono voluti perché gli effetti del Q.E. si trasmettesse all’economia reale: troppi forse, visto che ancora oggi l’inflazione sembra non fare alcun occhiolino nelle statistiche.

Ma questo vuol dire solo una cosa: che adesso che finalmente una crescita economica sincronizzata nel mondo è finalmente arrivata e che non si è ancora manifestata l’inflazione corrispondente all’incredibile volume di nuova liquidità immessa dalle banche centrali in 9 anni di storia (mi pare di aver compreso che siamo arrivati a un totale di 15mila miliardi di dollari), ci troviamo in un momento particolarmente fortunato che, per definizione, non potrà durare in eterno.

Prima o poi vedremo perciò più inflazione, e comunque vedremo gli effetti del surriscaldamento del mercato del lavoro -già in corso in America- con l’innalzamento della paga media e con la riduzione delle aliquote fiscali. Ed è tutta da vedere se a tale innalzamento corrisponderà quello della produttività del lavoro, peraltro finalmente in lieve crescita anch’esso.

IL POSSIBILE CATCH-UP DELLA PRODUTTIVITÀ

Laddove non i due parametri (costo e produttività del lavoro) non pareggiassero, vedremmo quantomeno un po’ di inflazione indotta dalla positiva dinamica salariale, che andrebbe a sommarsi alla manovra in corso di rialzo dei tassi da parte delle banche centrali. Cosa che potrebbe sfociare nella riduzione del valore atteso dei rendimenti finanziari e dunque in una discesa delle quotazioni tanto del mercato azionario quanto di quello del reddito fisso, con ovvi effetti depressivi sulla crescita economica.

Il meccanismo appena descritto non è tuttavia così automatico come si potrebbe ritenere. La crescita dei consumi che si è evidenziata in America nel mese di Dicembre sembra avviata a sfiorare il 5% su base annua, con la componente degli acquisti su internet volata al +18%. Numeri da anni ‘50 e ‘60 del secolo precedente, che ovviamente premeranno verso l’alto l’indicatore della crescita complessiva. E se ciò avviene in America è decisamente probabile che anche negli altri Paesi OCSE sia in corso qualcosa di simile.

L’ATTEGGIAMENTO DEGLI INVESTITORI (PICCOLI E GRANDI)

Eppure una rivalutazione dei corsi dei titoli così fortemente influenzata sino ad oggi dalla crescita della liquidità disponibile qualche dubbio lo pone sulla tenuta dei mercati finanziari nell’anno che si apre. Quantomeno in termini di volatilità, scesa ai minimi storici di sempre negli ultimi mesi e con buone ragioni per farsi rivedere.

È da tempo infatti che gli investitori, sazi degli ampi guadagni portati a casa nell’anno che si chiude, continuano a far ruotare i loro portafogli, così come continuano a selezionare i titoli detenuti sulla base della cassa generata (o della crescita tangibile del loro valore), o infine continuano a cercare opportunità di investimento alternative in ogni possibile direzione.

Chi ha controbilanciato sino ad oggi le loro vendite? Sembra siano stati soprattutto i piccoli risparmiatori con i loro programmi di investimento legati all‘emulazione dell’indice di borsa o a strumenti dei titoli a reddito fisso. Ma questa asimmetria tra grandi e piccoli investitori ha alimentato fortemente lo sviluppo dei volumi dei contratti “derivati” (vale a dire contratti “futures”, opzioni, pronti-contro-termine, eccetera) con tutti i rischi che un’altra bolla speculativa possa esplodere in quel comparto.

Dire che lo scoppio della bolla avrà effetti di disturbo sui mercati é un vero e proprio eufemismo! Al contrario potrebbe non materializzarsi alcun effetto qualora le banche centrali riuscissero a gestire con grande maestria il trapasso da una politica espansiva a una riduttiva, mentre le tigri asiatiche riuscissero a consolidare la loro crescita economica in un contesto di relativa stabilità.

PRUDENZA!

 

Difficile però arrivare ad affermare che quest’ultima, positiva combinazione di eventi, produrrà a sua volta ulteriori cospicui guadagni in borsa o, addirittura sui titoli a reddito fisso. È più probabile che -se tutto andrà bene- essa produrrà stabilità. Ecco dunque che a guardare oltre le nebbie del nuovo anno si pone l’aspettativa di uno scenario più prudente, che continuerà a spingere gli investitori a cercare nuove frontiere per la loro liquidità (peraltro probabilmente calante). È (quasi) altrettanto probabile che, laddove lo scenario non sia così positivo, non si manifesti alcuno scoppio di bolle speculative ma che sicuramente almeno la volatilità inizi a riaffacciarsi (nel grafico l’andamento -sino ad oggi decrescente sino a toccare lo scorso mese il record minimo- dell’indice VIX di volatilità dei mercati).

Discende da queste considerazioni una certa prudenza nel consigliare l’investimento azionario nell’attesa dei prossimi sviluppi, soprattutto a causa del fatto che le prese di beneficio in borsa fino ad oggi le hanno praticate quasi solo i grandi investitori istituzionali. Il risveglio dell’inflazione o la sensazione di qualche scricchiolio potrebbe generare nei secondi un atteggiamento molto meno compassato, pur in presenza di situazioni non catastrofiche.

Stefano di Tommaso




È UNICREDIT LA BANCA UNIVERSALE ITALIANA

Mai peggior “bufala” è stata proposta all’economia italiana di quella della “banca universale” concepita qualche anno fa dalla Banca d’Italia dei tempi di Fazio&C. Ai tempi si pensava che il modo migliore per sottoporre a controlli e salvaguardie le attività finanziarie fosse quello di farle passare piu o meno tutte obbligatoriamente da un’autorizzazione bancaria. Si pensava, o c’era una decisa convenienza a che ciò succedesse e a che la maggior parte delle attività finanziarie non controllate dalle banche maggiori finissero nelle mani di queste ultime, pesantemente asservite alla politica. Ma almeno ai tempi c’era ancora un residuo di concorrenza tra i diversi istituti bancari nazionali e stranieri. Oggi non c’è più nemmeno quella e si è visto quanti miliardi (di future tasse) è costata al popolo italiano la scorribanda della politica nella governance delle banche!

LA PREVALENZA DEL MERCATO DEI CAPITALI SIGNIFICA L’ARRIVO DI FINTECH E L’ADDIO ALLA BANCA UNIVERSALE

Più tardi degli altri, l’Italia ha capito che il sistema finanziario nazionale non poteva andare contro la corrente principale degli eventi, che è quella segnata dal mondo anglosassone, dove la maggior parte dei servizi finanziari alle imprese arrivano dal mercato dei capitali, e le banche svolgono solo specifiche funzioni di raccolta dei depositi e di agenti di pagamento, mentre addirittura molte forme di credito finalizzato sono erogate da soggetti specializzati, come le società di credito al consumo, quelle di leasing o di factoring. Anche talune attività di raccolta dei risparmi sono svolte (spesso anche meglio) da società di gestione del risparmio che possono essere completamente indipendenti dalle banche e che impiegano sempre meno personale esecutivo.

Insomma il mondo finanziario oggi si fraziona, si specializza, si dematerializza e si virtualizza, ma soprattutto viene dominato dal mercato dei capitali, sempre più interessato a finanziare anche le imprese e la loro crescita, i progetti e le opere pubbliche, il credito al consumo e il real estate, come forma di diversificazione rispetto al mero acquisto in borsa di titoli azionari e a reddito fisso.

Sul fronte bancario, d’altronde sino a qualche anno fa i requisiti di capitale e di tracciamento dei rischi effettivi erano molto più bassi, dunque le banche potevano contare su un deciso vantaggio competitivo rispetto agli investitori istituzionali e professionali attivi sul mercato dei capitali. Per questi ultimi ad ogni investimento a reddito si è sempre dovuto associare a un rating esplicativo del relativo rischio, mentre per le banche il tema era decisamente più sfumato. Dunque il mercato dei capitali già ragiona da tempo come stanno imparando a fare le banche .

L’INFLUENZA DI BASILEA E LA STRATEGIA VINCENTE DI UNICREDIT

Poi, dopo la crisi del 2008 (e dopo tutto quello che ne è conseguito) sono arrivate le normative di Basilea (1, 2 e 3), che hanno richiesto di applicare un differente approccio al tema dei rischi e, di conseguenza, di capitalizzare adeguatamente chi intende fare business erogando credito. L’impatto è stato tremendo, ma soprattutto sembra oramai evidente che la necessità di definire meglio rischi e rendimenti nel settore del credito non può che portare ad un deciso restringimento generale della presenza delle banche sui mercati finanziari. Oppure no?

È davanti agli occhi di tutti la performance meravigliosa della banca guidata da Pierre Mustier, con crescite a doppia cifra tanto della marginalità quanto della quota di mercato, ma (abbastanza stranamente) non mi è sembrato di trovare grandi consensi nel fornire una risposta alla questione del segreto del suo successo.

Mustier è un forte comunicatore, capace di ripetere all’infinito slogan semplici e “perforanti”, dissimulando bene ciò che non è parso ai più come una vera e propria rivoluzione copernicana: Unicredit ha scelto (a differenza di quasi tutti gli altri) di concentrarsi sul “core business”, tornando a “fare banca” e gradualmente riducendo la sua presenza sui mercati mobiliari e su tutte le altre attività che non sono strettamente “core”. Questo gli ha permesso sinanco di espandersi e il mercato lo ha premiato.


Le citate attività strettamente “core” per UniCredit significano una cosa sola: ottenere commissioni più alte nelle aree di mercato meglio presidiate dalla banca (raccolta, corporate e servizi correlati), limando invece i costi e la prosecuzione delle altre attività che generano significativi impieghi di capitale per tornare ad essere percepita non solo come la banca più performante sotto le Alpi, ma anche quella meno a rischio.

IL RISCHIO ITALIA PERCEPITO DAGLI INVESTORI

Eh, già. Il fattore rischio – se chi lo valuta è seduto fuori dei confini nazionali- è forse il tema principale quando si valuta di acquistare titoli emessi da aziende italiane! Mustier è riuscito a far crescere la credibilità di UniCredit nei confronti della Banca Centrale Europea e delle altre autorità continentali cogliendo prima degli altri un angolo essenziale per far crescere il valore d’impresa percepito dai suoi azionisti: quello del rischio.

Ovviamente per farlo ha dovuto fare emissioni “monstre” di titoli sul mercato diluendo fortemente i vecchi azionisti e ha dovuto scaricare dai bilanci una montagna di crediti non performanti anche a scapito di qualche buon affare lasciato a terzi. Ma ha ottenuto in cambio la credibilità che quasi nessuna altra banca italiana ha in Europa e oggi nessuno più crede davvero che UniCredit nasconda altri significativi disastri tra le pieghe dei suoi libri contabili, a differenza di tutte le altre banche. E c’è da scommettere che continuerà a liberarsi ancora di crediti di dubbia sorte per rafforzare questa convinzione e accreditare il suo ambizioso piano industriale che lo vede esprimere performance e solidità a due cifre nel 2019.

I titoli bancari italiani sono chiaramente -e persino giustamente- sottovalutati in ragione del fatto che il Paese resta a rischio di collasso del suo debito pubblico (che continua a crescere) e che il settore bancario viene conseguentemente visto a rischio (anche) in quanto detentore di grandi quantità di titoli di Stato. Negli ultimi cinque anni le plusvalenze che questi hanno generato hanno contato non poco nel risanamento di buona parte degli istituti di credito, ma oggi tutti si rendono conto del fatto che prima o poi la liquidità in circolazione si ridurrà e i tassi saliranno (non molto, ma lo faranno). E quando l’acqua alta scenderà chi è rimasto nudo verrà allo scoperto.

UN TITOLO “DIFENSIVO”, CHE POTREBBE PASSARE ALL’ATTACCO


Viceversa per UniCredit l’eventuale azzeramento di 17 miliardi di euro di assets “non performing” che residueranno nella non-core bank a fine 2019 avrebbe l’effetto di portare l’Npe ratio del gruppo al 5%, in linea con la media europea e ben al di sotto del livello italiano (14%), di azzerare le perdite della medesima non-core bank (più di mezzo miliardo l’anno). Ciò contribuirebbe al re-rating del titolo con un multiplo prezzo/capitale tangibile che dalle 0,7 volte attuali dovrebbe avvicinarsi a 1 volta, con un apprezzamento potenziale del valore del titolo del 40% .

Dunque oggi la quotazione di UniCredit resta relativamente “sobria” nei portafogli degli investitori, perché la banca ancora deve dimostrare che realizzerà il suo piano e appartiene a un settore economico visto con diffidenza e perché ha sede in Italia. Nonostante la “pro-ciclicità” del settore bancario perciò esso resta un titolo difensivo con un ottimo potenziale.

UN’ACQUISIZIONE IN ARRIVO?

Ed è qui che volevo arrivare: un Amministratore Delegato che sembra aver finalmente deciso di lavorare sul valore dell’UniCredit per i suoi azionisti con ogni probabilità non appena se lo potrà permettere procederà a fare acquisizioni di altre banche al di fuori dell’arco alpino, per uscire da queste limitazioni e godere di multipli più elevati. Non c’è dubbio infatti che se la banca fosse a Francoforte i suoi moltiplicatori risulterebbero migliori!

Forse è questa l’accezione dell‘aggettivo “universale” che Mustier vede meglio accanto al sostantivo “banca”! In senso geografico, non in quello di voler fare di tutto un po’… Ne è corsa di acqua sotto i ponti dai tempi del governatore Fazio e dei suoi slogan corporativi. E ci voleva un transalpino perché qualcuno se ne accorgesse!

Stefano di Tommaso




METÀ ANNO & METÀ DEL GUADO

Giunti alla svolta dell’Estate, all’inizio del nuovo semestre solare e alla vigilia del nuovo G20, proviamo a fare il punto sulla situazione dei mercati e dell’economia globale e, soprattutto, sulla possibilità di una correzione estiva delle borse.

 

Con i prezzi al consumo stabili in Italia a giugno l’inflazione, grande protagonista di timori e aspettative nella prima metà dell’anno, è in calo dello 0,1% all’1,3% mentre nei prossimi mesi dovrebbe restare poco sopra questi livelli (media annua attesa del CPI a 1,5%). Alla stessa percentuale dovrebbe attestarsi in Eurozona la crescita dei finanziamenti ai privati.

L’OTTIMISMO DELLA BANCA CENTRALE EUROPEA

Draghi perciò gongola: la situazione è in quella perfetta via di mezzo per la prosecuzione degli stimoli quantitativi (tra inflazione/deflazione, crescita moderata e borse non troppo esuberanti) che può permettergli al tempo stesso di continuare quasi indefinitamente a sostenere la liquidità in circolazione e i rinnovi dei titoli di stato italiani (di un eventuale stop se ne riparlerà oramai nel 2018) mentre l’Euro continua ad apprezzarsi sul Dollaro e su quasi tutte le altre valute (cosa molto gradita ai Tedeschi, che stanno partendo per le vacanze sentendosi un po’ più ricchi).

Nemmeno l’Italia trema: le esportazioni italiane vanno ugualmente un po’ meglio di prima (la fiducia delle imprese nel manifatturiero è passata a Giugno a 107,3 dal 106,9 precedente mentre nelle costruzioni sale a 129,8 dal 128,1 di maggio: ai massimi da quasi un decennio) e, se durante il momento di punta del turismo in Italia arriva un po’ più di valuta forte, la cosa non dispiace a nessuno.

L’Euro in salita invece alle borse europee un pochino disturba: chi fa i conti in Dollari continua a cavarsela con le performances ma concorrono alla debolezza delle borse continentali l’instabilità politica e bancaria italiana, gli effetti negativi (assai limitati invero) dell’uscita della Gran Bretagna e i dubbi sulla capacità di Macron di realizzare ciò che ha promesso. La situazione europea tuttavia non riuscirà a influenzare il corso delle borse, anzi fosse per quelle nostrane ci sarebbero anche segnali di cauto ottimismo.

I PERICOLI PER LE BORSE ARRIVANO DA OLTREOCEANO

Il mercato azionario è però sempre più globalizzato e, casomai, il vero pericolo che una correzione significativa su manifesti nel corso del mese arriva dal resto del mondo, dove un certo numero di tensioni stanno acuendosi: dalle difficoltà crescenti della presidenza Trump a quelle geopolitiche mediorientali, dal timore del crollo del sistema finanziario cinese, fino a quello dello scoppio della bolla speculativa derivante dagli eccessi di leva finanziaria di nuovo presenti sul mercato dei derivati (che nel 2008 è stato il vero detonatore).

Bisogna ricordare infine che buona parte degli shock sul mercato finanziario sono stati storicamente generati dalle mosse delle banche centrali e anche stavolta la Yellen potrebbe trovare il modo di portare avanti la tradizione tanto con il suo recente richiamo circa le valutazioni troppo elevate espresse dal mercato quanto per il fatto che un contesto americano di piena occupazione e crescita moderata potrebbe tentare la FED di continuare con il rialzo dei tassi, cosa che però potrebbe-nello scenario attuale- costituire un ulteriore ostacolo alla partenza degli investimenti nelle grandi opere infrastrutturali promesse da Trump.

A ciò va aggiunto che gli operatori si interrogano sulle implicazioni di una crescita economica americana fin troppo moderata che potrebbe far propendere il Congresso americano verso la definitiva archiviazione della riforma fiscale. Già solo questi ultimi due fatti, una volta incorporati nei modelli statistici degli analisti, possono far temere uno scivolone estivo delle borsa americana e, con essa, di buona parte di quelle asiatiche.

Questo non significherà necessariamente l’avvio di una nuova tempesta perfetta dei mercati, per via della crescita economica globale consistente e generata da variabili cosiddette “fondamentali” (demografia, capacità produttiva, tecnologie e globalizzazione). Ma solo che, all’alba del secondo semestre 2017, l’economia globale -giunta a malapena a metà del guado nel suo processo di rinnovamento- qualche ostacolo lungo il suo cammino verso un mondo migliore è praticamente scontato che lo si incontri

 

Stefano di Tommaso