GUERRA E INFLAZIONE CAMBIANO IL MONDO

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Cosa succederà con una guerra che non accenna ancora a fermarsi e dopo gli shock da pandemia e inflazione? È probabile che ancora una volta i cambiamenti epocali accelereranno, l’umanità si spaccherà in blocchi geografici contrapposti e la democrazia finirà sotto lo zerbino. L’Europa sembra quella che avrà più da perdere da tale evoluzione dello scenario, schiacciata sulle posizioni dell’America, incapace di completare la sua unificazione e alle prese con scarse performances dei settori industriali tradizionali. Chi ci guadagnerà sono probabilmente America e Inghilterra, ma anche Cina, India e Giappone.

 

CAMBIANO LE ABITUDINI DELLA GENTE

L’Occidente è così sconvolto dai recenti eventi, dai vertiginosi incrementi dei costi, dalle sempre più ampie divaricazioni con il passato e dal confronto impietoso con sistemi geopolitici diversi dal nostro (meno democratici, ad esempio), che stavolta sembra essere caduto in una profonda crisi di identità. Inizia a prevalere l’idea che la guerra sarà lunga e il timore che le sanzioni abbiamo soltanto fatto il solletico.

Quel che rileva di più è tuttavia che gli ultimi terribili eventi determinano un’accelerazione dei cambiamenti del mondo come lo conoscevamo fino a ieri. Non soltanto a causa delle recenti emergenze sanitarie e umanitarie, della progressiva digitalizzazione, della contraddizione tra la necessità di procedere verso la transizione energetica e quella di produrre più energia. Non soltanto per la conseguenza di dover modificare le filiere produttive e distributive dell’industria a seguito dei nuovi equilibri geopolitici, ma anche per le conseguenze di tutto ciò nelle abitudini della gente, nei relativi consumi e nel calo del potere d’acquisto implicito nell’inflazione, e per le pesanti conseguenze a livello economico, industriale e finanziario per la parte più tradizionale delle attività economiche.

Ciò è tanto più vero per l’Europa, dove negli ultimi anni l’industria non si è evoluta abbastanza rispetto a quanto è successo per l’America e per i paesi asiatici in generale. Ma è soprattutto l’importazione forzosa del modello culturale americano che ci sta spingendo verso un profondo cambiamento delle abitudini e dei consumi, che sta sconvolgendo le attività economiche pre-esistenti, accentuando il solco tra le generazioni.

LE NUOVE GENERAZIONI E IL LORO APPROCCIO AL LAVORO

Il divario più radicale che stiamo vivendo in Europa è forse quello con il nostro recente passato, con l’assottigliamento della presenza dello Stato nella previdenza, nell’assistenza socio-sanitaria, nell’istruzione e nel lavoro. Ma anche con il venir meno delle precedenti modalità di interazione sociale. Il cittadino europeo medio fino a ieri poteva contare su una pensione decente, su un servizio sanitario nazionale più o meno completo, su una limitata esigenza di finanziare l’istruzione dei propri figli (perché pagata dallo Stato) ed era inoltre poco avvezzo a cambiare radicalmente datore di lavoro, luogo di residenza e attività. Oggi tutto questo sta cambiando. Oggi anche l’ultimo operaio deve eseguire i suoi compiti principalmente attraverso un’interfaccia digitale, deve adattarsi a continui e profondi cambiamenti nelle modalità di lavoro, non può più contare molto sul trattamento di fine rapporto per acquistare la propria abitazione (nel 70% dei casi in Italia il cittadino ne è proprietario) e non può contare troppo sull’entità della pensione di Stato per sopravvivere al termine della vita lavorativa.

Oggi che gli standard di lavoro europei si avvicinano in fretta a quelli americani, il cittadino medio del vecchio continente sembra però più povero ma anche meno pronto al cambiamento e alla possibilità di assumere elevati rischi nella propria attività. il rapido convergere verso una situazione generale di maggior precarietà spinge perciò innanzitutto le famiglie a ridurre la spesa per consumi. È notizia fresca ad esempio quella che la Apple prevede di produrre in questo trimestre circa il 20% in meno di iPhone SE (il più economico) rispetto a quanto originariamente preventivato. Lo riferisce Nikkei Asia, spiegando che si tratta di uno dei primi segnali che la guerra in Ucraina e l’inflazione incombente hanno iniziato a intaccare la domanda di elettronica di consumo. Stessa sorte anche per le cuffie AirPods.

Come era successo con i lockdown, anche stavolta si pensa di restare più in casa e di utilizzare più contenuti digitali in alternativa ai servizi tradizionali. Ma stavolta non è per obbligo, bensì per risparmiare. Si esce cioè, si viaggia e si acquista di meno. Anche perché il lavoro spesso è da eseguirsi ”online” oppure è saltuario o precario, o privo di un regolare contratto di assunzione. Tutti stanno pensando di fare qualcosa per risparmiare, abbassare i costi fissi e impegnarsi per spese cospicue. I tragici eventi che stiamo vivendo lasciano insomma meno fiducia nel futuro e sulla capacità di sostentamento delle famiglie nel medio termine. La sensazione è che, come per la pandemia, guerra e inflazione possano far accelerare alcune importanti discontinuità nello stile di vita, destinate a non tornare più indietro.

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CAMBIANO ANCHE LE IMPRESE E I SERVIZI

Anche per le piccole e medie imprese le modalità di accesso alle risorse economiche, così come quelle di impiego delle medesime, stanno mutando molto in fretta. La recessione che in Italia è già in corso, tende a rarefare il credito bancario tradizionale, spingendo che ne necessita verso nuove forme di finanziamento quali il crowdfunding, i minibond, i venture capital e la borsa delle piccole e medie imprese. Va però da se che le attività produttive tradizionali saranno le meno favorite da queste nuove modalità di finanza.

Tendono di conseguenza a modificarsi non soltanto le modalità di produzione e consumo, ma anche le preferenze di investimento. I nuovi risparmiatori spesso preferiscono mantenere liquidità sul conto corrente o investire direttamente in criptovalute e sul trading azionario, piuttosto che acquisire piccoli immobili o sottoscrivere polizze assicurative e fondi comuni di investimento.

Cambiano anche le modalità di finanziamento delle attività economiche (il timore del rialzo dei tassi riduce l’appetito per mutui e finanziamenti) e le metriche del successo nel business (si privilegiano i risultati più a breve termine). Tendono poi a scomparire le imprese più piccole e le attività più tradizionali, soppiantate da nuove reti di collaborazione, dal lavoro remoto, o da network di persone, mentre le imprese di media dimensione, magari ancora a capitalismo familiare, vengono sospinte ad aprire a terzi il proprio capitale, a tentare il salto dimensionale o rischiano di finire in ristrutturazione.

CAMBIA IL MERCATO DEL LAVORO

Sempre più persone dunque perdono il vecchio lavoro e accettano ruoli esterni ed incerti pur di trovare un’occupazione alternativa al posto fisso che non c’è più, anticipando nei fatti una liberalizzazione del mercato del lavoro che nel diritto ancora non si è materializzata se non attraverso l’introduzione delle agenzie per il lavoro interinale. La sfera economica è oggi sempre più dominata da grandi imprese multinazionali che modificano o condizionano i precedenti standard, incentivano o provocano cambiamenti nelle abitudini, nei consumi, nel lavoro, nell’impiego del tempo libero e nella formazione, investono pesantemente nelle nuove tecnologie e nella comunicazione, e arrivano a creare ecosistemi proprietari, sociali e culturali, trasversali a quelli pubblici.

Le imprese di più piccola dimensione ne sono perciò fortemente condizionate, arrivando spesso ad essere condannate a scegliere tra il declino e il dover scommettere su un’innovazione feroce (con tutti i rischi del caso), cercando di sperimentare nuove modalità produttive e commerciali, o accettando (più o meno passivamente) di assottigliare i margini di profitto, la dotazione di capitale, la qualità delle risorse umane, e la capacità di accesso ai mercati. Riducendo di conseguenza anche le loro speranze di sopravvivenza. Quasi ogni settore economico sta vivendo una fase di concentrazione su pochi grandi operatori che dominano la scena.

LE ISTITUZIONI VOGLIONO COMPIACERE IL GRANDE CAPITALE

In passato la democrazia (anche finanziaria), la coscienza collettiva e il substrato politico-sociale spingevano i partiti le istituzioni pubbliche a condannare lo sfruttamento di posizioni dominanti e a limitare l’influenza dell’industria e della finanza nella sfera politica. Oggi molte istituzioni e presidi democratici esistono ancora, ma sono spesso svuotati di contenuti, così come la politica e le risorse pubbliche hanno minori risorse e capacità di incidere nella sfera economica e nelle scelte culturali, industriali, sociali e tecnologiche sono dunque spesso al rimorchio delle grandi multinazionali.

Come le industrie farmaceutiche influenzano pesantemente la ricerca e la formazione universitaria, così le multinazionali della tecnologia influenzano la scuola e la formazione professionale e la grande finanza spesso sostiene la politica e i mezzi di comunicazione di massa. Quando perciò ci chiediamo come interpretare la super-inflazione appena arrivata, non possiamo non ricordare il fatto che persino le banche centrali sono state forse eccessivamente influenzate dalla necessità di compiacere i grandi operatori finanziari internazionali arrivando, come è successo nell’ultimo decennio, ad immettere sul mercato forse troppa liquidità, che non poteva non erodere il contenuto di riserva di valore della moneta.

Anche dal punto di vista delle grandi filiere industriali, a partire dall’estrazione delle materie prime, dalla produzione dei semi-lavorati e dalla produzione di energia sino ad arrivare agli impianti di produzione e ai sistemi di distribuzione, i grandi conglomerati economici hanno spesso soppiantato la mano pubblica e le politiche economiche nazionali e oggi non c’è troppo da stupirsi se, arrivando a controllare buona parte dei sistemi economici e con l’ausilio dei lockdown, hanno trovato il modo di beneficiare della riduzione dell’offerta di materie prime e risorse naturali facendone crescere i prezzi, assicurandosi così stratosferici profitti e incrementando la concentrazione della ricchezza mondiale in poche potentissime mani.

LE ECONOMIE OCCIDENTALI SI ALLONTANANO DALLE ORIENTALI

Se fino a ieri le grandi imprese multinazionali avevano cavalcato l’innovazione tecnologica e avevano così assicurato all’Occidente decenni di deflazione dei prezzi, riducendo i costi di produzione e assicurandosi l’approvvigionamento di risorse e lavoro umano ai costi più bassi possibili, oggi quel modello economico globalizzato sta arrivando ad una svolta anche perché una parte consistente della popolazione umana del pianeta vive scelte politiche diverse da quelle di uniformarsi alle esigenze del grande capitalismo occidentale.

Non c’è dunque troppo da stupirsi se in quella parte del mondo dove la ricchezza si è maggiormente concentrata in poche potenti mani (l’Occidente) è oggi più forte l’inflazione e sono più costosi i fattori di produzione, a partire dalle risorse umane, mentre il controllo delle grandi risorse naturali, di buona parte delle materie prime e di una parte dei combustibili fossili alimenta le più forti tensioni geopolitiche dalla seconda guerra mondiale ai nostri giorni.

I principali regimi politici orientali sembrano basarsi meno sui sistemi capitalistici occidentali, pur esprimendo ancor meno democrazia che dalle nostre parti. In Russia, in Cina, nel sud-est asiatico e in parte anche in India è tuttavia ancora la mano pubblica a prevalere su quella privata. Le grandi imprese a partecipazione statale controllano ancora il mercato e sono a loro volta controllate dai regimi politici. E anche per questo motivo non sono del tutto allineate con gli interessi espressi dal capitalismo occidentale. Questi sistemi hanno però indubbiamente attutito le conseguenze più estreme della globalizzazione sulla popolazione, e oggi iniziano a contrapporvisi. Hanno anche permesso in misura minore alle proprie banche centrali l’utilizzo dello strumento delle facilitazioni monetarie, con il risultato che si ritrovano minor emergenza inflazionistica.

LE BANCHE CENTRALI HANNO PERSO IL CONTROLLO

Non c’è da stupirsi se le banche centrali occidentali (Giappone compreso), dopo aver inflazionato le economie occidentali con forti iniezioni di liquidità per quasi un ventennio, oggi non riescono a controllare la conseguente svalutazione delle proprie divise valutarie. Anche perché le politiche economiche prevalenti nell’ultimo mezzo secolo in Occidente hanno comportato la necessità di assicurare forti politiche di assistenza sociale, con la conseguenza di un crescente deficit dei bilanci pubblici. I deficit sono stati colmati non con crescenti tassazioni bensì con maggiori emissioni di titoli del debito pubblico collocati sui mercati finanziari, le cui quotazioni sono state sostenute di necessità dall’intervento delle banche centrali, che ne hanno acquistato grandi quantità.

Ci sono stati anche paesi occidentali dove i deficit pubblici e il loro sostegno da pare delle banche centrali sono state più “moderati”, con l’effetto che le relative monete di conto si stanno svalutando un po’ meno: il Franco Svizzero, la Sterlina, lo Yen, le Corone e sinanco il Rublo e lo Yuan. L’Europa è invece stata la campionessa (negativa) di questo fenomeno, dal momento che per l’Euro-zona e per la sua Banca Centrale è oggettivamente più difficile che per altri arrivare a decidere di alzare i tassi, con il rischio di vedere collassare i debiti pubblici delle economie più deboli dell’Unione, rimasta ad oggi incompleta nel suo processo di consolidamento.

LA CRESCITA ECONOMICA GLOBALE RALLENTA…

Oggi dunque, per il combinato disposto della mancata sottomissione all’impostazione occidentale di alcune tra le più grandi nazioni (quantomeno Russia, Cina e India) con le conseguenti tensioni geopolitiche, e per l’impennata dei prezzi e per la necessità di elevare i tassi di interesse di conseguenza, l’economia mondiale rischia di rallentare la crescita e di innestare un processo semiautomatico di trasferimento a valle (cioè ai consumatori) dei rialzi dei costi dei fattori di produzione, dalle materie prime ai semilavorati, all’energia e sinanco alle retribuzioni orarie. Sono processi che, una volta innestati, si dispiegano lentamente e inesorabilmente nel tempo. È per questo motivo che l’inflazione non ha probabilmente finito di salire.

Senza dunque voler fare previsioni ma limitandoci ad osservare i meccanismi di adeguamento dei prezzi ai costi di produzione, è piuttosto probabile che i prezzi al consumo in Occidente continueranno a crescere ancora per qualche mese, e che a loro volta trascineranno una quasi scontata serie di tensioni sociali, rivendicazioni salariali, riduzioni dei volumi di produzione industriale, rallentamenti degli investimenti produttivi e tecnologici, nonché riduzioni dei margini di profitto e della velocità di circolazione della moneta. Sembra qualcosa di totalmente fisiologico nel breve periodo, indipendentemente dalla prosecuzione della guerra in Ucraina, da ulteriori rialzi dei tassi, e che intervengano o meno nuove manovre economiche, fiscali o altre facilitazioni monetarie. Queste conseguenze potrebbero indebolire le borse valori e i mercati finanziari.

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…E NEL FRATTEMPO IL POLVERONE È ASSICURATO

Qualunque cosa i leaders globali arriveranno perciò a decidere per contrastare la tendenza appena indicata, c’è da scommettere che non riusciranno a farlo istantaneamente. La situazione di qui ad un paio di mesi sembra destinata dunque a peggiorare, come appena espresso, forse anche per le borse e i mercati finanziari (con l’unica eccezione degli operatori del comparto energetico). Il motivo della possibile discesa dei corsi azionari è triplice: liquidità in calo, tassi al rialzo e profitti aziendali al ribasso. Non che ciò sia destinato a durare in eterno, ma al momento è difficile pensare che andrà diversamente, anche a motivo del progressivo esaurirsi dell’effetto-sostituzione dei titoli a reddito fisso con azioni quotate nei portafogli dei risparmiatori (effetto che ha sostenuto relativamente le borse sino ad oggi).

Quand’anche i rialzi delle materie prime e del costo dell’energia dovessero dunque esaurirsi presto, ancora per un po’ di tempo vedremo incrementare i prezzi dei prodotti finiti, dell’edilizia, dell’ora lavorata e del denaro preso a prestito. Quanto basta insomma per assicurare alla crescita economica globale una bella frenata e un possibile autunno caldo di rivendicazioni salariali.

E se il mondo sta arrivando a dividersi in grandi blocchi geopolitici, più o meno politicamente contrapposti, ciò potrà generare costi aggiuntivi per aggiustare di conseguenza le filiere di fornitura industriale e per i possibili rialzi delle tariffe doganali, che non potranno di certo far calare troppo i costi degli approvvigionamenti delle materie prime e i costi dei trasporti intercontinentali.

LA TRANSIZIONE ENERGETICA È DI FATTO RINVIATA

La scarsità di forniture (ad esempio dei pannelli fotovoltaici, quasi tutti prodotti oggi in Cina) frenerà inoltre la riduzione delle emissioni nocive in atmosfera, derivanti dall’uso di combustibili di origine fossile. Se teniamo conto del fatto che a queste complicazioni si sommeranno le maggiori spese pubbliche per armamenti e infrastrutture militari, nonché i maggiori costi di produzione di energia derivanti dall’esigenza di non fare del tutto dietrofront sulle recente disposizioni incentivanti verso la transizione energetica (come l’obbligo di riduzione dei consumi inquinanti e gl’incentivi al riciclo dei rifiuti), è facile prevedere anche ulteriori aggravi della spesa pubblica, ed aumenti dei tassi di interesse. Almeno nel breve periodo.

Non è dato però di sapere quanto tempo potrà durare questa situazione. Alimentata da fattori usciti dal controllo anche a causa delle tensioni geopolitiche e con il rischio che essa stessa possa generare tensioni sociali e crisi dei mercati finanziari, l’inflazione galoppante non potrà che determinare anche confusione politica e sociale. In America ha già superato l’8% e in Europa ci metterà forse più tempo (per la debolezza della domanda di beni e servizi) ma rischia di essere anche più severa, a causa del maggior rincaro della bolletta energetica.

LE NUOVE TECNOLOGIE POTREBBERO AIUTARE L’OCCIDENTE

Se l’inflazione tornerà presto sotto controllo potremo aspettarci che l’arrivo costante di nuove tecnologie e sistemi di automazione industriale torni ad alimentare la funzione “deflattiva” delle innovazioni, a causa della riduzione che indurranno nei costi di produzione, auspicando anche che esse tornino ad alimentare lo sviluppo economico complessivo. Ma perché le nuove tecnologie avanzino con decisione c’è bisogno di ingenti investimenti di capitale di rischio, e non è così certo che questi vengano proseguiti altrettanto oggi come in passato, almeno sintantoché permarranno gli attuali rischi di recessione.

Se è infine vero che la transizione “verde” sarà prima o poi compiuta in tutti i paesi industrialmente più sviluppati, sappiamo anche per certo che necessiterà di ulteriori importanti innovazioni tecnologiche e di tempi molto lunghi (forse ancora un trentennio, o ancora di più), mentre è in atto oggi una forte contraddizione: da un lato si cerca di reprimere l’utilizzo di energie derivanti da combustibili fossili e capaci di generare emissioni nocive, mentre dall’altro lato ancora oggi l’80% di tutta l’energia prodotta nel mondo proviene dall’utilizzo di derivati di gas e petrolio. E per di più la crescita economica, demografica e lo sviluppo economico dei paesi emergenti impone al pianeta una domanda crescente di energia, che potrà essere pareggiata dalla maggior disponibilità di impianti energetici “verdi” soltanto tra moltissimi anni.

LA DE-CARBONIZZAZIONE DEL PIANETA ERA TROPPO PRECOCE

Nel frattempo il mondo (e soprattutto nei paesi emergenti) ha appunto una gran necessità aggiuntiva di produrre energia e non può che soddisfarla con i sistemi più tradizionali, perché le energie da fonti rinnovabili sono spesso un lusso che pochi possono permettersi. A causa del permanere delle emissioni nocive perciò, il pianeta resta esposto al rischio di veder accrescere la probabilità di nuove catastrofi ambientali. Dunque le crescenti regolamentazioni volte a scoraggiare l’uso di energie “sporche” al momento non ha fatto altro che incrementare il costo medio dell’energia, senza riuscire a far calare parallelamente il prezzo dei combustibili fossili.

Per questo motivo la pretesa di agire subito sul fronte della “de-carbonizzazione” planetaria senza prima programmare la sostituzione delle relative fonti energetiche è stata un vago e goffo palliativo della nuova presidenza americana, priva di adeguata preparazione e con l’effetto di generare il rialzo del costo dell’energia. E si sa bene che quest’ultimo (il costo dell’energia) è stato proprio il primo fattore di trasmissione dell’inflazione nel resto del mondo.

QUALI ATTIVITÀ ECONOMICHE SARANNO PRIVILEGIATE…

Dunque le uniche attività economiche che con ogni probabilità non avranno problemi di mercato nei prossimi mesi saranno proprio quelle legate alla produzione (e a maggior ragione al risparmio) di energia e al riciclo dei materiali. Il rialzo generalizzato dei tassi d’interesse e la necessità di nuovo credito dovrebbe inoltre favorire un risveglio dei margini e delle valutazioni delle imprese bancarie e finanziarie, mentre resteranno sempre elevate le attese degli investitori nei confronti delle imprese più capaci di trasferire all’industria le nuove tecnologie (come la robotica e l’automazione spinta) e le nuove scoperte scientifiche, ivi comprese quelle chimiche e alimentari. Resteranno perciò probabilmente elevate le valutazioni delle aziende chimiche, alimentari e farmaceutiche che mostreranno una forte capacità di mantenere elevati margini di profitto.

Sul fronte inverso dovrebbero risultare penalizzate le imprese turistiche, e quelle che più risentiranno della tendenza al calo strutturale dei consumi, dell’occupazione e del risparmio, della riduzione degli acquisti di beni di consumo durevole, nonchè delle installazioni energivore di ogni genere (dalle piscine ai grandi impianti di intrattenimento). Potranno inoltre risultare penalizzati gli esercizi commerciali al dettaglio, soprattutto i meno efficienti in termini di costi, i sistemi logistici più obsoleti e le conseguenti valutazioni immobiliari.

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Mentre non potranno che rafforzarsi i servizi online e i software che aiuteranno a risparmiare costi e a ridurre gli spostamenti fisici, nonché le filiere di istruzione e formazione professionale che riusciranno ad assicurare un nuovo futuro lavorativo ai molti individui che dovranno adeguarsi a cercare nuove e diverse occupazioni. Potrebbero inoltre crescere le valutazioni e la domanda di sistemi di organizzazione ed efficientamento del lavoro interinale e stagionale, del precariato e del recupero dei lavoratori che perderanno la precedente occupazione. Anche l’industria meccanica potrà uscire rafforzata dall’attuale evoluzione, ma soltanto per quelle (poche) aziende che riusciranno a concentrare il mercato, e ad investire pesantemente nell’efficientamento dei costi e dell’utilizzo di energia.

…E QUALI PAESI SE NE AVVANTAGGERANNO

Se dunque ancora una volta saranno le tecnologie e la disponibilità diretta di materie prime a farla da padrone, è probabile che i paesi che se la caveranno meglio nella presente congiuntura non saranno quelli europei, bensì l’America, la Cina e probabilmente tra i paesi più dotati di risorse naturali, quelli che saranno al tempo stesso più capaci di rinnovare in fretta il loro apparato industriale attirando capitali, cervelli e tecnologie (come Israele e Singapore, ad esempio, rischi geopolitici permettendo). Tra questi probabilmente l’India, l’Australia, la Nuova Zelanda, e forse anche il Brasile.

Una nota a parte merita il Giappone, che resta al tempo stesso un’economia orientale ma anche appartenente a pieno titolo al mondo occidentale, e decisamente orientata alle nuove tecnologie. È piuttosto probabile che la crisi dell’Europa arrivi a determinare un relativo successo del Giappone, anche se non possiede quasi alcuna risorsa naturale. Il suo mercato finanziario sembra inoltre oggi maturo e capace di attrarre nuovi investimenti tecnologici, sull’implementazione dei quali peraltro il Giappone per molti versi ah già vinto molte battaglie.

Stefano di Tommaso




MOLTA LIQUIDITÀ A PIAZZA AFFARI

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Nonostante l’enorme volatilità che ha caratterizzato l’inizio del 2022 per le borse di tutto il mondo, quella italiana sembra promettere relativamente bene per l’anno in corso, e non solo per motivi macroeconomici, ma anche per i numerosi ”Initial Public Offering“ (IPO) in programma quest’anno e per la liquidità che vi sta affluendo. La piattaforma Euronext permette agli investitori istituzionali di osservare contemporaneamente tutti i listini locali, incrementando così l’attenzione verso quelli più periferici come il nostro. E ciò potrebbe risultare decisamente favorevole per sostenere le imprese italiane che vogliono svilupparsi.

 

LA LIQUIDITÀ RESTA ABBONDANTE

Nonostante tutti facciano scongiuri per la guerra in Europa dell’Est e professino cautela per l’anno in corso, dai gestori di fondi e patrimoni sembra trasparire un moderato ottimismo per le borse quest’anno, quantomeno a causa del fatto che i rendimenti reali negativi spingeranno verso l’azionario un probabile travaso dai titoli obbligazionari. In aggiunta possiamo sperare che l’economia italiana continui a recuperare il divario accumulato nei confronti del resto del continente e dì conseguenza i profitti delle imprese possano continuare a crescere, seppure ad un ritmo ridotto a causa del maggior costo dell’energia e dell’elevata tassazione, rispetto alla maggioranza degli altri paesi europei.

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La banca centrale di Francoforte si è poi mostrata sino ad oggi relativamente più accomodante rispetto alle altre banche centrali e per il momento sta continuando ad acquisire titoli pubblici immettendo di fatto altre risorse nel sistema finanziario, seppur ad un ritmo progressivamente decrescente. L’afflusso originato dalla BCE si trasmette indubbiamente anche alle borse e risulta favorevole alle operazioni di IPO, che quest’anno anche in Italia potrebbero risultare particolarmente numerose, come indicato di seguito.

Nel grafico qui sotto riportato: l’andamento dell’aggregato monetario “M1” fino allo scorso Dicembre nell’Eurozona.

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IL FILONE ESG

L’Italia è poi molto orientata ad investimenti in ambito di sostenibilità e questo può favorire l’ottimismo degli investitori, che sono più che mai a caccia di opportunità compatibili con il nuovo “mantra” dei mercati: la sigla ESG. Questa sintetizza i 3 principi cui deve rispondere l’attività delle imprese che vogliono mostrarsi capaci di produrre risultati non solo da punto di vista economico, ma anche nel rispetto della natura e nel favorire il miglioramento sociale dentro e fuori di esse. In particolare: “environmental”, richiama l’impatto di sostenibilità dell’attività per l’ambiente e il territorio, “social“, l’impatto dell’azienda sul contesto socioeconomico in cui è inserita, e “governance” la capacità di mostrare un governo interno diffuso e trasparente.à

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I criteri ESG (e la misura della rispondenza agli stessi da parte delle imprese: il cosiddetto “rating ESG”) sono oggi utilizzati da chi investe per selezionare le migliori imprese dal punto di vista della sostenibilità a lungo termine e le aziende che possono dimostrare di essere più attente al rispetto di questi principi godono pertanto del favore -talora esclusivo- degli investitori. Questi non soltanto si vedono costretti a ruotare i portafogli in direzione di maggior prudenza, ma temono anche che i titoli emessi da imprese non rispondenti a tali criteri possano -nel tempo- subire un progressivo deprezzamento, anche a causa dei vincoli normativi che dovranno sempre più rispondere all’emergenza ambientale.

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E spesso, per i criteri ESG, le imprese italiane, con le loro forti capacità in ambito culturale, artistico, alimentare e ingegneristico, spesso esprimono vere e proprie eccellenze, cosa che può favorire la borsa italiana rispetto a quelle di altri paesi europei.

POSSIBILI I.P.O. PER QUASI 5 MILIARDI DI EURO NEL 2022

Un altro aspetto che potrebbe favorire il listino nazionale è la grande mole di nuove quotazioni in borsa previste per l’anno in corso. Non è passato nemmeno un paio di mesi e la raccolta di capitali in borsa per le imprese italiane si è già approssimata al primo miliardo di euro!

Al momento anzi sarebbero esattamente 752 milioni di euro, senza contare però l’IPO di Iveco a inizio anno -la prima del 2022- che, formalmente, è consistita solo in uno splitting delle azioni della casa madre, ma che di fatto ha reso liquida sul mercato una quota importante di minoranza (per un controvalore di circa 1 miliardo di euro) di un’azienda che capitalizza circa 3 miliardi di euro.

Il settimanale Milano Finanza ha pubblicato un elenco di 5 probabili matricole in probabile arrivo sul listino entro la prima metà dell’anno al solo segmento MTA della borsa di Milano il cui ammontare dei collocamenti potrebbe assommare a quasi un altro miliardo di euro: De Nora, Selle Royal, Chiorino, Shopfully e una SPAC in ambito sostenibile. Totale: almeno altri 800 milioni di euro.

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E potrebbe non essere finita qui. Si parla infatti con insistenza almeno di altre sei importanti IPO (forse tutte all’MTA, con un collocamento medio di almeno una cinquantina di milioni): Fedrigoni, Cantiere del Pardo, Facile.it, Epta, Illy, Thun, OTB (only the brave: Renzo Rosso). Se così fosse, aggiungeremmo ulteriori 300-500 milioni al totale.

Poi sono inevitabilmente in arrivo le circa quaranta matricole del segmento EGM (Euronext Growth Milan, l’ex AIM) la cui raccolta media potrebbe superare quella dello scorso anno (sono 843 i milioni raccolti nel 2021 su 43 IPO), assicurando così una raccolta ulteriore di almeno un altro miliardo di euro a quanto sopra indicato. Si perché forse quest’anno potrebbero essere anche di più. Si può perciò ipotizzare che con queste matricole il totale della raccolta da IPO italiane salirebbe nel complesso a 2,5/2,8 miliardi.

Ma c’è in più la probabilissima IPO della controllata di ENI nelle energie rinnovabili, Plenitude Spa, del valore teorico di 10 miliardi di euro e il cui collocamento azionario al segmento STAR potrebbe da solo assommare ad almeno 2,5 miliardi di euro. Ecco che il totale della raccolta dell’anno svetterebbe perciò a circa 5 miliardi!

E questo importo non conteggia le numerose imprese italiane che al momento hanno scelto di quotarsi alla borsa di Parigi, in quella di Londra o a New York, dove ad esempio la sola D-Orbit ha ottenuto 160 milioni di euro dalla “business combination” con una SPAC di nome Breeze Holdings che l’ha valutata poco più di un miliardo di euro.

Insomma, rispetto all’anno scorso, che già era stato positivo per Piazza Affari, con 49 IPO di cui 44 all’AIM (e una raccolta totale di oltre 2,3 miliardi di euro, di cui circa 844 all’AIM), quest’anno sembra promettere ancora meglio. Ovviamente pesano come macigni sulla possibilità che ciò accada le minacce di guerra e i possibili eccessi di reazione da parte delle banche centrali all’inflazione che, trascinata dal rincaro dei costi energetici, è oramai proiettata a superare la doppia cifra entro la fine dell’anno. Nel grafico che segue un elenco dei principali investitori intervenuti nel corso del 2021, con un’evidente numerosità degli operatori stranieri!

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Le matricole della borsa portano infatti con sé un forte contenuto di innovazione, dinamismo, investimenti e internazionalizzazione. Tutte qualità che aiutano i loro titoli ad andare controcorrente rispetto alle società già quotate e ad attirare capitali sulla nostra piazza..

ALLORA CONVIENE ANCORA INVESTIRE IN BORSA?

Non è affatto detto che la spirale inflazionistica continuerà a lungo, e tutti sperano nella possibilità che le banche centrali mantengano nei prossimi mesi la posizione assunta senza accelerare la risalita programmata dei tassi d’interesse. Se così sarà, allora i mercati non subiranno importanti correzioni e, anzi, la liquidità continuerà ad affluire alle borse, quantomeno per la parte proveniente dal disinvestimento sui titoli a reddito fisso. Nel grafico qui sotto riportato si può vedere che nel mese di Gennaio è andata così a livello globale:

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A questo risultato potrebbero inoltre contribuire anche i proventi dei Programmi Individuali di Risparmio (PIR) che sono ancora in piedi, così come le risorse provenienti dall’estero sulle società italiane più promettenti dal punto di vista tecnologico o dalle prospettive migliori.

Difficile invece anticipare cosa succederebbe qualora lo scenario economico si deteriorasse parecchio. Nei prossimi giorni saranno pubblicati in Europa tanto i dati sull’indice PMI manifatturiero quanto quelli sull’inflazione (CPI). Sarà una misura aggiornata del deterioramento apportato alla crescita economica da parte dell’inflazione dei prezzi, sulla base della quale i mercati valuteranno quanto ottimismo è ragionevole ancora avere.

Sicuramente nei prossimi giorni la volatilità è destinata a restare alta e, nella bagarre, è oggettivamente difficile districarsi tra alti e bassi per valutare l’effettivo andamento dei listini. Ma molti osservatori concordano con una visione moderatamente ottimistica circa i listini borsistici europei.

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TANTO PEGGIO TANTO MEGLIO

Sicuramente i dati macroeconomici in arrivo saranno abbastanza negativi ma la sensazione è che non saranno tali da invertire il clima positivo che si respira in Borsa. E’ possibile che l’importante numero di società che affluiranno al listino azionario possa sfoltirsi in tal caso, perché inevitabilmente le valutazioni risentirebbero della situazione. Ma non è così scontato che l’inflazione produca un ribasso delle borse e una riduzione del numero delle IPO, dal momento che i nuovi collocamenti azionari avvengono sempre a sconto rispetto ai valori teorici di capitalizzazione.

Dunque così come è già successo che gli importanti ribassi visti sulle borse da inizio d’anno non hanno sino ad oggi influito sui programmi di IPO, è altrettanto possibile che molti di questi IPO programmati non vengano cancellati, almeno se non succederà nulla di eclatante. Senza contare il fatto che l’incremento di inflazione potrebbe orientare a maggior ragione gli investitori verso il listino azionario. La borsa valori insomma resta sino ad oggi l’investimento più consigliabile, soprattutto se si tiene conto dell’inflazione e dei conseguenti rendimenti reali negativi offerti dai titoli a reddito fisso.

La maggior parte delle imprese quotate non solo promette un dividendo che talvolta è più ricco delle cedole, ma è anche in posizione rialzista di fronte all’inflazione. I loro titoli azionari possono costituire nel tempo un’ottima riserva di valore, se la frenata dell’economia non arriva sino alla recessione (cosa ad oggi poco probabile).

Stefano di Tommaso




IN BORSA MAI DIRE MAI!

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Dopo l’improvvisa inversione di rotta degli ultimi giorni diviene più difficile prevedere dove saranno le borse intorno a fine anno. Ogni scenario è lecito, dal momento che sono tutt’ora al lavoro le tendenze che ne hanno scatenato la crescita. Ma sono entrati ancora una volta in gioco dei rischi asistematici dovuti alla quarta ondata pandemica e alle sue possibili conseguenze in termini di risvolti per l’economia reale. Le borse potrebbero sì riprendere la loro corsa la rialzo, ma la volatilità attesa è ai massimi, e la tempistica dei loro movimenti è dunque ben poco prevedibile. Morale: ci sono molte ragioni per le quali il mercato azionario globale potrebbe tornare a risalire, ma il condizionale è d’obbligo: in borsa mai dire mai!

 

IL SELL-OFF

Lo scorso anno di questi tempi l’allarme contagi -ancora in assenza dei vaccini- aveva generato quasi lo stesso panico di inizio pandemia. Stavolta è più complicato prendersela con l’ennesima variante del COVID ma per le borse di tutto il mondo l’allarme degli ultimi giorni ha funzionato alla grande: il sell-off (la svendita dei titoli quotati in borsa) è stato uno dei più avversi della storia borsistica recente. Nel grafico che segue ecco cosa è successo :

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Al calo medio delle borse nel mondo (indice MSCI ALL COUNTRY) di circa il 3% nell’ultima settimana si contrappone un guadagno del 15,50% da inizio anno e di oltre il 20% da un anno fa ad oggi. Per le borse europee è andata all’ingiù in maniera ancora più marcata, dopo una crescita dell’ultimo anno ancora maggiore: l’indice delle principali azioni quotate (STOXX EUROPE 600) è sceso di quasi il 4,5% nell’ultima settimana dopo una crescita di quasi il 20% da inizio anno e di oltre il 22% da un anno fa ad oggi.

LA VOLATILITÀ E’ ALLE STELLE

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D’altra parte ce l’eravamo già detto: con le quotazioni quasi ai massimi storici c’era da attendersi una volatilità in deciso aumento e così è stato. Ora, durante la calma del fine settimana, non è facile orientarsi tra le ondate della tempesta improvvisa che si è scatenata per comprendere qual’è la tendenza di fondo. Ma la sensazione è che questa non sia affatto cambiata. E cioè che sia ancora al rialzo e che il sell-off di questi giorni possa presto essere archiviato come un momento di panico e nient’altro.

I MOTIVI DI OTTIMISMO

Quali motivi per dirlo? Non ci sono grandi patemi d’animo per la crescita economica (le ultime rilevazioni mensili dell’indice dei direttori acquisti delle aziende (il MARKIT) sino positive e battono le aspettative, l’inflazione sembra potersi leggermente attenuare (ed è già una buona notizia). Questo vale soprattutto per le materie prime, mentre per il petrolio c’è un bel po’ di panico, oltre che una tendenza di fondo poco rassicurante, dovuta alla scarsità di materia prima prodotta, rispetto alla domanda.

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Soprattutto c’è il fatto che la situazione pandemica, che qualche colpo di assestamento lo darà di sicuro alla crescita economica globale, costituirà il movente principale (se non la scusa) per spingere le banche centrali a mantenere un atteggiamento accomodante e continuare -di fatto- ad immettere liquidità sul mercato. Cosa che non può mancare di avere effetti positivi sul mercato azionario, in particolar modo intorno a fine anno, quando i gestori di patrimoni devono portare a casa le loro performances, nonché le commissioni che ne derivano.

E’ dunque piuttosto probabile che la corsa delle Borse abbia soltanto avuto uno stop. E poi, come se non bastasse, secondo Goldman Sachs con il nuovo anno sta per riversarsi sul solo mercato azionario americano più di un trilione di dollari di “buy-back” aziendali (cioè di acquisti di azioni proprie da parte delle aziende), ai massimi della storia recente, come mostra il grafico qui riportato:

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IL POSSIBILE “RALLY” DI FINE ANNO

In quest’ottica potremmo anche vedere il sell-off di fine Novembre quasi soltanto come un’ottima occasione per comprare prima che il mercato raggiunga nuovi massimi. Determinati principalmente da un comportamento relativamente razionale di chi investe che risponde all’acronimo di “TINA” (“there is no alternative”: al mercato azionario).

Investire in obbligazioni in un momento in cui i tassi potrebbero salire può risultare infatti più rischioso dell’investire in Borsa, mentre mantenere la liquidità può significare non soltanto perdere delle opportunità di rialzo, ma prima ancora può comportare l’erosione del capitale ad opera dell’inflazione. Che potrà sì diminuire, ma difficilmente si fermerà, come dimostra la situazione dell’estremo oriente, dove la crescita economica si è già ridotta decisamente, ma l’inflazione no! Di seguito un grafico andamento le di USA e UE:

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PERÒ…

Mai dare per scontato il risultato però, perché è altrettanto vero che l’evolversi della quarta ondata pandemica non lo conosce nessuno, così come è vero che un dollaro troppo forte (come è già oggi) rischia di rovinare le feste a tutti, dai paesi emergenti fino agli americani stessi, gettando di conseguenza le borse in un possibile stato di panico.

Senza considerare il rischio che anche il caro-petrolio (che, appunto, rischia di riprendere presto) possa giocare un brutto scherzo all’economia e, di conseguenza, agitare ancora una volta le acque già particolarmente mosse dell’investimento azionario, per l’impatto negativo che può comportare sui profitti di periodo.

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Tutto questo per dire che, se la volatilità per le prossime settimane è servita quasi per certo su un piatto d’argento, persino nel caso in cui le borse dovessero parallelamente tornare a guadagnare nuovi massimi, la festa potrebbe non riguardare tutti. E’ altresì prevedibile infatti al momento l’ennesima rotazione dei portafogli, quantomeno nel caso in cui dovessero essere rispolverate restrizioni a viaggi e movimenti in genere.

Come dice Alessandro Fugnoli (di Kairos) nella sua ultima newsletter insomma: ci vuole anche tanta pazienza: per le banche centrali onde evitare di reagire eccessivamente ad un’inflazione che potrebbe attenuarsi, e per gli investitori per decidere quale strada prendere senza svendere nel momento sbagliato. Sempre che ce la si possa permettere…

Stefano di Tommaso




LA FORMIDABILE ASCESA DELLE NUOVE IMPRESE IN ITALIA – PRIMA PARTE: LO SCENARIO DI MERCATO NEL NOSTRO PAESE –

La Compagnia Holding
Il nostro paese è interessato più che mai alla ventata di globalizzazione e innovazione tecnologica che pervade l’intero pianeta e sta rispondendo con una grande massa di imprese neo-costituite che vanno quasi sempre a cogliere le nuove possibilità di fare affari determinate dallo sviluppo scientifico e tecnologico. Ovviamente il mercato dei capitali guarda con attenzione in questa direzione perché costituiscono una buona opportunità: qualcuna di esse emergerà come nuovo “unicorno” (nel gergo finanziario, supererà il miliardo di dollari in valore). Il problema è che l’Italia brilla per numerosità e qualità delle Startup ma scarseggia nella capacità di veicolare loro la dotazione iniziale di capitali.

 

LA BORSA LE ACCOGLIE MA… DOPO !

La Borsa Valori è molto recettiva nei confronti delle imprese innovative (ovviamente quelle che hanno superato la fase pionieristica) e mostra un deciso appetito per esse. Nell’ultimo anno e mezzo ovviamente il numero di “matricole” si è ridotto per via della pandemia, ma costituisce comunque la stragrande maggioranza delle operazioni di “Initial Public Offerings” (IPO), cioè di nuove quotazioni. Il segmento di mercato delle imprese innovative vale oggi alla Borsa di Milano (che da quando è stata incorporata da quella francese ha assunto il nominativo di Euronext Growth Milan – EGM) circa 150 imprese, su un totale di circa 350 società quotate in Italia, ma è destinato a crescere esponenzialmente. Solo in Francia ce ne sono infatti tre volte tanto, sia delle une che delle altre.

Il confronto nell’Unione europea sull’innovazione delle piccole imprese evidenzia che l’Italia è quinta in classifica, con una quota di piccole imprese con attività innovative pari al 60,9% del totale. Superiore di 14,9 punti percentuali alla media europea (46,0%), poco distante dalla Germania (62,3%) e ampiamente superiore a quella di Francia (45,9%) e Spagna (26,9%).

Esploreremo il fenomeno delle nuove imprese in Italia sotto due punti di vista: i numeri del macro settore delle neo-costituite e le loro modalità di finanziamento, aiutandoci con le poche risultanze statistiche disponibili nel nostro paese, la prima delle quali è fornita dal Ministero per lo Sviluppo Economico, che pubblica un rapporto trimestrale (realizzato con Unioncamere, Infocamere e Fondo di Garanzia del Mediocredito Centrale) utile a comprendere la vertiginosa ascesa delle Startup Innovative.

IL RAPPORTO DEL M.I.S.E.

Alla data dello scorso 1 Ottobre 2021 queste ultime erano divenute più di 14.000 di cui 2600 quelle a prevalenza giovanile (sotto i 35 anni) e delle quali piu di 10.000 nei servizi digitali. Tra tutte quasi il 13% è costituito in prevalenza da donne. Ma l’imprenditoria corre in Italia più di quanto si pensi non soltanto per le Startup innovative: le società di capitali di recente costituzione sono infatti la bellezza di circa 100.000.

Delle 14.000 Startup Innovative registrate già più di 6.000 hanno ricevuto l’autorizzazione del Fondo di Garanzia per quasi 2 miliardi mentre le PMI Innovative che hanno ricevuto una garanzia sono state poco più di 1.200 e il Fondo medesimo ha garantito prestiti nei loro confronti per un totale di 1,3 miliardi .

Singolare il fatto che la maggior parte delle Startup Innovative abbia sede in Lombardia (oltre il 26%) e addirittura quasi il 19% sia a Milano, contro il quasi 12% del Lazio e il quasi 9% della Campania, cosa che sta a significare soltanto che chi ha una buona idea di business se può viene nelle città dove è più sviluppata la capacità di incubarla e finanziarla per farla diventare un’impresa.

I REQUISITI PER RIENTRARE TRA LE “STARTUP INNOVATIVE”

Ma chi sono le Startup Innovative? Il Ministero dello Sviluppo economico risponde così: Possono ottenere lo status di Startup Innovativa le società di capitali costituite da meno di cinque anni, con fatturato annuo inferiore a cinque milioni di euro, non quotate, e in possesso di determinati indicatori relativi all’innovazione tecnologica previsti dalla normativa nazionale“. Che poi sarebbe il possesso di almeno 1 di questi 3 requisiti:
A)sostiene spese in ricerca e sviluppo per più del 15% del valore della produzione, B) impiega personale altamente qualificato (almeno 1/3 dottori di ricerca o ricercatori o almeno 2/3 con laurea magistrale), C) è titolare di un brevetto o di un software recentemente registrato.

A queste imprese sono state rivolte significative agevolazioni, introdotte con il decreto-legge “Rilancio” del 19 maggio 2020, n.34 :

  • Incentivi fiscali all’investimento nel capitale di startup innovative
  • Accesso gratuito e semplificato al Fondo di Garanzia per le PMI
  • Smart & start Italia (finanziamenti agevolati per startup innovative localizzate sul territorio nazionale)
  • Trasformazione in PMI innovative senza soluzione di continuità
  • Esonero da diritti camerali e imposte di bollo
  • Raccolta di capitali tramite campagne di equity crowdfunding
  • Servizi di internazionalizzazione alle imprese (ICE)
  • Deroghe alla disciplina societaria ordinaria
  • Disciplina del lavoro flessibile
  • Proroga del termine per la copertura delle perdite
  • Deroga alla disciplina sulle società di comodo e in perdita sistematica
  • Remunerazione attraverso strumenti di partecipazione al capitale
  • Esonero dall’obbligo del visto di conformità per compensazione dei crediti IVA
  • Fail Fast (procedure semplificate in caso di insuccesso della propria attività)

Inoltre in risposta all’emergenza COVID sono state introdotte ulteriori misure a loro favore:

  • Contributi a fondo perduto per acquistare servizi per lo sviluppo delle imprese innovative
  • Sostegno al Venture Capital
  • Credito d’imposta in ricerca e sviluppo
  • Proroga del termine di permanenza nella sezione speciale del registro imprese
  • Estensione della garanzia per il fondo centrale di garanzia per le Pmi
  • Ulteriori incentivi all’investimento in Startup Innovative
  • Programma Investor Visa for Italy: dimezzamento delle soglie minime di investimento
  • Agevolazioni per le Startup Innovative localizzate in zone colpite da eventi sismici

MA I CAPITALI NON ARRIVANO DAL MISE. NÈ DAL MEDIOCREDITO

Ovviamente le suddette agevolazioni hanno contribuito in parte a stimolare la nuova imprenditoria, in particolare quella giovanile (poco meno del 20%) ma, evidentemente il grosso è costituito soprattutto da quella “di riflusso” degli “adulti (che va ben oltre l’80%), derivante dalla cancellazione di numerosissimi posti di lavoro a causa della crisi economica o della delocalizzazione all’estero delle imprese. Lo testimonia il fatto che una percentuale quasi uguale alla proporzione tra adulti e giovani nuovi imprenditori è quella delle 100.000 imprese neo-costituite, delle quali oltre l’80% non ha i requisiti di startup innovativa.

Bisogna dire che il Decreto Rilancio costituisce nel complesso una vera e propria manna per le giovani iniziative innovative. Una manna spesso ignorata da coloro che vogliono mettersi ”in proprio”, ma sulla quale si sono buttate orde di professionisti, consulenti e intermediari che in qualche modo vantano “agganci” presso il Ministero per lo Sviluppo Economico e il Mediocredito Centrale. Una manna che però evidentemente è stata meglio sfruttata in quei luoghi (come Milano) ove è più facile creare, finanziare e condurre un’impresa. Un’informazione questa che impone una riflessione ulteriore a proposito degli altri fattori (diversi da agevolazioni e incentivi ai finanziamenti di Stato) che risultano essenziali affinché l’imprenditoria si sviluppi ulteriormente in Italia, prima fra tutti la disponibilità di capitali di rischio, oltre che di finanziamenti.

Praticamente infatti nessuna delle misure previste recentemente dal Governo riguarda il capitale di rischio (tipicamente gli proveniente da Family&Friends e Venture Capital), la cui presenza peraltro risulta essenziale anche nella normativa prevista per attivare i finanziamenti e i contributi di Stato. E senza capitali di rischio le nuove imprese non riescono a partire. L’italiano medio insomma, quando non riesce a tenersi il proprio posto di lavoro, se può se lo crea di sana pianta, e questo gli fa onore. Ma poi sconta il fio della ristrettezza e poca trasparenza del mercato dei capitali italiano, che oltretutto resta negli ultimi anni particolarmente arretrato rispetto al resto d’Europa.

EPPURE IL RISPARMIO DEGLI ITALIANI È INGENTE

Basti pensare che oltre 3/4 dei risparmi italiani (ingenti e in crescita) che vengono investiti sul mercato dei capitali prende la strada degli investimenti esteri. Una vera e propria iattura per il sistema delle imprese, che dipende dal fatto che non esistono strumenti (privati e pubblici) per veicolare loro a sufficienza la disponibilità di risparmio fresco.

I depositi bancari italiani peraltro crescono anche loro (siamo a quota 1.700 miliardi di euro), ma sempre più difficilmente si trasformano in finanziamenti alle imprese. Da dieci anni a questa parte le banche italiane hanno ridotto di circa 275 miliardi di euro il credito alle imprese mentre hanno incrementato di 185 miliardi l’investimento in titoli pubblici italiani. Lo Stato cioè, per ogni euro garantito alle imprese italiane (circa 3,4 miliardi in totale) ne ha assorbiti 55 dal mercato dei capitali, spiazzando di fatto le imprese.

COSA FARE

L’auspicio è perciò che il governo attuale possa finalmente muoversi anche nella direzione dello sviluppo del mercato dei capitali, prima che l’ondata di nuove iniziative si sgonfi per impossibilità di reperire adeguate risorse. Perché senza che quest’ultimo raggiunga anche nel nostro paese maggiori dimensioni e articolazioni, buona parte delle 100.000 nuove imprese costituite alla fine si spegnerà.

Le banche d’affari come la nostra fanno il possibile per mettere insieme i capitali di rischio , assicurandosi prima che il Piano di Business sia concreto e che impedisca di sprecare risorse, costituendo e registrando la Startup come “innovativa”, reperendo idonee risorse umane con competenze qualificate, per renderle capaci di fare davvero business e trovando talvolta loro uno spazio di mercato anche attraverso accordi commerciali e collaborazioni industriali.

Altre volte viene costituito un “Club Deal” guidato dalle stesse banche d’affari che raccoglie intorno a sè capitali di rischio provenienti da uno sparuto gruppo di investitori professionali (per quasi il 70% i cosiddetti “Ángel Investor” i quali -giustamente- pretendono di partecipare anche alla conduzione aziendale, qualche “Family Office” (cioè gli uffici che si occupano di investire per conto dei più ricchi) e qualche (raro) investitore di Venture Capital.

Ma la sproporzione tra domanda offerta, così come tra le risorse complessivamente reperibili in Italia rispetto a quelle degli altri paesi avanzati, è notevole!

Stefano di Tommaso